ZELENSKY ALLA PROVA DEL VOTO ALTRUI: IN AMERICA COME IN EUROPA, L’UCRAINA NON SEMBRA PIU’ UNA PRIORITA’
CON LE ELEZIONI ALLE PORTE, GLI INTERESSI NAZIONALI INIZIANO A PREVALARE SU QUELLI DI KIEV
Nella tarda serata di sabato, l’Ucraina ha provato un assaggio di quello che potrebbe accadere nei prossimi mesi. Sul sostegno a Kiev sono arrivate due brusche frenate, una dagli Stati Uniti e l’altra dall’Europa, entrambe giustificate dietro una ragione di priorità nazionali. Se la vittoria del filo-russo Robert Fico alle elezioni in Slovacchia ha confermato le sensazioni poco positive che si respiravano alla vigilia del voto, l’accordo tra democratici e repubblicani per scongiurare lo shutdown in America ha un retrogusto ancora più amaro. I 6,2 miliardi di dollari che il presidente Joe Biden aveva chiesto di approvare rimangono infatti bloccati per volere del GOP, il cui leader alla Camera, Kevin McCarthy, ha proposto un compromesso sul budget slegando l’aiuto a Kiev dalle questioni interne. Per l’Ucraina privarsi del contributo di Washington è però impossibile, se vuole centrare l’obiettivo della vittoria. Il tentativo di Volodymyr Zelensky, che aveva colto la sua presenza all’Onu per andare al Congresso a chiedere di persona ai repubblicani di abbandonare le loro reticenze, può dirsi dunque fallito. Per ora.
“Mi aspetto che McCarthy mantenga il suo impegno nei confronti del popolo ucraino e garantisca l’approvazione del sostegno necessario per aiutarlo in questo momento critico. Non possiamo in nessun caso permettere che il sostegno americano all’Ucraina venga interrotto. Voglio dire a Kiev e ai nostri alleati europei che potete contare su di noi”, ha avvertito Biden. “L’America deve essere all’altezza della parola data e continuare a essere leader”, gli ha fatto eco Lloyd Austin, capo del Pentagono.
La sensazione è che la firma del presidente sul compromesso raggiunto in stile buzzer beater (al suono della sirena) possa sembrare una sconfitta, visto che fino all’ultimo si era battuto per far passare gli aiuti a Kiev. Per Mario Del Pero, che insegna Storia degli Stati Uniti a Science Po ed è senior fellow di Ispi, non è così. “È una vittoria politica dei democratici, che hanno portato a casa una misura temporanea più o meno in linea con quella che volevano”, dice ad Huffpost. Ai milioni di dipendenti pubblici, inclusi i soldati dell’esercito che da oggi rischiavano di rimanere senza stipendio, l’amministrazione al governo ha dato una risposta concreta, impedendo che ciò avvenisse. Discorso diverso per l’Ucraina. Sebbene la decisione di escludere gli aiuti “non avrà ripercussioni nel breve periodo, perché ci sono strumenti legislativi che permettono di proseguire con il supporto senza passare per il Congresso”, i dubbi dei repubblicani complicano la vicenda. “Viste le posizioni dei parlamentari e con i sondaggi alla mano, notiamo che l’ampio sostegno bipartisan si è un po’ affievolito”.
Essenzialmente per tre motivi. “La paura di una conquista russa dell’Ucraina, e il conseguente effetto domino in Europa, non esiste più”. Allo stesso tempo, “gli Stati Uniti hanno raggiunto alcuni degli obiettivi fondamentali della guerra, come la superiorità militare, la compattezza della Nato attorno alla leadership americana e l’invio di un segnale forte alla Cina”. Oltre questi aspetti, però, ce n’è uno che risponde solo alla pancia degli elettori. “In America le politiche di aiuto all’estero, ovvero spendere soldi per qualcun altro, non sono popolari. Anche sul Piano Marshall c’era stato bisogno di convincere le persone, figurarsi ora”. Gli aspetti nazionali sembrano pertanto dominare sul resto. Non per forza però vanno sintetizzati sotto la voce delle elezioni. “Certo, la guerra sta avendo effetti destabilizzanti sull’economia, alimentando l’inflazione, quindi anche gli Stati Uniti vorrebbero che la crisi rientrasse. Ma per motivi che vanno al di là del voto. Tra l’elettorato c’è più scetticismo, ma quelli che ritengono sia doveroso sostenere Zelensky (dipende poi in che modo) restano una maggioranza solida”, spiega il professore.
