Gennaio 20th, 2014 Riccardo Fucile
SE OGGI SI VOTASSE CON L’ITALICUM? FUORI I PARTITI DI ALFANO E DI MONTI, RESTEREBBERO SOLO IN TRE
Il cosiddetto “Italicum”, la proposta di legge elettorale uscita dal confronto Renzi-Berlusconi-Alfano ha una caratteristica, quella che più stava a cuore a Matteo Renzi: individua in ogni caso una maggioranza politica.
Lo dimostrano anche le simulazioni di YouTrend, che hanno applicato il sistema (illustrato da Renzi nel corso della direzione Pd) sia ai risultati delle elezioni politiche 2013 che all’attuale situazione, fotografata dai sondaggi degli ultimi 15 giorni.
COSA SAREBBE SUCCESSO NEL 2013
Nessun partito o coalizione avrebbe vinto il premio di maggioranza al primo turno, non avendo raggiunto il 35% dei voti.
Facciamo quindi alcune ipotesi: visto il meccanismo contro le liste civetta annunciato da Renzi, consideriamo prima i dati dei partiti, ignorando le coalizioni.
In questo primo caso, vi sarebbe stato un ballottaggio tra Pd e M5s: il vincitore al ballottaggio avrebbe avuto il 53% dei seggi, ossia 334.
Al primo dei perdenti – Pd o M5s – sarebbero andati 136-137 seggi, al Pdl 115, a Scelta Civica 44-45 (il totale fa 630 )
Se invece consideriamo le coalizioni come “liste uniche” (per via delle alte soglie di sbarramento e delle norme anti-liste civetta annunciate da Renzi), sarebbero andati al ballottaggio la lista Bersani e quella Berlusconi, considerando i voti presi dalle coalizioni di centrodestra e centrosinistra.
Se al ballottaggio avesse vinto Bersani, avrebbe ottenuto 334 seggi, Berlusconi 132, il M5S 116 e i montiani 48; se invece a prevalere fosse stato Berlusconi, Bersani ne avrebbe ottenuti 134, 115 per Grillo e 47 per Monti.
COSA SUCCEDEREBBE OGGI
Se si andasse a votare oggi con questo sistema, e fossero confermate le intenzioni di voto rilevate dagli istituti demoscopici negli ultimi 15 giorni, ci sarebbe ugualmente bisogno di un ballottaggio, poichè nessun partito arriverebbe al 35%.
Solo 3 partiti supererebbero le alte soglie di (5% per i partiti coalizzasbarramento ti, 8% per i non coalizzati), e sono gli stessi che competerebbero per arrivare al ballottaggio: certamente il Pd, dato sopra il 30%, e che se vincesse al ballottaggio otterrebbe 334 seggi, contro i 150 di Forza Italia e i 146 del M5S; se invece vincesse al ballottaggio Forza Italia, al Pd andrebbero 177 seggi e al M5S 119; infine, se fosse il partito di Grillo ad accedere al ballottaggio ed a battere il PD, sarebbero i grillini a vincere i 334 seggi, lasciando il PD a 175 e Forza Italia a 121.
Anche in questo caso abbiamo voluto testare un secondo scenario: perchè sia il centrosinistra che il centrodestra sono dati dai sondaggi proprio intorno al 35%, con la possibilità quindi di vincere il premio di maggioranza al primo turno.
In questo caso potrebbe non esservi ballottaggio, e i 334 seggi (oppure 340, in caso di vittoria con il 36%, o ancora 346 seggi in caso di vittoria con il 37% o oltre) sarebbero subito assegnati alla coalizione di Renzi o a quella di centrodestra.
Al secondo arrivato spetterebbero comunque 184-185 seggi, mentre il M5S, terzo, ne avrebbe 111-112.
(da “Huffingtonpost“)
argomento: elezioni | Commenta »
Gennaio 20th, 2014 Riccardo Fucile
CHIESTA PER LETTERA L’ESTROMISSIONE, ORA DEVE DECIDERE ZANONATO (CHE PRENDE TEMPO)
Il conte Pietro Marzotto non ha il dono della diplomazia. E alla sua età – 76 anni – nemmeno più quello delle convenienze.
