Gennaio 15th, 2014 Riccardo Fucile
BENEVENTO 2011, LO RIVELA UN DIRIGENTE DI PSICHIATRIA…RENZI LA ATTACCA: “LA IDEM HA AVUTO PIÙ STILE”
Sono state depositate solo in parte le carte che fanno tremare il governo Letta e la poltrona di Nunzia De Girolamo.
L’avvocato Vincenzo Regardi, il difensore di Vincenzo Pisapia, l’ex direttore sanitario della Asl di Benevento che è indagato per truffa e che ha registrato di nascosto le conversazioni a casa del padre del ministro, ha depositato ieri al Tribunale del Riesame di Napoli nuove trascrizioni di conversazioni: una cinquantina di pagine fitte di dialoghi avvenuti durante due riunioni.
Ieri davanti al Riesame di Napoli, una folla di cronisti aspettava il grande accusatore, Felice Pisapia, ma non c’era.
I giudici, nei prossimi giorni, devono decidere se confermare o revocare la misura cautelare del soggiorno coatto a Salerno per l’ex direttore amministrativo dell’Asl di Benevento, accusato di truffa e peculato nell’ambito di un’inchiesta del pm beneventano Giovanni Tartaglia Polcini su irregolarità e malversazioni nei mandati di pagamento. Pisapia è l’uomo che per nove mesi ha registrato di nascosto incontri, colloqui e riunioni con la dirigenza dell’Asl sannita e con il direttorio politico capeggiato dall’allora deputata pdl Nunzia De Girolamo.
Fino a raccogliere la voce della futura ministra nel salotto di famiglia mentre orienta la gara d’appalto del 118 con l’obiettivo di bloccarla, intima controlli punitivi per accelerare l’assegnazione del bar dell’ospedale Fatebenefratelli alla cugina e allo zio, discute di dove allocare presidi sanitari in cambio di voti.
Finora si conoscono una dozzina di pagine di trascrizioni delle registrazioni di due riunioni del 23 e del 30 luglio 2012, finite agli atti dell’inchiesta e diventate un caso politico.
Ieri per la prima volta il segretario del Pd Matteo Renzi si è pronunciato sulla vicenda twittando contro il ministro De Girolamo: “La Idem si è dimessa, ha mostrato uno stile diverso”.
Il Pd ha presentato un’interpellanza urgente (non sarà quindi un’interrogazione) nella quale si chiedono chiarimenti: il ministro riferirà alla Camera venerdì mattina.
Il 19 settembre Pisapia ha depositato in Procura solo due registrazioni di 130 minuti che sono rimaste in gran parte segrete, tranne i brani allegati all’informativa della Finanza svelata dal Fatto Quotidiano.
Le trascrizioni depositate ieri fanno parte di quei due colloqui ma non li esauriscono. Riguardano in particolare i colloqui e i litigi tra Pisapia e il manager Michele Rossi, espressione diretta della De Girolamo nella gestione della sanità beneventana.
La Procura non si è opposta al deposito di questi nuovi brani, producendo a sua volta il verbale integrale dell’interrogatorio di garanzia di Pisapia.
Restano segrete le carte più delicate: le intercettazioni dei cellulari di Rossi, Pisapia e del dirigente del settore Budgeting dell’Asl, Arnaldo Falato, il superteste che a verbale e in alcune denunce accusa Rossi di aver premiato gli amici del Pdl e punito la vecchia guardia legata alla gestione Udeur, di cui lui è un reduce.
Il pm Tartaglia Polcini sta indagando anche sulle conversazioni pubblicate dal Fatto che imbarazzano Nunzia De Girolamo.
Intanto l’esplosione dello scandalo favorisce l’uscita allo scoperto di testimonianze tutte da verificare.
Il dirigente di Psichiatria Giuseppe De Lorenzo rivela al Fatto un episodio, che se fosse confermato, sarebbe indicativo della gestione politica della sanità beneventana: “Cinque giorni prima della chiusura delle liste per le comunali di Benevento nel 2011, Luigi Barone (collaboratore di Nunzia De Girolamo al ministero e nel 2012 componente del ‘direttorio’, ndr) mi porta — racconta De Lorenzo — nella villa di famiglia De Girolamo a San Nicola Manfredi. In salotto lei mi chiede di candidarmi nel Pdl. In un primo momento — sostiene sempre De Lorenzo — accetto, ma in serata cambio idea: le faccio sapere che ero stanco della politica. Nei giorni successivi loro tornano alla carica e mi promettono il ruolo di direttore sanitario dell’Asl se sostengo il candidato sindaco azzurro”.
