Dicembre 4th, 2012 Riccardo Fucile
UNA DONNA COME TANTE, REGINA PER SEMPRE
Cara Isabella, ho scoperto la sua storia da un articolo di Laura Bogliolo sul Messaggero e ho capito subito che dentro c’era qualcosa di duro e di vero.
C’era la vita.
L’ho vista alzarsi tutte le mattine alle quattro nel suo appartamento di Torvajanica, rassettare in silenzio, preparare la colazione ai quattro bambini, uscire piano quando fuori era ancora buio e non si poteva vedere il mare.
L’ho vista salire sul pullman che percorre la Pontina facendo lo slalom fra le buche, arrivare a stazione Laurentina e prendere la metro B, scendere a Termini e dopo attese e sballottamenti infiniti, salire sulla linea A, mescolandosi ai volti sfatti che si incontrano sui mezzi pubblici.
L’ho vista scendere al quartiere Tuscolano, percorrere a piedi via Nocera Umbra, entrare nel bar e mettersi al forno per preparare i cornetti.
Il suo orgoglio. Il suo sogno. Aprire un forno tutto suo.
L’ho vista, Isabella, tornare a casa la sera, dopo la stessa trafila di metro e di bus, quando era di nuovo buio e a Torvajanica non si poteva vedere il mare.
L’ho vista consumarsi giorno dopo giorno, sera dopo sera, a soli 34 anni.
Stanca morta, eppure così viva, così leggera, così attenta alle vicende del quartiere, persino a trovare rifugio a tre cani randagi.
La più randagia di tutti era lei e a un certo punto ha cominciato a sentirsi male.
Ma suo marito muratore aveva perso il lavoro e lei non poteva fermarsi.
C’erano anche i regali di Natale per i bambini da comprare.
Bisognava lavorare anche di più.
Così una domenica di metà novembre si è alzata alle quattro, è salita sul pullman senza vedere il mare, ha preso la metro e ha cambiato a stazione Termini.
Lì si è afflosciata, senza dire una parola. Dopo è stato inutile tutto.
Tutto, tranne la sua vita.
L’edicolante all’angolo del suo bar ha preso una scatola, ci ha fatto un buco in mezzo per le offerte e ha scritto sopra: “Aiutiamo i figli di Isabella”.
Sono due settimane che davanti a quella scatola scorre una processione di studenti, impiegati, pensionati.
Ognuno si rovista le tasche in cerca di uno spicciolo.
Lo fanno per i suoi figli, certo,
Ma anche perchè il suo sacrificio silenzioso ricorda a tutti noi che, sebbene questa vita non sia una vita, certe persone riescono ancora a nobilitarla con il fremito della passione.
Se usciremo vivi da questa crisi che ci abbruttisce, il merito sarà esclusivamente delle persone come lei, che abitano la fatica continuando a coltivare un cuore aperto e gentile.
Qualcuno ha detto che lei era una schiava.
Non sono d’accordo.
Lei, per me e per tanti, sarà sempre una regina.
Massimo Gramellini
(da “chetempochefa.rai.it“)
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Dicembre 4th, 2012 Riccardo Fucile
DECISIONE DEL GIUDICE DI SORVEGLIANZA: “NON CONTA LA SUA VOLONTA’ MA L’APPLICAZIONE DELLA LEGGE SVUOTACARCERI”
Alessandro Sallusti resta ai domiciliari.
Lo ha deciso il giudice della Sorveglianza di Milano, Guido Brambilla, che ha respinto l’istanza presentata sabato scorso con la quale la difesa del giornalista chiedeva che scontasse la sua pena a 14 mesi di detenzione in carcere.
Il direttore de Il Giornale, condannato per diffamazione, aveva dichiarato di volere andare in prigione.
Una sfida nei confronti dei magistrati che, a suo dire, avrebbero dovuto comprendere che un giornalista non può finire in carcere per quel reato.
L’impegno della politica per evitarglielo aveva prodotto una riforma della legge sulla diffamazione che prevedeva la privazione della libertà per i soli cronisti salvando i direttori, ma dopo le proteste della Fnsi — con sciopero indetto e poi sospeso – il testo è stato definitivamente affossato in Senato.
Secondo il giudice il giornalista deve stare ai domiciliari anche contro la sua volontà : “La legge svuotacarceri (ex legge 199, ndr)è uno strumento deflattivo che opera indipendentemente da una specifica istanza di parte e che deve essere disposto ogni qualvolta ne ricorrano i presupposti di legge”.
Per questo, scrive il magistrato della sorveglianza Guido Brambilla, i domiciliari per Alessandro Sallusti devono essere applicati anche in opposizione a quanto desiderato dal detenuto.
