Gennaio 28th, 2014 Riccardo Fucile
TOTI E’ PER LA ROTTURA, VERDINI PER L’ACCORDO, I DUBBI DELLA GHISLERI… RESTANO LA MARCHETTA ALLA LEGA, LE LISTE BLOCCATE, LO SBARRAMENTO AL 5% E NIENTE PREFERENZE
È con l’obiettivo di non interrompere mai la trattativa che Silvio Berlusconi sente ripetutamente Matteo Renzi al telefono.
Più di un colloquio per trovare una difficile quadratura tra l’accordo sottoscritto e le richieste del Quirinale di alzare la soglia di accesso al premio di maggioranza al 38. Una “via stretta”, “molto stretta”, avvolta dallo scetticismo nei confronti di Giorgio Napolitano, perchè “l’accordo era fatto e invece le richieste del Colle rischiano di farlo saltare”.
Ed è proprio di fronte al coro di voci dissonanti che Silvio Berlusconi decide di prendere la bacchetta e guidare l’orchestra.
Pure Giovanni Toti, la new entry targata Mediaset, è per non accettare una qualunque soglia superiore al 35, a costo di far saltare il tavolo. Perchè, a quel punto, l’unica alternativa sarebbe “un governo di scopo Renzi”.
Per la linea dura i falchi alla Minzolini, ma anche l’ultra moderata Gelmini. Epperò è un azzardo. Che compromette quell’operazione padre della patria che il Cavaliere ha orchestrato per poi sondare il Quirinale su eventuali ipotesi di clemenza ora che si avvicina la decisione del tribunale su servizi sociali o domiciliari.
Ecco perchè l’ex premier percorre la “via stretta”.
È in un complesso incrocio diplomatico che per tutto il giorno si ragiona sulla praticabilità di soglie più basse rispetto al 38, che significherebbe “ballottaggio per legge” e sconfitta sicura perchè, come ha spiegato la Ghisleri, “al secondo turno i grillino votano per la sinistra”.
Per Berlusconi, a voler stare sicuri, non si dovrebbe andare oltre il 36. Ma è sul 37 che si tenta una mediazione vera.
Con Verdini, e poi direttamente Berlusconi, che parla con palazzo Vecchio e Gianni Letta impegnato nel più complesso ruolo di interlocuzione col Colle. È lì che si annidano delle “sincere perplessità ”.
Perchè, “Napolitano è spaventato dal precedente Ciampi”, ovvero di un capo dello Stato che firma una legge rivelatasi successivamente anticostituzionale.
Per firmare, è il messaggio che trasferisce Gianni Letta, il capo dello Stato vuole essere sicuro che la Corte consideri la normativa costituzionale.
È una sorta di assicurazione preventiva l’ostacolo su cui la trattativa si avvita. E che riguarda tutte le soglie della legge.
Quella del premio, ma anche lo sbarramento del cinque per i partiti in coalizione su cui l’asse tra Berlusconi e Renzi è granitico.
Entrambi si mostrano determinati rispetto a un punto su cui invece si estendono le perplessità del Quirinale.
La trattativa va a rilento proprio perchè ogni punto deve essere approfondito e soppesato, nella triangolazione Arcore, palazzo Vecchio, Quirinale.
Il tutto mentre Alessandra Ghisleri, che in vita sua non ha mai sbagliato sondaggi e previsioni, sforna report a ritmi impressionanti.
È il suo parere più di quello di Verdini e Letta che Berlusconi ascolta prima di pronunciare il numero di una qualunque soglia.
Il negoziato sulla soglia per il premio va di pari passo con quella di sbarramento ai piccoli partiti. Che considerano il cinque per cento una specie di ghigliottina: “Su questo — ripete Berlusconi — non sono disposto a cedere”.
E va di pari passo con le garanzie che Berlusconi chiede sul “salva Lega”, su cui non registra ostacoli da Renzi. Insomma, si tratta.
Chi conosce Berlusconi, sa che non chiude mai le trattative con un anticipo superiore ai cinque minuti rispetto alla deadline. La predisposizione però è a chiudere l’accordo. Non è un caso che in serata i dichiaratori diffondano ottimismo, dopo ore di silenzio nel momento più difficile.
Il capogruppo alla Camera, Renato Brunetta assicura: “L’accordo tra Berlusconi e Renzi regge”. E Romani: “Ho l’impressione che l’accordo regga. Siamo vicini al ‘fine tuning’ delle cifre”. Ovvero alle limature.
Anche se i report della Ghisleri non suggeriscono grande entusiasmo sul 37…
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 28th, 2014 Riccardo Fucile
CALANO GLI IMMIGRATI, AUMENTANO LE PERSONE CHE EMIGRANO: METE PREFERITE GERMANIA E SVIZZERA
Sempre più italiani dicono addio al Belpaese, ormai tale solo di nome ma non di fatto: 68 mila gli espatriati nel 2012, oltre un terzo in più (il 35,8% per l’esattezza) rispetto al 2011 e comunque il numero più alto degli ultimi dieci anni.