La ragione del niet a nuovi miliardi per l’Ucraina va piuttosto ritrovata dentro il GOP, dove si sta consumando “una frattura tra un fronte più interventista e falco e uno più nazionalista”. Tra questi ultimi ci sono i sodali di Donald Trump, che mai avrebbero firmato un accordo pur di mettere in difficoltà Biden. “Cavalcano il pensiero di una parte di opinione pubblica tutt’altro che marginale”, quella che vorrebbe farla finita con questa guerra. Non che a Biden faccia piacere portarsela dietro fino al novembre del 2024, ma “non è un tema che sposterà voti”, riflette Del Pero. Il supporto americano alla difesa ucraina vive dunque fasi alterne, che rispondono alle priorità nazionali. Le stesse che iniziano ad anteporre i vari Paesi che sono andati o andranno alle urne da qui a un anno. Persino quelli che mai si sarebbe pensato potessero mettere in dubbio il loro sostegno a Kiev. “Abbiamo problemi più importanti dei rapporti con l’Ucraina”, ha affermato Fico, neo vincitore delle legislative in Slovacchia, da sempre schierata al fianco dell’alleanza occidentale e oggi pronta a negare gli aiuti militari.
Stretta al fianco dell’Ucraina lo era anche la Polonia, che ha però iniziato a cambiare toni nei confronti dei suoi vicini. Il 15 ottobre si va alle urne e il premier Mateusz Morawiecki deve dimostrare di pensare prima ai suoi cittadini. “Non permetterò che il grano ucraino ci invada”, aveva affermato contestando la decisione di Bruxelles di non estendere il divieto temporaneo di importazione dei cereali prodotti da Kiev. Talmente tanta è la rabbia che anche Varsavia ha deciso di bloccare le nuove forniture di armi. Un gesto estremo a cui non dovrebbero arrivare i Paesi Bassi, nonostante anche loro debbano far fronte al malcontento dei contadini che, alla vigilia del voto del 22 novembre, assume un peso notevole con probabili effetti sull’Ucraina. Tra un anno, Kiev dovrà inoltre preoccuparsi dell’Austria. Tra i favoriti per la vittoria delle prossime elezioni dell’autunno 2024 c’è il Partito delle Libertà (FPO) di estrema destra, guidato dall’ex ministro dell’Interno Herbert Kickl. Come modello ha Viktor Orbán e, dipendesse da lui, le “insensate” sanzioni alla Russia del suo amico Vladimir Putin sarebbero già cancellate. Va da sé che, oltre quelle nazionali, un test chiave per capire la compattezza dell’alleanza pro-Ucraina sarà quello che si terrà dal 6 al 9 giugno, quando gli elettori europei saranno chiamati a rinnovare le istituzioni comunitarie.
“Questa guerra l’Europa la sta facendo indirettamente a costo zero”, prosegue Del Pero nel suo ragionamento, senza sminuire il contributo e il prezzo che si sta pagando. “Le ripercussioni le sentiamo, a cominciare dai costi sull’energia, ma non stiamo combattendo al fronte”. Quella della difesa a spada tratta dell’Ucraina “è una narrazione che ha fatto relativamente presa. Il conflitto ci appare lontano e non è stato in grado di cementificare una coesione europea”. Tutto ciò ha fatto sì che le posizioni più laterali tornassero al centro. “Il Covid-19 e poi la guerra hanno rivitalizzato il nazionalismo trans-nazionale, ma che era forte ieri quanto lo è ancora oggi. Forse si pensava erroneamente che questo fenomeno politico fosse marginalizzato, mentre invece porta a una collaborazione tra forze politiche di Stati differenti”. Su cui, naturalmente, la Russia soffia per cavalcare il malessere delle opinioni pubbliche occidentali.
Così, a rafforzarsi è il fronte anti-Ucraina che tiene in ostaggio gli aiuti a Kiev, giustificando le proprie scelte con la tutela degli interessi nazionali. Pensare a una svolta radicale prima di ogni risultato elettorale è prematuro, ma una cosa Zelensky sembra averla imparata: per molti alleati la difesa del suo popolo non è in discussione, ma non è nemmeno più una priorità assoluta. Lui, per ora, tira dritto: “Nessuno deve e riuscirà a spegnere la nostra resilienza, la nostra resistenza, la nostra grinta e il nostro coraggio. Né su una base programmata né in caso di emergenza. Non esiste una data di scadenza dopo la quale smetteremo di resistere e di lottare. Tranne una: quella della nostra vittoria”.
(da Huffingtonpost)
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