L’espiazione della pena presso il domicilio “ex legge 199 – scrive il giudice — non rientra nel novero delle misure alternative in senso stretto (cui l’istante ha inteso rinunciare) ma costituisce un istituto adottato dal legislatore per fare fronte a superiori esigenze deflattive imposte dal sovraffollamento inframurario, al fine di garantire così una migliore organizzazione degli istituti di pena a beneficio dell’intera popolazione carceraria”.
Il direttore del quotidiano di via Negri spiegava nell’istanza respinta di non aver “richiesto alcun beneficio o misura alternativa” e che “il mio caso” è “stato additato dalla stampa quale frutto di una condizione privilegiata rispetto a quella di altri condannati verso i quali l’applicazione della detenzione domiciliare non è stata richiesta o concessa”
Il 6 dicembre Sallusti subirà un processo per direttissima perchè il 1° dicembre ha lasciato la sua abitazione andando nella redazione del quotidiano, in via Negri, dopo essere stato prelevato dalla sede del Giornale e portato a casa di Daniela Santanchè. Subito dopo l’evasione Sallusti è stato arrestato.
E per questo rischia una condanna da 1 a 3 anni di reclusione per il reato di evasione.
Dal provvedimento del giudice Brambilla si evince che durante la sua detenzione domiciliare Alessandro Sallusti potrà scrivere e telefonare.
Il giornalista potrà uscire, inoltre, dalle 10 alle 12 di ogni giorno per “soddisfare le indispensabili esigenze di vita”.
In più non potrà ricevere persone diverse dai propri familiari e, oltre alle prescrizioni di routine come il divieto di detenere in casa sostanze stupefacenti, armi o frequentare pregiudicati, avrà l’obbligo di garantire l’accesso delle forze dell’ordine per gli eventuali controlli.
Infine, qualsiasi deroga, come andare in ufficio o in ospedale per visite, dovranno essere chieste al magistrato di sorveglianza.
Lo scorso 26 settembre la V sezione penale della Corte di Cassazione lo aveva condannato in via definitiva.
L’articolo al centro delle vicenda, era firmato Dreyfus ovvero il parlamentare Renato Farina autosospesosi dopo che l’ordine dei giornalisti aveva valutato la sua radiazione per aver aiutato il Sismi ad avere informazioni sul caso Abu Omar.
In quel testo si scriveva che un giudice aveva obbligato una ragazzina ad abortire. Notizia falsa e mai rettificata.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 4th, 2012 Riccardo Fucile
I RENZIANI: “NESSUN CENCELLI, MA OCCORRE UN ASSETTO CHE RICONOSCA CHE VALIAMO IL 40% DEL PARTITO”
Due partiti? L’ennesima scissione? Ipotesi sciagurata.
È evidente che c’è una voragine programmatica e di contenuti tra l’idea di Pier Luigi Bersani e quella di Matteo.
Il sindaco vorrebbe un partito aperto alla ricerca di nuovi consensi nella società italiana, superando i tradizionali confini della sinistra”.
Fa gli scongiuri Giorgio Tonini e si rassicura: “Il vincitore delle primarie saprà trovare una sintesi”.
Ma per lui, che è stato uno dei sostenitori della prima ora del partito liquido di Walter Veltroni, adesso tra i pochi parlamentari (sette deputati e quattro senatori) ad aver abbracciato la causa rottamatrice, “la situazione è preoccupante, perchè sul concetto di innovazione le parole di Bersani sono troppo timide”.
Mentre il segretario parla di “Renzi nello squadrone come gli altri”, i renziani ora batteranno cassa: “Non buttiamola in vacca, è chiaro che darci una rappresentanza numerica nelle candidature, per tradurre il 40 per cento di Matteo in atto pratico è la cosa più facile, ma l’argomento non deve essere svilito in metodi da manuale Cencelli, si tratta di definire l’assetto di battaglia in vista delle politiche, ecco”.
A Firenze il sindaco Matteo Renzi sceglie il basso profilo, almeno per un po’ si arroccherà nel Palazzo Vecchio, per governare una città che ne ha bisogno.
Ieri in ufficio fin dal primo mattino, si contraddice con l’annuncio di non partecipare al Consiglio comunale, per la tredicesima volta consecutiva dal 10 ottobre scorso: “Ho già tanti appuntamenti fissati per questo pomeriggio”.
Tanto che se a livello nazionale qualcuno dovrà fare la sintesi, a Firenze il gruppo del Pd è già spaccato, con la consigliera Cecilia Pezza che prende la parola per attaccare il suo sindaco: “Spero che possa apparire presto, visto che sono tre mesi che diserta l’aula. La questione sta diventando di una gravità eccezionale”.