Mentre calano i rientri dall’estero e scende pure il numero degli immigrati (-9,1%). Dunque, tra emigrazioni e contrazione degli ingressi (pari a 2 mila unità , 6,4% in meno del 2011) il saldo migratorio è negativo per gli italiani pari a 39 mila unità , più che raddoppiato se confrontato con quello del 2011, anno nel quale il saldo risultò pari a -19 mila.
Si tratta comunque del valore più basso dal 2007.
Questo racconta, impietoso e significativo, il report dell’Istat sulle «Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente» relativo al 2012. Che sia fuga dal precariato, da un contesto di crisi o da una burocrazia vissuta come opprimente, il dato di fatto è che le forze produttive si contraggono in modo sensibile. Forze spesso qualificate
Difficile infatti pensare a un paese che cresce, quando tra gli italiani con almeno 25 anni si registra la fuga all’estero di 32 mila residenti, di cui quasi un terzo ovvero 9 mila in possesso di laurea, mentre sono 12 mila i diplomati e 11 mila quelli con un titolo fino alla licenza media.
I laureati partono soprattutto alla volta dell’Europa (scelta da almeno 6.700 di loro), poi ci si sposta oltreoceano verso Stati Uniti (1.100 trasferimenti) o Brasile (700).
Restando nella Ue invece la maggiore capacità di attrazione si conferma quella della Germania locomotiva d’Europa, che richiama 1.900 laureati, seguono Gran Bretagna (1.800), Svizzera (1.700) e la pur vicina Francia, dove nel 2012 si sono trasferiti ‘solo’ in 1.300
In generale, per gli italiani i principali Paesi di destinazione sono appunto Germania (oltre 10 mila emigrati), Svizzera (8 mila), Regno Unito (7 mila) e Francia (7 mila) che dunque insieme accolgono quasi la metà degli espatriati.
I connazionali che decidono di tornare in Italia sono in numero molto inferiore a quello degli emigranti: nel 2012 i rientri sono 4 mila dalla Germania, 3 mila dalla Svizzera e circa 2 mila dal Regno Unito e dalla Francia.
MENO STRANIERI
Ma l’Italia non perde solo chi qui è nato.
Qualunque giudizio se ne voglia dare, colpiscono i 351 mila nuovi residenti immigrati, 35 mila in meno rispetto al 2011 con un calo del 9,1%. Un dato che porta al 7,4% la quota di stranieri sulla popolazione residente al 31 dicembre 2012.
Cambia anche la geografia delle comunità maggiormente presenti sul nostro territorio: l’Italia attrae ora molti meno flussi dall’Est Europa (in particolare moldavi, 41% di iscrizioni di residenza e ucraini, -36%) e dal Sud America (con un 35% e un 27% rispettivamente di peruviani ed ecuadoriani).
Al contrario crescono seppure di poco gli ingressi dall’Africa, + 1,2%, soprattutto da Nigeria Mali e Costa d’Avorio, flagellate da diversi conflitti che spingono sempre più alla fuga verso l’Europa.
La comunità più rappresentata nel 2012 è comunque quella rumena, con 82 mila ingressi, seguita dai 20 mila ingressi di cittadini cinesi e marocchini (sempre 20 mila), quindi dai 14 mila degli albanesi.
Ci sono poi gli stranieri che lasciano il Belpaese, e questi sono in crescita addirittura del 18%. Ma sono appunto le migrazioni degli italiani stessi a fare la differenza nella costruzione del saldo migratorio di 245 mila unità del 2012, inferiore a quello 2011 di quasi un quinto (19,4%).
I FLUSSI INTERNI
L’Istat analizza anche gli spostamenti interni dei confini nazionali, che interessano sia italiani sia stranieri anche se in proporzioni molto diverse.
I cambi di residenza tra un comune e l’altro coinvolgono infatti oltre un milione e mezzo di persone, in crescita del 15% sul 2011, con effetti piuttosto evidenti di ridistribuzione nei diversi territori.
Gli spostamenti di breve e medio raggio (intraprovinciali e intraregionali) rappresentano, come sempre, la tipologia di trasferimento principale (75,5% dei trasferimenti interni). Dai 18 ai 50 anni, nel pieno dell’età lavorativa, il flusso assoluto dei trasferimenti è intenso: sono 801 mila gli italiani che si spostano contro i 199 mila stranieri.
In termini percentuali, tuttavia, tali spostamenti risultano più frequenti per gli stranieri (71,3%) piuttosto che per gli italiani (62,8%).
A. Com.
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Gennaio 28th, 2014 Riccardo Fucile
NEL RAPPORTO DI PALAZZO CHIGI LE DICHIARAZIONI DEI REDDITI 2011 DEI SUPERMANAGER PUBBLICI
Dalla A di Abate (Pietro, segretario Camera di commercio di Roma) alla Z di Zoccali (Stefano Salvatore, direttore generale dell’ente per l’irrigazione della Puglia, Lucania e Irpinia) eccoli tutti i redditi e i patrimoni dei dirigenti dello Stato e della Pubblica amministrazione, degli enti pubblici, delle aziende autonome e speciali, nonchè delle controllate dallo Stato con più del 20 per cento del capitale.