Così, qualche giorno fa, ha garbatamente scritto al presidente dei Cavalieri del Lavoro del Triveneto, Alessandro Favaretto Rubelli, chiedendo che sia applicata con sollecitudine la revoca dal cavalierato «per indegnità » a carico del Cavaliere del lavoro Silvio Berlusconi, dichiarato decaduto dalla carica di Senatore della Repubblica lo scorso novembre a seguito della condanna penale definitiva. Nell’attesa, l’imprenditore di Valdagno ha informato il presidente che intende «autosospendersi» dall’ordine cavalleresco, non partecipando più ad alcuna attività e pregando l’associazione di astenersi da ogni comunicazione che riguardi l’attività dell’ordine.
Contestualmente, ha chiesto che di questa sua decisione ne fossero messi a conoscenza i 62 «colleghi» cavalieri del Triveneto.
Cavalieri contro.
Cavalier Marzotto contro cavalier Berlusconi, dunque: con il primo, erede di una dinastia che ha dato due deputati del Regno d’Italia (Gaetano e Vittorio Emanuele, ciascuno per quattro legislature) ma soprattutto una delle fabbriche più importanti d’Italia, deciso a non confondere il proprio titolo con quello dell’imprenditore televisivo quattro volte presidente del consiglio e poi dichiarato decaduto dal Senato dopo la condanna penale definitiva a quattro anni di reclusione per frode fiscale.
Più che una guerra di principio, una battaglia di stile.
Con il nato ricco Marzotto, quinta generazione di industriali, che non ha mai amato Berlusconi, cresciuto dal nulla non senza qualche spintarella compiacente e diventato icona dell’Italia cafona.
La federazione.
«Pietro Marzotto è piuttosto impulsivo, ma indubbiamente non ha tutti i torti in quello che dice — commenta Alessandro Favaretto Rubelli, presidente della Federazione dei cavalieri del lavoro del Triveneto —. La procedura non compete alla federazione triveneta, ma è di competenza del Consiglio nazionale dei cavalieri del lavoro, presieduto dal ministro per lo Sviluppo economico. Sul tema abbiamo interpellato, per canali diplomatici, anche il Quirinale, che ci ha appunto risposto che la proposta di revoca deve essere promossa dal consiglio nazionale e poi essere ratificata da un Decreto del Presidente della Repubblica. Purtroppo è vero quel che dice Marzotto: questo tipo di procedura è sempre stata usata con molta cautela e prudenza, negli anni non ho ricordi di revoca applicate in tempi rapidi. L’ultima è quella di Calisto Tanzi, giunta nel 2010, alcuni anni dopo il caso Parmalat. Ritengo che in questo caso, a maggior ragione per il ruolo politico che riveste il cavalier Berlusconi, l’ordine userà ancora più cautela. La verità , semplicemente, è che la procedura è in corso ma a Roma non hanno molta voglia di mandarla avanti, per ragioni che tutti noi possiamo intuire».
La lettera di Pietro Marzotto – che non commenta, è a caccia all’estero con gli amici di sempre – è circolata nei giorni scorsi negli ambienti imprenditoriali che ruotano attorno all’ordine al merito del Lavoro che ogni anno sforna 25 nuovi insigniti nominati dal Presidente della Repubblica: nel Veneto ne fanno parte tra gli altri Gilberto e Alessandro Benetton, Aldo Tognana e Teofilo Sanson, Bepi Stefanel e Renzo Rosso. E naturalmente ha sollecitato più d’una reazione.
L’ordine.
L’ordine cavalleresco al merito del lavoro, fondato da Vittorio Emanuele III nel 1901, è concesso ai cittadini benemeriti che abbiano dato lustro alla nazione in campo imprenditoriale; i requisiti richiesti sono quelli di una «specchiata condotta civile e sociale», «aver adempiuto agli obblighi tributari», non aver svolto attività «lesive della economia nazionale» e aver dato continuità a questi requisiti per «almeno vent’anni». «Incorre nella perdita dell’onorificienza l’insignito che se ne renda indegno».
La revoca di Silvio Berlusconi, «il Cavaliere» per antonomasia (il titolo gli fu assegnato nel 1977 a seguito delle sue attività immobiliari) rischia di gettare una nuova insidia nel cammino del dialogo tra le forze politiche.
