Destra di Popolo.net

VERTICE SEGRETO TRA I COLONNELLI PER SMARCARSI DA BERLUSCONI

Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile

ALFANO, LA RUSSA, CICCHITTO, GASPARRI E QUAGLIARELLO: INCONTRO RISERVATO AI PARIOLI PER NON FARSI TAGLIARE FUORI DA SILVIO

Settimane di tensione nel Pdl che aspetta la decisione definitiva di Berlusconi di lasciare i suoi e correre da solo.
Già  nei giorni scorsi sembrava una prospettiva certa, ma la rottura non si è ancora consumata.
In attesa del vertice tra il Cavaliere e i colonnelli del centrodestra atteso nel pomeriggio, Alfano, La Russa, Cicchitto, Gasparri e Quagliariello si sono incontrati per una cena ‘segreta’ ai Parioli, secondo quanto riportato da Il Giornale, per discutere “delle contromosse da mettere in campo per cercare di arginare un Berlusconi con cui i rapporti sono ormai ai minimi termini”.
Al centro la legge elettorale.
L’ex premier infatti vorrebbe mantenere il Porcellum, che gli assicurerebbe il controllo sulla formazione delle liste, mentre Gasparri e Quagliariello, per impedirglielo, vorrebbero la reintroduzione delle preferenze.
Uno stallo che potrebbe risolversi con un blitz a Palazzo Madama e il voto del Pdl nonostante la contrarietà  dell’ex presidente del Consiglio.
Il secondo punto invece riguarda l’election day che Berlusconi vorrebbe a febbraio. “O si vota in un unico giorno e si risparmiano cento milioni di euro oppure stacchiamo la spina”, avrebbe detto.
E con la caduta del governo Monti, sfumerebbe anche la riforma di legge elettorale.
A complicare il quadro si aggiunge anche l’esame preliminare sull’incandidabilità  dei condannati in via definitiva che potrebbe ostacolare in maniera irreversibile il Cavaliere nel caso in cui fosse confermata in Cassazione la condanna per i diritti Mediaset.
I punti di rottura con il partito sono tanti.
E pure il nodo dei soldi è stato al centro della cena tra i colonnelli, date anche le recenti dismissioni dei contratti di locazione per le sedi di Milano, Torino e Roma, e visto che il ‘tesoro’ di An potrebbe finire nelle mani di B.
Si è discusso anche dell’articolo 16 bis dello statuto del partito secondo cui il segretario ha il potere di “presentare e depositare le liste elettorali”.
Quindi, l’ultima parola spetterebbe ad Alfano. “Anche perchè — conclude Il Giornale — a quel punto Berlusconi sarebbe già  da un’altra parte”.
E Gianni Letta avrebbe confidato che il Cavaliere, ormai, ha deciso di smarcarsi dai suoi.

(da “il Corriere della Sera“)

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L’UNIONE FA LA FARSA: MARONI SI ALLEA CON TREMONTI ALLE REGIONALI E ALLE POLITICHE

Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile

“UNA POLTRONA PER BOBO” E’ IL GRIDO DI BATTAGLIA

Per anni è stato un asse di ferro all’interno del defunto Polo delle Libertà . Ora diviene un’alleanza politica a tutti gli effetti: è stata ufficializzata infatti con un incontro al Circolo della Stampa di Milano , l’intesa tra il leader del Carroccio Roberto Maroni e il l’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti, uscito dal Pdl. Partito al quale il leghista lancia un ultimatum.
ALLE REGIONALI, MA ANCHE ALLE POLITICHE-
In vista delle elezioni regionali («dovrebbero essere il 10 febbraio» ha anticipato l’ex ministro dell’Interno) , ma anche, ha precisato «per le elezioni politiche quando ci saranno»: Tremonti, dopo essere uscito dal Pdl e aver fondato un suo partito, 3L (Lista Lavoro e Libertà  per la Patria), con una sua lista appoggerà  la candidatura di Maroni a governatore della Lombardia.
Da parte sua il leader del Carroccio ha sottoscritto il «manifesto» politico di Tremonti. «Come tema comune – ha detto Maroni – abbiamo quello di essere critici nei confronti del governo Monti» oltre che quello di una visione simile dell’Europa.
E il leghista non esclude una futura candidatura a premier di Tremonti: «Ne parleremo».
«PDL: MI DICANO ENTRO LUNEDI’»
E Maroni lancia un ultimatum al Pdl:«Entro lunedì prossimo – ha detto – chiuderemo la questione perchè alla fine della prossima settimana raccoglieremo le firme per la lista civica e dovremo dire ai cittadini chi c’è e chi non c’è. Non c’è nessuna trattativa in corso con Formigoni – ha aggiunto Maroni – nel senso che sulla mia candidatura c’è stato un mese di tempo per riflettere, ma Pdl non pervenuto».
Ma se il Pdl «decide di sostenere la mia candidatura penso che sia una buona idea: ci consentirebbe di vincere e di non consegnare la Lombardia alla sinistra».
E consentirebbe a lui di rimediare l’ennesima brutta figura, perdendo le elezioni.