La legge numero 441 del 1982 impone a presidenti, vicepresidente, amministratori delegati e direttori generali di comunicare (come avviene per i deputati) redditi e patrimoni ogni anno.
La Presidenza del Consiglio stila un bollettino in formato pdf che però, anche per colpa dei ritardi dei manager, esce all’incirca un anno dopo.
Il bollettino del 2012 (274 pagine) è uscito a luglio mentre il supplemento con gli ultimi dati (187 pagine) è stato stampato poche settimane fa. Il Fatto pubblica sul sito web entrambi i documenti.
Con nomi, redditi, auto, azioni, case, barche degli uomini che rappresentano il cervello della nostra amministrazione. Il reddito indicato è quello complessivo delle dichiarazioni 2012, quindi per l’anno di imposta 2011.
Non si tratta dello stipendio ma dell’intero reddito che in alcuni casi è in minima parte influenzato dalla carica pubblica. Marco Arato dichiara un milione e 518 mila euro nel bollettino perchè è presidente dell’aeroporto di Genova ma ovviamente trae gran parte di quel guadagno dalla sua attività di socio di uno dei maggiori studi italiani. Lo stesso vale per l’avvocato Cristiana Maccagno con il suo reddito di un milione e 830 mila euro che certo non arriva dalla carica di vicecommissario della Fondazione Ordine Mauriziano.
Domenico Arcuri (amministratore delegato di Invitalia) nel 2011 ha portato a casa 1 milione e 214 mila euro superando il presidente dell’Enel Paolo Andrea Colombo, che si ferma a un milione 193 mila euro.
Non poteva mancare Antonio Mastrapasqua, il presidente dell’Inps ha dichiarato un milione 174 mila e 308 euro, (il direttore generale dell’Inps Paolo Nori si ferma a 227 mila euro) nonostante abbia dovuto rinunciare a qualcuna delle sue cariche nel 2011.
Mastrapasqua non ha subito variazioni nel suo patrimonio che comprende tre immobili a Roma e quindi non dichiara nulla in merito.
Andrea Monorchio, presidente della Consap, dichiara invece un milione e 292 mila e 413 euro e cede piccoli pacchetti di BPER, Intesa, Enel, Banca Popolare di Vicenza e Snam. In compenso si è comprato una casa a Roma.
L’amministratore delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, dichiara un milione e 46 mila euro mentre il presidente Lamberto Cardia si accontenta di 896 mila euro.
Il presidente di Fintecna Maurizio Prato arriva a un milione 50 mila e 770 euro. Entrambi allegano le dichiarazioni delle mogli, ferme a 30 mila euro ciascuna.
Enrico Cotta Ramusino, oggi manager della società di ricerche di mercato Cfi Group Italia e nel 2011 della Millward Brown compare nel supplemento del bollettino come liquidatore dell’ Aeroporto della Provincia di Pavia con un milione e 141 mila euro.
L’allora presidente del Coni Giovanni Petrucci veleggia a 427 mila euro. Maria Rita Lorenzetti, presidente di Italferr recentemente coinvolta nell’indagine sul nodo Tav di Firenze, dichiarava nel 2012 solo 159 mila e 200 euro e vantava una Giulietta del 2012 e un’Alfa 156 del 2006. Attilio Befera, gran capo di Equitalia e dell’Agenzia delle entrate, autodichiara al fisco 772 mila e 335 euro e notifica agli italiani che temono le sue ganasce che ha venduto la sua auto: una Honda Crv del 2007.
L’allora presidente dell’Anas Pietro Ciucci dichiarava 817 mila e 481 euro qualche piccolo pacchetto di azioni Unicredit (30 mila) Fin-meccanica (1.000) e Generali (3.760) mentre Giuseppe Bono-mi, presidente della Sea, dichiara 864 mila e 899 euro più l’acquisto di una Volkswagen Polo usata del 2008.
Il presidente della Cassa Depositi e Prestiti Franco Bassanini, 540 mila euro di reddito complessivo, nel bollettino di giugno dichiara l’acquisto di una casa a New York e l’accumulo di presidenze in Condotte e Metroweb.
Infine Piergiorgio Massidda, allora presidente dell’Autorità Portuale di Cagliari, oggi commissario imposto dal ministro Maurizio Lupi (che è per questo indagato), dichiarava 155 mila euro più una casa a Roma, una ad Arzachena e una lunga lista di quote di proprietà immobiliari e societarie.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 28th, 2014 Riccardo Fucile
NELLE NOSTRE CARCERI 55 VOLTE MENO CHE IN QUELLE TEDESCHE… DA NOI SOLO LO 0,4% CONTRO LA MEDIA UE DEL 4,1%
È solo una coincidenza se la Germania, il Paese di traino dell’Europa, ha le galere più affollate di detenuti per reati fiscali ed economici?
Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?