La procedura, formalmente, deve essere essere promossa dal Consiglio nazionale dei cavalieri del lavoro, presieduto per legge dal Ministro per lo Sviluppo Economico. Nella fattispecie, dal ministro padovano Flavio Zanonato. Che potrebbe convocare a breve questo plenum anche per discutere della «sollecitazione» promossa dall’industriale di Valdagno.
«Spero che la procedura si possa chiarire al più presto, in modo da rassicurare i nostri Cavalieri» conclude Alessandro Favaretto Rubelli.
Chi è Pietro Marzotto.
Nato a Valdagno l’11 dicembre 1937, figlio di Gaetano junior e Margherita Lampertico. Laureato in Giurisprudenza, dal 1972 è stato amministratore delegato e poi vicepresidente del gruppo tessile di Valdagno.
Dal 1982 al 1998 è stato presidente del gruppo, ma anche presidente degli industriali di Vicenza e vicepresidente di Confindustria, nonchè presidente dell'”Associazione dell’Industria Laniera Italiana”.
Nel 1985 è stato nominato Cavaliere del lavoro.
Dal 2004 ha lasciato tutte le quote di Marzotto, rompendo anche i ponti con la cittadina che ha dato i natali al gruppo, un secolo e mezzo prima, nel 1836 per opera del capostipite Luigi.
Dal 2000 al 2012 è stato presidente della Fondazione Marzotto, ente morale che gestisce asili nido, scuole materne e case di riposo.
Vive appartato a Pramaggiore con la terza moglie, Anna Maria Agosto, sposata nel 2009. Ha quattro figli: Marina, Umberto, Italia e Pier Leone.
Daniele Ferrazza
(da “il Mattino di Padova”)
argomento: radici e valori | Commenta »
Gennaio 20th, 2014 Riccardo Fucile
IL VENTO DELLA SUA LISTA CIVICA POTREBBE SPAZZARE VIA PDL E PD
«Un’occasione di cambiamento così non capiterà mai più. Contavamo di prepararci per il 2019, ma non c’è tempo. La nostra vittoria non è più un azzardo, ma una necessità . Oh, ma un po’ di birra c’è?». Michela Murgia arriva all’inaugurazione del suo comitato elettorale, con 500 persone fin sui marciapiedi tra pane e peperoni.
E quando arriva, qui nella periferia di Cagliari, si capisce perchè Pd e Pdl si siano allarmati per il sondaggio sulla fiducia popolare che la proietta in testa alle prossime regionali.
E siano terrorizzati dalla possibilità che possa anche beneficiare dell’assenza del Movimento 5 Stelle.
«Entula» dicono i contadini sardi: solo quando soffia il vento si può separare la paglia dal grano. Qui pare che soffi.
E potrebbe liquidare in un colpo solo un sistema di potere non solo politico.
Si vota tra meno di un mese: 29 liste (il doppio rispetto a cinque anni fa), 1500 candidati per 60 posti da consigliere, otto aspiranti governatori.
In campo debolezze, più che forze politiche: 64 ex consiglieri indagati e quattro agli arresti per peculato sui fondi del Consiglio regionale, usati per pagare di tutto, dai formaggi al carrozziere.
Il Pdl li ricandida tutti, anche perchè sul governatore Ugo Cappellacci che cerca il bis pesano tre processi penali: affaire P3 e bancarotta.
Il Pd è riuscito in un capolavoro di ipocrisia: ne ricandida tre ma ha costretto al passo indietro Francesca Barracciu, trionfatrice alle primarie contro i capataz del partito, indagata per 33 mila euro di rimborsi benzina sospetti.
Al suo posto, dopo inenarrabili tormenti, ha pescato l’economista Francesco Pigliaru, ex assessore con Soru, poi emarginato. Persona stimata, ma fredda.
I cinquestelle, primi alle politiche con il 29 per cento, si sono scannati con quattro meet up l’un contro l’altro armati, il che ha indotto Grillo e Casaleggio a non concedere il simbolo.
Ordalia in una terra disperata: su poco più di 500 mila occupati, in un anno ha perso 54 mila posti di lavoro.
