Gennaio 21st, 2014 Riccardo Fucile
IL MISTER CONDANNATO PER DANNO ERARIALE CHIAMA IN CAUSA IL CONDANNATO PER FRODE FISCALE: “E’ STATO LUI A NON VOLERE LE PREFERENZE, IO MI SONO ADEGUATO”
Per le preferenze “chiamate Goldrake. Io più di così non potevo fare”. Certo, “le volevo, ma è stato Berlusconi a dire no”.
E ancora: “Perchè non ho fatto l’accordo con Beppe Grillo? Perchè Grillo non ha voluto”. Anzi, “mi ha risposto con la consueta poesia”.
Ma ancora: sulla soglia di sbarramento “i partitini si arrabbiano? Si arrangino”. Quanto, poi, al rimpasto di governo: “Non chiedo strapuntini al premier Letta, faccia lui. Di sicuro c’è che il governo adesso non ha più alibi. Non si blocca tutto per mal di pancia in correnti”.
Alla spaccatura interna al Pd, che ha portato alle dimissioni del presidente del Partito democratico Gianni Cuperlo, si aggiungono anche i malumori del M5S.
La battaglia su cui si sono schierati i grillini – al pari della minoranza democratica e di Ncd – è quella sulle preferenze.
Una questione che continua ad alimentare il dibattito politico visto che l’Italicum continua a prevedere liste bloccate al pari del Porcellum – benchè corte – e che oggi pomeriggio ha indotto Renzi a svelare: “Lo confesso: sono un sostenitore delle preferenze. Purtroppo sul punto si è registrata una netta ostilità di Forza Italia”. Tradotto: sulla necessità di dire basta a un parlamento di nominati è calato, come una scure, il veto di Silvio Berlusconi che sabato scorso ha comunque chiuso un accordo con Renzi nelle stanze del Pd.
Tra i democratici favorevoli alle preferenze, Alfredo D’Attorre, il bersaniano già responsable delle Riforme, ha annunciato ieri sera a Piazza Pulita che presenterà un emendamento in proposito.
Quante chance ha di passare? Alla Camera, dove su richiesta la legge elettorale può essere approvata con voto segreto, potrebbe bastare che 44 dei 293 deputati democratici si sfilino in Aula per consentire agli elettori di scegliere il loro candidato.
Critica, invece, la posizione di Pippo Civati, arrivato terzo alle primarie del Pd: “Apprezzo il dinamismo di Renzi – ha detto a Radio Popolare Roma – ma sul risultato sono molto negativo: la legge elettorale proposta piace soprattutto a Berlusconi e ha un sacco di vizi: riprende molto parzialmente quanto ha deliberato la consulta e allontana invece di avvicinare gli elettori dagli eletti”.
Il testo domani in commissione. Intanto il testo di riforma elettorale illustrata ieri da Renzi sarà presentato domani pomeriggio in commissione Affari costituzionali alla Camera e quindi votato come testo base, dopo di che “saranno date 48 ore per presentare emendamenti” ha spiegato Francesco Paolo Sisto, relatore alla riforma elettorale e presidente della commissione. Il 29 gennaio l’inizio della discussione in aula.
Il fronte pro-preferenze in cifre.
Con l’apertura del M5S il fronte pro-preferenze conterebbe sui voti sicuri del partito di Grillo (106), di Ncd (29), dei Popolari per l’Italia (20), di Fratelli d’Italia (9) e della Lega Nord (20), visto che Roberto Calderoli ha previsto le preferenze nella proposta di legge elettorale depositata in Senato. A questi si aggiungono i voti del Gruppo Misto dove le cinque componenti, a vario titolo, si sono espresse contro le liste bloccate (in totale 24 voti).
Da definire sul tema la posizione di Sc (26) e Sel (37), che tuttavia sono state critiche sull’impianto dell’accordo, proprio perchè non consentirebbe la scelta degli eletti da parte degli elettori.
Del resto i ‘piccoli’ sono sul fronte di guerra, visto che con l’Italicum alla Camera entrerebbero solo Pd, Fi e M5S.
A tirare le somme, l’opposizione all’accordo Pd-Fi conterebbe 271 deputati.
Ai quali basterebbe aggiungere 44 deputati Pd per reintrodurre le preferenze.
Ma nel Pd sono molti di più i favorevoli alla modifica.
I cuperliani (bersaniani, dalemiani, giovani turchi) sono accreditati in un numero vicino ai 100.
Ma favorevoli alle preferenze sono anche i bindiani e i fioroniani, computati nel numero minimo di 20. Insomma, le preferenze hanno i numeri.
