Gennaio 25th, 2014 Riccardo Fucile
GLI ESPERTI: “PESSIMA AERODINAMICA E FACILE DA ABBATTERE”
Una performance “inaccettabile”. È questo il giudizio che Michael Gilmore, il responsabile del Pentagono incaricato di provare i nuovi sistemi d’arma, ha dato dell’F35 per quanto riguarda la sua componente software.
La notizia è stata diffusa dall’agenzia di stampa Reuters, che ha potuto consultare l’anticipazione del “nuovo rapporto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti”, nel quale viene scritto nero su bianco che sul software di missione Block 2B, che nei piani sarebbe dovuto essere pronto per la metà del 2015, subirà un ritardo di 13 mesi.
Le motivazioni dei ritardo sono contenute appunto nel rapporto di Michael Gilmore, direttore delle valutazioni operative del Dipartimento della Difesa a stelle e strisce, il quale sostiene che la performance del software fin qui sviluppato è “inaccettabile”.
Già in passato Gilmore aveva duramente criticato il programma F-35 degli Usa (392 miliardi di dollari, il più costoso del Pentagono).
La relazione del Dipartimento dovrebbe essere consegnata al Congresso nella prossima settimana.
Secondo il direttore delle valutazioni operative, l’F35 non è ancora in grado di integrare i “sistemi di missione, armi e altre attrezzature necessarie per l’impiego in operazioni militari” . Detta in parole semplici, è ancora molto lontano dal poter svolgere il suo ruolo di cacciabombardiere.
Non si tratta che dell’ultima bocciatura di un velivolo che, finora, ha ricevuto più critiche che complimenti. Un anno fa il Sunday Telegraph citava un rapporto del Pentagono: l’eccessiva riduzione dello spessore del serbatoio rende l’F35 soggetto a esplosione se il caccia dovesse essere colpito da un fulmine.
Lo scorso mese di febbraio Pierre Sprey, il creatore degli F-16, intervistato da Presa Diretta ha sostenuto che si tratta del “peggior aereo mai costruito”, in quanto ha “una pessima aerodinamica” e subisce “restrizioni alla velocità perchè altrimenti si brucia la coda. È un aereo infiammabile perchè il carburante sta intorno al motore”.
Un mese dopo nuovo rapporto del Pentagono, pubblicato dallo Spiegel, sostiene che l’F-35 “è facile da abbattere” a causa delle difficile ‘condizioni di guida’ per il pilota.
A maggio infine l’organismo indipendente del Regno Unito, il National Audit Office, aveva rilevato un problema in fase di atterraggio in condizioni di caldo umido.
(da “Huffington Post“)
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Gennaio 25th, 2014 Riccardo Fucile
SAREBBE DELUSA DA ALFANO E LETTA, COLPEVOLI DI NON AVERLA DIFESA ABBASTANZA
Nunzia De Girolamo sta pensando di rientrare in Forza Italia.
Una decisione sulla quale sta meditando da un po’ di tempo, complice l’atteggiamento di Enrico Letta e del segretario del suo partito Angelino Alfano.
Il ministro dell’Agricoltura non si è sentita difesa dal premier e molto ha pesato la sua assenza quando la scorsa settimana è andata in aula alla Camera per difendersi dalle accuse che le sono piovute addosso nel caso della Asl di Benevento.
Ma Nunzia De Girolamo, a quanto pare è rimasta anche abbastanza delusa dall’atteggiamento di Angelino Alfano, colpevole, per lei, di non essersi fatto sentire abbastanza per stroncare le accuse che le hanno rivolto.
Ieri è stata una giornata di incontri per il ministro.
La De Girolamo è stata vista parlare con le deputate di Forza Italia Gabriella Giammanco e Annagrazia Calabria, con Denis Verdini, Rocco Palese e Vito Crimi. Colloqui fitti, per capire come Forza Italia reagirebbe al suo rientro al fianco di Berlusconi.
Il Cavaliere da tempo sta portando avanti una campagna di «moral suasion» per riportare i ribelli del Nuovo Centrodestra dentro il suo partito.
E potrebbe aver fatto breccia sull’insofferenza della ministra per le vicissitudini che l’hanno colpita nelle ultime settimane.
Una decisione non ancora presa e che potrebbe cogliere di sorpresa lo stesso Alfano. Giovedì, infatti, Nunzia De Girolamo ha partecipato a una riunione del Nuovo Centrodestra al Senato sul tema della riforma elettorale e, secondo il racconto dei partecipanti, non ha mostrato alcun segnale di rottura con il partito.
Ma la decisione potrebbe arrivare entro pochissimi giorni. Nunzia De Girolamo è uno dei cinque ministri del Ncd che hanno lasciato Forza Italia a novembre per restare nella maggioranza e appoggiare Enrico Letta.
Sposata con il deputato del Pd Francesco Boccia è stata messa sotto accusa nelle ultime settimane per alcune intercettazioni — abusive — che avrebbe fatto il direttore sanitario della Asl di Benevento, Pisapia, a casa del ministro.
Ma con il suo ritorno in Forza Italia si aprirebbe anche il problema delle sue dimissioni da ministro.
Passando a un partito che si trova all’opposizione la De Girolamo non potrebbe restare al governo. E a quel punto potrebbe anche dare una mano al premier per avviare un rimpasto di più ministri.
Così come chiesto da una parte del Pd, da Lista Civica e dal Ncd.