Non inciderà anche questo, sulle scelte di chi vuole investire in un Paese affidabile? È interessante mettere a confronto, dopo le denunce della Guardia di Finanza sulla stratosferica evasione fiscale italiana e lo scoppio dell’«affaire Angiola Armellini», i numeri del rapporto 2013 dell’«Institut de criminologie et de droit pènal», curato dai docenti dell’Università di Losanna Marcelo F. Aebi e Natalia Delgrande, sulle statistiche del vecchio continente più alcuni Paesi dei dintorni come Azerbaijan e Armenia.
Tanto più che non arriva mai in porto quella benedetta delega al governo, attesa e rinviata da anni, perchè adotti «entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, decreti legislativi recanti la revisione del sistema fiscale» con un inasprimento delle pene compreso il ripristino delle manette.
Dice dunque la tabella a pagina 96/97 di quel rapporto, dedicata alla ripartizione per tipo di reato dei detenuti condannati con sentenza definitiva (dati 2011) che nelle nostre carceri solo 156 persone, cioè lo 0,4% della popolazione dietro le sbarre, è lì per avere violato la legge in materia di criminalità economica e fiscale.
Una percentuale ridicola. Tanto più rispetto alla media generale europea del 4,1%: il decuplo.
Per non dire del confronto con due Paesi da sempre additati come paradisi fiscali o comunque assai ospitali nei confronti della finanza di moralità elastica.
Dei detenuti del principato di Monaco, dove il 38% è dentro per furto e il 15% per stupro o aggressioni sessuali, il 23% è stato condannato per reati economici e finanziari. E questa quota sale addirittura, nel Liechtenstein, al 38,6%.
Scrisse il grande Angelo Brofferio, poeta piemontese amato da papa Francesco, «Guai a col ch’a s’ancaprissia / à«d volèi giusta la giustissia!», Guai a colui che s’incapriccia / a voler giusta la giustizia. Parole amare. Ma giuste.
Basti pensare alla sproporzione tra la condanna a 9 mesi di quel senegalese incensurato che, licenziato, aveva rubato al supermercato due buste di latte in polvere per il figlioletto e certi verdetti di manica larga.
Un mese di carcere convertito in 1.500 euro di multa per aggiotaggio a un operatore finanziario dell’Umb, recidivo.
Quattro mesi convertiti in 6 mila euro a due suoi colleghi di City Bank. Quattro mesi per insider trading al finanziere bresciano Emilio Gnutti.
Due anni ma condonati al figlio di Licio Gelli, Raffaello, per bancarotta fraudolenta. Uno in meno di quelli che rischia l’immigrato etiope El Israel, rinviato a giudizio per aver colto un fiore per la fidanzata «spezzando i rami di un oleandro posto a ridosso di una aiuola decorativa con l’aggravante di aver commesso il fatto su un bene esposto per necessità e consuetudine alla pubblica fede».
Un carcere in Italia: bassissima la percentuale dei detenuti per reati fiscali .
Fatto sta che nelle nostre carceri, il 16% dei condannati con pena definitiva è dentro per omicidio, il 5,3 per stupro, il 14,0 per rapina, il 5,3 per vari tipi di furto, il 39,5 per droga il 16,4 per reati vari ma su tutto spicca vergognosamente quello 0,4% dei detenuti per reati economici e finanziari, incluse le fatturazioni false.
Cioè l’unica imputazione che può portare un evasore a varcare i cancelli di un penitenziario. Prova provata di come da noi i colletti bianchi siano trattati in maniera diversa, molto diversa, da come sono trattati i colpevoli di reati in qualche modo, diciamo così, «plebei».
È la conferma di una certa idea della società che fu riassunta da Franco Frattini: «I reati di Tangentopoli non creano certo allarme sociale. Nessuno grida per strada “Oddio, c’è il falso in bilancio!” ma tutti si disperano per l’aggressione dell’ennesimo scippatore».
Sarà … Ma è un caso se poi gli investimenti stranieri si sono pressochè dimezzati in Italia passando a livello mondiale dal 2% del 2001 all’1,2% di oggi?
Non va così, dalle altre parti. Se da noi i galeotti per reati economici sono un trentacinquesimo di quelli per rapina e un novantanovesimo di quelli per droga, nelle carceri tedesche l’ordine delle priorità è ben diverso.
Evidentemente il famoso «giudice a Berlino» invocato dal mugnaio di Bertold Brecht considera lo scippo agli azionisti di qualche milione di euro più grave dello scippo di una borsetta sul bus.
Certo è che in Germania i detenuti per aggressione e percosse (7.592) o per rapina (7.206) sono addirittura meno di quelli sbattuti in galera per reati economici e finanziari: 8.601. I quali sono più o meno quanti i carcerati (8.840) per droga. Solo i detenuti per vari tipi di furto (12.628) sono di più. Ma non molti di più.
È un’altra visione del mondo. L’idea che un’economia sana abbia bisogno del rispetto delle regole.