(da “la Repubblica”)
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Gennaio 21st, 2014 Riccardo Fucile
LE REAZIONI SUI SOCIAL NETWORK CERTIFICANO UNA NETTA FRATTURA NEL CAMPO DEMOCRAT
Tra ultras renziani e chi difende le ragioni di Gianni Cuperlo. Le dimissioni del presidente dell’assemblea nazionale del Pd certificano una frattura profonda nel campo democratico.
E fanno esplodere il confronto duro e senza sconti tra le due anime del partito guidato da Matteo Renzi. Fronti contrapposti. In mezzo, chi si interroga.
Chiedendosi degli effetti di questo conflitto. Il fantasma della scissione, nonostante le parole di Cuperlo, è avvistato da molti. Ma non solo.
La paura che le faglie interne al Pd possano mettere a un freno a un processo di riforme che, sebbene da registrare, è tuttavia partito.
Le reazioni affidate ai social network sono migliaia.
E non riguardano solo e soltanto i militanti del Pd. Opinionisti, giornalisti, esponenti ed elettori di altri partiti.
Le dimissioni di Cuperlo diventano, in questo pomeriggio, il punto intorno al quale ruota l’agenda politica del Paese.
Proprio perchè la stabilità del Pd è, oggi, sinonimo di “riforme in corso”. In questo contesto le tipologie di commenti sono decine.
Grillini ironici, centristi scossi, sarcastici di destra.
Poi chi da sinistra chiede responsabilità e chi, sempre da sinistra, invoca senza mezzi termini la scissione.
Sintetizzando. I più gettonati: “Cuperlo è un signore, non meritava quell’attacco ingeneroso”. E: “Ma Renzi ha solo detto la pura e semplice verità “.
Chi invoca la necessità di attenersi alle forme del galateo politico, soprattutto tra compagni di partito, e chi sembra suggerire che le riforme non sono un pranzo di gala.
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 21st, 2014 Riccardo Fucile
LA SCELTA DI GRILLO DI NON TRATTARE CON GLI ALTRI PARTITI AGITA I PARLAMENTARI
«Duce. Anzi. Peggio del Duce». Chi? «Renzi». Ah ecco.
Il parlamentare Cinque Stelle Danilo Toninelli è un uomo che in genere non trasmette emozioni. Al massimo le racconta.
Questa volta però si sfoga appellandosi alla Grande Storia. Anche se questa sembra a malapena cronaca.
«Il segretario del Pd, in sintonia con Berlusconi, fa peggio di Mussolini che nel 1923 aveva sì previsto una soglia del 25% per il premio, ma si era guardato bene dall’inserire il doppio turno. Con la proposta renziana un qualsiasi partito può governare anche col 20%».
Deriva autoritaria. Attentato alla santissima democrazia orizzontale.
Che un po’ è anche la linea di Maurizio Santangelo, capogruppo grillino al Senato.
«Sulla legge elettorale il Movimento 5 Stelle non decide nelle segrete stanze delle sedi di partito o tra due sole persone, una delle quali condannata per frode fiscale ed espulsa dal Senato grazie al voto palese proposto e voluto da noi. Il M5S farà decidere e votare gli oltre 80.000 iscritti certificati in Rete».
Ottantamila? È fiero di se stesso. Deve essere quell’«oltre» a rassicurarlo.
E quando lo scrive gli dispiace di non avere un fratello gemello che gli dia una pacca sulle spalle.
Eppure sembra il triplo carpiato rovesciato della logica. Valgono più i tre milioni delle primarie democrat o – ipotizzando che decidano di esprimersi tutti – gli ottantamila del blog casalingo? Dettagli.
L’«Italicum» è una vergogna. Il timbro notarile arriva da Grillo, che nel pomeriggio, forse per testimoniare il collasso non solo narrativo, ma anche strutturale, dell’universo politico nostrano, aveva dato a Renzi dello showman.
«La legge elettorale Renzie-Berlusconi, il “Pregiudicatellum”, prevede che i partiti si scelgano i propri parlamentari. I cittadini devono stare a guardare. Liste bloccate con nominati da pregiudicati e condannati in primo grado e nessuna preferenza».
Tutti compatti, dunque? Mica tanto. L’Italicum non piace a nessuno.
Ma c’è anche un altro problema che non lascia sereni gli inquieti parlamentari M5S. «Non è che questo ennesimo pasticcio nasce anche perchè noi, come sempre, ci estraniamo dalla lotta?».
L’eco esatta di quanto detto da Renzi al Caro Leader genovese. «Fino a quanto costringerai i tuoi a stare sull’Aventino?». Domanda che si fa anche il senatore Orellana: «Dovremmo chiedere alla rete che cosa pensa della possibilità di discutere con il Pd». Eresia? Scandalo? Vergogna? O un peccato che molti vorrebbero commettere? «Dobbiamo aggiustare la linea politica nazionale: togliere un po’ di pepe e aggiungere un po’ di carne. Il pepe dà sapore. La carne nutre», scrive il senatore Campanella, mentre alla Camera emissari del Pd provano a tessere nuovamente la tela con la parte dialogante dei Cinque Stelle.