(da “il Tempo”)
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Gennaio 25th, 2014 Riccardo Fucile
IL SINDACO PD DECADUTO CHE NON VUOLE MOLLARE ALCUN INCARICO
Più spaccone che socialista, più campiere che sindaco, Vincenzo De Luca sarebbe un ordinario mammasantissima, un tipico prodotto del plebeismo carismatico meridionale alla Achille Lauro se non fosse un uomo di sinistra.
Sembrava, sino a ieri, il meglio e il peggio del sud mischiati in una ganga compattissima: il riformatore che aveva restituito dignità a un territorio desertificato e lo sceriffo guappo che sottometteva la città alla sua legge, padrone e al tempo stesso governatore coraggioso: con lui Salerno è diventata una delle più vitali e solari città del sud, con un water frontmoderno e funzionante, belle strade, grandi architetti e conti in ordine.
Ebbene, tutto questo successo gli ha dato alla testa.
E adesso che ha deciso di non obbedire neppure al Tribunale civile, in lui ha definitivamente prevalso il sangue pazzo del meridionale sul politico arguto e virtuoso.
E butta fumo dalle narici, subisce il Diritto come una soperchieria, insulta il ministro Lupi che da mesi gli chiede di scegliere: «figurati se mi faccio ricattare da uno come te».
E non cede neppure ai giudici. È la versione salernitana del siciliano Mirello Crisafulli, del veneto Cota, del lombardo Formigoni, è il notabile di sinistra che mette se stesso al di sopra di tutto, come fosse un altro unto del signore.
È arrivato, in questo suo “teppismo democratico”, a fare l’elogio dell’immoralità «che ci permette di governare», ha esibito come scalpi le indagini alle quali è sottoposto, di cui non ci occupiamo, e dalle quali gli auguriamo di uscire pulitissimo: «Io sono orgoglioso.
In questo paese siamo tutti indagati. Non c’è un amministratore che non abbia un avviso di garanzia. Chi non ce l’ha è una chiavica ».
E ha sempre cercato cariche: quando era eletto alla Camera si ricandidava come sindaco; da sindaco si candidava come presidente della Regione; e, podestà di Salerno, “sindaco per sempre” più di Orlando a Palermo, ha golosamente accettato di fare il sottosegretario.
E ha candidato pure il figlio, proprio come fecero Raffaele Lombardo in Sicilia e Bossi in Padania: «Quelli che ce l’hanno con mio figlio sono cialtroni e farisei ».
Avrebbe dovuto dimettersi allora, nell’aprile del 2013, quando venne nominato ai trasporti nel governo Letta.
L’incompatibilità infatti non ha bisogno di sentenze, si impone per evidenza: se vuoi amministrare(bene) i trasporti d’Italia non hai certo il tempo di governare (bene) Salerno.
È roba da fantuttone, da “ghe pensi mi” che purtroppo tradotto in salernitano rimanda al pregiudizio della prepotenza antropologica: «A Salerno mi votano anche le pietre».
Solo Brunetta avrebbe voluto fare allo stesso tempo il ministro della Funzione pubblica, il sindaco di Venezia e il deputato. I doppi incarichi e l’amministrazione come accumulo di roba non sono mai stati valori di sinistra, e non basta certo il tifo da stadio dei salernitani che lo eleggono per acclamazione a farne un eroe al di sopra della legge, come gli indimenticabili briganti delle due Sicilie.
E poi c’è quel parlare a gesti, quel lessico da duro pittoresco, una lingua impastata di esclamazioni, minacce, rancori e ripicche.
E intanto si tocca, fa le corna e gli scongiuri, si gratta perchè Lupi porta sfiga: «non si sa mai, ho due figli, abbiate pazienza: una grattatina ». E «la grillina Lombardi vada a mori’ ammazzata », «il collega del pd Zoggia sembra un raccoglitore di funghi», «il doppio incarico è una palla!», «coglioni!», «dei rom me ne frego!», «le discariche vanno aperte con il carro armato», «nel Pd c’è un gruppo dirigente di miserabili e il partito vive nella demenzialità », «spero di incontrare quel grandissimo sfessato e “pipì” di Marco Travaglio di notte e al buio», «Grillo sta con il panzone al sole», «Monti si mette il chihuahua sulla testa»…
Gli archivi e i blog sono pieni delle gag di De Luca e su Youtube è più cliccato di Ficarra e Picone. Ovviamente è molto parodiato, si ride di lui, è una specie di fattucchiero, una riedizione del Rosario Chiarchiaro interpretato da Totò…
In realtà tutto questo divertirsi è una smorfia dolorosa, una partita sospesa sul Sud d’Italia, quello dei notabili e dei capibastone. De Luca, caudillo liberale («sono gobettiano» dice), è l’ennesima sconfitta, forse quella definitiva, dell’utopia dello sviluppo nella terra dei diavoli: da poveri a ricchi, da attardati a veloci, dall’indolenza alla nevrosi, dall’immobilismo all’iperattivismo.
Nella miseria del guappo democratico stravaccato su due poltrone c’è la morte di un sogno antico che è anche nostro, il sogno di tutti i meridionali d’Italia, di un Paese che per tre quarti è Meridione.
Francesco Merlo
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 25th, 2014 Riccardo Fucile
IN REALTA’ SI RITORNA AL VECCHIO SISTEMA DI AZIENDE A PARTECIPAZIONE STATALE
L’annuncio di voler quotare Poste Spa in Piazza Affari è caduto in un giorno nero per le Borse, ma non per questo si tratta di una cattiva notizia.
Al contrario, dopo tante chiacchiere, qualcosa torna a muoversi sul fronte della valorizzazione delle aziende pubbliche.