Eppure i sette possibili dissidenti (su 24 democratici) in Consiglio comunale non preoccupano più di tanto le notti del sindaco e dei suoi.
Che, comunque, contano di riprendersi la scena nazionale con prepotenza nei prossimi mesi; Simona Bonafè, portavoce della campagna “Adesso”, ritorna anche lei in municipio, quello di Scandicci, dove fa l’assessore, ma continuerà a tenere le redini dei quasi duecento comitati nati in tutta Italia per sostenere il Rottamatore: “È una rete importantissima. Dobbiamo capire come Bersani intenda dar valore a questo patrimonio che è la base del 40 per cento ottenuto a queste primarie. Non sarà mai una corrente o una correntina, ma bisogna tenere presente che questi comitati ci sono. La segreteria nazionale del Pd non potrà certo negarne l’esistenza”.
Quella è la base, quindi, ma il braccio armato di Renzi, chi tratterà con Bersani — al di là del già promesso pranzo dove i due si confronteranno direttamente — sarebbero appunto gli undici parlamentari democratici entrati in orbita renziana (i senatori Stefano Ceccanti, Enrico Morando, Pietro Ichino e Giorgio Tonini e i deputati Andrea Sarubbi, Salvatore Vassallo, Giuseppina Servodio, Alessandro Maran, Paolo Gentiloni, Mario Adinolfi e Roberto Giachetti).
Loro sarebbero “l’avanguardia”, secondo l’auto-definizione di Mario Adinolfi, l’ex vicedirettore di Red tv (la televisione dalemiana, ormai chiusa, che nacque in contrapposizione alla veltroniana Youdem): “Non ci aspettiamo premi, è un’esigenza di Bersani considerare questo 40 per cento. Renzi, il nostro leader, ormai è in prima linea. Ma dopo neppure un’ora dalla vittoria del segretario, in televisione sono ricomparse le facce di Massimo D’Alema e Rosy Bindi. Cominciamo male”. Adinolfi sogna già in grande: “Sono a disposizione, sarei un ottimo ministro delle comunicazioni”
Si tradurrà in questo l’auspicio del sindaco Renzi: “Chi ha vinto ha l’onore e l’onere di rappresentare anche gli altri, senza alcun inciucio e impiccio. Chi ha perso deve dimostrare di saper vivere la dignità e l’onore proprio quando la maggioranza sta da un’altra parte”.
Intanto incassa una lettera di Carlo De Benedetti, il patron del Gruppo Espresso: “Avendolo dichiarato lei sa che ho votato Bersani, ma le riconosco il merito di avere, con questa sua candidatura, aperto in modo importante con queste primarie la stagione delle primarie vere e di aver fatto un ottimo lavoro a favore del futuro successo elettorale del Pd. Non mancherò di farlo notare”.
Al fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari? Al direttore Ezio Mauro?
O allo stesso Bersani, rivendicando il potere e l’influenza della famosa tessera numero uno del Pd, la sua.
Giampiero Calap�
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 4th, 2012 Riccardo Fucile
L’USCITA A 66 ANNI E 3 MESI, IL LIMITE DEI 70 ANNI… CHI VORRA’ POTRA’ LAVORARE FINO A 75 ANNI… GLI ESODATI E LE VECCHIE REGOLE
Ancora per un po’ il vecchio regime pensionistico e quello nuovo introdotto dalla riforma Fornero convivranno.
Poi finiremo tutti per essere proiettati in un sistema che ci riserverà non poche sorprese.
Solo per dirne una: se uno vorrà , potrà lavorare, in prospettiva, fino a 75 anni e più. Forse un’opportunità per alcuni (pochi), un incubo per le aziende.
I REQUISITI
Ma andiamo con ordine.
Per tutto il 2012 sono andati in pensione coloro che avevano maturato i requisiti nel 2011 (prima della riforma) ma che dovevano aspettare la cosiddetta «finestra mobile»: 12 mesi per i lavoratori dipendenti, 18 per gli autonomi.
E quindi per questi ultimi il vecchio regime finirà a giugno prossimo.
Poi, ancora per qualche anno, ci trascineremo gli «esodati», i lavoratori che, per evitare restino senza reddito, potranno andare in pensione con le vecchie regole (130 mila i soggetti salvaguardati finora dal governo, ma potrebbe essere necessario ampliare la platea).