«Se passa questa legge elettorale d’ora in poi bisognerà iscriversi al Pd o a a Forza Italia per fare politica», chiosa l’onorevole Rizzetto.
A che serve l’opposizione quando diventa solo un volo verso l’oblio?
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Gennaio 21st, 2014 Riccardo Fucile
SOLO L’AUTOMOBILE CLUB HA 153 PARTECIPAZIONI… IN TESTA I COMUNI CON OLTRE 29.000 PRESENZE
Per la precisione, sempre che essa non sia una chimera in questo campo, sono 7.340 le società di cui risultano azionisti ministeri, enti locali, enti pubblici di previdenza, l’Automobile Club d’Italia, le case di riposo o varie altre articolazioni dello Stato.
Una selva inestricabile di 30.133 “legami”, come il Tesoro chiama pudicamente le partecipazioni dirette e indirette.
Quelle che fanno dello Stato italiano allo stesso tempo uno dei più indebitati al mondo e fra i più presenti nei gangli di una delle economie che, per inciso, resta fra le più incapaci di crescere.
Forse non è un caso se le tre qualità – Stato azionista di migliaia di imprese, alto debito e bassa crescita – convivono nello stesso Paese.
Ma ora il Tesoro cerca se non altro di capire qualcosa di più in questa nebulosa.
Ieri ha pubblicato il primo rapporto mai visto in Italia – meglio tardi che mai – sulle partecipazioni detenute dalle amministrazioni, i loro guadagni e soprattutto le perdite di esercizio da 2,2 miliardi di euro l’anno.
E qualunque siano i dettagli di ciò l’indagine ha scoperto, essa pone prima di tutto una questione di buon senso.
Perchè se una holding privata vedesse che un terzo delle società di cui essa è azionista viaggia in rosso e che quelle perdite sono così pesanti da portare in rosso il saldo totale, le opzioni sarebbero chiare: vendere, oppure ristrutturare al più presto le imprese in perdita per arrestare l’emorragia; la terza ipotesi, fingere di non veder
perchè così conviene a qualche manager corrotto, non atterrerebbe neppure sul tavolo.
Il problema con le 7340 società partecipate dalle amministrazioni italiane è che il più delle volte, finora, si è imboccato quest’ultima strada.
Ora il ministero dell’Economia cerca di mettere ordine almeno mentale perchè, dichiara, “la gestione efficiente del patrimonio pubblico può giocare un ruolo importante per il contenimento del deficit e la riduzione del debito pubblico”.
La strada da fare è lunga, ma non impossibile a leggere il censimento pubblicato ieri dal Tesoro.
È stato un lavoro complesso perchè solo i Comuni italiani dichiarano l’esorbitante cifra di 29.583 partecipazioni dirette e indirette che, spesso, si accavallano fra loro nelle stesse imprese: in tutto le giunte cittadine sono presenti in circa 5.000 società .
L’Automobil Club d’Italia dice di avere molte più partecipazioni di qualunque fondo d’investimento italiano, a quota 153 imprese.
Le università italiane sono socie dirette e indirette di uno sconfinato arcipelago di 1,562 imprese.
Con buona pace di chi vuole abolirle, le Provincie vantano ben 2679 “legami” azionari con aziende che operano in Italia.
E le Regioni ne hanno oltre cinquecento, quasi che i governatori di giunta fossero il consiglio d’amministrazione di un gigante del private equity globale come Blackstone o Pai.
Tra i settori, c’è un po’ di tutto: classiche società di rete nei rifiuti, nell’acqua o nei trasporti, ma anche costruzioni (ben 365 partecipate pubbliche) o “servizi d’informazione e comunicazione” (249).
Peccato che questa giungla di interessi alla resa dei conti risulti perfettamente in rosso. I dati sono aggiornati all’esercizio 2011, ma è molto probabile che quelli del 2012 e 2013 presentino risultati simili o peggiori, visto l’andamento dell’economia.
Viene fuori così che solo per le società partecipate dalle amministrazioni locali, la galassia del cosiddetto socialismo municipale, i benefici non compensino le perdite. Le società in utile risultano 2.879 (il 47% del totale), quelle in pareggio 1.249 e quelle in rosso solo il 31%, cioè circa duemila.
Ma la voragine che queste ultime creano, 2,2 miliardi di euro solo nel 2011, è tale da azzerare e oltre l’utile da 1,4 delle imprese con andamento positivo.