I venti che hanno scosso ieri i listini azionari un po’ dappertutto nel mondo hanno origini lontane da casa nostra: nascono da timori sulla tenuta dell’economia cinese e su una svolta restrittiva della politica monetaria americana.
E il fatto che lo Stato italiano voglia riprendere il cammino di quelle che con qualche eccesso lessicale sono chiamate privatizzazioni potrebbe semmai attenuare i contraccolpi sulla Borsa italiana dei nuovi chiari di luna sui mercati internazionali.
Ci vorrà ancora tempo prima che l’offerta di azioni della Poste Spa si realizzi concretamente sul mercato e può anche darsi che la cessione del 40 per cento del capitale dell’azienda non si concluda con l’incasso sperato oggi nell’ordine dei sette/otto miliardi.
Nessuno al momento è in grado di prevedere quale sarà il mood prevalente sui listini quando dall’annuncio si passerà al fatto.
A Londra da mesi si sta ancora ferocemente polemizzando sull’analoga operazione condotta dal governo Cameron con Royal Mail.
Ma nella ben più difficile condizione in cui si trova la finanza pubblica italiana sarebbe perdita di tempo e di denaro sottilizzare su presunte svendite di patrimonio statale.
Anzi, la maggior critica che sembra giusto avanzare riguarda piuttosto il ritardo con il quale alla fine si è deciso di procedere.
Basti pensare a quanto accaduto le scorse settimane con l’incresciosa decisione di usare proprio la Poste Spa per offrire una stampella comunque insufficiente a un malato cronico se non quasi terminale come Alitalia.
Diciamolo con franchezza: se la quotazione in Borsa delle Poste fosse stata fatta in precedenza, un simile ukase da parte dello Stato sarebbe risultato con ogni probabilità impraticabile. O, quanto meno, si deve sperare che così sarebbe stato.
È il caso di sottolineare questo punto perchè, come si accennava all’inizio, quella annunciata dal governo è una privatizzazione per modo di dire.
Come pure l’altra che si annuncia per l’Enav. «In entrambi i casi si tratta – è stato dichiarato in forma ufficiale – di cessione di quote non di controllo».
Del resto in analogia con quanto deciso a suo tempo per i giganti energetici dell’Enel e dell’Eni. Scelte che poggiano su solidissimi argomenti dati il peso e l’importanza strategici di aziende che operano in mercati vitali per l’economia e la sovranità stessa del paese.
Ma proprio per questo un’esigenza di chiarezza concettuale impone che si chiamino le cose con il loro nome: con la quotazione di Poste Spa, come già appunto con Enel ed Eni, non si dà luogo a privatizzazioni ma si resta o si ritorna a un sistema articolato di aziende a partecipazione statale.
Un simile chiarimento non nasce da un sofisma nozionistico.
Ma mette solide radici nella non poi così lontana esperienza delle partecipazioni statali domestiche che hanno fatto vivere al paese una delle sue peggiori stagioni istituzionali piegando gli interessi dello Stato al servizio di appetiti politici di partito o addirittura di fazione.
Fino all’assurdo di creare uno specifico ministero il cui compito era soltanto quello di fare da sensale fra boiardi e bande di potere.
Ecco, si vorrebbe avere la certezza che un simile passato non rientri in gioco da qualche finestra secondaria.
I primi rumors già in circolazione sui movimenti politici per le nuove nomine ai vertici delle attuali partecipazioni statali non inducono all’ottimismo.
Bene, quindi, che Poste Spa vada in Borsa, ma occorrerà fare attenzione che l’uso improprio del termine “privatizzazione” non diventi un comodo riparo dietro cui nascondere gli sporchi commerci pubblici del passato.
Massimo Riva
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Gennaio 25th, 2014 Riccardo Fucile
LE 100 NOMINE DELLO STATO-PADRONE
I Boiardi, grandi aristocratici feudali, sopravvissero in Romania fino agli anni Venti del Novecento, mentre Al Capone-Scarface prendeva il comando del sindacato del crimine a Chicago.
I nostri, quei personaggi immarcescibili che si alternano come nella porta girevole di un grand hotel alla guida di grandi imprese pubbliche o semipubbliche e di incomparabili centri di potere para- politici, hanno svoltato senza danni la terza generazione dal dopoguerra e si apprestano a festeggiare il potere intangibile nel nuovo secolo e nel nuovo millennio.
Cinquanta? Cento? O, scendendo per li rami dei più doviziosi castelli merlati del potere, addirittura il doppio?
Nessuno, neanche il ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni che dovrebbe essere il loro principe regnante, sa con esattezza quanti siano, anche perchè non sono ben definiti i confini dei feudi che controllano.
Quel che è certo è che una coorte di anziani plurimilionari nati nel secondo dopoguerra (quando non nel primo) si appresta a garantirsi una quarta età da magnati feudali nelle grandi imprese e negli enti pubblici.
Ma anche in posizioni da favola private o semi-private per accedere alle quali occorre il benigno viatico del principe, la politica che nulla fa e quasi tutto può.
MANOVRE DI PRIMAVERA
La grande campagna-nomine dovrebbe scattare in primavera, ma le manovre stavolta sono più complesse e sono già cominciate alacremente, perchè mai l’humus politico in cui si svolgono è stato così stravolto.
Enrico Letta regna (?) e la vecchia scuola democristiana è una garanzia, ma Matteo Renzi governa. O almeno questa èla prima impressione che ha dato.
Che farà il fiorentino nei grandi feudi? Lui giura che vuol tenersi fuori, come ha detto di aver fatto quando si è posto il problema dell’assetto del Monte dei Paschi di Siena. Ma pochi ci credono.
