Gennaio 9th, 2014 Riccardo Fucile
GLI AVVOCATI DEL LEGHISTA TENTERANNO DI SOSPENDERE IL GIUDIZIO IN ATTESA DELLA PRONUNCIA DEL CONSIGLIO DI STATO
È iniziata ieri – ma la sentenza non arriverà prima di oggi – l’udienza al Tar che deve decidere il destino della legislatura regionale guidata in Piemonte da Roberto Cota.
Alla prima sezione del Tribunale amministrativo regionale, guidata dal presidente Lanfranco Balucani, spetta l’esame del ricorso presentato dai legali dell’ex presidente Mercedes Bresso per chiedere l’annullamento di 15.765 voti ottenuti dalla lista Pensionati per Cota in provincia di Torino.
Il ricorso chiede di prendere atto della sentenza della Cassazione che ha condannato Michele Giovine, leader piemontese del partito, a 2 anni e 8 mesi per aver falsificato l’autentificazione delle firme.
Dopo 4 anni di processi e carte bollate la Corte ha condannato Giovine per l’autentica delle firme. Il Tar deciderà se la sentenza penale ha valore a livello amministrativo, annullando le elezioni del 2010.
“Andremo a votare —dice la Bresso — con un election day a maggio. I piemontesi non vogliono più il governo Cota”.
Oggi il Tar metterà un punto a questa querelle, ma anche nel caso venissero annullate le elezioni, facendo di fatto decadere l’attuale giunta, Cota potrebbe richiedere una sospensione e fare ricorso al Consiglio di Stato.
Intanto la Corte dei Conti ha chiesto a 55, su 60, consiglieri regionali di risarcire decine di migliaia di euro di spese illegittime
Cosimo Caridi
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Gennaio 9th, 2014 Riccardo Fucile
PROTESTA DEGLI OPERAI DISPERATI DOPO LE PRIME LETTERE DI LICENZIAMENTO PER L’INDOTTO: “ALTRO CHE CONQUISTA DEGLI USA, MARCHIONNE CI CACCIA A CALCI IN CULO”
Sono operai disperati, traditi e soli.
Con loro davanti ai cancelli della fabbrica non c’è nessuno. Deputati regionali, senatori e parlamentari di Roma, quelli che a ogni elezione, puntualmente, bussano alle porte delle loro case per chiedere voti, quelli che nei salottini delle tv sicule, la bocca a culo di gallina e lo sguardo perso nel vuoto, discettano di Mediterraneo e sviluppo, non si vedono.
La Fiat chiude, arrivano le prime lettere di licenziamento, a Termini Imerese esplode la rabbia.
“Qui ci giochiamo tutto, migliaia di famiglie rischiano di perdere anche quei quattro soldi della cassa integrazione, la miseria bussa alle case della gente e non si vedono prospettive”.
Roberto Mastrosimone, operaio e segretario della Fiom ha convinto gli altri sindacati e i suoi compagni a fare un presidio davanti ai cancelli. La gente è stanca, sfiduciata, arrabbiata, impaurita.
“Dopo quattro anni di tavoli interministeriali non abbiamo un imprenditore che voglia investire a Termini, a giugno scade la cassa integrazione in deroga, ma se ad aprile non c’è una soluzione la Fiat può licenziarci tutti. E allora bisogna lottare, anche occupare la fabbrica se serve, e chi non ci sta non scassi la minchia e lo dica”, urla al microfono.
Una voce che si perde nel mare della crisi italiana
Nella testa degli operai, delle loro famiglie, di chi in Fiat era entrato da poco e oggi è giovane, e di quelli che sono invecchiati dentro la fabbrica, frullano gli interrogativi: quanto contiamo, chi è disposto a investire qui, in questo nucleo industriale in riva al mare?
Finora i quattro imprenditori proposti dalla short-list compilata da Invitalia, la società governativa per “attrarre investimenti”, si sono rivelati un’enorme bufala.
Due di loro sono finiti in manette, un terzo è fallito, Dr Motors di Massimo Di Risio, l’imprenditore molisano assemblatore di fuoristrada made in China, non si è più visto. L’unico dato certo sono le 170 lettere di licenziamento arrivate agli operai di due ditte dell’indotto, ma è solo il preludio di una tempesta che rischia di travolgere Termini e la Sicilia.
La chiusura della fabbrica si è già mangiata lo 0,46% del Pil siciliano, qualcosa come 825 milioni tra produzioni Fiat e indotto, con 3500 posti di lavoro a rischio.
Il resto dell’agglomerato industriale di Termini Imerese è un cimitero.