I dati sui saldi, naturalmente, si riferiscono alla parte dei margini in capo alle pubbliche amministrazioni in base alle loro quote.
E un esame attento da parte del Tesoro rivela che i buchi di bilancio delle ex municipalizzate è fortemente concentrato in poche imprese.
Appena 23 società fra le duemila in rosso provocano perdite per oltre un miliardo e mezzo.
Solo quattro holding delle giunte locali (ma il Tesoro si guarda bene dal fare nomi) pesano per quasi mezzo miliardo di euro.
Un’unica società a partecipazione pubblica locale nel settore “finanziario e assicurativo” presenta un’emorragia di cassa da 258 milioni.
E quattro municipalizzate del gas e della luce bruciano quasi 400 milioni.
Non è chiaro poi perchè le amministrazioni locali d’Italia debbano continuare a giocare un ruolo da azioniste con 93 aziende nel settore “agricoltura, silvicoltura e pesca” (dove peraltro perdono 244 mila euro).
In Grecia, la decisione di integrare nel bilancio dello Stato le perdite delle partecipate portò nel 2010 una forte correzione al rialzo del deficit.
Fu una dolorosa operazione-verità .
In Italia il peggioramento dei conti non sarebbe così drastico. Ma individuare la rete di partecipazioni in rosso utili a nutrire le clientele locali e a distribuire le prebende della politica è stato almeno un primo passo.
Ora le carte sono sul tavolo: far finta di non sapere non è più un’opzione.
Federico Fubini
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 21st, 2014 Riccardo Fucile
“IN COMMISSIONE SOLO FORZA ITALIA VOLEVA LE LISTE BLOCCATE”… DOPO LA BOCCIATURA DA PARTE DI NUMEROSI COSTITUZIONALISTI, LA RIFORMA PATACCA DI RENZI COMINCIA A IMBARCARE ACQUA
Finchè a votare è la direzione nazionale del Pd e finchè si tratta di parlare con Silvio Berlusconi tutto va liscio.
Il problema a questo punto è il Parlamento.
“Dettaglio” che forse Matteo Renzi aveva presente. Ma la realtà è ancora più complicata.
Giusto il tempo di arrivare in commissione Affari Costituzionali e l’Italicum del segretario del Pd è già nel mirino degli emendamenti della stessa sinistra del partito contro le liste bloccate che potrebbero portare a un nuovo Parlamento di nominati. Alfredo D’Attorre – che negli ultimi giorni ha marcato a uomo il sindaco di Firenze — annuncia che presenterà proposte di modifica per cancellare i listini, sia pure più corti del Porcellum: “Non li vuole nessuno — aggiunge — E alla fine anche Renzi sarà chiamato a far prevalere la sintonia con il nostro popolo rispetto alla sintonia con Berlusconi: la nostra linea prevarrà in tutto il Pd”.
Il deputato bersaniano racconta che nel dibattito in commissione è emersa una volontà trasversale di cancellare le liste bloccate: “Lo abbiamo detto io, la Bindi e altri Pd, ma anche colleghi di tutti gli altri partiti, tranne Forza Italia“.
E non è un racconto di parte perchè lo stesso aveva riferito Danilo Toninelli (Cinque Stelle): “Terminata discussione in Commissione — ha scritto su facebook — Nessuno appoggia la porcata dei due pregiudicati Renzi e Berlusconi“.
Il fronte interno del Pd contro le liste bloccate
Il fronte nel Pd è più largo di quanto si pensi. Doris Lo Moro, ex magistrato che le primarie per la candidatura in Parlamento la scorsa le ha fatto e superate, “Nella proposta di Renzi ci sono dei limiti da superare — dice la senatrice calabrese — La percentuale del 35% è troppo bassa e, per un verso, non ha i requisiti della ragionevolezza richiesti” dalla Consulta.
Inoltre, aggiunge Lo Moro, “la previsione di liste bloccate più corte non risponde al bisogno (politico) che il cittadino si senta (e sia) partecipe della scelta dei parlamentari da eleggere”.
La Lo Moro, membro della commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama, è relatrice di una legge elettorale depositata che prevedeva il premio di maggioranza per la coalizione che superasse il 40% e il secondo turno i ballottaggio, con liste corte e preferenze.
Danilo Leva, ex responsabile Giustizia nel Pd, spiega: “Bisogna vedere se in Parlamento c’è una maggioranza ampia” su questo “che non snaturi l’accordo”. Ma le preferenze, aggiunge, non sono l’unico modo per evitare le liste bloccate.
I deputati della sinistra Pd si sono riuniti a Montecitorio e la richiesta emersa è che bisogna verificare se quello stretto da Renzi è un accordo davvero largo o limitato solamente a Forza Italia.