La cassa integrazione in deroga è cresciuta del 500 per cento, il doppio della media nel Sud; gli altri ammortizzatori sociali del 160, il triplo.
Dall’industria pesante alle basi militari (due terzi di quelle italiane), il «piano di rinascita» che per decenni ha nutrito la Sardegna — affamandola — è fallito lasciando in eredità povertà , desertificazione imprenditoriale, degrado ambientale.
Un giovane su due è senza lavoro.
In questo contesto, qualche tempo fa Michela Murgia si presenta a Torino, agli amici della Einaudi che pubblicano i suoi libri: «Scusatemi, ma per cinque anni ho altro da fare». Politica.
Ci arriva dopo aver fatto di tutto: diploma in istituto tecnico, studi di teologia, supplente di religione, cameriera, messo di cartelle esattoriali, impiegata in un’azienda, grafico sul web, telefonista in call center, portiera di notte.
E scrittrice di successo internazionale: decine di migliaia di copie vendute, mezza dozzina di premi, traduzioni in venti lingue.
«Diciamo la verità : a me di scrivere romanzi non frega niente, io sento la scrittura come un dovere civile. Il mio amico Marcello Fois dice che questa è una malattia esantematica dei giovani scrittori… sarà , ma per me è così».
Indipendentista da dieci anni, nel 2010 con altri 250 militanti («dei quali 249 più giovani di me») lancia ProgReS (Progetu Repùblica), una rifondazione dell’indipendentismo mondato da nazionalismo, reducismi e sentimentalismi antistorici, sostituiti da democrazia, partecipazione, economia di relazione.
E comincia a lavorare sul territorio: migliaia di incontri in città , borghi, campagne. Ovunque ci sia una vertenza, un conflitto, uno dei 101 comitati civici nati negli ultimi anni «perchè una volta per un problema ci si rivolgeva al politico o al sindacalista, ora ci si organizza da soli e si fa».
Nel frattempo, un’altra sua attività penetra nella carne della Sardegna più remota.
Si chiama Liberos ed è un’associazione tra tutti i soggetti della filiera del libro — scrittori, editori, redattori, librai, bibliotecari, lettori — per organizzare in rete eventi, festival, progetti con gli studenti.
Risultato: fermata la moria di librerie indipendenti, fatturati raddoppiati, case editrici entusiaste. E decine di migliaia di persone coinvolte.
Dunque è stato naturale, nell’agosto scorso, che questi e altri percorsi sfociassero nella sua candidatura nella coalizione «Sardegna Possibile», in cui agli indipendentisti si sono aggiunti amministratori locali e militanti senza partito.
E inevitabile che anche il metodo seguito successivamente per la redazione del programma sia stato rivoluzionario, con la tecnica Open Space Technology, inventata negli Usa vent’anni fa: incontri tematici itineranti (cibo, salute, beni comuni…) in cui è vietato lamentarsi dei problemi ma ciascuno può proporre una soluzione e chiamare gli altri a discuterla.
«Obama e Michelle cominciarono così», spiega Iolanda Romano, che insegna questi temi alla Sorbona e ha «aiutato Michela con entusiasmo».
Un migliaio di persone ha partecipato, una dozzina è stata scelta per la giunta, in caso di vittoria.
E ciascuno, oltre che una faccia, è una storia: chi lavora sul sistema di baratto multilaterale contro la crisi di liquidità (transazioni per un valore di 14 milioni di euro tra duemila imprese), la prima presidente di Slow Food Sardegna, la massima esperta di turismo in aree protette, l’agricoltore che rileva terreni abbandonati, la giovane sarda entrata nello staff del premier inglese Cameron.
Campagna elettorale low cost: 77 mila euro di autofinanziamento («tra cui 30 mila euro di miei risparmi»), ne servono altri 20 mila e faranno debiti.
Pd e Pdl spendono quindici volte tanto.
Eppure il vento soffia, la partita è aperta: chi arriva primo, sia pure per un voto, governa da solo grazie al premio di maggioranza.
Cappellacci ha già detto che teme solo Michela Murgia. E lei: «C’è un pezzo di sinistra che non vede l’ora di non votare Pd».