Certo, ci sono anche lì truffatori e bucanieri della finanza e bancarottieri ed evasori. Ovvio. Quando li beccano, però, tintinnano le manette.
Un caso per tutti? Quello di Klaus Zumwinkel: come amministratore delegato aveva fatto di «Deutsche Post» un gigante mondiale. Il giorno che l’accusarono di evasione fiscale aggravata, però, non gli fecero una garbata telefonatina per invitarlo a presentarsi in ufficio.
No, per dimostrare che lì la legge è davvero uguale per tutti, decine di agenti della polizia tributaria, la Steuerfahndung, circondarono la sua lussuosa villa a Colonia e fecero irruzione all’alba.
Nè alcuno osò accusare Angela Merkel di avere istituito uno «Stato poliziesco»
Lo «spread» tra la nostra quota di detenuti per reati economici e finanziari e quella degli altri Paesi, del resto, è vistoso non solo nei confronti della Germania.
In rapporto agli abitanti, i «colletti bianchi» incarcerati in Italia sono un sesto degli olandesi, un decimo degli svedesi, degli inglesi e dei norvegesi, un undicesimo dei finlandesi, un quindicesimo degli spagnoli, un ventiduesimo dei turchi fino all’abisso che ci separa dai tedeschi.
E i francesi? Il dossier degli studiosi svizzeri non offre dati ufficiali esattamente coincidenti. Il sito web del ministero della Giustizia parigino, tuttavia, dice che nell’ottobre 2013 c’erano nei penitenziari d’oltralpe 4.969 detenuti per «escroquerie, abus de confiance, recel, faux et usage de faux» vale a dire frode, abuso d’ufficio, occultamento, falsificazione e uso di falsi.
Reati da colletti bianchi. Colpiti da leggi molto più severe della nostra, come in tutti i Paesi seri
Quanto all’America, basti ricordare il solo Jeff Skilling, il potentissimo amministratore della Enron e principale finanziatore di George W. Bush che arrivò a guadagnare in un anno 132 milioni di dollari.
Accusato della bancarotta della società , è stato condannato a 24 anni di carcere. Il pigiama color arancione della prigione di Waseca, nel Minnesota, potrà toglierselo solo nel 2028…
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 28th, 2014 Riccardo Fucile
IL RE DELLE POLTRONE, INDAGATO: NON MI DIMETTO DALL’INPS… IL PREMIER RICEVE DAL MINISTRO GIOVANNINI “LE PRIME INFORMAZIONI”, MA RINVIA LA DECISIONE
Tutto si può dire tranne che sia precipitoso. Enrico Letta è uomo che amministra prudenza e prudenza chiede: indaga, scopre cose nuove, le soppesa.
Ieri, per dire, ha ricevuto una relazione del ministro del Lavoro Enrico Giovannini su Antonio Mastrapasqua e la sua gestione dell’Inps.
Pare addirittura che — a oltre tre anni dai primi richiami della Corte dei Conti sull’abnorme concentrazione di potere del presidente monocratico — ieri “i primi elementi informativi” forniti dal ministro lo abbiano confermato nella sua opinione che i sei anni di Mastrapasqua alla guida solitaria del più grande ente previdenziale d’Europa sia da chiudersi.
Nessuna decisione è presa, per carità , non bisogna essere frettolosi: “Stiamo aspettando le analisi che dovrà fare soprattutto Giovannini”, come dice il ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni. “Ci vorrà ancora qualche giorno”, dicono a palazzo Chigi.
L’interessati, intanto, resiste: Mastrapasqua a dimettersi non ci pensa nemmeno, nonostante gli inviti che gli arrivano da più parti, governo Letta in testa.
Di dimissioni parlano con insistenza, su tutti, le associazioni dei consumatori, ma anche qualche partito come Sel e i Radicali e i pensionati della Cgil (ma non Camusso), mentre la Uil chiede l’immediato commissariamento dell’istituto.
Gli amici della Cisl, non a caso, più prudentemente parlano di “riforma della governance”.
Il braccio di ferro è tutto qui: un intervento di forza del governo (l’incarico di Mastrapasqua, infatti, scade a fine anno) è possibile e in che modo?
La lente di palazzo Chigi e del ministero del Lavoro, che vigila sull’Inps, si sta appuntando non tantosull’inchiesta per le fatture false o il presunto protocollo di favore firmato dal nostro con la regione Lazio come direttore generale dell’Ospedale israelitico, quanto sulla vicenda delle compensazioni tra crediti con la Asl Roma D e i debiti previdenziali con l’Inps.
Lì sarebbe in essere un conflitto di interessi che potrebbe innescare un’azione di forza dell’esecutivo.
Peccato che quella vicenda sia stata rivelata dal Fatto quotidiano nel maggio del 2012: grazie a un “atto unilaterale” firmato presso il notaio Mario Liguori di Roma a dicembre 2011, il direttore dell’ospedale Mastrapasqua dichiarava che avrebbe scontato i contributi Inps per il mese di novembre appena trascorso (15.458 euro) grazie ad un credito del 2007 di circa 248mila euro verso la Asl Roma D. L’operazione fu poi ripetuta altre volte almeno fino al 23 aprile 2012, quando il credito dell’Israelitico verso la Asl romana risultava sceso da 248mila a 118 mila euro.
