Dicembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
IL MAGISTRATO NON SCIOGLIE LA RISERVA CIRCA UN SUO IMPEGNO DIRETTO… IL PD CHIUDE: NESSUNA ALLEANZA DISOMOGENEA RISPETTO AGLI IMPEGNI CON L’EUROPA”
Nella fase di grande rimescolamento della politica italiana, Mario Monti non è l’unico indeciso.
A non avere ancora sciolto la riserva su un suo possibilie conivolgimento diretto nella imminente competizione elettorale è anche Antonio Ingroia.
Il magistrato palermitano in aspettativa si è dato ancora una settimana di tempo prima di decidere se presentare una sua lista elettorale.
“Dobbiamo fare tutto in fretta, nell’arco di pochi giorni ognuno di noi deve fare i propri conti e regolarsi. Vediamo cosa succede in questi giorni. Da parte mia assumerò le mie determinazioni finali entro il 28-29 dicembre. Ho posto condizioni. Una di queste è verificare se, sul versante della società civile, si creano le condizioni per un passo in avanti e se riusciamo a riempire di contenuti, di persone, di associazioni il progetto e riuscire a fare una lista”, ha detto Ingroia all’assemblea del movimento “Cambiare si può” .
“Dobbiamo fare il massimo dello sforzo per trovare una sintesi e un punto di convergenza comune. La mia, come ho detto ieri, è stata una dichiarazione di disponibilità e di servizio su un progetto che si sta formando”, ha aggiunto. “Sono convinto – ha proseguito Ingroia – della necessità di un passo in avanti della società civile e di un ‘passo incontro’ da parte della politica che, in questi mesi, dentro e fuori il Parlamento, si è espressa in modo alternativo al montismo e berlusconismo. Questo è il denominatore comune su cui costruire questa aggregazione”.
“Non dobbiamo attestarci su posizioni di purismo ideologico ma dobbiamo essere pragmatici se vogliamo creare un’aggregazione per costruire un polo e governare il Paese. ‘Passo incontro’ vuol dire stimolare un nuovo protagonismo della società civile. Il progetto è quello di una lista civica. Credo fortemente nel concetto della rivoluzione civile. Non chiedo alla politica di farsi da parte ma di fare un passo indietro, non più in prima fila ma in seconda fila”.
Ingroia, come già fatto ieri, ha quindi nuovamente sostenuto la necessità di aprire un dialogo con Pd e Grillo.
Dal partito di Pierluigi Bersani è arrivata però una brusca frenata. “Non mi pare che le posizioni che porta avanti Ingroia sulla giustizia possano essere condivisibili e per quanto mi riguarda per me non lo sono quelle che ha assunto rispetto alla vicenda che ha coinvolto il presidente Repubblica, ma a parte questa issue mi pare un movimento molto monotematico”, ha chiuso il responsabile Economia del partito Stefano Fassina.
“Non abbiamo capito sul terreno economico-sociale cosa Ingroia propone – ha rincarato Fassina – e non facciamo alleanze che non abbiano un forte grado di omogeneità rispetto agli impegni che vogliamo mantenere con l’Europa e a livello internazionale. Mi pare quindi complicato che si possa costruire questo rapporto, anche perchè con Ingroia convivono molte posizioni diverse tra loro e penso che l’alleanza progressista debba avere un profilo di credibilità che non mi pare sia compatibile con l’offerta politica che Ingroia rappresenta”.
Alle parole dell’esponente del Pd Ingroia ha così replicato: “E’ evidente che Fassina non ritiene che la lotta alla mafia possa essere condotta fino in fondo. Nel Manifesto di cui sono primo firmatario si legge testualmente che ‘vogliamo una politica antimafia nuova che abbia come obiettivo ultimo non solo il contenimento, ma l’eliminazione della mafia. Se Fassina ritiene non condivisibili questi temi, allora lo specifichi meglio, oppure più semplicemente dica che c’è una pregiudiziale contro Ingroia, nel qual caso ne prendo serenamente atto”.
A non credere a una possibile intesa con il Pd è anche Luigi De Magistris. “Devo essere sincero: non riesco a immaginare la riuscita di una intesa col Pd – dice il sindaco di Napoli e animatore del movimento per la candidatura di Ingroia – il dialogo serve solo a levare il pregiudizio, perchè non credo che il Pd rinuncerà alle sue posizioni sulle politiche liberiste, sulle spese militari o sull’articolo 18. Per questo credo che l’incontro tra Ingroia e il Pd durerà il tempo di un cappuccino o di un caffè. Con Ingroia ci saranno cittadine e cittadini con la schiena dritta che hanno lottato a difesa dei diritti civili e sociali e a difesa dei territori, insieme a tutti quei militanti dei partiti che hanno contrastato le politiche liberiste di Monti”.
Chi invece tifa per una collaborazione tra una eventuale lista di Ingoria e il Pd è Nichi Vendola. “Auspico una interlocuzione con Ingroia ma spetta al capo della coalizione sciogliere questo nodo. Io dico solo che se Bersani aprirà questa porta o finestra farà bene”, dice il leader di Sel.