E i voti di Grillo? «Quelli non sono di Grillo, ma dei sardi».
Giuseppe Salvaggiulo
argomento: elezioni | Commenta »
Gennaio 20th, 2014 Riccardo Fucile
LA P2, MANI PULITE, GLI ANNI DI PIOMBO: “GLI ITALIANI? PIU’ SUDDITI CHE CITTADINI”
“La prima giustizia è la coscienza”, dice Jean Valjean, travestito da monsieur Madeleine, ne “I miserabili” di Victor Hugo. E si rivolge a Javert, l’ispettore che incarna la giustizia cieca, testarda e inesorabile.
Una prospettiva che è stata spesso l’orizzonte prevalente del dibattito, nel Paese dove da vent’anni si farnetica di una supposta guerra tra politica e magistratura: il futuro della giustizia resta un perno centrale nella vita democratica.
E dunque anche della salute dell’Italia: siamo venuti a parlarne con Gherardo Colombo, ex magistrato, scrittore, presidente di Garzanti e membro del Cda della Rai. Sta lavorando — spiega mentre tenta di salvare una pantofola dalle fauci di Luce, Golden Retriever di sette mesi — a uno spettacolo tratto da Imparare la libertà , il potere dei genitori come leva di democrazia, manuale per educare senza punire, scritto a quattro mani con Elena Passerini.
Il debutto è previsto per il 24 febbraio a Roma.
Sul palco, con Colombo nei panni del professore, ci saranno anche Piotta, il bidello, e due studenti: Sara Colombo, figlia di Gherardo, e Cosimo Damiano D’Amati che è anche il regista.
Dottor Colombo, quando si parla di rapporti tra giustizia e politica, l’obiezione prevalente è che la magistratura si sostituisce alla politica. Nel caso della Consulta sul Porcellum è stato fatto di tutto per evitare la sostituzione, eppure il legislatore è rimasto a guardare, nonostante i numerosi moniti e del Colle.
I giudici — di qualunque grado e tipo — hanno il compito di rispondere alle domande che vengono loro rivolte. È stata sollevata, non a torto, una questione di legittimità sulla normativa elettorale: la Corte ha risposto. A Torino la domanda di chiarimento al Tar sulla validità delle elezioni regionali è stata avanzata da uno degli attori politici. Se coloro che esercitano la funzione politica fossero capaci di risolvere le questioni all’interno della propria funzione, la magistratura non dovrebbe intervenire! Esiste, però, un problema di tempi: in queste materie in particolare, le questioni dovrebbero essere risolte in qualche mese, non in qualche anno. Anche se i motivi, molto frequentemente, non possono essere addebitati ai giudici.
L’etica è stata “ristretta” al diritto penale: d’accordo?
Questo è il problema. Non esiste più la responsabilità politica, disciplinare o amministrativa. Tutto va a finire nel processo penale. L’idea che si ha è che tutto quello che non è vietato dalla norma penale va bene. Ma la verifica penale dovrebbe essere l’extrema ratio, arrivare per ultima. E forse, aggiungo, non è la più indicata a risolvere le questioni, perchè come effetto ha una sanzione, non l’identificazione di un rimedio che valga in casi analoghi per il futuro.
Nella Prima Repubblica non era così. O era un po’ meno così: non sarà mica “colpa” di Mani Pulite?
Durante la Prima Repubblica molte cose accadevano nell’ombra. Non farei un’apologia di quegli anni: non dimentichiamo la P2, la stagione delle stragi, da piazza Fontana a piazza della Loggia, da Peteano all’Italicus. E poi c’erano meccanismi di autoconservazione del potere estremamente collaudati ed efficienti. Io credo che l’emersione di Tangentopoli sia strettamente connessa alla caduta del Muro di Berlino. L’Italia era un Paese di confine, in cui si era arrivati a un equilibrio basato su “stanze di compensazione”: il potere si salvaguardava nel suo complesso. Cade il Muro di Berlino e finisce quella contrapposizione — da una parte il mondo occidentale, dall’altra l’Unione Sovietica — in cui entrambi i blocchi avevano un interesse forte sul nostro Paese: perciò la violazione delle norme sul finanziamento ai partiti era ampiamente praticata. L’equilibrio salta, e allora per una piccola finestra temporale, abbiamo potuto indagare in un modo impensabile fino a poco prima, perchè in un modo o in un altro succedeva qualche cosa che bloccava le indagini. Torno alle inchieste sulle stragi: quale incredibile serie di trasferimenti ha dovuto subire il processo per piazza Fontana! L’ostacolo alle indagini era quasi la prassi, a volte anche con il coinvolgimento della magistratura: è stata la magistratura a fare in modo che il processo di piazza Fontana andasse in giro per l’Italia fino a morire. Anche senza voler pensare alla malafede, i fatti sono questi. Così è successo per la P2, per i fondi neri dell’Iri: se i processi fossero rimasti a Milano, gli esiti sarebbero stati senz’altro diversi
Il Tribunale di Milano era diverso?