La legge lo consente, ribadiscono fonti vicine a Mastrapasqua, e in maniera automatica e unilaterale per le strutture sanitarie senza scopo di lucro come l’Ospedale israelitico.
Non c’è stato, insomma, alcun intervento del Mastrapasqua presidente Inps per favorire la cosa.
Eppure Inpdap, prima dell’accorpamento, aveva contestato la procedura ritenendo quel credito “non esigibile”, mentre non risulta analoga iniziativa della SuperInps. L’ipotesi di reato su cui indaga la Procura di Roma, per questo caso, sarebbe falso in scrittura privata.
Le brutte notizie, però, non sono finite: non solo va avanti l’inchiesta della magistratura, ma pare essersi svegliata pure la Corte dei Conti, che verificherà il danno erariale connesso con il rimborso delle cartelle cliniche false.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 28th, 2014 Riccardo Fucile
“SI AFFIDA IL GOVERNO DEL PAESE IN VIA DEFINITIVA E PERMANENTE A UNA MINORANZA DI UN TERZO DEI VOTANTI”
«È sconcertante: la legge elettorale che si sta proponendo significa affidare il governo, in via definitiva e permanente, a una minoranza di poco più di un terzo dei votanti. Qualcosa che non esiste in nessun Paese democratico».
Paolo Cirino Pomicino, una vita nella Dc (fede andreottiana) e nelle sue eredi Udeur e Udc, vede nel sistema pattuito fra Berlusconi e Renzi «il rischio di un autoritarismo vestito a festa democratica»: «Riunisce insieme tre elementi maggioritari anomali: alta soglia di ingresso, circoscrizioni piccole, 18% di premio di maggioranza. Non accade in nessun posto. C’è un problema sul terreno democratico non opinabile».
Si dice che bisogna farlo in nome della governabilità …
«È un alibi. Si dimentica quello che le grandi democrazie parlamentari non hanno mai dimenticato: cioè che la maggioranza si forma in Parlamento e non prima del voto».
Sono 20 anni che in Italia il sistema di voto prevede coalizioni.
«Infatti abbiamo avuto sempre governi di minoranza. Però, almeno, erano minoranze del 46-48%. Qui si parla del 35. Ricorda la legge Acerbo, nata 90 anni fa proprio richiamando il bisogno di governabilità e votata da tutti, compreso De Gasperi. E fu un errore».
Secondo quella legge, fortemente sostenuta da Mussolini, bastava il 25% per prendere la guida del Paese.
«Con il modello prospettato può succedere la stessa cosa. Per esempio, una coalizione può avere due partiti che raccolgono ciascuno il 4% dei consensi; però i loro voti concorrerebbero comunque a far scattare il premio di maggioranza. Quindi l’esecutivo rappresenterebbe appena il 26-27% degli italiani. Avremmo un governo elitario, aggravato da liste bloccate che producono schiere di cortigiani. Sarebbe qualcosa di simile ai mandarinati…».
C’è chi sostiene che questo pericolo verrebbe eliminato dalle primarie.
«È ridicolo. Le preferenze che vanno bene per indicare i candidati, ma non per votarli. Sembra di essere su Scherzi a parte».
Quale potrebbe essere il rimedio?
«Bisognerebbe almeno alzare molto la soglia per un premio di maggioranza o addirittura abolirlo. Un sistema proporzionale con uno sbarramento al 4-5% spazzerebbe via i partitini; e il partito di maggioranza può cercare in Parlamento la maggioranza».
E l’allarme sulla frantumazione politica?
«La frantumazione va contrastata con la soglia di ingresso al 4-5%. E la governabilità sarà sulle spalle della politica, non delle leggi elettorali».
Daria Gorodisky
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Gennaio 28th, 2014 Riccardo Fucile
GLI ATTIVISTI SICILIANI IN UN COMUNICATO PRENDONO LE DISTANZE DALL’ATTIVITA’ DEI DUE ELETTI CHE RISPONDONO: “COLPO DI MANO DEL SITO”
Proprio quando il dissenso interno sembrava aver trovato un equilibrio, è arrivata la scomunica dal basso.
Il Meetup di Palermo ha scritto un comunicato per distaccarsi dalle posizioni di Francesco Campanella e Fabrizio Bocchino, i due senatori spesso portatori di posizioni critiche nei confronti della linea ufficiale del Movimento 5 Stelle.
“Sin dalle prime battute della corrente legislatura”, si legge sul blog del gruppo, “i due senatori siciliani si sono posti al di fuori delle logiche e dei principi del Movimento 5 Stelle. Tra le rivendicazioni più insistenti […] vi è senz’altro la necessità da parte dei 5 Stelle di doversi aprire all’accordo con altre forze politiche. Grazie a tale comportamento aperturista i due senatori hanno attirato attorno a sè un certo numero di pseudo-attivisti dell’ultima ora, pronti a cavalcare qualunque tipo di dissenso, nel tentativo di trasformare il M5S allontanandolo dalle sue origini”.