E infatti l’allerta è generale: apparati di pubbliche relazioni, uffici pubblicità , società probabili o improbabili di cacciatori di teste, lobbisti sparsi e faccendieri vari sono tutti al lavoro ventre a terra per sostenere i loro feudatari di riferimento.
E, per prima cosa, si tratta di capire come muoverà la nuova armata del giovane fiorentino. Di certo, non lascerà il pallino nelle mani del pisano di palazzo Chigi, avvezzo a quel mondo e ben introdotto nei circoli «networked», di cui lo zio Gianni Letta è tuttora il dominus, anche se un po’ in disarmo.
Sarà scavalcato anche sulle nomine dall’altro fiorentino Denis Verdini, che con Matteo Renzi ha un’antica consuetudine, una consuetudine che risale a ben prima della sua elezione a sindaco di Firenze, che l’ex banchiere-macellaio seguì con occhio talmente affettuoso da contrapporgli alle elezioni un avversario quantomeno improbabile?
FIGURINE COSTOSE
L’album degli aspiranti top manager a vita non può che aprirsi con Paolo Scaroni, classe 1946, 67 anni compiuti il 28 novembre scorso (ultimo stipendio conosciuto come amministratore delegato dell’Eni 6,52 milioni di euro) e con Fulvio Conti, classe 1947, 66 anni compiuti in ottobre (ultimo stipendio conosciuto come amministratore delegato dell’Enel 3,948 milioni di euro).
Mentre la stragrande maggioranza degli italiani in viaggio verso i settanta è in panchina a giocare con i nipotini e a incazzarsi con Letta e Saccomanni che gli bloccano l’adeguamento delle principesche pensioni, i due anziani stanno lavorando con ottime chances per ottenere il quarto mandato e assicurarsi così una quarta età da ricchi epotenti.
Ma quanti dei pensionati che si trastullano con i nipotini, pur professionisti di vaglia, possono dire come Scaroni di essere totalmente intrinseci al pluripregiudicato piduista Luigi Bisignani?
Il quale dell’arte delle nomine pubbliche ha fatto un mestiere e distribuisce persino dispense per spiegare come si fa ad ottenerle?
«Il segreto – ha spiegato in un recente libro, la cui pubblicazione ne ha fatto un piccolo eroe delle comparsate nella compagnia di giro dei salotti televisivi – è questo: avere l’idea e l’uomo giusto. Poi bisogna far girare il nome in una ristretta cerchia di persone, ognuna delle quali deve farlo suo e riproporlo in una specie di passaparola, ma molto selezionato ».
Sì, «ciao core!» direbbero a Roma, dove tutti sanno che per accedere a quei posti bisogna mettere a disposizione fedeltà , favori di ogni genere, ulteriori nomine nelle società controllate, consulenze e tanti soldi.
Dicono che l’anziano Scaroni, inseguito da un paio d’inchieste di corruzione dopo la condanna ai tempi di Tangentopoli, stavolta si accontenterebbe di fare il presidente invece dell’amministratore delegato dell’Eni, più o meno il primo grande gruppo industriale italiano.
Ma le sue ambizioni sono rimontate dopo l’incrociarsi d’amorosi sensi con Matteo Renzi l’altro giorno nel solito marchettificio Rai di Bruno Vespa.
Gli avversari del neosegretario ne hanno inventate di tutti i colori dopo quella performance, ma ben poco credibili, come una presunta affiliazione del papà del Matteo alla massoneria fiorentina, che lo collegherebbe al network scaronian-bisignano. Balle.
Renzi non è affatto stupido e sa benissimo che in caso di riconferma di Scaroni e di Conti, non solo Enrico Letta, ma anche lui il Rottamatore, dovrebbe spiegare qualche cosetta.
Per esempio perchè non si è battuto per rispettare la buona prassi di corporate governance che prevede che i presidenti e gli amministratori delegati non superinomai i tre mandati per consentire l’innovazione e magari quando occorre – e occorre spesso – la pulizia dei bilanci.
Da noi, nel pubblico come nel privato, si preferisce la gerontofilia limitando il turn over alla ristretta oligarchia di chi è molto «networked», ha buona relazioni in ogni direzione ed è sperimentato per la sua fedeltà , che spesso andrebbe chiamata connivenza.
Non a caso, gli ultrasessantacinquenni ai vertici della classe dirigente italiana sono cresciuti in pochi anni dal 25,2 al 39,3 per cento del totale. E infatti gli Scaroni e i Massimo Sarmi — classe 1948, da dieci anni alle Poste e attuale candidato a tutto dopo che ha deciso di proporsi non più come postino ma come aviatore, ennesimo «salvatore» dell’Alitalia -, o, per restare nei cieli, i Vito Riggio, classe 1947, ex deputato diccì confermato per la quarta volta alla presidenza dell’Ente per l’aviazione civile, non sono che nonni.
Mentre i bisnonni – vedi Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti – popolano le grandi banche, governate da quella che Tito Boeri ha battezzato «gerobancrazia».
LA PRIMA VOLTA DI RENZI
Rispetto alla flemma apparente di Enrico Letta, Matteo Renzi si muove come una specie di furetto. L’altra sera, dopo una giornata massacrante, si è portato a casa un centinaio di schede di boiardi, boiardini e aspiranti tali o candidati alle promozioni.