“Le domande che Ingroia pone – aggiunge Vendola – a partire da quella di una relazione più forte tra politica e società , sono domande cui occorre rispondere positivamente. Ci sono con lui delle sensibilità cui guardare con attenzione, per questo dico che una interlocuzione deve e può esistere”.
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Dicembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
LA DECISIONE RINVIATA PROBABILMENTE A DOPO NATALE… SCORAMENTO NELLE FILE UDC E FLI
Alla vigilia della decisione più importante della sua vita politica, il premier s’arresta sulla soglia.
È preda di dubbi, «è tormentato», riferiscono. I leader del centro – da Casini a Montezemolo – hanno provato a sondarlo ma non ne hanno tratto altro che una frase ancora vaga, troppo vaga: «Mi prendo Natale per riflettere».
A Giorgio Napolitano, congedandosi, ha soltanto detto: «Missione compiuta presidente!».
E ha rassegnato le dimissioni. Ma sul suo futuro nemmeno al capo dello Stato ha detto qualcosa di più, limitandosi a un «non ho ancora deciso». Un’incertezza che al Quirinale ha lasciato un po’ interdetti.
Sembra che almeno ai collaboratori più stretti, in realtà , la decisione finale oggi sarà comunicata.
Ma potrebbe restare deluso chi spera di capirci di più dalla conferenza stampa di fine anno (domenica mattina).
Perchè se mercoledì – a quella famosa riunione a palazzo Chigi con Casini, Riccardi e Montezemolo – Monti sembrava molto convinto, addirittura lanciatissimo, e soppesava tutti i dettagli di un impegno diretto, comprese varie simulazioni elettorali, compresa la decisione di dar vita a un «gruppo operativo » per la formazione delle liste, ebbene, appena due giorni dopo, questa spinta sembra in parte evaporata.
Perciò domenica mattina Monti dovrebbe limitarsi all’enunciazione della sua agenda di riforme. Punto.
Come se, dopo aver soppesato tutti i vantaggi e le opportunità di una discesa in campo, il premier si sia fatto travolgere dal peso degli svantaggi e dalle possibili conseguenze negative.
Non ultima la paura di essere fatto oggetto di una violenta campagna mediatica da parte del Cavaliere. «È come quando uno si deve sposare – riassume un ministro – e improvvisamente si fa prendere dall’ansia. Vorrebbe rinunciare ma non sa come dirlo alla promessa sposa». Oltretutto, in questo caso, la “sposa” – ovvero i centristi – ha compreso benissimo l’incertezza del momento.
Tra le file dei montiani si è diffuso un senso di scoramento, una sgradevole sensazione di rompete le righe.
Raccontano ad esempio che Luca Cordero di Montezemolo abbia fatto sapere che la sua candidatura ci sarebbe soltanto nel caso di un parallelo impegno di Monti.
I più pessimisti sono sicuri che la lista “Verso la Terza Repubblica”, se Monti darà forfait, non nascerà affatto.
Al massimo Andrea Olivero, ex presidente delle Acli, e qualcun altro potrebbero trovare ospitalità nella lista dell’Udc.
Casini, che ieri ha avuto un colloquio con il premier, si tiene pronto al peggio. «Rispetteremo le scelte di Monti, qualsiasi esse siano. Ma noi saremo comunque in campo», ha messo in chiaro parlando nelle Marche.
Angelino Sansa, capo dell’Udc in Puglia, ieri pomeriggio, alla buvette di Montecitorio, confidava all’orecchio un collega di partito: «Cesa mi ha detto di cominciare a preparare la nostra lista in Puglia».
La liquefazione del centro è a un passo e sarebbe la diretta conseguenza del disimpegno di Monti.
Una possibilità che sta allarmando al massimo anche i vertici della Cei.
Visti i numeri dei sondaggi, nel caso di default della lista Montezemolo- Riccardi, i centristi sarebbero infatti spazzati via da palazzo Madama senza poter superare la soglia regionale dell’otto per cento.
Senza gruppo al Senato, irrilevanti alla Camera.
In un divanetto del Transatlantico ormai deserto due montezemoliani della prima ora, Giustina Destro e Fabio Gava, confabulavano preoccupati: «Senza Monti la campagna elettorale diventerà un derby tra Berlusconi e Bersani. Per noi sarebbe la fine».
Nell’Udc e dentro Fli, oltre al terrore di essere lasciati a piedi nel bel mezzo di una campagna elettorale difficilissima, ieri montava anche del risentimento contro Monti.
Come se il disimpegno fosse già cosa fatta. «Se pensa così di conquistarsi il Quirinale – si sentiva dire in un capannello di deputati Udc – si sbaglia di grosso. Bersani non è babbo Natale, al Colle manderanno Prodi».
Nell’altro campo, quello del Pdl, già si fregano le mani. «Senza Monti – osserva Raffaele Fitto – la partita è apertissima.