La risposta di Campanella è arrivata dopo poche ore: “Un gruppetto di attivisti”, ha detto a BlogSicilia, “fra cui l’amministratore del sito, hanno compiuto un piccolo colpo di mano, peraltro una minoranza all’interno dell’assemblea palermitana”.
Sostanzialmente, il MeetUp prende “le distanze da qualunque dichiarazione i senatori in questione possano rilasciare a titolo politico o privato”.
Non solo: il circolo dei 5 stelle palermitani “non si riconosce in alcuna misura in Francesco Campanella e Fabrizio Bocchino, con i quali non intende più collaborare per qualunque attività parlamentare o extra-parlamentare. Lo stesso valga per chiunque deciderà di appoggiare materialmente o intellettualmente i due senatori”.
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Gennaio 28th, 2014 Riccardo Fucile
L’EX MINISTRO: “MI SONO DIMESSO PERCHE’ LA POLITICA E’ CREDIBILITA'”
Le incongruenze sull’acquisto della casa di 180 metri quadri davanti al Colosseo lo spinsero ad affermare che «qualcuno avrà pagato a mia insaputa».
Oggi l’ex ministro Claudio Scajola pensa al suo nuovo inizio in politica: dipende molto «da chi mi saprà convincere».
Contento per la telefonata di Silvio Berlusconi?
«Sì, certamente. Mi ha chiamato proprio davanti ai cronisti che hanno subito rilanciato alle agenzie».
Pronto, quindi, per scendere di nuovo in campo?
«Adesso voglio pensare ad altro, alla mia famiglia».
Ma chi le è stato più vicino in questi anni? Berlusconi o Alfano?
«La verità è che per 3 anni e 9 mesi io sono stato per tutti un appestato».
E se dovesse scegliere con chi dei due schierarsi cosa preferirebbe? Forza Italia o Nuovo centro destra?
«Guardi, finora mi avevano tutti relegato all’ultima fila. Ora, grazie all’assoluzione, posso tranquillamente sedere in prima fila. Starò a vedere chi mi invita. In base a chi mi invita in prima fila, deciderò il mio futuro politico. Ora però ho altro per la testa».
Il processo le ha dato ragione.
«Non poteva essere altrimenti, io ho detto sempre e solo la verità . Ero tranquillo, tant’è vero che stamattina (ieri per chi legge, ndr) ho inviato un sms a mia moglie scivendole “Vedrai che la verità verrà a galla, perchè tu sai che ho raccontato la verità . Ma meglio prima che poi”».
Felice d’aver predetto il verdetto?
«Molto, soprattutto perchè solo l’assoluzione in formula piena, solo in caso di manifesta innocenza, può essere superata la prescrizione. Che nel mio caso era arrivata nel 2010, tant’è che ho sempre sostenuto l’inutilità di questo processo. Ma ho sempre avuto e sempre avrò fiducia nella legge e quindi non ho scelto la strada più comoda della prescrizione. E ho vinto: sono stato giudicato non colpevole».
A distanza di 3 anni e 9 mesi, farebbe ancora quell’affermazione sulla casa pagata a a sua insaputa?
«Di questa storia non voglio più sentir parlare, anche perchè in verità andò diversamente».
Come?
«In una conferenza stampa, dove tutti mi pressavano perchè dicessi sul pagamento ciò che non potevo dire perchè davvero non lo sapevo, affermai che “quello che non conosco sul pagamento è avvenuto senza che io lo sapessi”».
A sua insaputa, appunto.
«Ancora? Basta con questa storia. Mi ci sono giocato la carriera politica: io non ho aspettato nè di essere indagato ufficialmente, nè di essere sfiduciato in Parlamento. Mi sono dimesso prima».
Perchè?
«Ho sempre inteso la politica come una questione di credibilità , sia nei confronti degli alleati sia degli avversari. La sentenza parla chiaro: io non ho commesso alcun reato».
(da “La Stampa“)
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Gennaio 28th, 2014 Riccardo Fucile
LO “STATISTA” SBATTE CONTRO L’INCOSTITUZIONALITA’ DELLA SOGLIA DEL 35%, MA IL RICHIAMO DI NAPOLITANO PUO’ SALVARLO DALL’IMPASSE
Per la prima volta dal giorno dell’incontro al Nazareno, Matteo Renzi prende atto delle trappole dietro l’angolo che spuntano ogni volta che il Pd — o il centrosinistra, negli anni addietro — intesse trattative con Silvio Berlusconi.
Con il Cavaliere il segretario Dem si era accordato su una soglia di sbarramento per il premio di maggioranza della legge elettorale al 35 per cento.