“Il punto — sottolinea Andrea Giorgis, componente democratico della prima commissione — è che questa mattina in commissione ci sono stati diversi interventi critici come quelli di Scelta Civica e Sel”. “Bisogna verificare — sottolinea Daniele Marantelli — se sull’accordo c’è una maggioranza larga perchè in commissione in diversi, a partire da Sc hanno posto questioni di merito”.
E’ chiaro che se così non fosse si aprirebbe la possibilità di modificarlo e di cercare su questo maggioranze in Parlamento.
Ma Matteo Orfini si smarca: “Sono contrario a emendamenti di corrente. O il Pd insieme decide di correggere il modello di riforma elettorale o io non propongo nè sostengo emendamenti che non sono la linea uscita dal partito”.
A questo si aggiunge il ragionamento del ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello (Nuovo Centrodestra): “Attenzione all’impianto della legge: il rischio è ricadere negli stessi problemi che hanno portato la legge precedente a essere bocciata per incostituzionalità ” in particolare sul premio di maggioranza e sulle liste bloccate. Quanto alle preferenze, Quagliariello rileva che “sono previste per tutte le altre elezioni” per gli enti locali e le europee, dunque “non si capisce perchè solo per il Parlamento si rischiano le infiltrazioni criminali”.
Inoltre, le liste bloccate “rischiano di essere una ‘fiction’, una finzione, perchè se un partito prende 100 seggi si aggiudica circa un eletto per collegio, il primo in lista, e gli altri diventano candidati ornamentali”.
Emendamenti fino al 24, domani arriva il testo base
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Gennaio 21st, 2014 Riccardo Fucile
L’ESPULSIONE PUO’ ESSERE DECRETATA COME ILLECITO AMMINISTRTIVO, QUINDI NESSUNA CONSEGUENZA IN TERMINI DI SICUREZZA … SOLO IN CASO DI RECIDIVA SARA’ CONSIDERATA REATO PENALE
L’immigrazione clandestina non sia più reato e torni a essere un illecito amministrativo. Ma mantenga valenza penale ogni violazione di provvedimenti amministrativi emessi in materia di immigrazione (come il fatto di rientrare in Italia una volta espulsi, ma anche l’obbligo presentarsi in Questura).
È questo il senso, di fatto, dell’emendamento del Governo al ddl sulla depenalizzazione e sulla messa alla prova, all’esame dell’Aula del Senato.
Un testo che trova la sintesi fra le diverse posizioni che si sono registrate in maggioranza.
Chi entrerà dunque nel nostro Paese clandestinamente per la prima volta, viene spiegato, non verrà sottoposto a procedimento penale ma sarà espulso.
Se rientrasse commetterebbe reato.
Recita il testo del Governo: «All’articolo 2, comma 3 sostituire la lettera b con la seguente: abrogare, trasformandolo in illecito amministrativo, il reato previsto dall’articolo 10 bis del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n 286, conservando rilievo penale alle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia».
Sempre in tema di immigrazione, il ministro degli Esteri Emma Bonino è intervenuto in commissione al Senato. «Dobbiamo impegnarci – ha detto – perchè il 2014 sia l’anno del Mediterraneo, la necessità nasce da un Mediterraneo in fiamme, con la situazione libica sempre più compromessa, senza ormai controllo del territorio», oltre alla questione siriana.
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Gennaio 21st, 2014 Riccardo Fucile
“TROPPA CONFUSIONE, SULLA RIFORMA ABBIAMO SOSTENUTO QUATTRO TESI DIVERSE IN POCHE SETTIMANE”
Mai contaminarsi, piuttosto restare immobili mentre intorno tutto si muove per riformare la legge elettorale.
Il Movimento cinque stelle dribbla ogni possibile trattativa.
E il senatore grillino Lorenzo Battista osserva sconsolato, indeciso se cedere alla rabbia o alla delusione.
«Renzi ha proposto tre modelli, gli è stato risposto di no sul blog. Poi Casaleggio ha ribadito i tre no. La considero un’occasione persa».
Senatore, dove avete sbagliato?
«Renzi decide di parlare con Berlusconi. Bene, forse commette un errore, potendo discutere magari con i capigruppo di Forza Italia invece che con l’ex premier. Ma lo fa, credo, per portare a casa un risultato. Resta un dato, in ogni caso».
Quale?
«Nessun partito può cambiare la legge da solo, bisogna discuterne con gli altri. E visto che un dialogo è stato avviato, avremmo potuto avanzare le nostre proposte a Renzi. Facendoci semmai dire di no da lui, invece di pronunciare noi un no senza discutere».
Siete ancora in tempo, forse. Cosa potete fare?
