Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile
“NOI CATTOLICI-DEMOCRATICI SIAMO FONDAMENTALI: GRAZIE AL NOSTRO RADICAMENTO, BERSANI HA TRIONFATO NEL CENTRO-SUD”
Onorevole Fioroni, lei era uno di quelli che a sentir parlare di primarie storceva il
naso…Si è ricreduto?
«Sì, devo dire bravo a Bersani. Con tutti questi votanti abbiamo fatto un favore alla democrazia di questo Paese. E’ stato un risultato senza se e senza ma così ampio che non consente alcun tipo di recriminazione. Bersani ha vinto ovunque, e in tutto il Centro Sud viaggia intorno al 70%»
D’accordo, il ballottaggio ha premiato Bersani. Ma non può negare che Renzi abbia ottenuto un risultato importante…
«Certamente. Ma noi siamo un Paese dalla memoria corta. Alle primarie del 2009 fra Bersani e Franceschini andarono a votare 700 mila italiani in più, e Franceschini prese gli stessi voti di Renzi. Io credo che il risultato di Renzi sia un dato importante e significativo come lo fu allora quello di Franceschini. Ma è un dato che fa parte del fisiologico confronto democratico».
Adesso è partita la gara per riallacciare i rapporti con il sindaco di Firenze. Persino D’Alema ha detto: «Adesso dobbiamo collaborare con Renzi». Lei che fa?
«Non è una questione personale. Io provo affetto per Matteo e domenica gli ho scritto un messaggio per complimentarmi con lui: è stato bravo a riconoscere la sconfitta. Queste primarie hanno fatto bene anche a lui, l’hanno fatto crescere, altro che ragazzetto. Siamo entrambi scout e gli ho fatto i migliori auguri per il suo cammino umano e politico, che è solo all’inizio. Adesso però, come abbiamo fatto noi sostenitori di Franceschini dopo la sconfitta del 2009, deve mettersi a disposizione e lavorare per il bene di tutto il partito. Nel 2009 noi non abbiamo pietito nulla ed io personalmente feci la stessa scelta di Matteo oggi».
Domenica sera lei era al teatro Capranica di Roma a festeggiare Bersani. Il segretario prima ha parlato di «predisporre i percorsi e gli spazi per le nuove generazioni», poi ha fatto salire sul palco tre under 40 del suo staff. Teme che adesso Bersani porti avanti, pur con tutte le differenze del caso, la «rottamazione» proposta da Renzi?
«Faccio politica da un po’ meno anni di Bersani. E credo che anche Pier Luigi non ami la rottamazione perchè rottamare significa mantenere il Porcellum piuttosto che cambiare la legge elettorale. Io credo che sia molto più democratico dare la possibilità ai cittadini di decidere con le preferenze. Dopodichè non dobbiamo dimenticarci che il confronto fra Renzi e Bersani si è giocato tutto sull’asse lib-lab. Mentre la dialettica di un grande partito popolare come il Pd ha bisogno anche di un centro cattolico-democratico che, anche in queste primarie, ha dimostrato di essere una componente molto radicata e presente sul territorio, soprattutto nelle regioni dove Bersani è andato meglio».
E se alla fine rimanesse il Porcellum? Non teme di finire rottamato anche lei?
«È una subordinata che non voglio prender in considerazione perchè mantenere il Porcellum sarebbe il fallimento di un’intera classe politica».
Qualcuno comincia a vociferare di un accordo fra Bersani e Renzi. Cosa ne pensa?
«Il segretario è libero di fare ciò che vuole. Ma il problema adesso è fare tutto ciò che occorre per vincere le elezioni. Mettere in piedi il gossip del mercato dove c’è chi compra e chi vende, però, va in un’altra direzione: danneggia Renzi, danneggia Bersani e in definitiva tutto il centrosinistra».
Francesco Moscatelli
(da “La Stampa“)
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Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile
SONO 96 AZIENDE CHE RAPPRESENTANO 160 MILIARDI DI EURO
Il capitalismo senza capitali fa ancora tendenza a Piazza Affari.