Milano, negli anni delle stragi, della P2 e dei fondi neri Iri rappresentava una delle non frequenti eccezioni rispetto al pensiero corrente in magistratura secondo cui il potere era esonerato dalla verifica giurisdizionale. Se veniva alla luce qualcosa che riguardava persone che gestivano il potere e iniziavano le indagini, nel giro di poco tempo tutto si bloccava. La stragrande maggioranza dei giudici del Dopoguerra si era formata sotto il Fascismo. E quindi, l’atteggiamento era quello al quale si era stati abituati dal regime: in certi cassetti non si guarda. Con il tempo progressivamente le cose cambiano. Viene istituita la Corte costituzionale e questa estromette dall’ordinamento tante norme risalenti a prima della Costituzione; nasce il Csm e si compie un importante passo verso l’indipendenza della magistratura stessa dagli altri poteri dello Stato; c’è un progressivo ricambio generazionale, perchè via via che il tempo passa i magistrati che si erano formati sotto il Fascismo vanno in pensione. Torniamo a Mani Pulite: io sono entrato nell’inchiesta — su richiesta reiterata dei dirigenti del mio ufficio, Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D’Ambrosio — nell’aprile del ’92, due mesi dopo che Di Pietro aveva cominciato le indagini.
A luglio di quell’anno lei rilasciò la famosa intervista a Leo Sisti sull’Espresso, in cui proponeva di risolvere la questione evitando la prigione a chi confessava e restituiva il maltolto allontanandosi per un po’ dalla vita pubblica. Lo pensa ancora?
Avevo intuito che quella giudiziaria era una strada senza sbocco. La corruzione era davvero un sistema e sarebbe stato — come in effetti è accaduto — impossibile scoprire e gestire tutto. Non ci sono stime certe, ma il circa il 40% dei processi si è risolto con la prescrizione. Anche oggi penso che la soluzione non poteva essere giudiziaria, che sarebbe stato necessario investire molto a livello educativo.
E la P2?
Il 19 marzo 1980, Prima linea ammazza Guido Galli, di cui ero collega all’Ufficio istruzione. Lo racconto perchè in qualche modo c’è un collegamento con l’assegnazione dei processi che riguardano Sindona a Giuliano Turone e a me. Uccidono Guido, dopo aver assassinato un altro collega a Salerno e uno a Roma, e l’Ufficio istruzione di Milano rischia di dissolversi: tanti chiedono e ottengono di essere trasferiti, come volessero scappare. Milano negli anni Ottanta, alle dieci di sera e nei weekend, era deserta: io andavo in giro in moto, quando mi fermavo al semaforo e qualcuno attraversava la strada dietro di me, mi aspettavo un colpo in testa. Avevo paura, avevamo tutti paura, ma in un po’ siamo rimasti. Essendo tra quelli che sono rimasti, i vari processi su Sindona furono assegnati a Giuliano, Gianni Galati e a me. Indagando su Sindona, scopriamo che Joseph Miceli Crimi, il medico che aveva organizzato il viaggio clandestino di Sindona a Palermo subito dopo l’omicidio di Giorgio Ambrosoli e lo nascondeva in quella città , aveva incontrato ad Arezzo Licio Gelli più volte nello stesso periodo. Poichè Gelli già compariva a più riprese nelle indagini, abbiamo deciso di perquisire i luoghi che frequentava, tra i quali la Lebol — a Castiglion Fibocchi — di cui era dirigente. Era il 17 marzo 1981, ero in ufficio con Giuliano, ed eravamo piuttosto scettici sull’esito dell’operazione. A metà mattina il telefono squilla: è il colonnello Bianchi, che avevamo mandato con i suoi uomini della Guardia di Finanza da Milano a eseguire le perquisizioni, imponendogli di non prendere contatto con i colleghi del luogo perchè fosse mantenuta la massima segretezza. Ci racconta che sono stati trovati documenti di rilievo eccezionale aggiungendo, stupefatto, che il comandante generale della Guardia di Finanza lo aveva contattato, dicendogli che nelle liste avrebbe trovato anche il suo nome…