E a letto si è drizzato sul cuscino quando ha scoperto – guarda un po’ – che decine di loro, hanno stipendi stratosferici, a dispetto del decreto di Saccomanni (che fine ha fatto? ) che pone un tetto pari al trattamento economico del primo presidente della Corte di Cassazione, cioè 302.937 euro lordi.
Sono escluse – i posti più al sole tra i posti al sole – le controllate del Tesoro quotate in borsa, come Eni, Enel, Terna, Snam e Finmeccanica. Haia, haia, la Finmeccanica, che ha prodotto insieme per lustri armamenti e scandali dei più incredibili. I buchi degli scandali sono stati tappati da Alessandro Pansa, nominato amministratore delegato, e da Gianni De Gennaro, ex capo della polizia, presidente. Ci ha messo l’occhio anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano perchè l’azienda sta molto a cuore agli americani.
E il rinnovodelle cariche, in primavera, sarà forse – Renzi lo sappia – la madre di tutte le nomine.
Ha spiegato Bisignani, che si autodefinisce «stimolatore di intelligenze » (sic) che quella è una battaglia «a stelle e strisce», che viene da lontano, da quando De Gennaro, vicino all’Fbi, si scontrava con Nicolò Pollari, più vicino alla Cia.
Non è detto che nel prossimo maggio De Gennaro resterà ancora lì, ma mentre per lui il Quirinale prepara destini ancor più luminosi, il destino di Alessandro Pansa naviga nel regno dell’incertezza. Infatti, nel frattempo è atterrato in Finmeccanica un pezzo da novanta.
Si tratta dell’ammiraglio Giampaolo Di Paola, ex ministro della Difesa nel governo Monti, messo a capo del comitato per le strategie internazionali.
Non sarà lui il vero candidato alla presidenza della holding? E non ci sarà un bel premio per Franco Bernabè, antico consulente di Francesco Cossiga per i Servizi segreti? Per Francesco Caio? O – perchè no? – per l’amministratore delegato di Fincantieri privatizzanda Giuseppe Bono?
DAL QUIRINALE
Renzi e Letta si preparino a camminare sulle uova, nel dossier Finmeccanica, che è già più che aperto nei tavoli che contano, oltre che nelle Procure.
Tra l’altro c’è una notiziola passata inosservata, ma non proprio ininfluente: pochi giorni fa è entrato in Finmeccanica un nuovo boiardino: Giuseppe Caldarola, classe 1946, giornalista in pensione, ex vicedirettore di Rinascita, su cui scriveva Giorgio Napolitano, ex direttore dell’Unità e deputato per due legislature.
Chissà se Renzi, che di peli sulla lingua sembra averne pochi, chiederà a qualche «stimolatore di intelligenze»: «Ma che c’azzecca?».
Magari si sentirà rispondere con Vilfredo Pareto: «È la circolazione delle èlite, bellezza».
Alberto Statera
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Gennaio 25th, 2014 Riccardo Fucile
LE CONVERSAZIONI AL CARCERE DI OPERA CON IL PUGLIESE LORUSSO SEMBRANO CONFERMARE I RAPPORTI DEI DUE BOSS CON IL LEADER DI FORZA ITALIA
I Graviano avevano Berlusconi. Parola di Totò Riina. Tra le tante conversazioni registrate nel carcere di Opera, quella della mattina del 25 ottobre 2013 è passata quasi inosservata.
Eppure Totò Riina, mentre passeggia con il suo compagno di cella Alberto Lorusso, si lascia andare a considerazioni non proprio scontate.
Il boss pugliese è molto curioso e chiede: “I Graviano stavano con i familiari a Milano?”. Il capo dei capi replica: “Sì forse saranno andati questi, stavano…, avevano Berlusconi… certe volte…”.
Poi c’è una parola incomprensibile e Lorusso commenta: “L’hanno legato, quando doveva testimoniare”.
Probabilmente Lorusso stuzzica il boss di Cosa nostra sulla mancata deposizione di Giuseppe Graviano al processo di appello a Marcello Dell’Utri.
Dopo le rivelazioni di Gaspare Spatuzza sulle confidenze ricevute dal suo capo al bar Doney di Roma nel gennaio 1994 su Marcello Dell’Utri e Berlusconi, il boss Graviano preferì tacere.
Riina, nonostante l’età , non si lascia andare con Lorusso e cambia discorso ma sembra critico verso i suoi ex fedelissimi.
Irride la loro scelta di costituirsi parte civile contro il killer reo confesso dell’omicidio del padre, Michele Graviano, nel 1982, e soprattutto critica le stragi realizzate dai fratelli al nord nel 1993.
E conclude “i Graviano per me non ha mai contato nè contano… devi dirigere a me che me ne devo andare a Firenze? Io me ne vado nella piazza di Palermo, incomincio a cercare chi di dovere!”.
I fratelli Graviano, Giuseppe 50 anni, e Filippo 52 anni, sono i boss trentenni che hanno condotto la strategia stragista del 1992-1993 da via D’Amelio alle stragi di Firenze e Milano.
Sono loro anche le bombe contro le chiese a Roma tra maggio e luglio che lanciavano segnali alla politica e al Vaticano. Inoltre sono sempre loro, secondo l’accusa del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza — che è stato creduto e riscontrato su tante altre vicende ma non su questo punto — ad avere intessuto i rapporti con Marcello Dell’Utri per ottenere in quel periodo garanzie sui benefici per i carcerati in caso di vittoria di Forza Italia alle elezioni del 1994 in cui scese in campo il Silvio Berlusconi.
È evidente che quella frase di Riina è guardata con attenzione dai pm palermitani che indagano sulla cosiddetta trattativa e che non hanno mai fatto mistero di indagare anche sui rapporti tra la mafia e la politica alle origini della seconda repubblica.