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LISTE PULITE, SILVIO PRONTO ALLA CRISI: “IL DECRETO E’ UNA TRAPPOLA CONTRO DI ME”

Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile

L’EX PREMIER DECISO A TENERE IL PORCELLUM… PARTITO IN ROSSO, SEDI VERSO LA CHIUSURA…E PREPARA LA CORSA

Quel decreto sull’incandidabilità  dei condannati «è una trappola».
E se davvero il governo Monti lo approverà  domani, allora «tanto vale far saltare il tavolo e aprire la crisi».
Tanto più se nel Consiglio dei ministri in programma dovesse essere confermato il voto sdoppiato per regionali e politiche. Premier e ministri avvisati.
Per Silvio Berlusconi la resa al provvedimento sulle liste pulite equivarrebbe a «consegnare i partiti nelle mani delle procure».
È il provvedimento, già  slittato la scorsa settimana, con il quale Palazzo Chigi conta di sprangare le porte del Parlamento ai condannati in via definitiva. Ma che per il Cavaliere costituirebbe una duplice insidia.
«Vuoi che Fini e i suoi, come hanno annunciato, non tentino di allargare le maglie ai condannati in primo grado?» sbotta il Berlusconi che in quella condizione si ritrova dal 27 ottobre scorso, data della sentenza che lo inchioda a un anno e quattro mesi per falso in bilancio.
La seconda insidia si anniderebbe nella inevitabile preclusione di tutta una serie di candidature di “condannati” e semplici inquisiti (ma fedelissimi) che il leader pensa di riservarsi al Senato.
La crisi su questo fronte non lo spaventa, anzi, gli consente di aprire la campagna elettorale sulla battaglia «contro la dittatura della magistratura politicizzata.
L’altro fronte per aprire le ostilità  col governo sarebbe il mancato election day per accorpare regionali e politiche.
Guai ad anticipare il voto in Lazio e Lombardia un mese prima. Per il Cavaliere equivale a una «dichiarazione di guerra».
Daniela Santanchè lo carica: «Bersani dalla Libia dice no all’election day, Berlusconi dica sì alla caduta del governo monti». È la linea dei falchi, tornata la più ascoltata. Resta il fatto che il Colle non scioglierebbe mai le Camere prima dell’approvazione della legge di stabilità . Provvedimento che il Pdl comunque sarebbe disponibile ad approvare come previsto prima di Natale, è la linea di mediazione che nei contatti informali con Quirinale e Palazzo Chigi l’ex premier ha tenuto a far filtrare.
Oggi niente Ufficio di presidenza per discutere di primarie, come avrebbe voluto Alfano, ma nemmeno presentazione del libro di Vespa: Berlusconi torna a Roma e convoca un vertice con coordinatori, capigruppo, segretario e Gianni Letta che sa molto di consiglio di “guerra”, appunto, da crisi imminente.
«O state con me o contro di me», sarà  perentorio.
A seguire, qualcuno dice già  nel fine settimana, l’annuncio (video) del ritorno in campo da leader e dunque da king maker delle liste, complice la sopravvivenza del Porcellum.
Del resto, c’è molto dello zampino del Cav sul dirottamento della riforma elettorale sul binario morto al Senato.
Risultato soprattutto del violento scontro di lunedì sera in una riunione in via dell’Umiltà  tra i paladini del leader Verdini e Bondi e i dirigenti più vicini ad Alfano, Gasparri e Quagliariello.
Concluso col successo dei primi.
Gli sconfitti, non domi, non si rassegnano e ieri sera hanno rilanciato in una riunione al Senato una mediazione da sottoporre oggi a Berlusconi (un terzo eletti col listino bloccato, due terzi con preferenze e premio di maggioranza oltre il 40 per cento).
Ma l’ex premier non sente ragioni. Si è convinto ormai che solo il Porcellum possa garantirgli chance di pareggio al Senato per neutralizzare la vittoria scontata di Bersani e Vendola, se l’accordo con la Lega gli consentirà  di strappare i premi di maggioranza (regionali) in Lombardia e Veneto.
Senza tenere conto del fatto che, decidendo lui le liste, gli ex An potrebbero pure restare nel nuovo partito, «ma certo non potranno più pretendere il 30 per cento dei posti», va ripetendo Berlusconi.
E mentre si preparano repulisti e nuovo brand, nel Pdl fanno i conti col bilancio in rosso.
Il deficit in via dell’Umiltà  è stimato in 60 milioni e ora si parla della chiusura delle sedi di Roma, Torino e Milano.
Per un partito ormai in via di liquidazione.

Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)

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LEGGE ELETTORALE, ROTTURA A UN PASSO: IL PDL CAMBIA MA E’ ANCORA DIVISO

Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile

BERLUSCONI NON VA DA VESPA E CONVOCA UN VERTICE

La notizia certa è che stamattina l’aula del Senato non si occuperà , come previsto dal calendario, della legge elettorale.
Toccherà  alla conferenza dei capigruppo stabilire una nuova data. Magari stasera.
La motivazione ufficiale è che i senatori sono ancora alle prese con il decreto sviluppo. Su cui il governo sembra intenzionato a porre la fiducia.
Una motivazione tecnica che “copre” però lo stallo sulle modifiche al Porcellum. Perchè l’accordo veniva dato per certo. Ma ieri in commissione Affari costituzionali tutto è tornato in altro mare. «Resta solo un filo tenue, tenuissimo, fra una parte del Pdl e il Pd», ammette Carlo Vizzini, presidente della Affari costituzionali, ufficializzando così le divisioni dentro al Popolo delle Libertà . L’esecutivo, intanto, osserva, si rimette ai partiti. Ieri però il sottosegretario Giampaolo D’Andrea ha detto che «il governo è neutrale nel merito, ma auspica vivamente che si approvi».
Il mutamento di clima repentino al Senato è stato comunque innescato da una nuova proposta, non ancora formalizzata, del pidiellino Gaetano Quagliariello che prevede di assegnare al partito che conquista fra il 25 e il 39 per cento dei voti un “premietto” fisso di 50 seggi.
Una percentuale calcolata su tutti i voti validi, conteggiando anche quelli delle liste che non superano la soglia di sbarramento.
Una novità , visto che fino ad oggi si parlava di percentuali calcolate invece sui voti delle liste che superano lo sbarramento.
L’idea di Quagliariello, partorita da un vertice notturno, ha subito trovato la netta opposizione del Pd.
Per il semplice motivo, dicono i democratici, che il nuovo sistema di calcolo abbassa ancora di più la consistenza del “premietto”, portandola al 5 per cento.
E, come spiega Anna Finocchiaro la proliferazione di liste collaterali per cercare di arrivare al fatidico 40 per cento oltre il quale scatta il premio del 12,5 per cento.
La novità  sarebbe ispirata da una parte del Pdl, guidata da Berlusconi, che mira a tenere in vita il Porcellum.
Il Cavaliere per il momento però preferisce non esporsi troppo e agire nell’ombra.
Per questo ha chiesto di rinviare la presentazione del libro di Bruno Vespa.
Ma domani sarà  a Roma per un nuovo vertice a palazzo Grazioli, convocato anche sulla legge elettorale.
Nel frattempo diverse fonti parlamentari sostengono che il Cavaliere avrebbe chiamato Vizzini chiedendogli di cancellare dal testo le detestate preferenze.
Il presidente della commissione conferma di avere ricevuto richieste in questo senso da “messaggeri” del Pdl. E un imbarazzato Lucio Malan, uomo vicino a Berlusconi, sulle preferenze ammette le divisione nel Pdl e non esclude marce indietro.
In tutta questa confusione Roberto Calderoli ha presentato un sub emendamento per allargare la finestra temporale dell’election day.
Proposta accantonata, con il voto favorevole del Pdl.
L’ex ministro si è infuriato e allora ha chiesto di formalizzare l’ultima versione del suo progetto a “scalini”.
Quasi una ritorsione contro il Pdl.
Anche se il testo sposa il metodo di calcolo di Quagliariello.
Alla fine l’ex ministro ha sentenziato: «Dalle mie parti l’8 dicembre, il giorno dell’immacolata, ammazzano il maiale. Il Porcellum, vedrete, non solo vedrà  il Natale ma pure le uova di Pasqua ».
E a Berlusconi e Alfano dedica un lapidario: «Non contano più nulla. I pagliacci stanno al circo equestre».

Silvio Buzzanca
(da “La Repubblica”)

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GRILLO, RIVOLTA ON LINE CONTRO LE PRIMARIE

Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile

I MILITANTI DENUNCIANO: NON SONO CORRETTE… PIZZAROTTI DIFENDE LA SALSI… I FONDI DEVONO ESSERE DESTINATI A GRILLO E CASALEGGIO