Ferma la produzione il capannone che trasformava agrumi (63 posti), il cantiere navale (18 licenziati, 98 in mobilità ), sbarrano la porta i supermercati (una ventina di lavoratori a casa), fallisce l’illusione della piccolo Hollywood della Trinacria, la fiction di Agrodolce, che aveva promesso miracoli e posti di lavoro è finita con 200 tecnici e 60 tra attori e comparse a spasso.
“Colpi durissimi per la città ”. Salvatore Burrafato, Totò, è il sindaco di Termini Imerese, è davanti alla fabbrica anche lui, unico politico lasciato solo di fronte alla disperazione.
Lo contestano. “È una diga che non riusciamo più a tenere — ci dice — non so più che risposte dare alla gente che viene da me per chiedere aiuto. Abbiamo tagliato tutto, le spese superflue del Comune (anche il suo stipendio, abbassato a 532 euro al mese, ¼ di quanto previsto dalla legge per una città di 27 mila abitanti, ndr), le consulenze, ma non basta, è poco. Quando centinaia di famiglie non avranno più alcun sostegno economico succederà di tutto”.
In città aumentano le sale scommesse, i “Compro oro” promettono buoni affari, i negozi chiudono.
È il Sud che esplode, “La Fiat ci ha traditi”, dice con amarezza il sindaco.
Ed è vero. Tutto qui per anni è stato organizzato in funzione della Grande Fabbrica, anche il destino delle generazioni future.
Questo hanno voluto le classi politiche degli anni Settanta e Ottanta del secolo passato, quelli che i posti di lavoro li vendevano in cambio di voti, con gli intellettuali, i mille paglietta da panchina, persi a discettare sulle grandezze di Imera e sulla malvagia Cartagine.
La realtà è l’operaio di 57 anni che ci parla con le lacrime agli occhi.
“Quando sono entrato qui avevo 23 anni, ho lavorato sempre in catena di montaggio, ho cresciuto i figli e ringrazio il signor Agnelli, ma oggi, dopo una vita, il signor Marchionne mi caccia a calci in culo. Sono troppo vecchio per lavorare e troppo giovane per una pensione di merda”.
“Io ne ho 40 di anni — ci racconta un altro — da dieci lavoro qui, voglio darmi da fare, volevo fare un corso specializzato per computer, ma devo andare a Trapani…”. Centinaia di chilometri per imparare un nuovo mestiere nella Regione dello scandalo della formazione professionale, dei corsi per barman ed estetista, delle mogli dei boss politici finite in manette perchè lucravano sui soldi pubblici.
Cinque ministri (Scajola, Berlusconi, Romani, Passera, Zanonato) hanno messo le mani sul cadavere della Fiat di Termini: soluzioni zero.
Ma la beffa più grande sono i finanziamenti. “Per far ripartire lo stabilimento — ci spiega Roberto Mastro-simone — sono pronti 450 milioni, 300 per l’accordo di programma per la reindustrializzazione, 150 per la riqualificazione infrastrutturale. Soldi che fanno gola, ma solo a gente che vuole speculare”.
Gli operai si sentono sconfitti. “Siamo soli, chi se ne fotte di quattro morti di fame come noi. Sono tutti ad applaudire Marchionne che conquista l’America. Eppure la vedi la fabbrica, è pulita, in ordine, spendono centinaia di migliaia di euro per la manutenzione degli impianti. Se domani ci fanno entrare al lavoro possiamo ricominciare”.
Enrico Fierro
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Gennaio 9th, 2014 Riccardo Fucile
IL CAVALIERE: “RINNOVAMENTO PER STARE AL PASSO CON IL PD”
L’ultimo via libera è arrivato durante il pranzo romano di ieri con Fedele Confalonieri, suo mentore, prima che in città rientrasse Silvio Berlusconi dopo la lunga pausa festiva. L’azienda non pone alcun veto, anzi: un suo uomo, direttore del Tg4 e di Studio Aperto, sarà paracadutato sulla poltrona più alta di Forza Italia, giusto al fianco del leader, alla guida di un partito che più che in fibrillazione è sull’orlo di una crisi interna
È attesa a ore la nomina di Giovanni Toti alla poltrona di coordinatore organizzativo.
Era nell’aria, ma l’accelerazione delle ultime 48 ore, partita con la presenza a sorpresa del direttore al vertice forzista di martedì sulla riforma elettorale a Montecitorio, ha spiazzato tutti i dirigenti.
«Non facciamo certo salti di gioia» confessa uno dei più vicini a Verdini.
«Toti sarà semplicemente un frontman, ma non sarà certo lui a gestire» prova a rassicurare un ex ministro.
Il clima, però, in una squadra già lacerata, è pessimo.