Il rapporto tra i Graviano e Marcello Dell’Utri è stato affermato nella condanna di primo grado e considerato non provato invece in appello, con sentenza ormai definitiva. I
l Fatto, indipendentemente dalla valutazione giudiziaria, ha provato a seguire le tracce dei rapporti tra la famiglia Dell’Utri e il mondo che gravita intorno ai Graviano in un’inchiesta autonoma che parte dal lavoro dei magistrati senza arrestarsi solo alle conclusioni, per loro natura limitate al versante giuridico, dei processi.
La prima persona ad affermare l’esistenza di un rapporto d’affari della famiglia Dell’Utri con ‘i mafiosi’ legati ai Graviano è stata la mamma di Marcello Dell’Utri.
Nel novembre del 1986 la signora Dell’Utri racconta al figlio Marcello, che in quel momento è intercettato dai carabinieri, sul suo telefono milanese, che “Giuseppe sta vendendo la fonderia ai mafiosi”.
Negli atti del processo Dell’Utri quella telefonata è confluita perchè Marcello parla con la madre di quel Tanino Cinà che i pm considerano il garante con i boss della protezione in favore della Fininvest.
“La madre dice — scrivono i carabinieri — che gli manderà alcune cose tramite Cinà poi affronta il tema della vendita, da parte di Giuseppe Dell’Utri), altro fratello dell’odierno imputato, della Fonderia Oretea, a soggetti ‘mafiosi’.
Si rappresenta, a tal fine, che agli atti risulta la vendita della detta Fonderia a soggetti vicini ai Graviano”.
Nessuno ha mai sviluppato questo spunto. La Fonderia Oretea è la storica fonderia che apparteneva ai Florio e che ha fornito la copertura dei tetti del teatro Politeama e dei gioielli del liberty palermitano. Dopo varie vicissitudini, con i suoi terreni e capannoni ormai in disuso, finisce nella seconda metà del secolo scorso a due famiglie palermitane: i Panzera e i Capuano.
Nelle visure camerali a un certo punto, alla fine del 1986, compaiono per un breve periodo due amministratori liquidatori: Massimo Capuano e Giuseppe Dell’Utri.
Capuano, nato nel 1954 a Palermo, oggi è amministratore delegato di Iw Bank Spa del gruppo Ubi. Fino al 2010 è stato amministratore di Borsa Italiana e poi di Centrobanca.
“Abbiamo ereditato, io, mia madre e i miei fratelli, la quota del 50 per cento della Fonderia nel 1957 alla morte di mio padre. Non ci siamo mai occupati della gestione. A metà anni 80 abbiamo aderito alla proposta dei proprietari dell’altra metà della società di vendere. È stato Giuseppe Dell’Utri, marito della signora che aveva ereditato dal padre l’altra quota della Fonderia, a trovare i compratori. In quell’occasione il nostro intervento si è limitato agli atti dovuti per la vendita. Non ricordo i Gioè”.
Capuano allora era un manager trentenne lanciato tra Ibm e Mc Kinsey a Milano.
La sua presenza nella società Fonderia Oretea al fianco del fratello maggiore di Marcello Dell’Utri, noto a Palermo come l’animatore della squadra di calcio Bacigalupo, poi deceduto, dura un lampo.
Le due famiglie vendono tutto ai fratelli Gateano e Maurizio Gioè, costruttori che secondo i pentiti Tullio Cannella e Filippo Drago, erano legati ai fratelli Graviano. Nel 1998 la Fonderia Oretea sarà confiscata definitivamente ai Gioè per mafia, insieme al resto del patrimonio, proprio perchè, non solo la mamma di Dell’Utri, ma anche i giudici consideravano i fratelli vicini alla mafia e ai Graviano in particolare.
I Gioè, dopo l’arresto e la condanna in primo grado saranno assolti in Cassazione.
La Fonderia invece resterà confiscata definitivamente per mafia anche in Cassazione.
Sui terreni della Fonderia, con sede in via Buonriposo, a Brancaccio, i Gioè portarono a segno una speculazione edilizia, quando la società fu confiscata era poco più di una scatola vuota.
Quando i Gioè, legati ai fratelli Graviano, comprano sono passati appena 4 anni dall’uccisione del vecchio padre dei fratelli Graviano.
Secondo il pentito Francesco Di Carlo in quegli anni Ignazio Pullarà chiede che fine hanno fatto i soldi di Michele Graviano investiti con il boss Stefano Bontate a Milano. Secondo Di Carlo, Pullarà lo chiede proprio all’amico di Dell’Utri: “Un giorno viene da me Ignazio Pullarà , quando avevano già ammazzato a Michele Graviano e mi dice: ‘Devo cercare a Tanino Cinà perchè Michele Graviano ha messo i soldi con Bontate a Milano”.
Tre anni dopo l’affare della Fonderia Oretea, i fratelli Graviano salgono a Milano.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 25th, 2014 Riccardo Fucile
IN COMMISSIONE LA BINDI ACCUSA: “BASTA CON GLI INCIUCI CON BERLUSCONI, NESSUNO HA DATO MANDATO A RENZI DI TRATTARE SULLE LISTE BLOCCATE”…I BERSANIANI: “IL PD NON SI FA DETTARE GLI EMENDAMENTI DA FORZA ITALIA”
Una riunione bollente dei 21 deputati democratici della commissione Affari costituzionali svela il clima di guerra che c’è nel Pd.