LE NOVITA’
Col 2013, però, la riforma Fornero comincerà a prendere il largo, comprese quelle novità già introdotte sotto il governo Berlusconi, come l’adeguamento di tutte le età pensionabili alla speranza di vita.
La conseguenza sarà un aumento incredibile dell’età necessaria per lasciare il lavoro, con effetti che finora sono stati trascurati ma che potrebbero creare problemi alle aziende e ai giovani in cerca di occupazione.
Al lavoro a 75 anni?
Il combinato disposto della riforma e degli adeguamenti alla speranza di vita fa sì che il lavoratore, dal 2013, possa scegliere di restare in attività fino a 70 anni e 3 mesi senza essere licenziato (70 anni nel 2012), cioè 4 anni in più della soglia normale di accesso alla pensione di vecchiaia.
La legge prevede espressamente anche in questo caso la tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (anche se poi è stato attenuato dalla legge 92 del 2012).
FINO A 75 ANNI
Prima della riforma, invece, si poteva restare fino a 65 anni e dopo l’azienda poteva licenziare. Non solo.
Questo tetto salirà , per effetto degli adeguamenti automatici fino a 75 anni e 3 mesi nel 2065, applicando le stime contenute nell’ultimo rapporto della Ragioneria generale dello Stato sugli scatti in relazione alle previsioni di allungamento della vita elaborate dall’Istat.
In pratica, un giovane che è nato nel 1990, cioè che ha 22 anni e cominciasse a lavorare adesso, potrebbe appunto restare in attività fino a 75 anni.
Possibile? Forse si può immaginare per lavori di concetto (difficile per un manovale, un autista, un chirurgo).
La riforma, comunque, incoraggia la permanenza al lavoro prevedendo un coefficiente di calcolo della pensione più alto per chi lascia a 70 anni (prima i coefficienti si fermavano a 65), senza considerare che accumulando più contributi l’assegno sale, visto che dal 2012 è scattato il contributivo pro-rata per tutti.
FINE DELLE ANZIANITA’
La pensione «per stakanovisti», la chiama Angelo Raffaele Marmo in un libro che esce oggi, “Le nuove pensioni” (Oscar Mondadori).
Lungo 400 pagine ricche di tabelle ed esempi, Marmo, direttore generale della comunicazione del dicastero del Lavoro, già portavoce del ministro Sacconi, da esperto della materia qual è, conduce per mano il lettore in tutti i segreti della riforma. E anche se il volume non contiene valutazioni, ma solo spiegazioni, suscita inevitabilmente alcuni interrogativi
A mettere in moto l’ascesa senza fine dell’aumento di tutte le età pensionabili è la regola dell’adeguamento alla speranza di vita, inventata da Sacconi e Tremonti nel 2011 e poi accelerata da Fornero (dal 2019 ogni due anni e non più ogni tre).
Così, dal prossimo gennaio scatterà la prima di queste correzioni, che allontanerà per tutti di tre mesi il traguardo.
Per andare in pensione di vecchiaia ci vorranno come minimo 66 anni e 3 mesi per i dipendenti pubblici e privati e per gli autonomi (contro i 66 anni del 2012). Stessa cosa per le dipendenti pubbliche.
PRIVATI IN VANTAGGIO FINO AL 2018
Potranno invece lasciare il lavoro a 62 anni e tre mesi le dipendenti privati: un vantaggio che si esaurirà nel 2018, quando il limite minimo sarà , per tutti i lavoratori, di 66 anni e 7 mesi.
Da gennaio salirà anche la soglia per accedere alla pensione d’anzianità , che la riforma ribattezza «anticipata»: 42 anni e 5 mesi per gli uomini e 41 anni e 5 mesi per le donne.
E se uno uscirà prima di aver raggiunto 62 anni d’età subirà pure un taglio dell’assegno: dell’1% per ogni anno fino ai primi due, poi del 2%.
Salirà di tre mesi, infine, il tetto per la pensione degli stakanovisti: da 70 anni nel 2012 a 70,3, appunto.
Giovani e flessibili
La stessa riforma prevede però una importante novità per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1995 e sta quindi tutto nel regime contributivo, concedendo la possibilità di accedere alla pensione di vecchiaia con tre anni di anticipo: a 63 anni, che saliranno a 63 anni e tre mesi dal prossimo gennaio (che aumenteranno fino a 68,3 nel 2065). Quindi per i giovani di fatto c’è una fascia flessibile di pensionamento a scelta tra 63 e 70 anni, con l’assegno tutto calcolato sulla base dei contributi versati. Un sistema più equo e sostenibile.
LA CRISI E I GIOVANI
Più in generale, un aumento dell’età pensionabile era certamente necessario.