Al Senato l’alleanza fra noi e la Lega può vincere in Lombardia e in Veneto. Anche in Campania e Sicilia, grazie ai voti che prenderà la lista di Ingroia-De Magistris, il Pd mancherà il premio regionale.
A quel punto è fatta: a Berlusconi per vincere gli basta non perdere»
Francesco Bei
(da “la Repubblica“)
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Dicembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
SULLE FIRME PER LE LISTE RIDUZIONE DEL 75% ALLA CAMERA, AL SENATO SE NE RIPARLA IL 28 DICEMBRE
Un attimo prima delle dimissioni, il governo è riuscito a varare il decreto sull’incandidabilità , il “liste pulite”, che ieri è stato a un soffio dal restare lettera morta per colpa del presidente della commissione Bilancio, il pidiellino Azzollini.
La svolta è arrivata ieri mattina, mentre è ancora in ballo la questione delle firme per le liste: alla Camera sono state ridotte del 75% ma al Senato se ne riparlerà il 28 dicembre e non è escluso l’arrivo di un nuovo decreto.
Intanto, sulle “liste pulite”, per Parlamento e governo il testo si applica a tre categorie: i condannati a pene definitive superiori a 2 anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, di maggiore allarme sociale (mafia, terrorismo, tratta di persone); i condannati per delitti contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato) e coloro che hanno accumulato pene superiori ai 2 anni per delitti non colposi “per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni”.
In quest’ultimo caso, si tratta di tutte le fattispecie criminose più gravi per le quali è anche possibile applicare la custodia cautelare in carcere (favoreggiamento personale, falso materiale in atto pubblico, stalking, voto di scambio, aggiotaggio, reati fiscali, fallimentari, furto, rapina, truffa, riciclaggio, usura, abusivismo).
Sul fronte della durata, l’incandidabilità alla carica di parlamentare durerà il doppio della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Tradotto: per un’interdizione di 5 anni, il condannato non si potrà candidare per 10.
Senza pena accessoria, l’incandidabilità non potrà essere inferiore ai 6 anni. Idem per gli incarichi di governo.
In tutti i casi, se il delitto è stato commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri connessi al mandato, lo stop aumentata di un terzo.
Le norme valgono anche per il patteggiamento deciso dopo l’entrata in vigore della legge.
Se la condanna sopravviene durante un mandato, saranno le Camere, come adesso, a valutare le cause sopraggiunte di ineleggibilità e incompatibilità .
Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
EMODERIVATI SENZA CONTROLLI DA USA E CANADA…IL CONFLITTO DI INTERESSI DI UN SENATORE PDL CON AMICIZIE PD….IL MINISTRO BALDUZZI: “SALUTE PUBBLICA IN PERICOLO”
Si tratta di uno di quegli emendamenti sul finire, notturni, che creano dei problemi”.
Renato Balduzzi è un ministro tecnico, ma evidentemente s’è accorto presto di come funzionano le cose in Parlamento.
Il titolare della Salute si riferisce a una normetta spuntata in Senato, senza avere molta attinenza con la materia, nella legge di Stabilità che ieri è diventata legge.
Cosa prevede? Semplicemente che sangue e prodotti emoderivati provenienti da Stati Uniti e Canada non avranno più bisogno dell’autorizzazione preventiva dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) per essere importati nel nostro Paese: il che vuol dire che queste preparazioni — componenti del sangue che vengono separati attraverso un sofisticato sistema di centrifugazione del sangue — possono arrivare liberamente dal Nord America e non, per dire, dalla Francia.
Col rischio che si incorre nel paradosso di rendere facile l’importazione di emoderivati da paesi — come molti Stati Usa — in cui il sangue si può vendere (e molti poveri lo fanno), mentre in Italia è vietato.
Ora Ballduzzi, dopo le proteste di area Pd (Marino, Miotto e altri), è preoccupato e pensa addirittura a un “provvedimento d’urgenza” giustificato coi “pericoli per la salute pubblica”.
Resta una domanda: com’è arrivato questo strano emendamento nel ddl stabilità ?
Ce lo ha messo Cesare Cursi, Pdl di rito aennino, già capo segretaria di Amintore Fanfani, ex sottosegretario alla Salute.
Conosciuto l’esecutore, forse è il caso di chiedersi a chi interessa questo emendamento: quante sono le aziende interessate?
La risposta si trova nelle parole di Ignazio Marino, chirurgo di fama mondiale e senatore del Pd: “Sugli emoderivati l’Italia è di fatto in un regime di monopolio: dal 1990 gli emoderivati sono prodotti da un’unica azienda farmaceutica, la Kedrion (di Castelvecchio Pascoli, Lucca, ndr). Nel 2011, Kedrion ha coperto circa il 65% del fabbisogno terapeutico italiano per questi prodotti, quindi solo il restante 35% è fornito al Paese in regime di concorrenza”.