De Lorenzo è un personaggio da prendere con le molle, presidente di un’associazione molto vivace, sempre presente sui piccoli media locali che lo pedinano neanche fosse una star, è popolare.
Assessore alla mobilità della prima giunta Udeur di Fausto Pepe, primo degli eletti nel 1996 con 1002 preferenze, nel 2006 prende 441 voti alle elezioni comunali. Nunzia De Girolamo non raggiunse i 200 voti.
Il Fatto ieri ha chiesto la versione del ministro ma Nunzia De Girolamo non ci ha risposto.
Il medico effettivamente ha fatto campagna elettorale per il Pdl: l’11 maggio 2011 esce allo scoperto in un evento per il candidato sindaco del Pdl Raffaele Tibaldi al Cattaneo insieme alla De Girolamo, della quale dice: “È la donna che mi ha fatto risalire sul ring”. Tibaldi perde catastroficamente.
Il 26 settembre 2011 la ‘politica’ nomina come manager Rossi.
“Questi mi dice — ricorda De Lorenzo — che non ero più gradito ai vertici del partito. Allora ne parlo con Barone, col quale ho rapporti amichevoli anche per comuni trascorsi giornalistici. Lui spiega: ‘Non sei adatto al sistema, dopo ci porresti dei problemi’. In seguito avrò difficoltà di gestione del reparto di psichiatria, ho dovuto persino comprare di tasca mia gli ansiolitici per i pazienti”.
Come sono ora i rapporti con la ministra? “Buoni, ma non più stretti come prima. Certo, se avessi partecipato a quelle riunioni registrate da Pisapia avrei detto: ma siete impazziti?”.
Vincenzo Iurillo e Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 15th, 2014 Riccardo Fucile
CASO FONSAI, PRIMA DELLA CANCELLIERI UN ALTRO GUARDASIGILLI TELEFONAVA A DON SALVATORE: SERVIVA UN TETTO PER ALCUNI AMICI
Anche Angelino Alfano parlava con Salvatore Ligresti. 
E la sua voce è rimasta intercettata, il 28 maggio 2011, mentre i due si accordavano per una cena a Roma.
Alfano allora era ministro della Giustizia del governo di Silvio Berlusconi, nonchè inquilino di Ligresti, visto che abitava nel palazzo ai Parioli di via delle Tre Madonne, proprietà di Fonsai (oggi passato a Unipol), dove hanno avuto casa molti nomi noti della politica e della finanza (tra questi, l’ex ministro Renato Brunetta, l’ex direttore generale della Rai Mauro Masi, il figlio dell’ex presidente Consob Lamberto Cardia, le figlie del banchiere Cesare Geronzi, Chiara e Benedetta).
Di appartamenti da affittare si parla anche nel colloquio tra don Salvatore e il ministro: Alfano aveva chiesto all’immobiliarista di trovare una situazione abitativa per sistemare a Roma un suo collaboratore al ministero.
La telefonata serviva però a mettere a punto l’organizzazione della cena quella sera stessa al ristorante dell’Hotel Villa Pamphili.
“Illustre”, esordisce gioviale l’ingegner Ligresti, “volevo sapere quanti siete”.
Alfano tentenna, s’informa se la cena è ristretta o aperta: “Ma lei è con sua moglie o è solo?”.
“C’è mio figlio, mia figlia, mia moglie non c’è perchè è dovuta rimanere a Milano”, risponde don Salvatore.
E il ministro: “Se vuole che io venga da solo… se no io sono con mia moglie e con un amico”. Quasi si scusa: “Non avevo altra organizzazione se non dare ospitalità a questo amico caro con cui ci troviamo…”.
Ma l’immobiliarista non è affatto sorpreso, aveva già previsto una compagnia numerosa: “No, non da solo, quanti siete, perchè ho fatto fare un tavolo grande, quindi più siete e meglio è”.
Segue l’accordo per l’ora. Alfano attende disposizioni: “Va bene, allora noi siamo in tre. A che ora dobbiamo arrivare? Alle 9, alle 8 e mezza? A che ora preferisce lei…”. E Ligresti, ospitale: “Dalle 8 e mezza alle 9, sì, ma se avete degli amici… potete portarli, qui il tavolo è grande”.