«Mah, ormai credo che i giochi siano fatti. È evidente che c’è stata un’accelerazione. Arriverà un disegno di legge e noi, pur votando contro, dovremo fare i conti con questa legge, con il doppio turno e lo sbarramento».
Sembra davvero amareggiato. Sente di non aver potuto incidere?
«Ero entrato in Parlamento per favorire un cambiamento. Diciamo che mi sarei aspettato qualcosa di più…».
Vi rivolgerete alla Rete. Ma forse sarà troppo tardi.
«I tempi della Rete e quelli della politica non sempre vanno d’accordo. Bastava fare un sondaggio e far scegliere agli attivisti se far partecipare il M5S al tavolo. Dicendo: caro Renzi, dici di essere il “rottamatore”, accetta una legge elettorale che abbia come condizioni il limite dei due mandati, l’esclusione dalle liste dei condannati e il ritorno alle preferenze».
Qual è la vostra posizione sulla riforma?
«Che vuole che le dica… appena entrati in Parlamento abbiamo detto “tutti a casa”. Poco dopo abbiamo votato la mozione di Giachetti per il Mattarellum».
È solo l’inizio…
«Poi abbiamo sostenuto che andava bene il Porcellum e che avremmo cambiato la legge solo dopo le prossime elezioni. Successivamente c’è stata la proposta di Toninelli, ora sul portale. Poi abbiamo sostenuto che si poteva votare con il modello uscito dalla sentenza della Consulta. E invece sarebbe bastato rilanciare, mettendo Renzi con le spalle al muro… ».
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Gennaio 21st, 2014 Riccardo Fucile
PUBBLICHIAMO IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA DI DIMISSIONI DI GIANNI CUPERLO
Ho scritto al segretario Matteo Renzi. Per comunicargli che mi dimetto da presidente dell’assemblea nazionale del PD. Ecco il testo della lettera:
Caro Segretario,
dal primo minuto successivo alle primarie ho detto due cose: che quel risultato, così netto nelle sue dimensioni e nel messaggio, andava colto e rispettato, e che da parte mia vi sarebbe stato un atteggiamento leale e collaborativo senza venir meno alla chiarezza di posizioni e principi che, assieme a tante e tanti, abbiamo messo a base della nostra proposta congressuale.
Ho accettato la presidenza dell’Assemblea nazionale con questo spirito e ho cercato di comportarmi in modo conseguente. Prendendo parola e posizione quando mi è sembrato necessario, ma sempre nel rispetto degli altri a cominciare da chi si è assunto l’onere e la responsabilità di guidare questa nuova fase.
Nella direzione di ieri sono intervenuto sul merito delle riforme e sul metodo che abbiamo seguito. Ho espresso apprezzamento per l’accelerazione che hai impresso al confronto e condiviso il traguardo di una riforma decisiva per la tenuta del nostro assetto democratico e istituzionale. Non c’era alcun pregiudizio verso il lavoro che hai svolto nei giorni e nelle settimane passate. Lavoro utile e prezioso, non per una parte ma per il Paese tutto.
Ho anche manifestato alcuni dubbi — insisto, di merito — sulla proposta di nuova legge elettorale. In particolare gli effetti di una soglia troppo bassa — il 35 per cento — per lo scatto di un premio di maggioranza. Di una soglia troppo alta — l’8 per cento — per le forze non coalizzate e di un limite serio nel non consentire ancora una volta ai cittadini la scelta diretta del loro rappresentante. Dubbi che, per altro, ritrovo autorevolmente illustrati stamane sulle pagine dei principali quotidiani da personalità e studiosi ben più autorevoli di me.
Infine ho espresso una valutazione politica sul metodo seguito nella costruzione della proposta e ho chiuso con un richiamo a non considerare la discussione tra noi come una parentesi irrilevante ai fini di un miglioramento delle soluzioni.
Nella tua replica ho ascoltato la conferma che le riforme in discussione rappresentano un pacchetto chiuso e dunque — traduco io — non emendabile o migliorabile pena l’arresto del processo, almeno nelle modalità che ha assunto. Sino ad un riferimento diretto a me e al fatto che avrei sollevato strumentalmente il tema delle preferenze con tutta la scarsa credibilità di uno che quell’argomento si è ben guardato dal porre all’atto del suo (cioè mio) ingresso alla Camera in un listino bloccato.
E’ vero.
Per il poco che possano valere dei cenni personali, sono entrato per la prima volta in Parlamento nel giugno del 2006 subentrando al collega Budin che si era dimesso. Vi sono rientrato da “nominato” nel 2008 e nuovamente nel listino da te rammentato a febbraio di un anno fa.