E “i patti sono patti, vanno rispettati”, aveva fatto la voce grossa il sindaco di Firenze incontrando i deputati del Pd qualche giorno dopo il faccia a faccia con Berlusconi. Oggi che quella soglia ritenuta troppo bassa dal Quirinale pare destinata ad essere rivista al rialzo (38%), il Cavaliere non ci sta: “I patti devono essere rispettati”, dice anche lui dall’altra parte, sentendo i suoi esperti che lo avvertono sulla possibilità che a quel punto Forza Italia rischierebbe di non arrivarci al ballottaggio previsto dall’Italicum.
Trattativa tutta in salita, Renzi fa l’unica mossa utile: convincere la minoranza Pd in commissione a ritirare tutti gli emendamenti quanto meno per sfilare al centrodestra l’arma della solita accusa.
Vale a dire: il Pd è diviso. Ritirati gli emendamenti il campo rimane sgombro. Con una sola condizione posta dal Pd: premio di maggioranza possibile solo se la coalizione raggiunge il 38 per cento.
E’ la condizione posta dal Quirinale. E non è un caso.
Significa che l’asse tra il presidente della Repubblica e Renzi non si è incrinato neanche un po’.
Malgrado i rapporti gelidi tra il segretario e il premier, gli scambi di accuse sotto traccia oppure espliciti tra Nazareno e Palazzo Chigi, il fatto che rimpasto e patto di coalizione ancora slittino per altre due settimane, a dire poco.
Però se il segretario si fa scudo della posizione di Napolitano e dei costituzionalisti che ritengono troppo bassa la soglia del 35 per cento per ambire a un premio di maggioranza del 18 per cento (cioè la metà della soglia), d’altro canto si arena al primo scoglio della trattativa con Berlusconi.
Dopo la nottata di fuoco in commissione, dopo la riunione accalorata con i commissari del Pd, della serie prendere o lasciare “se fate crollare tutto, domani convoco una conferenza stampa e vi do la colpa del fallimento, dopodichè finisce la legislatura e si va al voto con il proporzionale puro”, dopo nervi tesi e corde tirate al limite, Renzi in mattinata riunisce i suoi: Maria Elena Boschi, Luca Lotti, il tesoriere Francesco Bonifazi. Li aggiorna sullo stato dell’arte.
Quindi, prende il treno e torna a fare il sindaco. A Firenze a inaugurare una pista ciclabile.
Via da Roma è il segnale che tutto quello che c’era da fare in città è stato fatto, prima dell’approdo dell’Italicum in aula domani.
Via da Roma per segnalare ancora una volta una distanza dai “palazzi delle trattative infinite”, dicono i suoi.
Via a Firenze a incrociare le dita. Perchè se gli emendamenti sono stati ritirati in commissione, non significa che in aula andrà tutto liscio. Anzi.
Realisticamente parlando, Renzi parte per la sua città “senza l’Italicum in tasca”, ammettono i suoi. “Adesso sta al Parlamento”, riconosce il sindaco guardando alla fitta selva di trappole e inganni che possono spuntare da ogni dove per affossare l’Italicum. Certo, la speranza non è persa.
Tra i suoi prevale la convinzione che Berlusconi alla fine accetterà la soglia del 38 per cento. Magari sarà solo esercizio di ottimismo in un momento di crisi, però c’è chi ricorda la trattativa sulla legge elettorale per le europee nel 2009.
Anche allora il Cavaliere tenne il punto fino all’ultimo momento contro lo sbarramento del 4 per cento.
Tanto che Massimo D’Alema, che allora trattava con il Pd, consigliò ai vendoliani di fare la scissione da Rifondazione, convinto che l’accordo con Berlusconi fosse sulle preferenze senza sbarramento.
A sorpresa, invece, il Cavaliere accettò anche il 4 per cento, ma la scissione dentro il Prc si era già consumata. E oggi alla vigilia del nuovo turno per le europee a maggio prossimo, quel 4 per cento è ancora un problema per la sinistra radicale, già massacrata dall’Italicum.
Paragoni storici che ora portano i renziani a ben sperare: “Alla fine Berlusconi si convince”. Ma l’intoppo è grosso ed evidente a tutti.
Tanto che dalle parti del sindaco davvero si valuta la possibilità di un ritorno al voto con il proporzionale puro consegnato dalla Consulta. Alle brutte, è il ragionamento, si tratta di un sistema che obbligherebbe la riottosa minoranza del Pd a misurarsi con il territorio (c’è la preferenza unica).
E poi sbarra i piccoli all’8 per cento sull’ingresso in Senato e al 4 per cento sull’ingresso alla Camera: mica male anche per chi come Renzi ha una prospettiva maggioritaria e gode in questo momento di sondaggi molto generosi.
Oggi a Firenze, in stretto contatto con Roma, naturalmente.
Ma domani il sindaco tornerà qui: dovrebbe esserci riunione di segreteria di primo mattino, come al solito. E poi nella capitale domani c’è anche l’assemblea straordinaria dell’Anci sull’intricato capitolo delle tasse sulla casa: questione spinosa più che aperta col governo Letta. Il sindaco Renzi dovrebbe prendervi parte, naturalmente.
(da “Huffingtonpost“)
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