È a questo punto che l’ingegnere chiede al ministro notizie degli amici che gli erano stati segnalati per far loro ottenere un’abitazione a Roma: “Ma anche i vostri amici, quelli lì che devono venire…”.
Alfano : “Quelli ancora a Milano sono, se lei non gli dà la casa, non possono venire qua!”. L’ingegnere ride.
Il ministro prosegue: “Quelli ancora a Milano abitano, bè, o meglio, di fine settimana, perchè di settimana lui lavora qui da me”. E Ligresti: “Sì, sì, me l’ha detto, me l’ha detto…”.
Non è dato sapere come andò la cena, nè se la casa per il collaboratore di Alfano fu trovata dal generoso finanziere di Paternò: è materia che esula dalle indagini su Fonsai-Premafin e riguarda semmai le commistioni tra politica e affari.
Nessua rilevanza penale. Così la telefonata, che dura 2 minuti e mezzo, non ha dato origine ad alcun atto di indagine ed è stata depositata, come d’obbligo per il pm, insieme all’atto di chiusura indagini di uno dei tanti filoni d’inchiesta sul gruppo Ligresti aperti dal pm di Milano Luigi Orsi: quello che riguarda Premafin, la holding di famiglia che controllava anche Fonsai, e i trust esteri attraverso i quali Ligresti, secondo l’ipotesi d’accusa, manteneva alti i valori delle azioni Premafin in pegno alle banche, con compravendite realizzate tra il novembre 2009 e il settembre 2010.
Per questo filone, sono accusati di aggiotaggio Salvatore Ligresti e due intermediari, Giancarlo de Filippo e Niccolò Lucchini.
Certo che, ad ascoltare il cordiale dialogo tra il ministro e l’immobiliarista che sarà poi arrestato il 17 luglio 2013, viene spontaneo chiedersi perchè i ministri della Giustizia sono sempre al telefono con i Ligresti.
Annamaria Cancellieri subito dopo le custodie cautelari, il suo predecessore Angelino Alfano nel 2011.
La domanda è stata rivolta via twitter anche a Matteo Renzi: “Ottima domanda — ironizza il segretario del Pd — da girare a loro, Laura. Tanto i numeri ce li hai”.
Gianni Barbacetto
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 15th, 2014 Riccardo Fucile
ANNULLATA LA CELEBRAZIONE DEL VENTENNALE, IL LEADER COSTRETTO A CONGELARE LE NOMINE
Appuntamento annullato, manca solo l’ufficialità .
Il 26 gennaio salta la celebrazione del ventennale della discesa in campo annunciato e voluto da tempo dal Cavaliere. E dà la misura di quanto la pentola di Forza Italia stia per esplodere.
Avrebbe sancito l’incoronazione di Giovanni Toti al posto di coordinatore unico, quella kermesse al Palasport di Roma.
Silvio Berlusconi è costretto a soprassedere, a congelare per il momento quella nomina come tutte le altre designazioni: il comitato di presidenza dei 36, il comitato ristretto degli otto.
Ma non molla la presa: «Il cambiamento deve avvenire e Toti avrà un incarico di primo piano, questo ormai è deciso»
L’intervista di Raffaele Fitto al Corriere, lo sfogo di uno dei pochi maggiorenti a poter vantare migliaia di voti e truppe cammellate, lo ha indisposto e costretto a una momentanea retromarcia.
Eppure sintetizza il pensiero di buona parte del partito.
Nemmeno uno dei coordinatori regionali appena nominati (sedici) dal leader scrive, parla, interviene per schierarsi dalla parte di Berlusconi. Il capo incassa. E pubblica una nota rassicurante per i suoi.
«Non c’è mai stata alcuna intenzione di procedere alla nomina di un coordinatore unico di Forza Italia, figura peraltro non prevista dallo Statuto del nostro Movimento». E ancora, un riconoscimento a falchi e lealisti rimasti al suo fianco: «C’è invece l’intento di rilanciare Forza Italia, dotandoci di una nuova organizzazione e valorizzando tutta la classe dirigente che in questi anni, e particolarmente negli ultimi mesi, ha dimostrato di saper condurre straordinarie battaglie politiche, affiancandomi nelle fasi più drammatiche della vita politico-istituzionale del Paese. Non dobbiamo perciò avere timore di aprire le porte del nostro movimento alle risorse nuove che si affacciano».