In sostanza, grazie ad un monopolio paralegale, solo Kedrion può produrre e vendere in Italia alcune tipologie di questi preparati: per di più, la società toscana è assai attiva in Nord America, tanto in Canada quanto negli Stati Uniti, e particolarmente interessata dunque al’emendamento Cursi.
Basti a provarlo un comunicato dell’azienda del luglio di quest’anno in cui si dà notizia dell’acquisto di un ramo d’azienda della società Ocd (Ortho Clinical Diagnostics), che andava ad aggiungersi ad un impianto di frazionamento a Melville (New York), alla controllata Kedrion Biopharma e ad otto centri di raccolta del plasma sparsi per gli States.
Resta solo da chiarire chi siano i proprietari di Kedrion. Trattasi dei Marcucci, famiglia che fin dai tempi del capostipite Guelfo dà del tu al potere.
Al comando ora c’è la generazione dei figli, tre: la primogenita Marialina fu azionista de l’Unità , il fratello Paolo guida la società , il più piccolo, Andrea, s’è dato alla politica. Liberale prima, sottosegretario con Prodi, Pd oggi.
E pure senatore.
Come Ignazio Marino, che da tempo prova a scardinare il monopolio di Kedrion senza successo.
La storia di questa battaglia è lunga e Giorgio Meletti l’ha raccontata nei dettagli su questo giornale a settembre.
Ci provarono alcuni parlamentari con una legge nel 2005, seguiti per il governo dall’allora sottosegretario Cursi: in 7 anni, però, non è cambiato niente.
A febbraio allora, facendosi forte della premiership dell’ex commissario alla Concorrenza Monti, Marino prova a liberalizzare il settore degli emoderivati con un emendamento al dl liberalizzazioni: il presidente della Commissione Industria del Senato, però, lo giudica “inammissibile per estraneità di materia”.
Chi è? Cesare Cursi.
Il chirurgo si rivolge allora al ministro Passera che, stupito, promette interventi.
Se ne deve essere dimenticato, ma nel frattempo lo Stato ha trovato il modo di entrare nel capitale di Kedrion attraverso Cdp.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
L’ACCORDO HA SIGNIFICATO RICONOSCERE LA GIURISDIZIONE INDIANA
Una partita giocata su tutti i tavoli.
E’ stata questa, in sintesi, la strategia seguita dalle istituzioni italiane nel controverso caso dei due militari del Reggimento San Marco.
Dopo dieci mesi di permanenza forzata in India, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone potranno tornare in Italia per merito della licenza disposta dal giudice dell’Alta Corte del Kerala.
Si tratta di un permesso di due settimane che scatteranno a partire dal momento in cui i militari lasceranno l’India per trascorrere il Natale con le rispettive famiglie.
Un risultato parziale e sofferto giunto fra l’altro in extremis, visto che a ridosso delle festività la Corte Suprema non aveva ancora fissato alcuna udienza per la sentenza definitiva.
Un immobilismo che ha caratterizzato tutta la vicenda di Latorre e Girone processati con l’accusa, non ancora provata, di aver ucciso due pescatori mentre erano in servizio antipirateria su una nave mercantile.
Il destino dei due fucilieri di marina sembrava destinato, ancora una volta, a rimanere ostaggio irriscattabile di una situazione controversa dinanzi a cui le istituzioni italiane hanno sempre dichiarato la loro fiducia nei confronti di quelle indiane e per questo hanno sempre atteso la decisione dell’Alta corte.
È questo il primo cambio di rotta, secondo quanto riferito da fonti vicine agli ambienti diplomatici, ovvero il governo italiano di fatto ha sostenuto la richiesta di licenza avanzata dai due militari prima ancora che arrivasse un verdetto da parte dei giudici. Questo però rischia di creare un precedente che potrebbe in qualche modo incidere sull’intera vicenda, visto che la richiesta rivolta all’Alta Corte del Kerala implicitamente è un riconoscimento di competenza giurisdizionale delle autorità indiane.
In realtà l’Italia, come ha sottolineato ieri di nuovo il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha sempre sostenuto che l’operato dei due fucilieri del Reggimento San Marco deve essere giudicato dall’Italia.
E’ forse questo che avrebbe spinto le autorità giudiziarie indiane ad accogliere la richiesta dei militari nonostante tutte le controindicazioni del caso come le proteste dei pescatori o il rischio di non veder più tornare i due cittadini italiani sotto processo. Ipotesi su cui alle tutele del tribunale, come la cauzione di oltre 800 mila euro e la dichiarazione giurata dell’ambasciatore d’Italia, si sono aggiunte le garanzie di rispetto degli impegni da parte delle istituzioni italiane e degli stessi militari.
A questo punto, si chiedono in molti, se questo risultato non poteva essere raggiunto prima .
Ci si domanda inoltre quale sarà l’atteggiamento dell’Italia nei confronti delle autorità indiane una volta che la licenza sarà scaduta, ovvero col ritorno forzato di Girone e Latorre a Kochi.