Le proteste per il voto on line che non funziona, le denunce degli esclusi, le prese in giro dei video degli aspiranti «cittadini» (si chiameranno così, non onorevoli, i parlamentari a 5 stelle).
Non comincia bene, la “presa della Bastiglia” immaginata da Beppe Grillo con le sue non primarie.
Per capire come stanno andando, le consultazioni al computer cominciate lunedì e in corso fino a domani, ci si può giusto affidare al blog del comico.
Lì si trovano proteste di questo tipo: «Qualcosa non funziona a livello tecnico. Ho votato tra i candidati della circoscrizione Lazio1, ma dopo aver espresso le 3 preferenze, la pagina mi diceva che mi restavano ancora 3 voti», lamenta Rossella, che ha chiuso, riaperto, e votato di nuovo: «Ma credo non sia un funzionamento corretto, vero?».
C’è Gianni Pasquini, che ha visto i video ed è un po’ spaventato: «La maggior parte è fatta male e povera di contenuti, uno per tutti Gianna della Toscana. Mi sono venuti i brividi. Forse la selezione via Web non è la più sicura!».
O ancora Luigi: «Mi sembra di avere capito che per votare devo ricevere una e mail, ma ciò non è accaduto. Mi sono registrato con le modalità  richieste. Come devo fare a contattare il blog?».
Non può farlo, Luigi. Può giusto sfogarsi, come tutti gli iscritti al portale, che non hanno modo di instaurare un dialogo con chi manda indicazioni via mail, o form da riempire.
Non hanno potuto chiedere spiegazioni neanche gli aspiranti parlamentari che, nei giorni scorsi, hanno ricevuto una lettera in cui gli si imponeva di accettare che i fondi dei gruppi di Camera e Senato saranno destinati a “strutture di comunicazione” scelte da Grillo e Casaleggio.
A quei soldi il MoVimento non rinuncerà  – si è invece impegnato a restituire i rimborsi elettorali e parte degli stipendi degli eletti – ma non ci sarà  alcuna democrazia nel decidere come usarli.
Potranno farlo, come al solito, solo i due depositari del marchio.
Intanto, i video fatti in casa dei candidati impazzano su Youtube.
Il blogger Zoro avverte su Twitter: «Sono una droga».
Altri ringraziano per le risate.
Non sono invece affatto allegri gli attivisti che ci credono: a Bologna in tre avevano tutti i requisiti (essere stati candidati, non aver svolto più di un mandato, la fedina penale pulita), e nonostante questo non si sono ritrovati nelle liste.
Il loro caso non è l’unico. Tanto che perfino i consiglieri comunali genovesi del MoVimento denunciano: «Ci sarebbe piaciuto che non solo la rete, ma anche la nostra assemblea plenaria avesse potuto scegliere i portavoce in Parlamento».
Alle sette di ieri sera Bartolomeo scriveva sul sito: «Come garantire che non vi siano brogli? Gli amministratori in teoria possono monitorare tutto, il voto non è segreto?».
Domande che si rincorrono da giorni. Insieme al quesito fondamentale: va bene i parlamentari, ma chi sarà  il candidato premier?
«Alcuni dicono il più votato tra noi – rivela uno degli attivisti in corsa – ma niente è certo». Non bastasse questo, il sindaco 5 stelle di Parma, Federico Pizzarotti, è andato in tv disobbedendo al diktat del capo e ha manifestato la sua solidarietà  a Federica Salsi: «Se Grillo avesse dato il suo sostegno sarebbe stato importante ».
Sul caso delle minacce di morte alla consigliera, la procura di Bologna ha aperto un’inchiesta.
Sempre ieri, il consigliere regionale ha denunciato il giornalista autore del fuorionda in cui parlava della scarsa democrazia nei 5 stelle, e il cronista freelance che definì il servizio concordato.
Vuole dimostrare che non era una combine, ma sul web i più continuano ad attaccarlo: «Quelle cose le hai dette. Non cambia nulla».
E gli insulti continuano.

Annalisa Cuzzocrea
(da “La Repubblica“)

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INGROIA: “IL QUIRINALE COLPISCE LE ISTITUZIONI E CON QUESTA SENTENZA BIZZARRA LA POLITICA HA PREVALSO SUL DIRITTO”

Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile

“SE FOSSI STATO IN ITALIA ME NE SAREI ANDATO”