Il Transatlantico nel pomeriggio era tutto un pullulare di capannelli forzisti in fermento. La carica è l’unica prevista dallo Statuto e consentirà dunque al Cavaliere di evitare modifiche e la convocazione di organismi.
«Se riunisci l’assemblea, quella modifica non passerà mai» lo avevano avvertito per tempo in tanti sul piede di guerra.
Berlusconi ha optato come sempre per la prova di forza. «Dobbiamo rinnovare, dobbiamo tenere il passo di Renzi e del Pd, non possiamo lasciare che gli elettori ci percepiscano come qualcosa di vecchio» ha spiegato ieri sera a Palazzo Grazioli ai suoi invitati.
Di fronte a lui, oltre ai capigruppo Paolo Romani e Renato Brunetta, proprio quel Denis Verdini sul quale la carica organizzativa sembrava tagliata su misura.
E invece mastica amaro, il fedelissimo.
Proprio nel momento più delicato, in cui il senatore toscano sta gestendo da plenipotenziario la partita della riforma elettorale col Pd.
Ma tant’è, «Berlusconi ha deciso, vuole fare subito e non c’è nulla che ormai possa distoglierlo» spiega chi ha gli ha parlato fino a poche ore fa.
Nominerà gli ultimi sei coordinatori regionali a giorni, poi il comitato di presidenza dei 36, per presentare tutto l’establishment del nuovo formato in occasione della celebrazione del ventennale della discesa in campo del 26 gennaio.
Appuntamento che tuttavia proprio Toti si è incaricato di organizzare e che i ras forzisti hanno ora una voglia matta di disertare.
A modo loro, facendo venir meno l’afflusso delle consuete migliaia di truppe cammellate. Ragione per cui la kermesse che sta tanto a cuore al leader nelle ultime ore sarebbe tornata in forse.
«Vedrete, da oggi saremo tutti “totiani”» profetizza invece beffarda una lealista di prima linea.
Ad ogni modo, il futuro coordinatore prenderà possesso – c’è chi dice già tra oggi e domani, al più la prossima settimana – dei suoi uffici nella sede di San Lorenzo in Lucina. A dispetto dei mugugni.
La spunta lui: poltrona apicale unica, niente triumvirato con altri dirigenti.
Solo a queste condizioni abbandona quella doppia da direttore di due tg.
Aprendo di fatto la corsa alla successione che coinvolge tanti, da Giorgio Mulè a Nicola Porro.
Il patron di Mediaset non aveva certo bisogno di convincere Confalonieri o la figlia Marina, ma con loro ha iniziato a ragionare dei tasselli tv.
Portare Toti in cima alla piramide – col consenso di Francesca Pascale – vuol dire riportare l’organizzazione di Forza Italia nel recinto dell’azienda, come agli esordi.
Il quarantacinquenne di Massa, destinato a essere “scagliato” in tv contro i nuovi renziani, è uomo di Mauro Crippa, direttore generale della Comunicazione Mediaset del quale è stato vice a lungo.
Che la svolta salvi tuttavia Marina dalla «discesa in campo» non è detto affatto.
I sondaggi di casa non incoronano Toti. Solo al momento debito, quando scatteranno i servizi sociali, si aprirà la partita della premiership, quella che conta.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 9th, 2014 Riccardo Fucile
L’ESPONENTE DI FORZA ITALIA RESTA SINDACO DI ARCONATE E ASSESSORE REGIONALE IN LOMBARDIA: IL PREFETTO DI MILANO LO HA PORTATO IN TRIBUNALE
Ha cambiato il nome dell’assessorato regionale da Sanità a Salute, “per essere più vicino ai cittadini”.
Ha ricevuto un’onorificenza d’oro dal suo Comune (Arconate, in provincia di Milano) e piantato un albero con il suo nome nel giardino dei Giusti in Israele, ricordando che “Berlusconi è perseguitato come gli ebrei”.
Ma questa volta l’iper-attivo vice governatore della Lombardia Mario Mantovani, in carica da meno di un anno, dovrà concedersi una pausa.
Così ha deciso il prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca, che per risolvere una questione che va avanti da 371 giorni lo ha portato davanti a un giudice.
Il rappresentante del ministero dell’Interno, insediatosi lo scorso agosto, ha trovato sulla scrivania lasciata libera da Gian Valerio Lombardi il dossier sull’incompatibilità di Mantovani. Due gli incarichi: sindaco, ma anche assessore regionale.
L’udienza mercoledì mattina al tribunale di Busto Arsizio è durata poco più di mezz’ora: “Questo processo è uno spreco di soldi pubblici” ha ripetuto più volte il giudice della seconda sezione civile, Maria Eugenia Pupa. Davanti a lei l’avvocatura di Stato e il legale rappresentante dell’amministrazione comunale di Arconate, paese di 6mila abitanti governato da tre mandati da Mantovani.