Nel frattempo permangono tutta una serie di incognite, prima di tutto la data di arrivo e quindi di partenza dei marò: secondo le previsioni più ottimistiche i due potrebbero giungere in patria già la prossima domenica, ma alcuni non escludono che il tutto potrebbe slittare addirittura a dopo il 24 dicembre.
Il nodo è nel rilascio dei due passaporti e del visto di uscita da parte del tribunale di Kollam, una località che si trova a oltre tre ore di auto da Kochi e dove la delegazione italiana, assistita dai legali, è da stamane presto al lavoro per sistemare quanto prima la pratica. I tempi della burocrazia indiana, così come mostrato in questi dieci mesi, non depongono a favore.
C’è tuttavia chi non esclude che per i due militari possano servire dei passaporti nuovi, ipotesi questa per la quale entrerebbero in gioco le istituzioni italiane.
Un altro nodo da sciogliere è l’istruttoria aperta in Italia nei confronti di Girone e Latorre elemento questo sul quale si potrebbe avanzare la pretesa di farli rimanere in patria visto che la loro presenza è imprescindibile per portare avanti il processo. Un’ipotesi per la quale qualcuno in India già parla di «puzza di imbroglio».
Francesco Semprini
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Dicembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
DAL 2013 OGNI CONSIGLIERE POTRA’ RINUNCIARE ALL’ASSEGNO, MA SENZA ALCUNA IMPOSIZIONE
Vitalizio sì, ma facoltativo.
Così la Regione Emilia Romagna prova a ridurre i costi della politica.
E mentre dà il via libera a un emendamento che prevede la facoltà di rinunciare al contestato emolumento, mette in sicurezza l’assegno dei consiglieri in carica, bocciando la proposta di abolizione tout court per la legislatura in corso (per la prossima è già stato cancellato) e quella per il divieto di cumulo.
Insomma, un risparmio relativo,da valutare a seconda della generosità di ogni singolo eletto.
Il provvedimento ha ottenuto il via libera dell’assemblea legislativa, che martedì l’ha votato all’unanimità . In sostanza da gennaio 2013, ogni consigliere in carica, o di un precedente mandato, avrà la possibilità di rinunciare all’assegno vitalizio, a patto che questo non sia già in pagamento.
Nessuna imposizione o vincolo. I tagli saranno del tutto facoltativi.
“Si trasforma quella che era una trattenuta obbligatoria, a carico di ogni consigliere e prelevata dall’indennità di funzione, in una trattenuta facoltativa” spiega uno dei relatori, il consigliere Pd, Mario Mazzotti.
In altre parole, da ogni busta paga venivano sottratti circa 1000 euro, pari al 25% del totale, come contributo per il vitalizio.
Una cifra che, dal prossimo anno, ciascuno potrà decidere di non versare.
Basterà fare richiesta scritta al presidente dell’assemblea nei primi 15 giorni di gennaio, o di luglio, di ogni anno.
Resta inteso che chi opterà per questa strada dirà addio all’emolumento a vita una volta compiuti i 60 anni, ma si ritroverà a fine mese uno stipendio più sostanzioso, e avrà diritto al rimborso rateale di tutti i contributi versati, senza interessi.
Difficile per ora tradurre in cifre il guadagno per la Regione, che dipenderà quindi dal “buon cuore” di ogni eletto.
“Non si riesce a fare una quantificazione precisa, anche perchè non siamo a conoscenza del numero dei consiglieri che opteranno per una soluzione o per l’altra e la loro età ” chiarisce Mazzotti.
Al massimo si può azzardare una stima: “Se rinunciassero 15 consiglieri con 5 anni di anzianità dovremmo restituire circa 1 milione di euro, con un risparmio medio del 5% della spesa per i vitalizi nei prossimi 30 anni”.
Intanto, nei corridoi di viale Aldo Moro i consiglieri hanno già messo mano alle calcolatrici, per farsi due conti.
Giulia Zaccariello
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
I DATI DEL CENSIMENTO: IN 10 ANNI STRANIERI TRIPLICATI
Sarà la dieta mediterranea, saranno geni antichi e luoghi comuni con un fondo di verità , ma una cosa è certa: vivere in Italia sembra proprio allungare la vita.
A fotografare una nazione dove abitano 15mila ultra centenari, dove la pattuglia di chi è nato ai tempi della belle epoque e resiste impavido si è triplicata in dieci anni, e un italiano su cinque è ormai un ultra 65enne, è il Censimento del 2011.
L’Istat racconta coi numeri i cambiamenti sociali di un Paese sempre più multietnico, dove gli italiani fanno sempre meno figli e le culle vuote provocano un calo di 250mila unità rispetto a dieci anni fa, mentre gli stranieri sono triplicati.
Gli stranieri sono ormai più di 4 milioni a lavorare, studiare, sperando di vedersi riconosciuti un giorno i diritti di cittadini a pieno titolo.
I dati fotografano un’Italia che sfiora i 60 milioni (59.433.744) e diventa sempre più rosa, visto che in media, dal Nord al Sud, ci sono 97 uomini ogni 100 donne (28.745.507 maschi e 30.688.237 femmine).