«Sono profondamente amareggiato – dice Antonio Ingroia, al telefono dal Guatemala – le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto. La sentenza della Corte costituzionale rappresenta un brusco arretramento rispetto al principio di uguaglianza e all’equilibrio fra i poteri dello Stato. Definirei bizzarra questa decisione. E sono convinto della bontà  della mia scelta di lasciare l’Italia. Se fossi stato ancora a Palermo, me ne sarei andato proprio oggi».
Rifarebbe dunque tutto?
«Senza alcun dubbio. I magistrati della Procura di Palermo hanno sempre rispettato la legge, ma abbiamo avuto un trattamento che non meritavamo ».
A chi si riferisce?
«Fino ad oggi ho taciuto sul conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale, per rispetto alla Corte costituzionale. Ma adesso, voglio parlare chiaramente: la scelta del presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzioni è stata dannosa per l’immagine delle istituzioni italiane nel suo complesso. Lo sa cosa dicono di me in Guatemela? Ecco il magistrato che è stato coinvolto in un conflitto di attribuzioni con il capo dello Stato. Ma io non voglio essere visto come un pm sovversivo. Io e i miei colleghi della Procura di Palermo vogliamo essere ricordati come quelli che hanno tenuto la schiena dritta per accertare la verità  sulla stagione delle stragi».
Ma anche in questi ultimi mesi il presidente della Repubblica non ha mai smesso di sostenere il lavoro della magistratura, per la ricerca della verità .
«Quando lessi su Repubblica Gustavo Zagrebelsky non volevo crederci. Nel suo editoriale si diceva sostanzialmente come la Procura di Palermo non avesse avuto scelta sulla base della normativa vigente e che il capo dello Stato aveva fatto una scelta sostanzialmente inopportuna perchè la Corte costituzionale non avrebbe potuto far altro che dargli ragione in barba ai principi del diritto. Non volevo crederci perchè pensavo che decisioni della Corte costituzionale non potessero essere condizionate dal clima che si avvertiva nel paese».
E adesso ritiene che la Consulta si sia lasciata influenzare da spinte esterne? Non se le sembra un’accusa pesante?
«E’ vero che la Corte costituzionale è un organo sui generis rispetto alla magistratura ordinaria, che non può non tenere conto degli aspetti politico- istituzionali presenti dietro ogni vicenda che affronta. Ma mi sembra che in questo caso tutto ciò sia avvenuto in maniera eccessiva. Ecco perchè dico che oggi le ragioni del diritto sono state mortificate».
La decisione della Consulta mette comunque un punto certo su una vicenda che ha visto confrontarsi l’avvocatura dello Stato e i vostri avvocati, tutti illustri giuristi. Non pensa che si possa ripartire da questa decisione per discutere in modo nuovo di questa vicenda?
«Io pensavo che decenni di evoluzione della giurisprudenza penale ordinaria e costituzionale fossero serviti ad acquisire una totale autonomia di giudizio nelle decisioni, che devono avvenire in base alle regole di diritto, e non in base alle possibili ripercussioni politiche. Devo dire che mi sbagliavo».
Ha una posizione molto netta.
«Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, aveva previsto tutto. E valutato bene anche le conseguenze che sarebbero derivate. C’era bisogno di dare totalmente ragione al capo dello Stato e del tutto torto alla Procura di Palermo ».
Dalle motivazioni della decisione potrebbero arrivare ulteriori spunti di riflessione. Potrebbe ricredersi su qualche valutazione?
«Leggerò le valutazioni della Corte col massimo dell’umilità , ma le norme sono davvero chiare. E la Procura di Palermo le ha rispettate tutte».
Perchè ha definito bizzarra la decisione della Consulta?
«Se avessimo fatto come suggerisce oggi la Corte, le intercettazioni del capo dello Stato sarebbero in piazza. Invece, la Procura di Palermo ha usato tutti gli strumenti possibili e immaginabili per preservare la intangibilità  delle conversazioni del presidente. E non è uscita una riga di quei dialoghi. Mi sembra che la Corte non abbia altrettanto a cuore la segretezza di quei dialoghi: dice che ci saremmo dovuti rivolgere subito al gip. Ma il gip, sulla base della normativa vigente, avrebbe potuto opporsi alla distruzione e depositare le intercettazioni alle parti».
Per quanto ancora resterà  in Guatemala?
«Per adesso proseguo il mio incarico per conto dell’Onu. In Italia, sono sicuro, inizieranno presto gli attacchi alla Procura di Palermo, proprio per questa decisione della Consulta ».

Salvo Palazzolo
(da “La Repubblica“)

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STATO-MAFIA: SI’ AL RICORSO DEL QUIRINALE: DALLA CONSULTA STOP AI PM DI PALERMO

Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile

COME AVEVAMO SOSTENUTO, ACCOLTO IL RICORSO IN MERITO ALLE INTERCETTAZIONI INDIRETTE TRA NAPOLITANO E MANCINO: ANDAVANO DISTRUTTE IN QUANTO IRRILEVANTI