Come dire, si aprirà comunque al nuovo, a Toti in primo luogo.
L’ex premier, rientrato in mattinata a Roma dopo aver risolto tra mille ambasce il caso Milan, continua a mediare fino a sera a Palazzo Grazioli.
Incontra di nuovo Denis Verdini, il vero competitor di Toti in questo derby tutto toscano. In ballo ci sono le chiavi del partito, la macchina organizzativa, da gestire tra qualche settimana quando il capo finirà ai servizi sociali, impedito nei movimenti, nella sua «agibilità » politica.
Berlusconi incassa sì ma non demorde. Fa sapere ai fedelissimi che può pure soprassedere per qualche giorno, sentire ancora tutti.
Ma lui la decisione su Toti l’ha presa. Anche se la nomina potrebbe essere sfumata: un ruolo da segretario o addirittura da semplice portavoce, da affiancare magari a un comitato ristretto che comprenderebbe i capigruppo Romani e Brunetta, i vice Gelmini e Bernini, i vicepresidenti delle Camere Baldelli e Gasparri, lo stesso Verdini e infine Fitto, reduce da polemica interna.
Il fatto è che, raccontano da Milano, è il direttore del Tg4 e di Studio Aperto che adesso attende con pazienza che la partita si chiuda, ma pretende che avvenga alla svelta. Basta logoramenti prolungati.
Tutto congelato, ancora per qualche giorno.
Lunedì sera Daniela Santanchè – che resta comunque alla destra del capo – ha portato una ventina di imprenditori di un certo peso nel salotto di Arcore.
Ci sono il re del cachemire Cruciani e del riso Scotti, la Ferrarini degli omonimi prosciutti, il preside della Iulm di Bari Salvi, Maurizio Traglio che ha investito 15 milioni nella nuova Alitalia, oltre ai vertici di Superga, dell’Ordine degli avvocati di Milano e altri ancora.
«A maggio non si voterà più» ha ammesso al loro cospetto Berlusconi. «Ma io sto lavorando per strutturare il partito, non voglio che abbia contraccolpi se io fossi impedito a guidarlo».
Da qui la proposta: «Vorrei che faceste parte della Consulta del presidente, un organo che affiancherà il comitato di presidenza di Forza Italia » e che nei suoi disegni sarà la piazza aperta alla società civile e al mondo delle imprese.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 15th, 2014 Riccardo Fucile
TRA MALATTIE E RANCORI SENILI, IL TRAMONTO DI DUE DESTRE CAPACI SOLO DI ODIARE E TUTELARE EGOISMI
Berlusconi che telefona a un pubblico di sfigati 2.0 dal suo esilio morale; Salvini che fa una piazzata in
autostrada contro il pedaggio e minaccia chi “tocca la Lega”.
La fotografia delle due destre d’Italia, l’una specchio e parodia dell’altra, da sconcia si è fatta penosa.
Lega e Forza Italia, un dì arrembanti, popolari, screanzate e unite dalla grancassa del furor di popolo di imprenditori e operai, oggi sfilan disunite nella malinconica parata-processione dell’uscita di scena.
Era tutta una farsa: il “mafioso di Arcore” non piaceva a Bossi, il quale da par suo imbarazzava (ma manco tanto) i piani alti di Publitalia e gli amici di Licio Gelli col proclama di avercelo duro sotto la pelliccia di pecora.
Tessevano leggende complementari: l’una scimmiottava i miti pagani, l’altra il liberalismo anglosassone, fiere entrambe di non far parte di consorterie culturali ma solo finanziarie, meglio se di quella finanza nebbiosa, buia e crapulona in cui gli echi della Dc risuonavano in un modo tutto nuovo di condonare, evadere, truffare.
I giornali erano tutti per loro. Mentre Milano2 statuiva sulla mappa la metastasi di un potere sfrenato, le feste nei capannoni, il fumo oppiaceo della paniscia, le edicole tutte verdi de La Padania, la scritta “Viva Bossi” sulle stalle componevano una iconografia primitiva in cui anche l’elemento vitale prendeva un tono feroce e funebre.