Ma quando questo accade in un periodo di crisi come l’attuale le conseguenze sui giovani possono essere negative.
Lo ha spiegato, qualche giorno fa, Carlo Dell’Aringa, esperto di mercato del lavoro, commentando sul Sole 24 Ore il dato record sulla disoccupazione giovanile (36,5%): «A fronte di un livello dell’occupazione che ristagna da due anni, abbiamo avuto un aumento di quasi mezzo milione di occupati tra i 56 e i 66 anni. Ecco perchè i giovani non entrano».
Considerazioni che paiono ovvie, mentre solo qualche anno fa molti economisti sostenevano non ci fosse alcuna correlazione tra aumento dell’età pensionabile e disoccupazione giovanile.
La realtà , invece, è più complessa.
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera“)
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Dicembre 4th, 2012 Riccardo Fucile
INVITATI (PAGANTI) IMPRENDITORI E FINANZIATORI ALLA RACCOLTA FONDI PER L’EX SINDACALISTA… UNO SCHIAFFO A CHI NON ARRIVA A FINE MESE
Cena di raccolta fondi per Città Nuove di Renata Polverini.
Nella splendida cornice di Villa Miani, alle ore 20 di lunedì sera, sono cominciate ad arrivare le automobili degli imprenditori-finanziatori.
Il presidente dimissionario della Regione è arrivata alle 20,30.
Come sempre nelle cene di finanziamento, il conto è salato: mille euro a persona.
E nascono sempre polemiche sulla opportunità dei politici di dare questa immagine di sfarzo e opulenza alle proprie iniziativa, in un momento in cui tante famiglie italiana non riescono ad arrivare a fine mese e oltre 8 milioni di connazionali vivono sotto la soglia di povertà .
Sono giorni decisivi per la scelta del candidato Pdl alla Regione: da una parte proprio Renata Polverini che pare sul punto di ricandidarsi, dall’altra Francesco Storace, leader de La Destra.
I due si incontreranno martedì mattina. Francesco Storace – che ha dato tempo al Pdl fino a domenica per decidere la sua candidatura alla presidenza regionale – rilancia: «Facciamo le primarie, io accetto anche la formula che penalizza di più il mio partito. Ma devono decidersi entro domenica, il mio tempo sta scadendo».
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Dicembre 4th, 2012 Riccardo Fucile
IN EMILIA, ALLA CENA NATALIZIA DEGLI ISCRITTI, SAMORI’ IMPROVVISA UN PICCOLO COMIZIO E BERSELLI E L’EX MINISTRO TENTANO FISICAMENTE DI FERMARLO
Volano gli stracci in casa Pdl tra l’avvocato modenese Gianpiero Samorì e i senatori Filippo Berselli e Carlo Giovanardi.
Tanto che durante la tradizionale cena di Natale che si è svolta al ristorante ‘Il Villaggio’ di Formigine, invece del consueto scambio d’auguri s’è sfiorata la rissa.
Il casus belli che ha dato il via a “un acceso scambio di opinioni” tra i parlamentari emiliano romagnoli e il candidato alle primarie del Popolo della Libertà è stata la decisione di Samorì di tenere “un comizio”, come lo definisce proprio Giovanardi, durante un’occasione deputata esclusivamente “alla convivialità ” e alle celebrazioni delle prossime festività .
“Il coordinatore regionale del partito, Berselli, aveva chiaramente detto che la cena avrebbe dovuto essere un momento di condivisione, e non uno spazio per aprire un confronto tra i candidati alle primarie — critica Giovanardi — invece Samorì ha insistito per parlare del suo programma, una decisione del tutto fuori luogo”.
Tanto più che durante l’imprevisto discorso il leader del Mir, i Moderati italiani in rivoluzione, non solo ha ribadito la necessità di operare un forte rinnovamento nel partito, ma ha anche invitato Giovanardi e Berselli a tenersi pronti ad essere rottamati visto che appoggiano Alfano e “rappresentano il vecchio”.
Secondo quanto riportato da alcune persone presenti in sala, Berselli e Giovanardi, a quel punto, hanno tentato di “zittire il banchiere non solo con le parole”, ma a “spintoni”. I tre si sono “tirati per la giacca”, e secondo gli invitati alla cena, Giovanardi e Samorì sono arrivati persino a “prendersi per il collo”.
“Non è la prima volta — raccontano i militanti del Pdl — litigano ogni volta che si incontrano al coordinamento e questa volta hanno alzato le mani”.
“Hanno discusso animatamente tutta la sera — spiega un pidiellino — ma quando Samorì ha insistito per parlare, quando i suoi sostenitori hanno iniziato a chiamarlo a gran voce, la discussione è degenerata”.