E dalle tempie grigie, anzi, ormai decisamente bianche: perchè se l’età media della popolazione è di 43 anni, col Sud più giovane ad abbassare le statistiche, il nostro Paese invecchia: il 20% dei residenti ha più di 60 anni, e la Lombardia, seguita da Emilia e Veneto, ha il record degli ultracentenari in un’Italia dove si vive sempre più a lungo.
E possibilmente nei centri di media grandezza, fino a 50mila abitanti, nei quali sale il numero di persone che decidono di andarci ad abitare.
Sono questi i Comuni che più hanno visto crescere la popolazione in questa ultima decade, famiglie forse in fuga dalle grandi città dagli alti prezzi e bassi servizi in cerca di una quotidianità più vivibile.
Roma si conferma il Comune più popoloso d’Italia con 2.617.175 residenti, seguita da Milano, Napoli, Torino e Palermo.
È invece Pedesina, in provincia di Sondrio, il Comune più piccolo: 30 abitanti.
E in un Paese che invecchia, tra record e disagi, nel quale gli italiani diminuiscono perchè ci si sposa sempre meno e più tardi si decide (e riesce) ad avere figli, la voce in crescita parla altre lingue venute da lontano.
I dati raccolti dal-l’Istat dicono infatti che nel corso dell’ultimo decennio la popolazione straniera residente in Italia è triplicata, passando da 1.334.889 a 4.029.145.
La mappa del censimento dice che due stranieri su tre risiedono nel Nord (35,4% nell’Italia Nordoccidentale e 27,1% nel Nord-est), il 24% nel Centro e solo il 13,5% vive nel mezzogiorno.
Anche tra gli immigrati le donne sono la maggioranza, il 53,3% del totale degli stranieri, valore che sale al 56,6% nel meridione.
Quasi un quarto di chi arriva da oltreconfine mette su casa in Lombardia, circa il 23% in Veneto e in Emilia Romagna e il 9% in Piemonte.
Il Lazio e la Toscana totalizzano il 18%, la Campania appena il 3,7%.
Tra i grandi Comuni la città più internazionale è sicuramente Brescia, con 166,1 stranieri ogni 1.000 censiti e tra i piccoli comuni Rocca de Giorgi, in provincia di Pavia, ha decisamente la palma del record con 36,7 stranieri su cento abitanti.
E proprio in forza dai dati raccolti del Censimento torna decisa la richiesta di un riconoscimento dei diritti di cittadinanza che arrivi dalla politica.
Caterina Pasolini
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
LA CARICA DEI CITTADINI 2.0 DAI BLOG AI SOCIAL NETWORK
Li possiamo definire cives.net.
È una “community” di cittadini che usa la rete anche per seguire la politica. I nuovi media, ormai non più così “nuovi”, fanno parte della vita degli italiani.
Ma anche del loro modo di informarsi, discutere, partecipare: di essere cittadini.
L’Osservatorio Demos-Coop, che ogni anno si concentra sul rapporto tra media e politica, conferma questa tendenza, già registrata nelle scorse edizioni. Il 58 per cento della popolazione ha accesso ad Internet e il 44 per cento lo usa tutti i giorni. Per il 40 per cento è una fonte quotidiana di informazione.
Rispetto a un anno fa, il solo canale che fa registrare una piccola, ma significativa, crescita nell’utilizzo è proprio la rete: + 3 punti percentuali.
Cala, invece, la fruizione degli strumenti tradizionali: la tv, la radio, i giornali. Internet continua ad essere considerato il luogo dove l’informazione è più libera e indipendente: 41 per cento.
Un aspetto non da poco per la democrazia. Per la Tv il dato è il 24 per cento.
Ciò significa che la si guarda senza fidarsi troppo.
Per i giornali si scende al 17 per cento.
Se poi consideriamo i soli cittadini in rete, il 63 per cento di questi legge i quotidiani on-line. Il 57 per cento partecipa a un social network.
Il 50 per cento discute o si informa di politica nel Web(2.0).
Una quota ridotta, ma significativa, mette in pratica anche azioni più “impegnate”: l’11 per cento ha postato commenti o partecipato a qualche discussione di politica nei blog o nei social network. Il 9 per cento segue un partito, un leader o un gruppo politico attraverso Facebook, il 4 per cento su Twitter.
Coloro che utilizzano la rete anche per discutere e informarsi di politica (quota pari alla metà degli internauti, cioè il 29 per cento della popolazione) fanno un uso più intenso di questo strumento.
Ad esempio frequentano di più i social network (63 per cento).
Rimangono connessi per più tempo, anche in mobilità con gli smartphone e i tablet. Del resto sono più giovani e scolarizzati, studenti, ceti medi impiegatizi e professionisti.
Di genere maschile.
Si riconoscono maggiormente nell’area di sinistra o di centrosinistra, ma anche nel MoVimento di Grillo.
Si dicono particolarmente interessati alla politica. Si mobilitano più spesso, sottoscrivendo, ad esempio, campagne di opinione, petizioni, e non solo online.