“Ma non potete trovare un accordo?”, chiede il giudice buttando un occhio fuori dalla porta: avvocati in coda occupano il corridoio.
Stessa scena per tutto il primo piano della sezione civile, soprattutto dopo l’accorpamento dei tribunali civili.
La giurisprudenza in materia ha contribuito a fare il resto: alle ultime elezioni regionali e politiche infatti, il fedelissimo di Berlusconi era stato eletto contemporaneamente senatore (primo candidato della lista Pdl in Lombardia) e consigliere regionale in Lombardia.
Nella spartizione di poltrone post-formigoniana tra Lega e Pdl, Roberto Maroni gli ha assegnato l’assessorato alla Sanità .
Per dedicarsi a una materia che conosce così bene, visti gli affari di famiglia, Mantovani si era dimesso da Palazzo Madama “per incompatibilità ” il 3 giugno 2013.
Ma la “velocità ” nel lasciare il triplo incarico, è nulla se paragonata alla carica di primo cittadino che tuttora ricopre e per cui è stato convocato, insieme ai consiglieri comunali, davanti al giudice.
L’esponente di Forza Italia, assente in aula, ha sempre sostenuto “non partecipare più alle attività consiliari da luglio”, ritenendo la questione chiusa. I consiglieri comunali di maggioranza ne hanno “preso atto”, ma si sono rifiutati di votare la sua decadenza.
Nel pantano tutto italiano dei doppi incarichi restano lui e il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca (Pd) (su cui si è pronunciata l’Antitrust).
L’avvocato che rappresenta Mantovani e la sua amministrazione comunale ha accettato l’incarico a titolo gratuito.
Altro stile per l’avvocato Roberto Lassini, che dopo l’ideazione dei manifesti contro la procura, ha ricevuto dal comune di Arconate 1000 euro per far luce sull’esposto presentato dai consiglieri di minoranza sulla casa di riposo per anziani in costruzione in paese.
“E’ una bella sfida perchè è una materia controversa — dice Alessandra Brignoli al fattoquotidiano.it – ci sono casi simili, ma non identici”.
La prossima puntata per questo “unicum” sarà il 12 febbraio, data della prossima udienza. Arconate andrà al voto nella primavera del 2014, probabilmente insieme alle Europee. Non è escluso che Mantovani, sostituito da Mariastella Gelmini nel ruolo di coordinatore di Forza Italia in Lombardia e davanti all’astro nascente del partito Giovanni Toti, si candidi sia come consigliere comunale nel suo paese, sia come europarlamentare in quota Forza Italia.
Francesca Martelli
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Gennaio 9th, 2014 Riccardo Fucile
LA VERA NATURA DELLE SCELTE NEL MOVIMENTO CINQUESTELLE
A dispetto dei proclami non si era mai visto un partito con il marchio depositato alla camera di commercio, un marchio concesso o negato secondo logiche aziendali.
Vedi il caso Sardegna
Non abbiamo bisogno di attendere febbraio e il risultato della consultazione online lanciata da Beppe Grillo per conoscere la proposta di legge elettorale «liberamente votata» dagli iscritti al Movimento 5 Stelle.
Si può scommettere sin d’ora che non sarà nessuna delle tre ipotesi maggioritarie (sindaci, sistema spagnolo, Mattarellum corretto) avanzate dal Pd di Renzi, ma una quarta di base proporzionale che, vedi il caso, coincide con gli interessi aziendali della Grillo&Casaleggio associati.
In questo modo l’unica maggioranza possibile sarà ancora quella destra-sinistra, con Pd e Berlusconi, e Grillo potrà sempre gridare all’inciucio.
Grillo&Casaleggio non vuole liquidare l’orrido regime della Seconda repubblica, altrimenti voterebbe una legge maggioritaria puntando alla vittoria finale. Preferiscono lucrare il più possibile sul caos politico, alla faccia e sulla pelle degli italiani.
Beppe è stato un grande comico e potrebbe evitarci queste pagliacciate della cosiddetta democrazia diretta, ma nella presa per i fondelli dei propri elettori è compresa questa finzione, già sperimentata con successo con le parlamentarie, che hanno eletto senatori e deputati i militanti con più parenti, e le quirinarie, una vera farsa.
Alle quirinarie gli iscritti avevano votato, sempre liberamente, una lista di candidati utile alla strategia dei capi: mettere in difficoltà il Pd, ma senza arrivare a un accordo per un nome condiviso (Prodi, per esempio).
Sono convinto che Internet sia un passo indietro rispetto all’evoluzione della specie. Di sicuro lo è per la democrazia, retorica a parte.