Motivo dello scontro: la legge elettorale, il patto Renzi-Berlusconi.
Sullo sfondo: la resa dei conti, la rivincita del congresso, il duello tra governisti e anti-governisti, la frattura profonda di una comunità .
Sono volate parole grosse ieri mattina a Montecitorio. Domani pomeriggio è previsto il secondo round, quello decisivo. Può finire molto male.
Matteo Renzi difende l’accordo e non vuole strappi. Gli emendamenti all’Italicum devono essere unitari e soprattutto non devono mettere un dito nell’occhio del Cavaliere.
Ma la minoranza non accetta diktat. Punta tutte le sue fiches sulle preferenze, contro le liste bloccate.
È la chiave che rischia di far saltare tutto, l’accordo «ma anche la legislatura, si tornerebbe a votare subito», avverte il segretario.
Sono ore decisive per la tenuta dell’impianto di riforma. Il sindaco e il suo osso del collo corrono qualche pericolo.
Alla legge elettorale Renzi ha affidato l’immagine di leader che decide e fa, ovvero il suo tesoro più prezioso.
Per questo il segretario è furibondo con Enrico Letta, con i suoi sconfinamenti in «un campo non suo».
Si riferisce alle parole pronunciate l’altra sera a “Otto e mezzo”, favorevoli a una «scelta più diretta tra i cittadini e gli eletti» e all’annuncio di una legge sul conflitto d’interessi, lo spauracchio del Cavaliere.
«Faccia quello che vuole, io vado dritto. In sei giorni abbiamo già approvato il testo base. Questi sono i tempi adesso che io ho preso in mano la pratica. Enrico pensa di intervenire? Stia attendo o fa la figura del sabotatore», è l’ultimatum di Renzi confidato ai suoi fedelissimi.
I due ieri non si sono sentiti. Meglio da un certo punto di vista, perchè l’atmosfera è pesantissima.
Lunedì si comincia a votare in commissione, entro mercoledì la legge va in aula. Lo sprint è deciso, fa parte degli accordi. Non si torna indietro.
Il problema sono i numeri in commissione. Sulla carta, la maggioranza a favore delle preferenze è schiacciante. Dodici democratici “non renziani” su 21, e tutti gli altri partiti. Da Alfano a Sel, alla Lega, ai 5 stelle.
Ieri Rosy Bindi, membro della commissione, urlava in riunione: «Non esistono altre vie, ci vogliono le preferenze. Nessuno ha dato a Renzi il mandato di trattare con Berlusconi sulle liste bloccate».
Maria Elena Boschi, la responsabile delle riforme, le ha ricordato il voto della direzione che ha sconfitto i nemici dell’accordo. «Giusto. Ma il segretario ci lasci la possibilità di tentare. Questo non può impedircelo, chiaro?».
Il punto è che se salta l’intesa sulle liste bloccate, semplicemente la riforma non esiste, finisce nel cestino.
«Lo scambio è chiarissimo: Forza Italia è contro le preferenze, punto e basta. Noi abbiamo strappato il doppio turno e le riforme costituzionali. Così si fanno gli accordi. E si rispettano», insiste Renzi.
Dario Franceschini cerca una mediazione. Ma stavolta non è consentita l’equidistanza tra “Enrico e Matteo” che un giorno acrobaticamente definì «due numeri uno».
Sceglie Renzi e rompe con Letta: «Le preferenze sarebbero un gravissimo errore. Non soltanto perchè farebbero quasi certamente saltare l’intesa raggiunta ma molto di più per i danni al sistema politico e alla sua trasparenza ».
In privato, il ministro dei Rapporti con il Parlamento spiega di «aver voluto evitare la guerra termonucleare tra loro». Letta e Franceschini si parlano, cercano un chiarimento. Senza esito.
«Sulle preferenze quella è la mia posizione da sempre, tu lo sai – dice il premier –. E sul conflitto d’interessi forse si poteva valutare meglio l’impatto. Ma è la posizione del Partito democratico da sempre, non facciamo finta di niente».
Una parte del partito lo segue e ora si sente più forte.
Per questo, il presidente del Consiglio può rientrare volentieri nel suo ambito. «Mi occupo di privatizzazioni. Come si vede dalle riunioni di ieri, il governo non è inoperoso. Dico solo che bisogna superare le insidie sulla legge elettorale».
La lista bloccata, secondo Renzi, non è un’insidia anche perchè senza non c’è il patto. Lo è invece la soglia di acceso al premio di maggioranza.
Gliel’ha comunica-to anche Giorgio Napolitano con il quale i contatti sono quotidiani perchè i loro interessi convergono: arrivare al traguardo.
Il capo dello Stato teme che il 35 per cento sia un tetto troppo basso, che l’asticella andrebbe alzata al 40 per cento. Troppo alta, risponde Renzi. Forza Italia non la regge. Ma si può fare qualcosa: portarla al 38 per cento, una cifra che soddisferebbe il Colle. In questo modo il premio sarebbe “limitato” al 15 per cento.
Un altro pezzo della legge elettorale destinato a cambiare, è il no alle candidature plurime.
Angelino Alfano insiste per cancellarlo: dev’esserci la possibilità di candidare la stessa persona in più circoscrizioni. Renzi è d’accordo e ieri ha dato il via libera anche Denis Verdini: «Angelino ce lo sta chiedendo in tutte le maniere. Va bene».
Questa è la fotografia. Nel gioco di sponda tra Quirinale, Alfano e Verdini, Renzi trova la misura di un compromesso che salva l’Ispanicum.