La Corte costituzionale ha accolto il ricorso del Presidente della Repubblica nel conflitto di attribuzioni con la Procura della Repubblica di Palermo dichiarando che non spettava alla Procura di valutare la rilevanza delle intercettazioni nè di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271 del codice di procedura penale.
La decisione stabilisce che quelle intercettazioni erano vietate, quindi da distruggere nel corso di una udienza segreta davanti al giudice.
«La Corte costituzionale – informa la Consulta – in accoglimento del ricorso per conflitto proposto dal Presidente della Repubblica ha dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, captate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08 e neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271, 3° comma, c.p.p. e con modalità  idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti».
Dopo un’udienza pubblica di un’ora e quaranta e una camera di consiglio di circa 4 ore, la Consulta ha infatti stabilito che i pm non avrebbero dovuto valutare le conversazioni del Capo dello Stato, nè omettere di chiederne la distruzione seguendo il percorso tracciato per le intercettazioni vietate. Soddisfatto l’ex avvocato generale dello Stato, Francesco Caramazza, che ha steso il ricorso e che a settembre ha passato il testimone a Giuseppe Dipace: «Fin dal primo momento ho ritenuto che quel ricorso fosse fondato, sono contento di non essermi sbagliato».
L’UDIENZA
In mattinata, durante l’udienza pubblica ad illustrare la vicenda sono stati i giudici relatori, Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo.
Poi la parola è passata agli avvocati delle parti: Dipace, appunto, e i colleghi Antonio Palatiello e Gabriella Palmieri per il Capo dello Stato; Alessandro Pace, Mario Serio e Giovanni Serges per la Procura.
Presente anche il Procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo: «È un momento interessate», ha detto.
Il presupposto da cui sono partiti gli avvocati dello Stato è che sollevare il conflitto sia stata una «strada obbligata», ha detto Dipace.
«La Procura di Palermo ha trattato queste come normali intercettazioni, non ha tenuto presente il fatto che siano intercettazioni illegittime», sulla base dell’art. 90 della Costituzione che riguarda le prerogative e l’irresponsabilità  del Presidente e della legge collegata 219/1989.
Così facendo si è «prodotto un vulnus nella riservatezza del Presidente», ha sottolineato Palmieri, perchè ipotizzando un’udienza stralcio di fronte al Gip per chiedere la distruzione delle intercettazioni, come ha sostenuto la Procura di Palermo che ha indicato questa come unica via, ha esposto quelle conversazioni del Capo dello Stato alla valutazione dei pm e ancor più al rischio che una volta messe a disposizioni delle parti per gli eventuali usi processuali, potessero diventare pubbliche.
Tanto più, hanno sottolineato gli avvocati dello Stato, che al momento, «persiste l’omissione della richiesta al gip di distruzione delle intercettazioni». Insomma, quella richiesta non è stata fatta.
L’ARTICOLO 271
Sul fronte opposto, Pace ha fatto un intervento volutamente giocato, in alcuni passaggi, sul filo del paradosso o comunque teso a dimostrare che «paradossali» erano alcune tesi dell’avvocatura.
Per esempio che «un fatto fortuito», come le conversazioni captate casualmente, «non può essere oggetto di divieto. È mai possibile vietare di scivolare accidentalmente su una strada ghiacciata?», è la domanda retorica rivolta da Pace alla Corte nella sua arringa.
Nella parte finale del suo intervento Pace ha anche sviluppato un’altro aspetto: cosa dovrebbero fare i pm se intercettassero una conversazione del presidente della Repubblica che complotta per un colpo di Stato? distruggere i file? E se questo «surplus di garanzie» che l’Avvocatura prospetta per il Colle valesse anche per ministri e premier, i magistrati non potrebbero più intercettare nessun sospettato che avesse contatti con loro?
Una via «lineare» di soluzione, suggerisce Pace, «potrebbe essere la richiesta dell’apposizione del segreto di stato da parte del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio» sul contenuto delle telefonate intercettate.
Ma la Consulta ha indicato una strada ben diversa: quella prevista dall’art. 271 del codice di procedura penale sulle intercettazioni vietate.
Quell’articolo afferma che il giudice può in ogni grado del processo disporre la distruzione delle registrazioni che coinvolgano soggetti non intercettabili in funzione del loro ruolo: il difensore, il confessore, il medico.
A maggior ragione deve valere per il Presidente, ha sostenuto l’Avvocatura e ha confermato la Consulta.
Perchè quella strada prevede che «il giudice decida senza contraddittorio», hanno spiegato gli avvocati dello Stato e senza rischio che i contenuti delle conversazioni siano divulgati.
LE NUOVE CARTE
Intanto cinque faldoni di nuovi documenti sono stati depositati agli atti dell’udienza preliminare del procedimento sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo.
Lo ha annunciato il pm Nino Di Matteo, oggi, in udienza. T
ra le carte finite al gup anche alcune intercettazioni fatte ad aprile del 1993 dai carabinieri del Ros che proverebbero che i militari erano sulle tracce del boss Nitto Santapaola, all’epoca latitante.
Gli inquirenti avrebbero captato conversazioni tra due mafiosi che parlavano di un incontro recente col capomafia catanese ricercato e in un caso avrebbero ascoltato anche la voce dello stesso padrino che, però, sarebbe stato arrestato solo un mese dopo, il 18 maggio, dalla polizia.
Santapaola si sarebbe nascosto a Barcellona Pozzo di Gotto e nella stessa zona, ad aprile, si sarebbero trovati l’ex ufficiale Giuseppe De Donno, tra gli imputati del procedimento sulla trattativa, e l’allora capitano Sergio de Caprio, l’uomo che arrestò Totò Riina.
Dopo la mancata cattura di Provenzano nel 1995, contestata all’ex generale del Ros Mario Mori, «concessione», secondo i pm, fatta al boss proprio in nome della trattativa in corso, anche il mancato arresto di Santapaola entra nell’inchiesta che vede coinvolti 12 tra capimafia, ex ufficiali del Ros, ex ministri e politici.
Tra i documenti depositati anche gli interrogatorio di un ex pm di Barcellona Pozzo di Gotto, Olindo Canali, i riscontri alle dichiarazioni del capomafia Rosario Cattafi che parla di un tentativo dell’ex numero due del Dap Francesco Di Maggio di contattare Santapaola per fare cessare le stragi mafiose e riscontri alle dichiarazioni del pentito Gaetano Grado

Alessandro Barbera e Francesco Grignetti
(da “La Stampa“)

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LA STRANA PRETESA DEI LIBERISTI: CHIEDERE ALLA SINISTRA DI FARE LA DESTRA

Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile

LA DEMOCRAZIA HA BISOGNO DI CHIAREZZA E DI SCHIERAMENTI PRESENTABILI

L’intellettualità  liberista italiana aveva eletto Matteo Renzi a proprio campione.
E ora si dice delusa perchè il Pd e, più in generale, il centro-sinistra non ne hanno accolto le suggestioni alle primarie.
Ma ha senso una simile delusione? Credo di no.
Sui diritti politici e sull’architettura istituzionale la convergenza delle diverse culture politiche è possibile e utile.
L’ha dimostrato la Costituzione, elaborata dopo la Seconda guerra mondiale.
Lo hanno poi confermato le leggi sui diritti civili, sulle quali si sono formati consensi trasversali, basati su scelte di coscienza.
È invece sull’economia e sul finanziamento delle politiche sociali che si articola l’opposizione tra le tesi socialdemocratiche e socialcristiane, tipiche del Pd in Italia e dei partiti socialisti in Europa, e le tesi liberiste, tradizionalmente coltivate dalla destra.
Perchè mai questo duello, che costituisce il sale delle democrazie occidentali, dovrebbe risolversi all’interno di una sola area politica, il centro-sinistra, o meglio di un solo partito, il Pd?
Negli Stati Uniti, il movimento dei Tea Party non pretende di dettare la linea al Partito democratico.
Gli basta condizionare e magari conquistare il Partito repubblicano.
In Italia, invece, si vorrebbe che il Pd diventasse liberista perchè, come titola un fortunato pamphlet di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, il liberismo sarebbe di sinistra.
Ma un conto è un tentativo di egemonia culturale come quello fatto dai due economisti di scuola, appunto, liberista, ben altro conto è intestare una politica di destra all’altra ala dello schieramento politico.
Le contaminazioni fanno bene al pensiero. Tutti possono imparare qualcosa da tutti. Dal fallimento dell’Unione Sovietica, le sinistre hanno imparato a diffidare delle nazionalizzazioni generalizzate e della pianificazione centralizzata oltre che dal regime a partito unico.
Vista la crudeltà  del capitalismo manchesteriano, i liberali di fine Ottocento accettarono l’idea, cara al nascente socialismo, di limitare per legge a otto ore la giornata di lavoro.
Dalla crisi del 1929, uscirono negli Usa e in Italia le leggi bancarie che tagliarono le unghie alla speculazione fatta con i soldi degli altri e l’intervento statale nell’economia.
Ex comunisti, ex socialisti ed ex democristiani possono pur ritrovarsi sotto lo stesso tetto del Pd, visto che, nella politica economica, erano tutti più o meno socialdemocratici.
Ma le contaminazioni non possono essere spinte fino alla democrazia che si compie in un partito solo.
Per funzionare bene, la democrazia ha bisogno di chiarezza e di pluralismo.
E allora l’intellettualità  liberal-liberista dovrebbe chiedersi come mai, nonostante la simpatia dei media e la diffusa voglia di facce nuove, Matteo Renzi non ce l’abbia fatta.
Tirare in ballo l’ostilità  di apparati che non esistono più (al Pd ne resta uno pari a un decimo di quello degli anni Settanta) equivale a fuggire davanti alle domande difficili così come fuggivano gli ex comunisti nel 1994 quando attribuivano la propria sconfitta alle televisioni di Berlusconi e non ai propri limiti.
Le domande difficili sono due: a) come mai, in Italia, la cultura politica liberale non è riuscita a conquistare l’egemonia, in particolare nell’area politica che gli è storicamente affine, e cioè nel centro-destra? b) che cosa potrebbe fare, adesso, per risalire la china?
Una democrazia funzionante ha bisogno di schieramenti politici presentabili.
Il centro-sinistra, pur con tanti limiti, lo è. Il centro-destra, purtroppo, si è illuso di esserlo.
Più che discutere di Renzi e Bersani, questa intellettualità  dovrebbe aiutare la destra politica a capire come mai Silvio Berlusconi e i partiti da lui guidati (Forza Italia, il Pdl) non siano mai diventati quel partito liberale di massa che promettevano di essere. Confessando, magari, perchè per tanti anni questa stessa intellettualità  ci aveva creduto.
C’è tutta una storia patria da revisionare. A partire dall’Unità  d’Italia.
Ma c’è anche un ripensamento più radicale sui tempi recenti.
Un ripensamento a proposito di due scelte.
La prima è di tipo economico e consiste nell’aver cercato di estendere senza più confini l’area dell’economia di mercato all’interno dell’economia e l’influenza del capitalismo finanziario all’interno dell’economia di mercato.
La seconda scelta è di tipo antropologico e riguarda la centralità  assoluta attribuita alla competizione, con relativa, superficiale mitizzazione della cosiddetta meritocrazia, rispetto all’arte della collaborazione e alla gestione politica delle disuguaglianze.
Per favorire questo duplice processo si è ridotta l’azione di governo a mero arbitraggio.
Con il risultato che i più forti hanno sì sovrastato senza remore i più deboli, ma alla fine hanno rotto il giocattolo dell’economia.
Preso atto del successo di Obama, i repubblicani americani stanno ripensando le proprie scelte.
La cultura della destra italiana, presto o tardi, dovrà  fare i conti con l’età  berlusconiana.
E questa è una responsabilità  alla quale non poteva sfuggire andando a covare il proprio uovo nel nido del Pd.