La mia intera esperienza parlamentare è coincisa con la peggiore legge elettorale mai concepita nella storia repubblicana. Sarebbe per altro noioso per te che io ti raccontassi quali siano stati la mia esperienza e il mio impegno politico prima di questa parentesi istituzionale.
Però la conosco io, e tanto può bastare.
Quanto al consenso non so dire se in una competizione con preferenze ne avrei raccolte molte o poche. So che alcuni mesi fa, usando qualche violenza al mio carattere, mi sono candidato alla guida del nostro partito.
Ho perso quella sfida raccogliendo però attorno a quella nostra proposta un volume di consensi che io considero non banali.
Comunque non è questo il punto.
Il punto è che ancora ieri, e non per la prima volta, tu hai risposto a delle obiezioni politiche e di merito con un attacco di tipo personale.
Il punto è che ritengo non possano funzionare un organismo dirigente e una comunità politica — e un partito è in primo luogo una comunità politica — dove le riunioni si convocano, si svolgono, ma dove lo spazio e l’espressione delle differenze finiscono in una irritazione della maggioranza e, con qualche frequenza, in una conseguente delegittimazione dell’interlocutore.
Non credo sia un metodo giusto, saggio, adeguato alle ambizioni di un partito come il Pd e alle speranze che questa nuova stagione, e il tuo personale successo, hanno attivato.
Tra i moltissimi difetti che mi riconosco non credo di avere mai sofferto dell’ansia di una collocazione.
Ieri sera, a fine dei nostri lavori, esponenti della tua maggioranza hanno chiesto le mie dimissioni da presidente per il “livore” che avrei manifestato nel corso del mio intervento.
Leggo da un dizionario on line che la definizione del termine corrisponde più o meno a “sentimento di invidia e rancore”.
Ecco, caro Segretario, non è così.
Non nutro alcun sentimento di invidia e tanto meno di rancore. Non ne avrei ragione dal momento che la politica, quando vissuta con passione, ti insegna a misurarti con la forza dei processi. E io questo realismo lo considero un segno della maturità .
Non mi dimetto, quindi, per “livore”. E neppure per l’assenza di un cenno di solidarietà di fronte alla richiesta di dimissioni avanzata con motivazioni alquanto discutibili.
Non mi dimetto neppure per una battuta scivolata via o il gusto gratuito di un’offesa. Anche se alle spalle abbiamo anni durante i quali il linguaggio della politica si è spinto fin dove mai avrebbe dovuto spingersi, e tutto era sempre e solo rubricato come “una battuta”.
Mi dimetto perchè sono colpito e allarmato da una concezione del partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso l’omologazione, di linguaggio e pensiero.
Mi dimetto perchè voglio bene al Pd e voglio impegnarmi a rafforzare al suo interno idee e valori di quella sinistra ripensata senza la quale questo partito semplicemente cesserebbe di essere.
Mi dimetto perchè voglio avere la libertà di dire sempre quello che penso.
Voglio poter applaudire, criticare, dissentire, senza che ciò appaia a nessuno come un abuso della carica che per qualche settimana ho cercato di ricoprire al meglio delle mie capacità .
Auguro buon lavoro a te e a tutti noi.
Gianni
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Gennaio 21st, 2014 Riccardo Fucile
AINIS, CAPOTOSTI, DE SIERVO, SARTORI: LISTE BLOCCATE E PREMIO TROPPO ALTO
Niente preferenze e soglia per il premio di maggioranza troppo bassa.
All’indomani della presentazione dell’Italicum sono questi i due punti della proposta di legge elettorale di Matteo Renzi che sollevano i dubbi di esperti e costituzionalisti. Da Ugo De Siervo a Michele Ainis, da Cesare Mirabelli a Piero Alberto Capotosti fino a Marco Travaglio, ecco gli interventi sui giornali di oggi.
Piero Albero Capotosti sul Messaggero:
La formula che si propone di adottare comprende sia un’alta soglia di sbarramento ai partiti per accedere al riparto dei seggi, sia un forte premio di maggioranza. E soprattutto si deve rilevare che l’obiettivo di fondo di questa riforma pare essere quello di assegnare ad una sola coalizione o anche partito la maggioranza assoluta, con una forte sovrarappresentanza parlamentare e un’altrettanta sottorappresentanza delle altre forze politiche. Si va cioè ad incidere, sul profilo della governabilità , sul profilo della raprresentanza parlamentare. [..] Anche il Porcellum si poneva gli stessi obiettivi e i risultati concreti sono stati davvero deludenti in tutte e tre le legislature di applicazione
Cesare Mirabelli intervistato sulla Stampa:
Mi pare un punto critico, ancorchè facilmente emendabile, prevedere una soglia molto bassa, al 35%, per far scattare un premio di maggioranza elevato del 18 o del 20%. Finora si era sempre ragionato di una soglia minima del 40 o del 45%. C’è il rischio che un premio così elevato non sia ragionevole.