Nel Pd e nella sfida con Letta, l’impresa è molto più difficile.
Il capogruppo democratico in commissione Affari costituzionali Emanuele Fiano vede tutti i rischi di una rottura: «Ma io lavoro perchè il partito presenti le proprie posizioni unitariamente». Il lettiano Francesco Sanna capisce che il momento è davvero delicato. «La nobiltà della legislatura – dice – si misura sull’approvazione della legge elettorale». Dunque, cercherà le soluzioni possibili ma non metterà in pericolo la struttura del patto.
Alfredo D’Attorre, bersaniano, annuncia invece un attacco a tutto campo. «Verdini e Berlusconi non vogliono le preferenze? Fatti loro. Il Pd non si fa dettare gli emendamenti da Forza Italia. Il loro potere di veto va respinto e il Pd deve cominciare a ragionare con la sua testa».
Non si spaventa per la minaccia di Renzi: «Lui è l’ultimo a volere andare al voto con la legge proporzionale della Consulta, figuriamoci ».
Come dire: non va da nessuna parte con gli ultimatum.
Goffredo De Marchis
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Gennaio 25th, 2014 Riccardo Fucile
RENZI NON RISCHIA E MANDA “BONACCINI CHI?” A RACCOGLIERE PERNACCHIE
Fischi per il renziano Stefano Bonaccini al congresso di Sel a Riccione. Che non sembra aver digerito il cambio di leadership nel Partito democratico.
L’esponente del Pd sale sul palco e si rivolge ai 900 delegati presenti in sala: «Cari compagni e compagne…». Ma immediatamente una scarica di fischi copre le sue parole. Dalla sala si sente anche: «Buffone, vergogna».
TENSIONE
Bonaccini prova a stemperare la tensione con una battuta, rispondendo «non mi dimetto» a chi gli dice «Bonaccini chi?».
Poi il responsabile Dem riprende la parola e raccoglie l’unico appluaso solo quando ricorda le vittime delle alluvioni di questi giorni.
Quindi torna a parlare dell’azione di governo: dalla sala un’altra voce lo contesta: «Buffone, vergogna». I fischi e le contestazioni aumentano.
E quando afferma che nessuno intende più «fare un governo con Berlusconi», i delegati protestano: «Non è vero!!».
A quel punto interviene il leader di Sel Nichi Vendola che invita la sala a lasciar parlare l’esponente del Pd.
Il governatore della Puglia raccoglie gli applausi della sala ma, nonostante il suo invito, poco dopo, fischi e mugugni riprendono.
Bonaccini ha poi detto: “Se nelle prossime ore, nella discussione che si sta facendo, si trovano, tra tutti, a larga maggioranza, possibilità di correzioni che riguardino anche la soglia di sbarramento, non abbiamo preclusioni”.
Una mano tesa, insomma, alle richieste di Sel e di tutti gli altri partiti minori, alle cui rimostranze il segretario Pd aveva risposto con un laconico “si arrangino“.
Visto il clima della sala Bonaccini ha preferito essere possibilista…
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Gennaio 25th, 2014 Riccardo Fucile
PARADOSSALE: L’AUTORE DELLA SCONCERTANTE LEGGE CHE HA PERMESSO CHE I MERCANTILI VENISSERO SCORTATI DAI NOSTRI MILITARI DELLA MARINA CHE ORA URLA “ASSASSINI” AGLI IMPRENDITORI CHE IERI HA FAVORITO
Ieri sera, durante il ricevimento per la Giornata nazionale della Repubblica dell’India, a cui hanno preso parte anche diversi esponenti delle istituzioni, un centinaio di esponenti di Forza Italia, Fratelli d’Italia, Comitato Nove dicembre del Veneto, con anche alcuni marò, hanno organizzato una protesta fuori da Palazzo Clerici, nel pieno centro di Milano.
Al grido di «Non c’è niente da festeggiare, i marò dovete liberare», i manifestanti hanno chiesto la liberazione di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò accusati di avere ucciso due pescatori al largo delle coste dello Stato del Kerala nel 2012.
Sugli striscioni le scritte «Siamo tutti marò» e «Salviamo i nostri marò – Liberi subito».
IL BLITZ DI LA RUSSA
L’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa si è presentato al galà , ha detto ai manifestanti: «Voi restate qui, entriamo io e Fidanza», quindi si è presentato all’ingresso, seguito da un fotografo che si è infilato dietro di lui, ed è salito a parlare con il console indiano Manish Parbhat.
«Siamo stati ricevuti cortesemente – ha spiegato Fidanza – proprio nel salone dove stavano banchettando. Noi abbiamo espresso al console la nostra contrarietà all’idea di organizzare una festa per l’India a Milano, proprio mentre due nostri connazionali sono detenuti illegalmente».
Uscendo dalla sala La Russa e Fidanza hanno fatto lo show, cominciando a urlare “Assassini! Vergogna!». Le urla (si badi bene) erano rivolte a «alcuni imprenditori italiani ed elettori del centrodestra presenti, che hanno accettato l’invito alla festa solo per business. Ma gli affari non possono valere la vita di due italiani».
Ma come?
Se è stato proprio La Russa, persino contro i desiderata degli armatori, a volere che sulle navi mercantili fossero imbarcati nostri militari della Marina, esponendoli quindi a un inutile pericolo che nulla c’entra con i loro compiti istituzionali.
E stasera urla “assassini”, non alle autorità indiane, ma agli imprenditori italiani presenti?
Gli stessi che ha voluto tutelare senza motivo ieri?
Cosa non si fa per uno spot elettorale….
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