Il partito-movimento di Grillo, che è il più grande fenomeno politico mondiale nato dalla rete, ne è una conferma clamorosa.
Con tutte le chiacchiere sulla democrazia diretta e «l’uno vale uno», il Movimento 5 Stelle è un partito autocratico da anni Trenta.
Non si era mai visto uno schieramento con il marchio depositato alla camera di commercio e protetto da uno stuolo di legulei.
I capi concedono o negano il marchio, vedi il caso Sardegna, secondo logiche aziendali.
Decidono quando fare le dirette streaming e quando non farle.
Le consultazioni on line sono riservate ai soli iscritti, per giunta quelli della prima ora, poche decine di migliaia di persone, spesso molto meno.
I risultati sono palesemente decisi da Grillo e Casaleggio, che possono anche non comunicarli, come hanno fatto dopo il primo turno delle quirinarie.
I commenti non in linea con la volontà dei capi sono sistematicamente espulsi dal sito. Il quale sito, peraltro, rimane di proprietà di Grillo, che lo usa per vendere propri prodotti e pubblicità .
È la follia. Eppure i seguaci non fiatano, illusi di partecipare con un clic al grande gioco.
Gianroberto Casaleggio, ideologo della democrazia in rete, è del resto unoligarca e un teorico del governo della rete da parte di un’èlite illuminata.
Lungi dal liberare i cittadini dalla passività del mezzo televisivo, la rete ha costruito una base di finta partecipazione che permette a chi comanda di decidere da solo, ma fra gli applausi dei sudditi.
Oltre a impedire la partecipazione, la rete limita anche il dibattito.
O meglio, abbassa il dibattito a un livello tale da renderlo del tutto inutile, se non come pretesto per sfogare la rabbia di qualcuno e la pazzia di molti.
Su Internet sono tutti esperti, scienziati, profeti.
Il dato oggettivo non esiste perchè, almeno in questo, uno vale davvero uno.
Si assiste dunque a discussioni su argomenti importanti e complessi affidati a pseudo studiosi, con corredo di deliranti teorie del complotto e vere e proprie leggende metropolitane.
Al confronto, perfino i dibattiti in Parlamento sembrano una faccenda seria.
Si parte con i petrolieri che bloccano da decenni l’auto all’idrogeno e le case farmaceutiche che boicottano la cura contro il cancro, e si finisce con chi ha visto le sirene e i microchip della Cia sotto la pelle.
Poichè tutto è complotto, nulla lo è.
Curzio Maltese
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 9th, 2014 Riccardo Fucile
PROCACCINI: “ORDINO’ CHE INCONTRASSI L’AMBASCIATORE KAZAKO”
Il prefetto in pensione Giuseppe Procaccini, 64 anni, capro espiatorio dell’affaire Shalabayeva, siede a un tavolo d’angolo del Caffè delle Arti, nella Galleria di arte moderna di Villa Borghese.
«Ora ho finalmente il tempo per le mostre», sorride. Cita Cicerone («A me interessa più la mia coscienza di ciò che la gente dice di me») , il retore ateniese Isocrate, san Paolo («Ho combattuto una giusta guerra. Ho terminato la corsa. Ho mantenuto la fede») .
Si commuove evocando un figlio che la malattia gli ha portato via troppo giovane. Poi si fa affilato.
Certosino nel ripercorrere i dettagli di quei giorni della scorsa estate che hanno portato il ministro dell’Interno Alfano, di cui era capo di gabinetto, a un passo dalla sfiducia del Parlamento.
Procaccini ha scelto di dimettersi. Alfano è rimasto al suo posto.
Ma ora, nel racconto del prefetto, il ruolo del ministro nel caso Shalabayeva è cruciale. Così come si dimostrano false almeno due circostanze accreditate dallo stesso Alfano in Parlamento.
Aver sostenuto di non essere stato informato dal suo capo di gabinetto della caccia al latitante.
Aver sostenuto di essere trasecolato nell’apprendere dal ministro Emma Bonino, il 2 giugno, che esisteva una “questione kazaka” legata a un’operazione di polizia condotta nel nostro Paese.
Prefetto, perchè incontrò al Viminale l’ambasciatore kazako la sera del 28 maggio?
«Non fu una decisione che presi di mia iniziativa. Quella sera, infatti, intorno alle 21.15, 21.20, raggiunsi Alfano a Palazzo Chigi. Dovevo consegnargli alcuni documenti e in quell’occasione il ministro mi informò che l’ambasciatore kazako lo aveva cercato perchè aveva urgenza di comunicare con il ministero. Aggiunse quindi una cosa cruciale – ricordo con esattezza le parole – Mi disse che si trattava di una questione di grave minaccia alla pubblica sicurezza ».