Anche se all’indomani della bagarre si cerca di gettare acqua sul fuoco.
“Non c’è stata nessuna rissa, sono solo illazioni — spiega Giovanardi — sì abbiamo discusso un po’ ma poi alla fine ci siamo chiariti: abbiamo parlato a turno, e poi abbiamo cantato tutti insieme ‘Tu scendi dalle stelle’, con le candeline accese. C’erano 500 persone sedute in sala, se ci fossimo messi le mani addosso qualcuno se ne sarebbe accorto”.
“E’ stato solo un vivace contrasto verbale tra Giovanardi e Samorì dove io ho fatto da mediatore, anche perchè la faccenda non mi riguardava — commenta anche Berselli —. Poi se qualcuno mi ha tirato per la giacca non me ne sono accorto. Ribadisco — ha aggiunto — che quella non era la sede per un comizio elettorale, capisco che Samorì sia candidato alle primarie ma a cena non si parla di politica”.
Più cauto nel riportare i fatti Emilio Nannini, consigliere Pdl di Maranello, che alla stampa locale ha riferito: “Io non so chi ha preso per il collo chi. Ero alla cassa e ho visto solo che a un certo punto si sono allontanati per discutere”.
Resta il fatto che sull’avvocato modenese Giovanardi non ha dubbi e non risparmia le critiche. “Un conto è essere un bravo avvocato, un conto è dire ‘voglio fare il Presidente del Consiglio’. E’ un’aspirazione assolutamente sopra le righe”.
Per il senatore ex Dc, cofondatore del Popolo della Libertà , l’unico candidato possibile per la Presidenza del consiglio dei ministri, del resto, è Angelino Alfano. “Un giovane che ha fatto esperienza”. L’attuale segretario del partito azzurro “è stato ministro, parlamentare, ora dirige un partito: Samorì invece che cosa ha fatto?”.
Non è certo come Silvio Berlusconi, “che nel 94′, pur non avendo mai fatto politica, si è candidato perchè in Italia era già conosciuto, o come Luca Cordero di Montezemolo, altrettanto noto agli italiani. Samorì chi lo conosce?”.
Annalisa Dall’Oca
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 4th, 2012 Riccardo Fucile
MOVIMENTO O SETTA?
Quando uno alza i toni, poi non si sa mai dove si va a finire.
E evidentemente i toni di Grillo hanno la capacità di richiamare più di uno squilibrato. Tanto che sul profilo Facebook di Federica Salci, rimproverata pubblicamente da Grillo per aver partecipato a una trasmissione di Ballarò, sono cominciati a piovere messaggi minacciosi.
”Prego per la tua morte politica e no”. E’ una delle minacce postate sulla pagina Facebook di Federica Salsi, la consigliera comunale a 5 Stelle nel mirino di Grillo dopo la partecipazione a Ballaro’.
Minacce che l’hanno spinta a presentare una denuncia alla Procura di Bologna.
Le hanno scritto anche: ”Gentaglia che crepi alla svelta”. ”Se hai figli, glieli facciamo togliere, perche’ se non vuoi bene a Grillo allora non sei una brava donna e non sei una brava madre”.
Tanto che l’esponente del Movimento 5 Stelle bolognese ha deciso di rivlgersi alla polizia: ”Il contenuto dei commenti, per il linguaggio utilizzato volgare e scurrile, per i riferimenti del tutto indebiti alla mia famiglia e ai miei figli, per le minacce di morte in essi contenute, mi hanno profondamente turbato”, scrive la Salsi nella denuncia: ”quei commenti sono unicamente volti a ingenerare in me timore, prospettando un male ingiusto al fine di diminuire la mia libertà di pensiero e morale”.
C’è un precedente analogo, sempre a Bologna: anche Giovanni Favia, il consigliere regionale paladino della democrazia interna ‘sfiduciato’ da Grillo, fu minacciato di morte sulla sua pagina Facebook.
Con frasi come ”Diamo un senso all’inceneritore: buttiamoci Favia’, ”ti prenderemo a schiaffi”. ”Favia andrebbe sgozzato in piazza”.
Era il 13 settembre e Favia presentò denuncia ai Carabinieri di Bologna, incassando la solidarietà di tutte le forze politiche.
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Dicembre 4th, 2012 Riccardo Fucile
SONO 478 GLI IMMOBILI TOLTI ALLA CRIMINALITA’ CHE NON POSSONO ESSERE RICONVERTITI PERCHE’ ALL’INTERNO SI TROVANO PERSONE CHE NON NE HANNO TITOLO, SPESSO FAMILIARI DEI BOSS… E SU 367 AZIENDE SOLO IL 2% E’ GIA’ ATTIVO SUL MERCATO
Quando lo Stato è in difficoltà le mafie gongolano.