Massimo Mucchetti
(da “il Corriere della Sera“)

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LA VECCHIA GUARDIA PD RIALZA LA TESTA, BINDI: “IO MI CANDIDO”, FIORONI “NON MOLLO”

Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile

BERSANI SALOMONICO: DECIDE LA DIREZIONE, DEROGHE INDIVIDUALI

Nell’euforia della festa per il trionfo di Bersani, Rosy Bindi fuori onda dice a un amico: bischero, mi presento per altre quattro candidature. Finisce su twitter.
Bindi non demorde e ha già  rassicurato i renziani: «Ho resistito a vent’anni di berlusconismo, figuriamoci se non resisto a un anno di Renzi».
Chiederà  la deroga, non ci pensa a farsi da parte.
Sempre nella stessa serata di vittoria, Beppe Fioroni, supporter di Bersani, manda un sms a Renzi: «Matteo, bravo: il tuo discorso di sconfitto dimostra che non sei un ragazzetto, non mollare».
Nemmeno Fioroni intende mollare. «E perchè? Ho fatto il politico part-time, con il tempo diviso tra i mio mestiere di medico e quello di amministratore – racconta – Sono stato ministro per 18 mesi. Ho 100 giorni di Parlamento in più di altri, che però erano già  al governo o all’europarlamento ».
Cento giorni in più o in meno non fanno di Fioroni – è il ragionamento di Fioroni medesimo – un elefante politico.
O, per usare la definizione renziana, un “rottamando”, parola brutta ma concetto limpido.
A tal punto chiara è l’idea, che Bersani l’ha fatta sua.
Lo staff bersaniano fa notare l’attenzione del segretario a dare, anche plasticamente, l’immagine del cambiamento: la foto del trionfo era con Roberto Speranza, Tommaso Giuntella, Alessandra Moretti, cioè largo ai giovani.
Mica sul palco c’è salito D’Alema, per dire.
Anche se il lìder Massimo stava in platea nella festa all’ex cine Capranica, raggiante e intervistato a lungo.
Dichiara poi, che «darà  una mano a Bersani per rafforzare la proposta di governo».
Un proposito eccellente, di cui però qualche giovane bersaniano si preoccupa: bene se mette a disposizione la sua esperienza e le relazioni internazionali, ma se pensasse di condizionare ancora?
D’Alema per la verità  ha fatto un passo indietro (così come Veltroni), con il fiuto politico che anche i fratelli/coltelli (i veltroniani) gli riconoscono.
Bersani gli è grato per il modo in cui si è speso in Puglia per portare consensi al ballottaggio per le primarie.
E ieri il segretario – raccontando la telefonata ricevuta da Carlo Azeglio Ciampi che si complimentava per la vittoria – è tornato sul suo cavallo di battaglia: novità , novità  e ancora novità  in Parlamento e nel governo del centrosinistra però accompagnata all’esperienza.
Tradotto in concreto: non offrirà  copertura alla “vecchia guardia”, agli “elefanti”, che farebbero assai volentieri a meno di chiedere le famose deroghe per ricandidarsi in Parlamento.
Preferirebbero ci fosse un “pacchetto” di derogati, decisi prima.
Niente da fare.
Il Pd si avvia a pochissime deroghe, non garantite da alcun pre-accordo politico. Bersani ieri ha ancora declinato l’invito: «Le deroghe saranno individuali», ha ribadito.
Lui se ne lava le mani, devono passare al vaglio della Direzione del partito (dove ci sono anche Renzi, i “giovani turchi” rinnovatori, Gozi, Civati, Concia, Scalfarotto, un fronte assai poco favorevole ai resistenti), e lì ottenere i 2/3 di “sì”.
Forse è questa la ragione per cui Franco Marini, conoscitore profondo del risiko del potere, si limita a commentare: «Io non seguo l’esempio di nessuno e resto a disposizione del partito».
Che è poi la linea di Anna Finocchiaro, la capogruppo al Senato. Anche lei: «Nessuna richiesta di deroga, sarà  il partito a decidere».
Gianclaudio Bressa, ex sindaco di Belluno, il parlamentare che ha seguito la partitalegge elettorale, si sfila: «Torno a fare il mio mestiere, se il partito vuole la mia esperienza, ci sono».
La partita delle deroghe agli “elefanti” (quelli con più di 15 anni di legislatura) è già  aperta. «Se si cambia il Porcellum, e ci sono le preferenze, la questione è risolta », afferma Stefano Bonaccini, il segretario Pd dell’Emilia Romagna.
Altrimenti? Con tutti i segretari provinciali chiede primarie per i parlamentari. Una consultazione tra gli iscritti. I derogati potrebbero finire sotto esame due volte, con i tempi che corrono.

Giovanna Casadio
(da “La Repubblica“)

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