TIEPIDE CONVERGENZE CLIMATICHE PER TENER DENTRO LA CINA
DRAGHI PROVA A VEDERE IL BICCHIERE PIENO: “LA CINA SI E’ RIAVVICINATA
“La cosa che l’Italia ha fatto in questi due giorni è stato capire il punto di vista degli altri. I paesi in via di sviluppo ci dicono: ‘Voi avete inquinato un sacco perciò siamo in questo caos. Quando voi inquinavate, noi emettevamo zero emissioni perché eravamo poveri. Ora non potete puntare il dito contro di noi’. Ecco, se si entra in questo clima di lotta, non andiamo da nessuna parte: dobbiamo ascoltare e mantenere l’ambizione, condividerla con loro. Questo è il ruolo che dobbiamo dare”. Al termine di un intenso G20 a Roma, Mario Draghi cerca il bicchiere mezzo pieno quando dice che “teniamo vivi i nostri sogni”.
Il presidente di turno di questo club delle maggiori economie del pianeta, molto elogiato dai partner occidentali, difende l’accordo sul clima, anche se di fatto il testo finale cancella la data del 2050 per la neutralità climatica, sostituendola con un più vago “entro o intorno alla metà del secolo” e trasferendo tutti i nodi irrisolti della trattativa globale alla Cop26 che domani entra nel vivo a Glasgow. “Gradualmente si arriverà al 2050”, confida il premier, determinato a sottolineare i passi compiuti, il fatto che ora anche Russia, Cina e India “riconoscono la validità scientifica di tenere il riscaldamento globale entro il grado e mezzo di aumento”, “prima volta che accade in un G20”. E poi il fatto il vertice di Roma sia riuscito a dire stop ai finanziamenti internazionali per le centrali di carbone “per la fine del 2021” e a confermare la cifra di 100 miliardi di dollari annui da trasferire ai paesi poveri per aiutarli nella transizione. “L’Italia stanzia 1,4 miliardi di dollari ogni anno per 5 anni, il che fa circa 7 miliardi”, annuncia.
Ma soprattutto in questo G20, test di leadership internazionale per Draghi, il capo del governo fa slalom sulle tensioni tra oriente e occidente, cerca di tenere tutti a bordo della stessa barca multilaterale, anche se Vladimir Putin e Xi Jinping hanno disertato il summit, collegati online da Mosca e Pechino.
“Il multilateralismo – dice – si concilia con queste tensioni perché è l’unica cosa che si possa fare. Un vecchio articolo del New York Times diceva: ’Gli Usa e la Cina ’fight fight, talk talk”, cioè si combattono, ma parlano. “Siamo sempre riusciti a superare le tensioni, non vedo perché dovremmo ritenere di non riuscire a superarle oggi”
In giornata, mentre gli sherpa dei G20 continuavano a trattare sul clima, mentre i leader ne parlavano nella loro plenaria senza tregua (niente pausa pranzo: hanno mangiato qualcosa al tavolo ovale mentre discutevano), tra OOriente e occidente è successo un po’ di tutto. Mentre il segretario di Stato Tony Blinken incontra il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, Taiwan avverte dell’incursione di otto aerei militari cinesi. Gli Stati Uniti sono responsabili di “interferenze sconsiderate negli affari interni cinesi”, intima Wang a Blinken.
E che dire dello storico accordo tra Ue e Usa per la rimozione dei dazi su acciaio e alluminio, annunciato proprio qui a Roma in pompa magna da Ursula von der Leyen e Joe Biden? L’intesa chiude l’era Trump, ma rinsalda i rapporti transatlantici in nome di un nemico comune: la Cina. Perché l’accordo punta a escludere l’import di acciaio cinese sul mercato statunitense: troppo ‘sporco’ di carbonio, è la motivazione. Un dardo lanciato nelle relazioni già infuocate tra est e ovest.
Inoltre, per restare sul clima, se Draghi legge “il senso del comunicato finale” come “più vicino al traguardo del 2050” per le zero emissioni, Russia e Cina difendono a spada tratta il loro “2060”.
Ma il presidente dei G20 non getta benzina sul fuoco delle tensioni. Se si sente leader del multilateralismo? Glielo chiede una giornalista americana della Cnbc in conferenza stampa. Naturalmente la risposta è “no”, ma il suo obiettivo è questo, anche a costo di dire che il problema della Cina con le questioni ambientali non sta nel fatto che lì non hanno i Fridays for future, evidentemente non consentiti dal sistema. No, non c’è un problema di democrazia in Cina per Draghi, che però in sala, parlando ai leader, ha detto: “Saremo giudicati da quello che faremo. Vorrei ringraziare molti degli attivisti che ci spingono, ci mantengono tutti sul pezzo”, anche “quando dicono che sono stanchi di questi bla bla bla” o che “parliamo senza sostanza”.
“Pechino – dice in conferenza stampa – produce circa il 50 per cento dell’acciaio mondiale e molti impianti vanno a carbone. Convertire questi impianti e adattare la produzione di acciaio è una transizione difficile. Questo spiega la loro difficoltà: non è tanto la mancanza di pressione dell’opinione pubblica. Io penso che anche lì si lamentano dell’inquinamento, ce n’è evidenza diffusa”.
(da Huffingtonpost)
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