“Grave minaccia”?
«Esattamente. E per questo motivo decisi di rientrare immediatamente nel mio ufficio. Da lì, chiamai l’ambasciatore il quale, dopo le 22, mi raggiunse al Viminale. Qui, come è ormai noto, l’ambasciatore mi riferì di Ablyazov, della segnalazione dell’Interpol, dell’asserita pericolosità di quest’uomo che definì un nototerrorista e dei colloqui da lui già avuti in Questura, che, per altro, aveva già provveduto alla localizzazione della villa di Casal Palocco e avrebbe condotto di lì a poche ore il blitz».
Perchè Alfano aveva maturato l’idea che Ablyazov rappresentasse una “grave minaccia”?
«Non ne ho idea. Non me lo spiegò e io non glielo chiesi».
Ritiene che il ministro avesse parlato con l’ambasciatore?
«Non saprei. È possibile che altri gli avessero riferito della sostanza delle informazioni dell’ambasciatore kazako».
Quando tornò a parlare con Alfano della vicenda?
«Il mattino successivo, il 29 maggio. Lo informai verbalmente della visita notturna dell’ambasciatore, del blitz nella villa di Casal Palocco e del suo esito negativo».
Lo informò del fermo della moglie, Alma Shalabayeva?
«No. E non avrei potuto. Perchè a mia volta io ignoravo la circostanza. Il Dipartimento non mi aveva informato».
La mattina del 29, informò Alfano che l’ambasciatore era tornato al Viminale per sollecitare un’altra perquisizione nella villa?
«No. Lo ritenni superfluo. Anche perchè quella seconda visita e la sua insistenza mi provocò del fastidio. Che l’ambasciatore per altro avvertì. Si giustificò infatti sostenendo di essere tornato nel mio ufficio solo per ringraziarmi e per lasciarmi in ricordo un calendario kazako e una medaglietta con l’immagine di Astana, la capitale del Paese».
In che occasione riparlò con Alfano della vicenda Ablyazov?
«Il 2 giugno, quando mi riferì del colloquio che aveva avuto con il ministro Bonino e mi chiese di informarmi di quanto accaduto con la signora Shalabayeva. Fu quella la prima occasione in cui appresi che nella vicenda c’erano una donna e sua figlia».
Ebbe la sensazione che Alfano avesse quantomeno collegato la Shalabayeva di cui “nulla sapeva” all’operazione Ablyazov che aveva invece sollecitato?
«Il ministro mi diede l’impressione di aver ricollegato le due vicende. Anche perchè erano passati pochi giorni».
Perchè lei si è dimesso?
«Il ministro era molto preoccupato. Il Governo era a rischio. E io ho sempre ritenuto che essere un civil servant significhi anche assumersi responsabilità che magari non sono proprie, ma comunque interpellano la credibilità dell’Amministrazione cui si appartiene».
Alfano provò a convincerla a restare al suo posto?
«La sera del 17 luglio gli consegnai di persona la mia sofferta lettera di dimissioni che lui ritenne di non leggere. Almeno di fronte a me. Mi dispiacque solo come comunicò le mie dimissioni al Senato. Le rese un gesto banale».
Non crede che se l’ordine di procedere su Ablyazov non fosse arrivato da Alfano in questa storia le cose sarebbero andate diversamente? E forse la Shalabayeva non sarebbe mai stata consegnata ai kazaki?
«Ci ho riflettuto a lungo. È possibile che l’input arrivato dall’autorità politica abbia reso tutti più realisti del Re. Alfano era appena diventato ministro e magari qualcuno ebbe paura di essere impallinato per scarsa attenzione o zelo rispetto a una vicenda definita appunto una grave minaccia per la sicurezza pubblica».
Che fine ha fatto il calendario kazako che le ha regalato l’ambasciatore?
«L’ho conservato per un po’. Poi l’ho buttato quando ho traslocato dall’Eur, dove alloggiavo in una casa dell’Amministrazione, al quartiere san Paolo».
E la medaglietta di Astana?
«L’ho regalata. Non ricordo se a un commesso o a un autista».
Carlo Bonini
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 9th, 2014 Riccardo Fucile
IL DIBATTITO SULLA LEGALIZZAZIONE DIMOSTRA CHE IN PARLAMENTO GIRA ROBA BUONA
Siccome in Italia non ci sono problemi urgenti da risolvere, nessuno evade le tasse, nessuno si ammala di cancro nella Terra dei Fuochi, l’Ilva ripulisce il cielo di Taranto, i detenuti non si suicidano, i ragazzi trovano un lavoro, le mafie si sono disarmate, gli insegnanti festeggiano i loro 150 euro, i politici non rubano, i giornali vendono, la Fiat fabbrica le migliori auto del pianeta e Pannella è andato in ferie, è sacrosanto aprire il dibattito sulla marijuana libera.