A confermarlo è il Rapporto 2012 sulla governance delle società quotate redatto dalla Consob.
Nell’analisi degli assetti proprietari dell’autorità di vigilanza sui mercati emerge che più della metà del valore espresso dal listino milanese è controllato da “un singolo azionista che è in grado di esercitare un’influenza dominante sull’assemblea ordinaria” seppure con una quota di azioni inferiore al 50%, oppure da un patto di sindacato.
Cioè un accordo tra azionisti di minoranza.
Nel dettaglio, si tratta di 96 società , che hanno un valore pari al 55% della Borsa italiana, contro 125 aziende (con un peso di appena il 25,5% sul valore totale del listino) che hanno come riferimento un solo socio con più della metà del capitale nel proprio portafoglio.
Detto in soldoni, infatti, le 96 aziende in questione rappresentano più di 160 miliardi di euro e sono evidentemente le imprese italiane di dimensioni medio-grandi.
Fra queste quelle controllate dallo Stato (Eni, Enel) con quote attorno al 30%, ma anche grandi gruppi privati come Rcs Mediagroup, il cui maggiore socio è l’imprenditore della sanità Giuseppe Rotelli che, con una quota superiore al 16,5%, non ha accesso al patto di governo della società cui aderiscono, tra gli altri, Mediobanca (14,2%), Fiat (10,49%), i Pesenti (7,74%), Pirelli (5,11%) e Intesa (5,06%).
Rcs, casa editrice del Corriere della Sera, non è naturalmente un caso isolato.
Basti pensare che la famiglia Agnelli controlla la Fiat, attraverso la holding Exor, con il 30,55 per cento. O ancora che i Berlusconi detengono il potere di Mediaset con il 40% del capitale.
Anche se il caso più emblematico resta sempre quello di Pirelli, che è controllata da Marco Tronchetti Provera attraverso una catena di scatole e patti di sindacato, non sempre felici, con un investimento effettivo solo sul 6% circa del capitale del gruppo degli pneumatici.
Per non parlare del fatto che società strategiche come Telecom Italia siano controllate da una holding che si chiama Telco, composta dalla spagnola Telefonica e da un pool di banche, che ha appena il 22,45% del capitale.
Esempi che evidentemente fanno proseliti dal momento che se nel 1998 le aziende controllate da un socio “influente”, ma non maggioritario, o governate da un patto erano 62, oggi invece, come si rileva Consob, sfiorano il centinaio, mentre restano sostanzialmente stabili le imprese con un solo azionista forte con un capitale sopra il 50% (dalle 122 del 1998 alle 125 attuali).
Segno insomma che se il capitalismo che mette i soldi di tasca propria non si muove di tanto, quello senza capitali, fatto di patti e di influenze avanza sul listino milanese. E del resto una conferma viene anche dalle cronache finanziarie che registrano sempre più numerose battaglie combattute a Piazza Affari a suon di ricorsi e carte bollate. Qualche esempio?
La lunga guerra su Impregilo che vede scontrarsi le famiglie Gavio e Salini, entrambe con una quota sotto il 30 per cento, nonchè il match in corso fra Vittorio Malacalza e Tronchetti Provera per il controllo della Camfin che a sua volta ha in mano Pirelli. Due episodi che mostrano l’interesse dei finanzieri-imprenditori italiani per l’industria.
Una passione che la Consob stessa evidenzia nel suo report sottolineando che nel segmento industriale prevale il modello di controllo delle società di “fatto e di patto” (51 imprese) contro 20 esempi del settore finanziario e 28 dei servizi.
Le tensioni societarie non hanno però impedito il moltiplicarsi delle poltrone: Consob rileva che, rispetto al 2008, il numero medio dei componenti del consiglio nelle società quotate è salito da 9,9 a 10,2.
Sono aumentati anche i membri dei consigli di sorveglianza (da 12,4 a 14,3), mentre hanno segnato un lieve calo i componenti del comitato di gestione che scendono a 6,5 da 7,7.