… e non era il solo nome eccellente…
La mattina dopo arrivano le carte, una cosa strabiliante. Ministri, sottosegretari, parlamentari, generali dei Carabinieri, dell’Esercito, della Finanza, il capo del Sismi, il capo del Sisde; i nomi di quelli che avevano depistato le stragi. C’era il nome di Sindona, il nome del generale Massera, coinvolto nel colpo di Stato in Argentina di pochi anni prima. C’erano i nomi di magistrati, imprenditori, giornalisti e via dicendo. Ritenendo necessario che i vertici delle istituzioni venissero informati della gravità della situazione, dopo aver tentato invano di contattare il presidente della Repubblica Pertini che era in viaggio istituzionale in Sudamerica, fummo ricevuti dal presidente del Consiglio Forlani, il 25 marzo. Ad aprirci la porta di Palazzo Chigi fu il prefetto Semprini, che figurava nell’elenco degli iscritti alla P2. Forlani minimizzava, ma alla fine riconobbe la gravità della situazione.
Pressioni?
Pressioni direi di no, ma il procuratore della Repubblica di Milano, Gresti, ci chiese di restituire le carte a Gelli! Intanto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, presieduta da Francesco De Martino, chiede copia delle carte. In Parlamento cominciano a piovere le interrogazioni: Forlani risponde in aula martedì 19 maggio. La nostra sensazione — ascoltavamo la seduta parlamentare da Radio Radicale — è che il capo del governo volesse scaricare su di noi la responsabilità della pubblicazione delle liste. Circolavano, messe in giro ad arte, un sacco di voci sugli iscritti alla P2. Con il consigliere istruttore Amati, che era il nostro dirigente, Turone e io scriviamo una lettera in cui diciamo che ritenevamo coperti da segreto istruttorio i verbali delle deposizioni rilasciate dai testimoni che stavano sfilando davanti a noi, ma non il restante materiale. De Martino annuncia che la Commissione Sindona avrebbe provveduto comunque a rendere pubbliche le liste e dunque Forlani decide di farlo lui stesso: una settimana dopo cade il governo.
E le famose buste sigillate?
Erano circa 35, più o meno ognuna conteneva una notizia di reato. Le accenno al contenuto di due, giusto per capirci. Parlano di un conto, “Protezione”, presso la banca Ubs di Lugano, con riferimenti all’onorevole Claudio Martelli, e di versamenti per milioni di dollari a favore di Bettino Craxi. Oltre alle buste, in una Banca di Castiglion Fibocchi, trovammo le prove del pagamento delle quote d’iscrizione alla P2. Tutti erano disorientati. Allora l’idea era che i magistrati rispondessero a qualcuno in sede politica.
Quest’idea è rimasta: hanno annullato le elezioni in Piemonte e il segretario della Lega Salvini ha dato la colpa alla magistratura comunista. È un ritornello che abbiamo sentito in tutto il ventennio berlusconiano.
Certo, in modo strumentale. Allora invece era spesso vero che i magistrati rispondessero a qualcuno riservatamente in sede politica! C’è chi dice che secondo il manuale Cencelli la poltrona di Procuratore della Repubblica di Roma valesse quanto un ministero. I politici impazzivano, perchè non erano in grado di attribuirci un’appartenenza. Non sapendo per conto di chi lavoravamo non sapevano con chi lamentarsi, o a chi rivolgersi per fermarci o per trattare. Non pensavano che fossimo veramente indipendenti! Sta di fatto però che nel giro di meno di sei mesi la Procura di Roma ha sollevato conflitto di competenza, la Cassazione le ha dato ragione, le carte sono trasmigrate a Roma e le indagini di maggior rilievo sono state subito archiviate.