Succede in Campania, dove 478 beni immobili confiscati alla camorra (quasi un terzo dell’intero patrimonio immobiliare sottratto alla criminalità organizzata locale) non possono essere consegnati agli enti locali e riconvertiti a fini di pubblica utilità perchè sono gravati da ipoteca o perchè sono ancora occupati. Spesso da persone che non ne hanno titolo, spesso dagli stessi familiari dei boss.
E delle 367 aziende confiscate, soltanto il 2% è ancora attivo sul mercato: solo 8 di queste impiegano lavoratori, per un totale di 50 persone.
Così non va. Lo dice chiaramente il presidente della commissione Anticamorra del consiglio regionale della Campania, Antonio Amato: “Sono i numeri campani di un sistema che nella nostra regione e in tutt’Italia è in grande affanno e necessita interventi legislativi nazionali e un deciso cambio di passo delle istituzioni locali”. Nei giorni scorsi il report sulla situazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata campana è stato discusso in commissione con il referente napoletano dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, Gianpaolo Capasso.
Ne è uscito fuori un quadro ricco di criticità , tra fondi ai quali è difficile accedere e norme che si attorcigliano.
Risultato: ci sono 478 beni sospesi nel limbo, dei quali il 72% è ipotecato e il 42% occupato.
I numeri, ovviamente, non si sommano: ci sono immobili che sono ipotecati e occupati contemporaneamente.
E sono i più difficili da sbloccare.
In commissione Capasso afferma che “si potrebbe ipotizzare di assegnare ai Comuni in maniera provvisoria gli immobili ipotecati”.
Per vincere la riottosità delle amministrazioni comunali ad assumersi gli oneri economici legati all’ipoteca. Cosa impossibile coi conti pubblici in sofferenza.
La questione ipoteche è il problema nel problema.
Lo spiega bene Lucia Rea, direttore di un consorzio della Provincia di Napoli che si occupa di gestione dei beni confiscati: “Ne esistono di due tipi. Il primo tipo è rappresentato dalle ipoteche legali, collegate a tasse e tributi non pagati dai vecchi proprietari. Nel momento dell’affidamento all’ente locale, questo diventa ‘creditore e debitore’ di se stesso e quindi sarebbe sufficiente una sua rinuncia al credito per poter riassegnare subito il bene. Invece recentemente abbiamo perso 3 milioni di euro di fondi Pon per la sicurezza perchè i sindaci di Pomigliano d’Arco e di Villaricca non hanno rinunciato a due crediti di 10mila e 8mila euro su beni confiscati e non assegnati”.
“C’è poi il secondo tipo di ipoteca — aggiunge — Quella accesa dai boss per contrarre mutui quando intuiscono che stanno per perdere il bene, con il solo scopo di impedirne un riutilizzo futuro. Possiamo uscirne in un solo modo: destinando una parte del Fug, il fondo unico di giustizia, dove confluiscono le liquidità delle confische, per l’estinzione di queste ipoteche. E’ fattibile, perchè è un fondo pieno di soldi, e non si capisce perchè non si agisce in questa direzione”.
Del Fug ha parlato Capasso in commissione regionale: “Esiste una procedura di richiesta di questi fondi, ma è così articolata che abbiamo preferito creare una struttura per una gestione di fondi-cuscinetto che permette di tappare eventuali esigenze immediate”.
Salvatore Perrotta, l’ex sindaco di Marano, componente del consiglio direttivo di avviso pubblico, avverte: “La questione delle ipoteche è sostanziale, da primo cittadino sono stato costretto a segnalarla più volte all’Agenzia Nazionale come un ostacolo serio alla fruizione dei beni. Urge un loro intervento strutturale, unito all’istituzione di un fondo specifico da parte della Regione o dello Stato, perchè le amministrazioni comunali da sole non possono risolvere”.
Un grande buco nero è nelle aziende confiscate.
estinate inesorabilmente al fallimento.
Ne spiegò le ragioni il magistrato anticamorra Raffaele Cantone in un’intervista a ilfattoquotidiano.it: “L’impresa criminale vive, ottiene crediti e sta sul mercato per la mafiosità dell’imprenditore e la sua capacità di intimidazione. Quando poi la affidi a un amministratore giudiziario che deve rispettare le regole di mercato, mettere a posto i dipendenti, pagare le tasse, non regge più. Bisogna studiare agevolazioni fiscali e contributive per le imprese sottratte alla criminalità organizzata”.