Oltre ad Internet, per informarsi, usano di più la tv satellitare e meno quella generalista.
Ma è interessante sottolineare che il loro coinvolgimento non resta confinato nella dimensione online.
Il 64 per cento, il doppio di quanti navigano senza però informarsi di politica, discute di questioni pubbliche anche nel circuito delle proprie reti sociali: gli amici, la famiglia, i colleghi. Internet diventa così uno stimolo al confronto, un luogo concreto della cittadinanza.
Il Web (2.0) si pone come estensione della sfera pubblica.
E non si configura come spazio a sè stante. È sicuramente vero che mobilita, anzitutto, quei soggetti già attivi e con forti attitudini all’impegno.
Ma l’intreccio tra rete e partecipazione è ormai evidente.
E i cives.net ne sono l’espressione.
Luigi Ceccarini
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
UN SISTEMA DI OSPITALITA’ SENZA REGOLE, COSTOSO E SENZA QUALITA’
Ahmed era abituato a lavorare duro. Tirare su mattoni, arrampicarsi su impalcature di legno. Rientrare alla sera in una casa-dormitorio, altre dieci persone intorno.
Sette giorni su sette, 10 ore al giorno, da quando a inizio 2009 il suo governo aveva stretto un accordo con quello libico.
In 50 mila erano arrivati dal Bangladesh in poco più di un anno, manodopera a basso costo per il piano di costruzione di infrastrutture ideato da Gheddafi con sostegni internazionali.
Nel luglio 2011, incastrato in una Tripoli dominata dalla violenza, è scappato via mare mentre migliaia di suoi concittadini attraversavano i cieli per rientrare in patria.
La storia di Abdul è diversa.
Per sei anni era stato arruolato nell’Union des Forces pour la Dèmocratie et le Dèveloppement, gruppo armato che tentava di rovesciare il regime di Idriss Dèby, colpevole fra le altre cose di non riconoscere i diritti della sua etnia.
Di fronte alla disfatta del movimento e alle tensioni continue nel Ciad, era fuggito in Libia. Inseguito dalla guerra, ben presto è nel mezzo degli scontri fra lealisti gheddafiani e milizie di Bengasi.
La vita di un ex-soldato è difficile, anche se la guerra non è la tua. Per questo salpa per l’Europa, pochi mesi dopo essere arrivato.
Ahmed e Abdul erano fra le migliaia di persone che hanno occupato le piazze di Roma lo scorso 30 ottobre.
“Persone, non fantasmi” recitava lo slogan più diffuso.
Una manifestazione nata dalla necessità di dare visibilità ai “profughi” arrivati dalla Libia, per chiedere risposte adeguate al governo.
Risposte che da allora, a pochi giorni dalla conclusione del piano di accoglienza nazionale, sono arrivate solo in parte.
Livia Cantore, delegata nazionale di ARCI per l’asilo, racconta come “i migranti siano stati inseriti in un sistema di ospitalità parallelo, senza regole, molto costoso nonostante la qualità spesso bassa”.
Un sistema che, sostiene, “ha penalizzato le persone più vulnerabili, senza offrire strumenti per l’integrazione e garanzie di tutela legale”.
Salvo infatti i singoli casi di progetti più virtuosi e di sistemi regionali come quelli di Puglia, Emilia-Romagna e Toscana, Cantore sottolinea come l’accoglienza poteva essere migliore e più economica.
Un aspetto reso più evidente dall’imminente conclusione dei fondi nazionali stanziati nel 2011.
“Ci sono esperienze positive, ma manca una reale exit-strategy per gli accolti. Sul fronte del rilascio di permessi di soggiorno per motivi di protezione, pochi giorni dopo la manifestazione, a cui hanno partecipato anche molti rifugiati, il governo ha diffuso alcune circolari che definivano le procedure per un riesame della domanda d’asilo di tutti i migranti a cui non era stata riconosciuta alcuna protezione. Una procedura complessa e non adeguata, che fa pensare a un sistema di fantasia al potere, in senso negativo”.
La posizione di ARCI è condivisa da A.S.G.I. – Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, che ha espresso dubbi sulla circolare fin dalla sua pubblicazione. Per l’avvocato Salvatore Fachile “se l’intento di fondo è apprezzabile, le modalità sono assolutamente anomale: si parla di una sorta di riesame accelerato delle domande di asilo che avevano avuto esito negativo, quando le linee guida approvate dal governo indicavano chiaramente la necessità di rilasciare un permesso per motivi umanitari, senza ricorrere nuovamente al lavoro delle commissioni territoriali per l’esame della domanda di asilo”.
È per questo che A.S.G.I., che negli ultimi anni è stata una delle più attente sentinelle di guardia dei diritti dei migranti nel nostro paese, ha avviato un monitoraggio delle pratiche delle questure in merito, sfruttando una rete di avvocati ormai presente in tutta la penisola.