La Brianza, tappeto di villule di ipocrita facciata raccontato da Gadda, conquistava Roma. I cinepanettoni ritraevano personaggi atroci, affetti da un campanilismo da allevatori di suini, protervo e arrogante.
Gli stessi cittadini che oggi gridano al vilipendio di Brianza ad opera dello stupendo film di Virzì non si sentivano offesi dalla realtà di un localismo xenofobo, di cui i loro eletti miracolati dal Porcellum si facevano gonfalonieri andando a disinfettare i sedili della metro di Milano insudiciati dai “negher”.
“Padroni a casa nostra”, si inventò il Salvini oggi segretario, mentre Trota&Cota arraffavano; l’elemento folcloristico eufemizzava la componente fascista della politica leghista.
“Non esageriamo” era il leit motiv della stampa illuminata, come se il problema riguardasse il linguaggio con cui la Lega veniva raccontata e non quello col quale mieteva consensi e capitalizzava potere.
Bisognava trattarla in punta di forchetta, nel rispetto di quella “pancia” strapaesana che la sinistra faticava (e rinunciava) a insaccare.
Il meccanismo delle due mitologie era oliato: deformare, dopare la realtà per ottenere un quadro che desta risentimento.
Mentre B., suo inventore, offriva se stesso come parafulmine e conduttore di questa fisica del rancore, la Lega ridistribuiva questa carica seminandola e raccogliendola porta a porta, sul famoso territorio.
I grandi temi sociali si riducevano all’elemento paranoico del comunista, dei giudici, del nemico alle porte del proprio negozio; la crisi, che il ministro Tremonti (“leghista con la tessera di Fi”) negò fino all’ultimo con una pervicacia che faceva sospettare la buona fede, prendeva velocità entrando nella ossessività demente di una rotatoria.
Lo stand-by diagnostico del coma attuale, lenito dal computo morboso dei sondaggi, è insopportabile.
Per un Bossi malato che non può più articolare le parole, già vuote, di un tempo e si sottopone all’umiliazione delle primarie, c’è B., ex-re del Mundialito e padrone d’Italia, che non molla, nero del suo rancore senile.
Con la trovata di candidarsi alle europee sapendo già che la legge non glielo permette, spera di replicare l’escalation emotiva che faceva seguito agli eventi tragici del suo romanzo personale, riprodurre il numero di magia di guadagnare consenso dalla disfatta.
Ma niente è più come prima.
La scarica di barbara soddisfazione che nasceva dalla ratificazione giudiziaria delle sue ossessioni ha perso forza perchè la realtà si è accartocciata attorno al suo stesso mito.
I media, che un tempo gli offrivano, per lo più, lo specchio adatto a moltiplicare un’immagine di sè martirizzata ed eroica, ne danno ora la laconica immagine sfibrata, patetica. In casa sua, davanti all’esercito che porta il suo nome, si presenta solo in veste di voce che si convince di essere tonante, come il mago di Oz nascosto dietro una tenda.
Mentre lui arranca tra il revanscismo forzista e l’avanguardia indicata da un barboncino, la Lega cerca di conglomerare l’estremismo forconesco declinando le sfumature di una violenza da crisi. Ma le due epopee, sovrascritte da Renzi e M5S, si dissolvono, unite solo dal disperato tentativo di rinfocolarsi, di intercettare l’increspatura di corrente, come anaconde pronte a scattare dal loro fango.
Daniela Ranieri
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Gennaio 15th, 2014 Riccardo Fucile
LA RIDOTTA XENOFOBA DELLA LEGA DALLA PATACCA FEDERALISTA A LANCIATORI DI BANANE
Non credo che la legge consenta il sequestro preventivo di un giornale che commette ogni giorno istigazione al razzismo.
E sospetto che ai disperati della Padania questo farebbe piacere.
So che sicuramente bisognerà ricordarsi la data di ieri. La pubblicazione sul quotidiano leghista della rubrica razzista “Qui Cècile Kyenge” segna infatti il superamento di un’altra soglia di civiltà .
Con la loro nota furbizia pavida, il leader Matteo Salvini e la direttrice responsabile del giornale Aurora Lussana, capi di una gagliofferia ridotta ormai a minoranza di violenti, dicono che è «solo informazione sull’attività del governo» elencare ogni giorno tutti gli appuntamenti della signora che, sempre ieri, al Senato è stata definita ministra «della negritudine» e accusata di «demenza» dal capogruppo Massimo Bitonci.