A questo si aggiunge che in Campania non esistono cooperative di lavoratori per la gestione diretta dei beni confiscati attraverso la destinazione per fitto a titolo gratuito. Un modello di business sperimentato con successo altrove.
Una recente legge campana prevederebbe premialità per le coop in grado di accedere alla gestione dei beni confiscati. Per ora è solo una speranza.
La legge è sostanzialmente inattuata, perchè i fondi regionali latitano.
E non è un dettaglio da poco l’ingloriosa fine del patrimonio automobilistico e motociclistico tolto ai camorristi. “Numeri stratosferici” dice Capasso.
Nell’ordine delle migliaia.
Ma siccome ci vogliono in media sette anni tra il sequestro e la confisca, nel frattempo le macchine marciscono nei depositi giudiziari.
I cui proprietari alla fine presentano parcelle per importi di molto superiori al valore del veicolo deteriorato.
Ad aggravare il tutto, una tara nella legge che consente di consegnare queste auto solo alle forze dell’ordine e non ai Comuni o alle Province.
“Una cosa incomprensibile” commenta Amato.
Purtroppo non è l’unica.
Vincenzo Iurillo
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 4th, 2012 Riccardo Fucile
NON RUBANO LAVORO A NESSUNO E RAPPRESENTANO UNA IMPORTANTE FETTA DELL’ECONOMIA
Chiediamo scusa ai leghisti, ma la notizia purtroppo è questa: “Oltre 2 milioni di contribuenti nati all’estero nel 2010 hanno pagato 6,2 miliardi di euro di imposta netta. In termini percentuale, gli stranieri rappresentano il 6,8 per cento del totale dei contribuenti italiani e l’ammontare totale delle tasse che pagano costituisce il 4,1 per cento dell’ imposta netta pagata complessivamente in Italia. Se, rispetto al 2009, i contribuenti stranieri sono diminuiti dell’1 per cento, l’ammontare dell’imposta da loro pagata è invece aumentata del 4,3 per cento”.
Parole e numeri della Fondazionene Moressa che analizza i temi dell’economia applicati all’immigrazione.
Cifre e percentuali che dicono una cosa sola: il tessuto sociale di chi ha scelto il nostro Paese per vivere e lavorare è più sano di quello indigeno, perchè – in tempi difficili – gli extracomunitari sono riusciti ad aumentare il loro gettito fiscale mentre noi italiani stiamo calando vistosamente nella performance.
La maggioranza dei contribuenti stranieri si concentra in Lombardia (21,1 per cento), in Veneto (11,9 per cento) e in Emilia Romagna (11,1 per cento).
E assicura un bel po’ di soldini: la Lombardia è quella che presenta il gettito più alto (oltre 1,6 miliardi di euro), seguita dal Lazio (746 milioni) e dal Veneto (644 milioni). Ma chi sono questi pagatori di tasse?
I rumeni risultano i primi sia come soggetti che pagano l’imposta netta, sia per l’ammontare totale: il 18 per cento di tutti i contribuenti nati all’estero proviene dalla Romania, e sono loro a garantire il 10,3 per cento di tutta l’Irpef pagata dagli stranieri. I secondi in termini di provenienza sono gli albanesi, seguiti dai marocchini.
Sono dati che confermano quanto già autorevolmente dimostrato qualche giorno fa da Francesco D’Amuri, ricercatore di Bankitalia, e Giovanni Peri, dell’University of California.
I due studiosi hanno calcolato che tra il 1996 e il 2010 i lavoratori stranieri entrati nei 15 principali Paesi dell’Europa Occidentale sono quasi raddoppiati (passando così dall’8 per cento della forza lavoro nel 1996 al 14 per cento nel 2010).
E, per una volta, la vecchia Europa ha superato l’America, visto che negli Stati Uniti i lavoratori nati all’estero erano il 6 per cento nel 1998 e sono diventati il 12,9 per cento nel 2010.
Conseguenze positive del fenomeno: secondo Bankitalia gli italiani sono stati spinti verso occupazioni più qualificate guadagnandoci perfino un qualcosina in più, lo 0,7 di stipnedio aumentato in busta paga.
Certo altri paesi Ue hanno ottenuto vantaggi più seri per i propri lavoratori: più il mercato è flessibile e meritocratico, più la competenza sale e viene premiata in solido. Gli immigrati sono quindi una cartina di tornasole per l’efficienza del sistema, oltre che un pezzo già insostituibile del nostro avvizzito monte fiscale.
Chiara Paolin
(da “il Fatto Quotidiano”)
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