Ascoltare le opinioni di due simpatici giovani senatori — Carlo Giovanardi e Luigi Manconi — che andando dallo stesso parrucchiere hanno tuttavia scelto di farsi ognuno la riga dalla parte opposta all’altro, uno contro la legalizzazione delle canne, l’altro a favore.
E meno male che, al netto di Gasparri, nella contesa s’è aggiunto Nichi Vendola, incidentalmente governatore del cielo di Taranto, che sente anche lui “il bisogno di legalizzare la cannabis”, con la medesima urgenza — immaginiamo — con cui, un paio di anni fa, sentiva “il bisogno di sposare il mio compagno Eddy in Chiesa”.
Lieto dibattito ci attende se la roba che gira è tanto buona da renderli già così eloquenti alle prime boccate dell’anno.
Pino Corrias
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 9th, 2014 Riccardo Fucile
RESTA IL NODO DELL’ART 18 E UN PERCORSO TUTTO DA COSTRUIRE
Più dettagliato e decisionista nella parte sulle semplificazioni burocratiche.
Sommario sul capitolo dei piani di settore per creare occupazione.
Cauto sulle nuove regole del mercato del lavoro.
Le tre parti di quello che sarà il Jobs Act, il documento che la direzione del Pd approverà il 16 gennaio e che entro un mese diventerà un piano tecnico e successivamente un insieme di proposte di legge, sono per ora solo accennate.
Offerte alla discussione, comprese le «polemiche» e le «resistenze» che lo stesso segretario Matteo Renzi non si nasconde ci saranno
E questo nonostante la bozza diffusa ieri sera stia per esempio ben attenta a non citare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che regola i licenziamenti individuali.
La norma non viene tirata direttamente in ballo, ma si conferma che il Pd vuole attivare un «processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti».
Un percorso tutto da costruire, ma il cui approdo sarebbe un contratto che in una prima fase (da uno a tre anni, secondo alcune ipotesi) lascia alle aziende una libertà sostanziale di licenziamento, una sorta di periodo di prova allungato.
Il tutto bilanciato da uno sfoltimento della giungla contrattuale, limitando quindi le forme flessibili, e dalla previsione di un «assegno universale per chi perde il posto di lavoro» esteso anche a chi «oggi non ne avrebbe diritto», con l’obbligo però di seguire un corso di formazione professionale.
La prima idea, quella del contratto a tutele progressive potrebbe incontrare il favore delle imprese e anche del centrodestra quanto più la libertà di licenziamento fosse ampia, ma in questo caso si scontrerebbe con l’opposizione della Cgil e della sinistra dello stesso Pd.
Renzi dovrà quindi trovare un difficile equilibrio, se davvero vuole portare la proposta in Parlamento.
La seconda idea, quella della riduzione dei contratti flessibili e dell’istituzione di un sussidio universale di disoccupazione si scontra invece con due ostacoli: le imprese che non vogliono rinunciare alla flessibilità e le risorse finanziarie necessarie a coprire l’erogazione del sussidio (quanto durerebbe? chi lo pagherebbe, le piccole aziende o la fiscalità generale?).
Non piacerà alle imprese, e neppure a una parte del sindacato, la proposta di una legge sulla rappresentatività sindacale e sulla presenza di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle grandi aziende
Proprio perchè «polemiche e resistenze» saranno forti, Renzi sa che il dibattito e le fasi successive vanno chiusi rapidamente.
E così indica l’obiettivo di un «codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti» in materia di lavoro da presentare «entro otto mesi».
Del resto, che sia urgente intervenire è confermato dai dati diffusi ieri dall’Istat, che segnalano il record della disoccupazione dal 1977, con 3 milioni e 254mila persone in cerca di lavoro.
La lunga crisi ha fatto perdere dal 2008 a oggi circa un milione e duecentomila occupati, facendo scendere ancora di più l’Italia nella classifica internazionale del tasso di occupazione. Nella fascia d’età fra i 20 e i 64 anni lavora meno del 60% della popolazione.
In Germania circa il 77%, la media europea è di quasi il 70%.
Ma Renzi, sa che «non sono i provvedimenti di legge che creano lavoro, ma gli imprenditori». Chi governa, però, può creare le condizioni favorevoli. In questo senso il leader del Pd prospetta una «visione per i prossimi anni» e «piccoli interventi per i prossimi mesi».