Eh, già : non è mica colpa di Salvini e della direttrice se ormai, dovunque vada, la ministra viene oltraggiata dai razzisti di una Lega sempre più in calo di consensi, un partito corroso dagli scandali e ridotto al nocciolo duro della xenofobia, agli ultras che non riescono a riempire le piazze ma le incendiano: a Torino a sostenere il governatore Roberto Cota e la sue mutande verdi erano meno di mille.
Costretti per la verità a misurarsi con le rumorose organizzazioni della peggiore marginalità di estrema destra, i capetti di questa Lega si compiacciono, con risatine da osteria, nell’esibire l’elenco delle mascalzonate contro la Kyenge, dal lancio di banane all’esposizione di manichini insanguinati, ai cori “fuori dai coglioni”.
E ora accentuano l’allusione intimidatoria dicendo ammiccanti che «gli spostamenti della Kyenge stanno già sul sito del ministero» quasi fosse anche il loro giornale, come quel sito, uno strumento di consultazione e non un laboratorio di militanza. Aggravano insomma il significato persecutorio dell’iniziativa parlando di «un servizio ai lettori della Padania che sono curiosi e vogliono andare ad ascoltare il ministro».
Ci fosse qualche omissione nella rubrica c’è dunque il self service: i lanciatori di banane possono informarsi da soli e preparare alla signora l’accoglienza che merita «un orango», «un’esponente del governo bongo bongo», «una degna di essere stuprata», «una straniera seguace della poligamia»…
Tutto questo pasticcio paranoico è stato bene espresso dal solito Mario Borghezio, che ieri sera si è precipitato alla Zanzara, il suo fondaco abituale, la trasmissione di grande successo di Radio 24, microfono aperto degli urlatori, che svela l’Italia più dei sondaggi e più dell’Istat: «Buona caccia ai cacciatori padani. È una rubrica dedicata ai cacciatori padani per cercare il leprotto Kyenge… ».
A Borghezio l’idea pare «brillante, salviniana e futurista». Ecco: sembrano deliri alcolici con Salvini, Bitonci, Lussana e Borghezio che si muovono in combriccola. È una gang di bulli squinternati, un sostenersi reciprocamente nel buio.
Come si vede, non è solo un ritorno alle origini del movimento, che per più di venti anni è stato importante nel Paese: qui c’è la consapevolezza di avere perso la partita e dunque la necessità di buttare in aria il tavolo.
La Lega ha bisogno di provocare la rissa dentro cui legittimare lo scacco. E il razzismo, che si eccita davanti al colore della pelle della Kyenge, è la riserva aurea di chi non ha più nulla, l’ultimo dente del forcone.
Perciò fa bene la Kyenge a smontarli ora con l’indifferenza e ora con l’ironia: «La Padania chi?».
E non è uno sberleffo ribaldo come il famoso «Fassina chi?» di Renzi, ma è un banale certificato di inesistenza geografica e storica, una stanchezza personale che non è sottovalutazione perchè la Kyenge sa che il razzismo rimane una brutta bestia anche quando non è accompagnato da studi genetici, teorie moebiusiane, e neppure delle dotte corbellerie d’antan del professore Miglio sul popolo lombardo.
È vero che non è questo il primo naufragio professionale del giornalismo usato come manganello. Abbiamo infatti visto altri tentativi di mettere in piedi le gogne. Recentemente il blog di Grillo è stato attrezzato come plotone d’esecuzione con il giornalista Travaglio nel ruolo qui interpretato dalla direttrice della Padania, la picchiatrice onesta che istiga e nega, perseguita e fa finta di informare, impagina e sbianchetta: «Non c’è mica scritto andate a picchiare la Kyenge. Noi siamo contro la violenza». Perbacco.
Che cos’è questo giornalismo? Di sicuro non è più il mestiere di informare, neppure i lettori di un partito; non c’entrano nulla le notizie, i commenti e le opinioni che, per quanto fegatose ed espresse con linguaggio maleducato o smodato, sono comunque lecite e qualche volta necessarie.
E qui c’è in più il razzismo che da patologia sociale è diventato l’ossessione come unica linea politica.
Lo spasmo bilioso che alimentò il mito fondativo della Lega è la sua ultima trincea. Si spiegano così l’invito allo stalking e la proposta, non esplicita ma chiara, della punizione collettiva.