Da segnalare infine che, nonostante la crisi delle banche e delle assicurazioni, anche nel 2012 i consigli di amministrazione del settore finanziario sono i più popolati con una media di 12,4 consiglieri e un picco massimo di 25 componenti.
Un dato che si scontra con un più sobrio comparto industriale (9,2 membri è la media con un massimo di 22 persone).
Numeri che danno da pensare se confrontati soprattutto con i risultati del comparto finanziario quotato a Piazza Affari.
Costanza Iotti
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Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile
PEDEMONTANA, TEM E BREBEMI IMPANTANATE E SENZA FONDI… SALE LA PRESSIONE DELLE BANCHE
Dovevano essere il fiore all’occhiello da esibire per l’apertura di Expo 2015. 
La dimostrazione che dopo anni di annunci a vuoto della politica, intoppi burocratici, incapacità a predisporre piani finanziari sostenibili, è ancora possibile realizzare opere infrastrutturali ambiziose.
Invece, nella ricca Lombardia e in sincrono con il flop della quotazione di Sea, si sta consumando l’ennesimo fallimento: i cantieri di Pedemontana, Tem e Brebemi, tre nuovi tratti autostradali che — sulla carta — dovrebbero fluidificare il traffico attorno a Milano rischiano lo stop dove i lavori sono in corso, o di non partire nemmeno.
Un danno anche per il settore grandi opere, dove i 10 miliardi di spesa preventivata erano attesi come manna da decine di società già provate da quattro anni di recessione e dal crollo degli investimenti pubblici.
Molteplici le cause.
L’ultima in ordine di tempo è il fallimento dell’asta per privatizzare la Serravalle, dove Comune e provincia di Milano hanno cercato di vendere l’80% della società che gestisce le tre Tangenziali attorno al capoluogo e il primo tratto dell’Autofiori. Un’azienda che fino a un anno fa era una macchina da soldi (17 milioni l’utile 2011) ma ora è oberata da scadenze finanziarie difficilmente sostenibili; tanto che qualche consigliere di amministrazione sta pensando di metterne in forse la continuità aziendale.
Il fatto è che Serravalle è il perno attorno cui ruotano i tre progetti sotto accusa: controlla il 68% di Pedemontana (superstrada che attraversa le province lombarde da Varese a Brescia), il 38% della Tem (che corre esterna alla Tangenziale Est, la più trafficata) e l’8% della Brebemi (autostrada da Milano a Brescia che passa a Sud dell’A4).
Delle tre infrastrutture è in realizzazione il primo tratto di Pedemontana, mentre di Tem è iniziata la cantierizzazione.
Per completare la struttura finanziaria sono stati sottoscritti prestiti ponte con le banche che dovrebbero essere garantiti da aumenti di capitale delle società controllate, che Serravalle non può sostenere perchè la Provincia, socio sopra il 50%, non ha i fondi.
Anzi, dopo il fallimento della quotazione di Sea, da cui sperava di realizzare almeno 80 milioni cedendo il suo 14% degli aeroporti di Linate e Malpensa, ora l’ente rischia di sforare il patto di stabilità e di essere commissariato.
Se la gara della Serravalle fosse andata in porto, sarebbero stati i privati ad accollarsi i rifinanziamenti con le banche, per un totale di 500 milioni per le tre opere.
Ma questo onere, aggiunto al fatto che la base d’asta di 670 milioni è stata considerata dagli operatori — dai Benetton a Gavio – troppo alta, ha fatto saltare l’operazione.
Inevitabili le conseguenze negative.
L’urgenza è soprattutto finanziaria.
I creditori hanno chiesto il rientro del prestito ponte da 200 milioni a Pedemontana. Tem ha tempo solo fino ad aprile per trovare le risorse che garantiscano il prestito da 120 milioni.
Mentre Brebemi è appesa alle garanzie fornite da Sace alla Banca europea degli investimenti che inietterà 1,6 miliardi per far decollare l’opera.
A complicare tutto si assiste a uno scontro tra politica e manager.