Anna Brambilla, milanese di nascita e di recente migrata in Toscana, racconta in breve il sistema lombardo: “la questura di Milano ha improntato un sistema telematico, per cui ogni rifugiato presentava la richiesta di riesame tramite l’ente che lo ospita.
Il problema naturalmente si pone per chi è uscito dai progetti di accoglienza e per chi è ospite in alberghi, che non offrono nessuna garanzia seria”.
Se infatti una cooperativa sociale può sentirsi in dovere di rintracciare un ex-ospite per informarlo della possibilità di chiedere il riesame, non è detto che l’albergatore abbia interesse a farlo, con il rischio che molte persone rimangano escluse da questa procedura.
“Il problema riguarda poi chi non ha presentato un ricorso contro il diniego, o chi ha già ricevuto un rigetto del ricorso in tribunale. Su questi casi, e in generale sul reale accesso delle persone al riesame, non abbiamo ancora un riscontro preciso”.
Proprio la possibilità di continuare il ricorso è un ulteriore elemento critico, sottolinea l’avvocato Nazzarena Zorzella, socia A.S.G.I. del foro di Bologna.
Per Zorzella, che segue oltre 30 ricorrenti, “ogni richiedente asilo deve essere messo in condizione di continuare il ricorso se ritiene di avere diritto a una protezione maggiore di quella umanitaria concessa tramite il riesame”.
Un diritto che non tutti i tribunali sembrano riconoscere, tanto che alcuni hanno dichiarato la cessazione della materia del contendere, ovvero la conclusione del ricorso dopo il rilascio del permesso per motivi umanitari.
Un permesso valido un anno, che per l’avvocato non tutelerebbe adeguatamente tutti. È il caso dei nigeriani, dato che “la Nigeria è in una situazione di violenza e instabilità diffusa, tale che in linea di massima si dovrebbe riconoscere la protezione sussidiaria (un permesso di tre anni, ndr) ai suoi cittadini”.
Questo tardivo riconoscimento di una protezione incerta per chi è scappato dalla Libia è, secondo Zorzella, “un ulteriore svilimento della dignità di persone che potevano dare un contributo significativo all’economia e alla società ”.
All’incertezza dei diritti segue quella dei percorsi personali.
Il piano di accoglienza nazionale termina a San Silvestro, e 17.500 persone potrebbero trovarsi per strada.
Una prospettiva che non piace alla società civile napoletana, che lo scorso 11 dicembre ha promosso una manifestazione regionale per chiedere risposte concrete al governo e alla Protezione Civile, incaricata di gestire i fondi per l’accoglienza. Yasmine Accardo, attivista dell’associazione Garibaldi 101, ha svolto un lavoro di mediazione continua con i rifugiati e con le istituzioni, contribuendo a gettare luce sugli aspetti più oscuri della gestione dell’accoglienza.
“Nell’ultimo anno e mezzo — racconta Yasmine — abbiamo segnalato situazioni di estrema gravità . Alcuni degli alberghi che hanno ospitato i rifugiati, quello di piazza Garibaldi a Napoli e altri in provincia, fino al Tifata di San Prisco (Caserta) erano già indagati per attività illecite, oltre a trovarsi in zone difficili, bacini di attività per la camorra. Basti pensare che uno degli hotel è poco distante dalle vele di Scampia, fra le zone a più alta concentrazione criminale”.
Situazione che ha portato a gravi forme di sfruttamento del lavoro e che ha compromesso inevitabilmente qualsiasi percorso di inserimento, tanto che Garibaldi 101 ha presentato oltre un anno fa un esposto alla procura della Repubblica contro la Protezione Civile, per chiedere chiarezza su un sistema di finanziamenti opaco e clientelare.
“Non è però cambiato nulla – sottolinea Accardo — e la così detta fase II, quella della formazione e dell’integrazione sociale, non è mai partita per i 900 rifugiati di Napoli e per molti dei 2200 ospitati in regione”.
Dopo un investimento di 59 milioni nella sola Campania, finiti in gran parte nelle borse di chi nei rifugiati vedeva solo una merce, Yasmine e i suoi colleghi attivisti guardano con preoccupazione a un’ulteriore stanziamento di fondi.
È del 17 dicembre la notizia di una proroga dell’accoglienza, probabilmente per ora di due mesi, anticipata il 13 da Redattore Sociale, che ha riportato le parole del direttore Immigrazione del ministero Politiche sociali Natale Forlani.
“Ci sembra assurdo — è la conclusione di Accardo – che dopo un anno e mezzo di vuoto, ora spuntino ulteriori investimenti. Davvero si pensa di poter fare in due mesi quel che non si è fatto in quasi due anni?”.
Ahmed, Abdul e con loro tutte le persone ancora accolte aspettano di sapere cosa ne sarà di loro, che senza un lavoro non possono pagare un affitto.
Sembra evidente, sostiene l’avvocato Zorzella, che “la soluzione è rinviata al nuovo governo”, a conferma della visione emergenziale che continua a dominare la politica italiana dell’immigrazione.
Giacomo Zandonini
(da “Unimondo.org“)
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