In questa istigazione agli atti persecutori aggravati dalla discriminazione razziale c’è ovviamente l’insidia dell’agguato, il presagio dello scontro fisico: «Venga al nord, ministro, la aspettiamo e la accogliamo molto volentieri con delle belle sorprese. D’altra parte lei è un oracolo, tutti i giorni ci dà delle lezioni» ha aggiunto quel diavolo goffo di Borghezio.
In Italia c’è purtroppo una sacca di marciume e c’è un nesso tra le minacce orribili dei No Tav al senatore del Pd Stefano Esposito e al cronista della Stampa Massimo Numa, l’incitamento alla lapidazione degli avversari e dei giornalisti, la voglia di colpire le singole persone.
In questo senso la rubrica razzista di un giornale contro la ministra nera rimanda ai metodi della guerra civile, alimenta un rumore crescente che nel Paese sovrasta l’intelligenza.
Francesco Merlo
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Gennaio 15th, 2014 Riccardo Fucile
COME L’ASSENZA DI CULTURA PUO’ DISTRUGGERE UN’INTUIZIONE
Il giornale della Lega additerà quotidianamente gli appuntamenti pubblici della ministra Kyenge,
accusata dai pensatori fosforici del movimento di «favorire la negritudine».
Probabile che si tratti di una forma di istigazione. Di sicuro ha tutta l’aria di una sciocchezza. L’ennesima.
La Lega rappresenta la prova plastica di come l’assenza di cultura possa distruggere un’intuizione a suo modo geniale, quale fu trent’anni fa quella di dare voce ai ceti tartassati del Nord. In mano a una classe dirigente preparata o appena normale, l’idea avrebbe attirato le migliori energie del lavoro e dell’università per costruire un federalismo fiscale moderno.
Con i Bossi, i Borghezio, gli Speroni e adesso i Salvini si è invece scelta la strada becera, antistorica e per fortuna minoritaria del razzismo secessionista.
Gli attacchi a Roma ladrona si sono illanguiditi con l’aumentare dei privilegi e dei denari pubblici, in un tourbillon di mutande verdi e lauree prepagate.
Sono rimasti in piedi soltanto i simboli grotteschi e i luoghi comuni.
L’odio per l’euro, i terun, i negher, la diversità e la complessità di un mondo nuovo che non si lascia esplorare dalle scorciatoie del pensiero.
La scelta suicida della Lega ha favorito gli umoristi, ma non i leghisti e i settentrionali, che oggi contano meno di trent’anni fa, nonostante le loro tre regioni più grandi siano governate, si fa per dire, da esponenti di quel partito.
Con la forza barbarica si potrà forse andare al potere, ma per restarci con qualche costrutto è sempre consigliabile aggiungere alla pancia un po’ di cuore, e magari anche di testa.
Massimo Gramellini
(da “la Stampa”)
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Gennaio 15th, 2014 Riccardo Fucile
IL RELATORE BELGA SULLA DIRETTIVA PER GLI APPALTI: “PER UN ANNO E MEZZO NON L’ABBIAMO MAI VISTO”
“È una vergogna sentirla in Aula. Per un anno e mezzo abbiamo lavorato con gli altri correlatori ma lei non l’abbiamo mai vista. Sei un fannullone”.
Così l’eurodeputato Marc Tarabella, belga di origine italiana e relatore della Direttiva sugli appalti pubblici di cui si è discusso nell’Aula di Strasburgo, ha fatto fare una brutta figura a Matteo Salvini dopo le critiche arrivate dal deputato leghista, correlatore del medesimo provvedimento.
Basta peraltro esaminare la classifica completa dei 72 eurodeputati italiani presenti a Strasburgo per verificare che nella stessa (e non certo per i suoi nuovi recenti impegni di segretario della Lega) Salvini figura al 61° posto, non certo esempio di grande partecipazione ai lavori.
Prendere la parola in Aula sul tema appalti dopo aver disertato per 18 mesi i lavori (di cui era stato tra l’altro nominato correlatore) è stata giudicata “la goccia che fa traboccare il vaso” dai suoi colleghi europarlamentari che l’hanno apostrofato come meritava.
E’ peraltro noto che solo in Italia possono diventare segretari di partito personaggi come Salvini.
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