Da Pedemontana si sono dimessi prima il presidente Bruno Soresina, ex numero uno di Atm Milano, poi il dg.
In Tem i soci di controllo hanno chiamato l’assemblea per estromettere l’ad Antonio Marano, ex dirigente Unicredit indicato dai privati.
Per tutti l’accusa è non aver seguito le indicazioni degli azionisti, di fatto opponendosi a consulenze e assunzioni indicate dai politici.
Luca Pagni
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 5th, 2012 Riccardo Fucile
LA CORSA ALLE PRIMARIE REGIONALI DEL CENTROSINISTRA IN LOMBARDIA ENTRA NEL VIVO
Questa volta non ci saranno polemiche sugli elettori «irregolari» respinti ai seggi. Anche perchè non bisognerà registrarsi e il secondo turno non è neanche previsto. Questa è una delle poche certezze, assieme al numero degli aspiranti governatori in corsa: tre.
Tutto il resto è una sfida che, dopo un avvio sonnacchioso e dopo aver messo in archivio le primarie nazionali, promette ora nuove scintille.
Per tutti gli elettori del centrosinistra residenti in Lombardia (sedicenni compresi) l’appuntamento è per sabato 15 dicembre.
PRIME POLEMICHE
Di lunedì invece le prime punzecchiature nei confronti del candidato favorito. Alessandra Kustermann, ginecologa alla Mangiagalli, ha chiamato in causa il figlio dell’«eroe borghese» sul tema della difesa dell’istruzione statale.
«La scuola pubblica non si tocca; non puoi, se sei schierato con il centrosinistra, mantenerti equidistante tra pubblico e privato».
«Lo stesso discorso vale per la sanità e il sociale – ha aggiunto Kustermann via Facebook -: le mie affermazioni sono il frutto di quarant’anni di esperienza sul campo, come medico e come primario, in difesa della salute per tutti».
La conclusione è pesantuccia: «Ambrosoli dichiara di identificarsi con il centrosinistra dopo aver cercato in tutti i modi di evitare che in Lombardia si facessero le primarie e dopo aver negoziato perfino sul nome, perchè alla parola centrosinistra, ancora un paio di settimane fa, si mostrava stranamente allergico».
I MONARCHICI
Ad Ambrosoli non viene in questo caso in soccorso la notizia che vorrebbe i monarchici dell’Unione Patriottica pronti a presentare una propria lista in suo sostegno, destinata a chiamarsi «Stella e Corona».
Ne ha dato comunicazione l’avvocato Vincenzo Forte che fa riferimento a quanto deciso domenica scorsa a Bergamo da un’assemblea del movimento. Ambrosoli? «Persona assolutamente perbene, borghese e benestante, cattolico e moderato, di antica tradizione familiare patriottica e monarchica nonchè premiato da Casa Savoia con il titolo di “Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro”».
Una notizia che ha richiamato l’ironia del secondo competitor nella sfida delle primarie «civiche». «Monarchici per Umberto Ambrosoli: l’uomo giusto per i problemi reali», ha twittato Andrea Di Stefano, direttore della rivista Valori .
Seconda puntura di giornata.
Una notizia che però secondo lo stesso avvocato è frutto di «una falsa iniziativa promossa da persone che non conosco. Segno che a destra la mia candidatura spaventa».
ANDREA DI STEFANO
Di Stefano, candidato appoggiato (anche) dalla sinistra radicale, ha poi parlato delle sue ricette a sostegno di chi perde lavoro. «Si può ricavare un miliardo e mezzo di euro dalle pieghe del bilancio regionale per sostenere chi perde l’impiego. Con questa cifra si potrebbe offrire un assegno di disoccupazione da 416 euro a 300 mila persone».
Dove trovare i soldi? Dice Di Stefano che «dal sistema degli accreditamenti si potrebbe risparmiare un miliardo di euro».
Meno soldi alla sanità privata, in pratica: sempre lì si torna.
Andrea Senesi
(da “il Corriere delal Sera“)
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