La «visione» è tutta nel senso di cogliere le opportunità della globalizzazione valorizzando le potenzialità dell’Italia, grande economia di trasformazione e Paese che può essere molto attrattivo sia di investimenti che di turisti. Gli «interventi» sono tutti da verificare.
Quelli sulla burocrazia sono i più dettagliati e vi si riconosce il piglio decisionista del sindaco Renzi.
Per esempio, quando dice che le procedure in materia di spesa pubblica e beni demaniali vanno semplificate «sul modello che vale oggi per gli interventi militari», eliminando tra l’altro anche il potere dei Tar di sospendere gli atti. Resistenze arriveranno sicuramente sulle proposte di togliere l’obbligo per le imprese di iscriversi alle Camere di commercio e di cancellare i contratti a tempo indeterminato per i dirigenti pubblici.
Delicate le misure prospettate in campo fiscale, a partire dall’aumento delle tasse sulle rendite finanziarie per coprire un taglio del 10% dell’Irap sulle aziende.
Scarse le informazioni sulle misure direttamente orientate alla creazione di posti di lavoro.
Per ora si indicano sette «piani industriali» in altrettanti settori dell’economia, dal made in Italy al Nuovo Welfare.
Un ritorno alla politica industriale o alla programmazione?
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 9th, 2014 Riccardo Fucile
PER 120 METRI QUADRI A ROMA E MILANO CONTO DI 700 EURO… IL REBUS DELLO SCONTO PER I FIGLI
Si gioca sul filo dei decimi di millesimo la battaglia tutta politica delle aliquote Tasi, la nuova imposta sui servizi che per la prima casa, al di là di tutte le disquisizioni formali, prende il posto della vecchia Imu.
Il governo ha deciso di passare la palla ai Comuni, ai quali verrà lasciata la possibilità di innalzare l’aliquota massima per il 2014 da uno a otto millesimi di punto per finanziare le detrazioni alla fasce più deboli di contribuenti.
Le amministrazioni potranno così aggiungere risorse al mezzo miliardo stanziato allo scopo dalla legge di Stabilità .
In pratica l’aliquota massima della Tasi potrebbe salire allo 0,33%.
In attesa della reazione dei Comuni, che probabilmente riterranno insufficiente l’emendamento governativo perchè se applicato alla lettera non porterebbe un euro di più nelle loro casse esangui, resta da capire se l’aumento si applicherà solo alla prima casa o, come appare più probabile, anche agli altri immobili.
Per questi ultimi infatti la legge di Stabilità impone anche un tetto alla somma tra l’Imu (che continuerà a pagarsi anche nel 2014) e la Tasi: non si può superare l’1,06% complessivo, valore che però presumibilmente sarà innalzato a 1,14%.
Tornando alla prima casa e dando per molto probabile l’ipotesi che le amministrazioni opteranno laddove sarà possibile per l’aliquota massima abbiamo provato a calcolare quanto potrebbe costare la Tasi nei capoluoghi italiani su due immobili tipo, identificati sulla base dei dati statistici dell’Agenzia delle Entrate; si tratta di un’abitazione di 120 metri quadrati medio signorile di classe A/2 e una più modesta di 80 metri quadrati accatastata come A/3.
Per quanto riguarda la casa da 120 metri quadrati a Torino e a Roma si supererebbero comunque i 700 euro all’anno, cifra sfiorata da Milano e da Genova; per le abitazioni di minor valore la Capitale guida questa poco ambita graduatoria con 443 euro, seguita da Bologna con 386 euro, da Torino con 353 e da Milano con 344 euro.
Può essere interessante il confronto con la vecchia Imu; per la casa da 120 metri a Torino si effettuerebbe comunque un risparmio sensibile, di quasi 335 euro, a Roma se ne risparmierebbero circa 160 ma a Milano il costo sarebbe più alto di 51 euro.
Per quanto riguarda la casa di minor pregio la scelta dell’aliquota massima penalizzerebbe i contribuenti quasi ovunque; fa eccezione Roma dove il risparmio sarebbe di circa 29 euro ma a Milano la Tasi risulterebbe più cara di ben 130 euro rispetto all’Imu 2012.
Bisogna inoltre considerare che l’Imu prevedeva una detrazione obbligatoria di 50 euro per ogni figlio mentre per la Tasi questa rimarrà una scelta discrezionale del Comune e quindi il bilancio a sfavore della Tasi potrebbe ampliarsi.
Va infine ricordato che l’eventuale aumento della Tasi potrà aver conseguenze anche sulle finanze degli inquilini; infatti il Comune può chiedere loro di partecipare fino al 30% al pagamento del tributo, che quindi per chi occupa una casa in affitto potrà arrivare fino allo 0,099%.
(da “il Corriere della Sera”)
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