Giovanni Sartori intervistato sul Messaggero:
Un pasticcio su un pasticcio su un pasticcio [..] Intanto partiamo dal nome: Italicum è ridicolo. Le definizioni Mattarellum e Porcellum le ho inventate io ma perchè erano i nomi degli autori di quei meccanismi elettorali. Italicum invece ricorda un treno, o giù di lì [..] Annovera una serie di toppe messe l’una sull’altra, tutte sbagliate. Da tempo sostengo che è falso che il maggioritario determini il bipartitismo nel nostro Paese [..] La verità è che il maggioritario rinforza un doppio turno che c’è ma non produce un doppio turno che non c’è. E infatti il Mattarellum ha prodotto una quarantina di partiti, alcuni composti da un persona sola. Quanto al premio di maggioranza che scandalizza tanti, ricordo che quando la Dc provò ad inserirlo nel 1953 su impulso del presidente del Senato, Meuccio Ruini, le sinistre gridarono alla legge truffa. Ma in quel caso il premio scattava per un partito che aveva già avuto il 50 più uno dei voti! Dunque nessuna truffa: ingrandiva la maggioranza che però aveva già dimostrato nei numeri di essere tale. Ora invece si stanno inventando sistemi che trasformano la minoranza in una maggioranza: si ripete, seppur in maniera più blanda lo concedo, la truffa di prima”.
Ugo De Siervo intervistato su Repubblica:
Il sistema viene configurato come proporzionale, ma lo è solo fino a un certo punto, perchè se una lista o una coalizione raggiunge almeno il 35% dei voti scatta un forte premio di maggioranza, che fa raggiungere la maggioranza assoluta degli eletti anche a chi abbia conseguito poco più di un terzo dei voti. Altra cosa sarebbe stata se la percentuale richiesta fosse stata più alta: non ci sarebbe stato il rischio di forti contestazioni politiche che potrebbero manifestarsi in un Parlamento che premia troppo la lista che ha conseguito più voti. [..] (Sulle preferenze) Secondo la Corte se ne potrebbe fare a meno, ma forse dare una preferenza in collegi piccoli non espone il sistema politico ai rischi che spesso vengono rappresentati.
Michele Ainis sul Corriere:
La rappresentatività del Parlamento. È il punto su cui batte e ribatte la Consulta, nella sentenza con cui ha arrostito il Porcellum . Significa che i congegni elettorali non possono causare effetti troppo distorsivi rispetto alle scelte dei votanti, come accadeva con un premio di maggioranza senza soglia. E il premio brevettato da Renzi? 18%, mica poco: fanno quattro volte i seggi della Lega, recati in dono a chi vince la lotteria delle elezioni. Crepi l’avarizia, ma in questo caso rischia di crepare pure la giustizia. [..] Terzo: la sovranità . Spetta al popolo votante, non certo al popolo votato. Da qui l’incostituzionalità delle pluricandidature, dove il plurieletto decideva l’eletto; ma su questo punto Renzi tace, e speriamo che non sia un silenzio-assenso. Da qui, soprattutto, l’incostituzionalità delle liste bloccate. Tuttavia la Consulta ha acceso il verde del semaforo quando i bloccati siano pochi, rendendosi così riconoscibili davanti agli elettori. Quanto pochi? Secondo la scuola pitagorica il numero perfetto è 3; qui invece sono quasi il doppio. Un po’ troppi per fissarne a mente i connotati. C’è infatti un confine, una frontiera impercettibile, dove la quantità diventa qualità . Vale per il premio di maggioranza, perchè il 40% dei consensi sarebbe di gran lunga più accettabile rispetto al 35%. E vale per le liste bloccate, che si sbloccherebbero aumentando i 120 collegi elettorali. In caso contrario, il prestigiatore rischia di trasformarsi in un illusionista. Ma gli sarà difficile illudere di nuovo la Consulta, oltre che gli italiani.
Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano:
Cosa c’è che non va? Le liste bloccate sopravvivono intatte al Porcellum, sottraendo la scelta agli elettori e lasciando ai segreatri di partito il potere di vita o di morte sugli eletti, anzi sui nominati, perpetuando le nomenklature dei fedelissimi e dei mediocri a scapito degli indipendenti e dei migliori. Renzi obietta che anche le preferenze sono una schifezza, e ha ragione: quando gli italiani poterono decidere con il referendum del 1991, le abrogarono limitandole a ua sola per ridurre i costi delle campagne elettorali (primo movente di Tangentopoli) e spezzare le cordate che consentivano il voto di scambio e il controllo mafioso e clientelare dell’elettorato.
(da “Huffingtonpost”)
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