E per Mani Pulite, pressioni?
Io posso parlare per me: mai nessuna. Se c’è stato qualche tentativo di avvicinamento, è stato subito bloccato. Borrelli è stato fondamentale per garantire la nostra piena autonomia.
In questo pregiudizio sulla scarsa indipendenza della magistratura dalla politica quanto hanno pesato le correnti del Csm?
Sono stato iscritto a Md da quando sono entrato in magistratura fino a quando mi sono dimesso, ma — salvo un incarico giovanile locale — non ho mai ricoperto funzioni istituzionali.
Però lei è stato a lungo un simbolo di Magistratura democratica.
Non intendevo affatto negare l’appartenenza, solo specificare che ho fatto poca vita associativa. Finchè non c’è stato il Csm, le funzioni venivano svolte per un verso dal ministero e per l’altro dalla Cassazione: organi entrambi, allora, molto sensibili al potere. All’inizio degli anni Cinquanta, chi faceva il giudice in Cassazione si era formato in una società organizzata da regole che, per esempio, vietavano il voto alle donne, stabilivano discriminazioni all’interno della famiglia, consideravano reato l’adulterio femminile ma non quello maschile. C’era chi aveva sviluppato un pensiero alternativo, ma la massa era piuttosto allineata. La Costituzione, in conseguenza, veniva considerata più come un complesso di affermazioni programmatiche che non la legge fondamentale della Repubblica. Le correnti arrivano dopo: originariamente le posizioni erano perlopiù molto conservatrici, ed era quasi sovversivo allora essere in sintonia con la Costituzione. Magistratura democratica nasce nel 1964 e progressivamente nasce il paradosso dei magistrati politicizzati.
Si è sentito spesso dire che Md è stata ispiratrice di molte indagini delle toghe rosse.
Una cosa che posso dirle per certo è che io non sono stato mai “ispirato” da nessuno. Le indagini sono “ispirate” dalle notizie di reato. Piuttosto credo che queste affermazioni siano spesso volte a distogliere l’interesse dal merito delle indagini e dei processi. Per sapere se un’indagine è giustificata occorre leggere le motivazioni delle sentenze, cosa che credo avvenga davvero molto raramente.
Altro però è la gestione del potere all’interno della magistratura, per esempio la questione della spartizione degli incarichi tra le correnti.
Non c’è dubbio. Qui penso che ci siano problemi. È una questione culturale, che riguarda in generale il Paese. La competenza ha perso significato e valore, e a volte vale di più l’appartenenza rispetto alla capacità e alla preparazione. Temo che anche la magistratura si sia adeguata alla tendenza generale qualche volta, e che taluni incarichi siano stati assegnati attraverso accordi tra le correnti basati, appunto, sulle appartenenze.
I magistrati fanno carriera in base all’anzianità di servizio.
Il problema è più generale, riguarda la gestione dell’autonomia della magistratura. Le sembra logico che i criteri di scelta del dirigente di un ufficio siano, appunto, l’anzianità o se va bene, la bravura nello scrivere sentenze o nel dirigere le indagini? Il capo di un ufficio deve essere in grado di organizzare. Per dire, la Procura di una grande città , come Milano o Roma, è costituita, tra magistrati, polizia giudiziaria, cancellieri, personale amministrativo da circa un migliaio di persone.
Si parla di riforma della giustizia da sempre: da più parti s’invoca come risolutiva la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante.
Non credo che aver fatto lo stesso concorso di un pm pregiudichi la terzietà di un giudice. Tanto è vero che accade non di rado che le richieste della Procura siano rigettate dai giudici. Supponiamo che sia vero che l’appartenenza alla stessa categoria crea un rischio parzialità : non sarebbe allora assai più drammatica la comunanza tra giudici di primo grado, Appello e Cassazione? Il giudice dovrebbe sempre comportarsi in modo da comunicare, anche all’esterno, un’immagine di indipendenza. A volte non è così, ma la separazione delle carriere non c’entra nulla: esistono già norme, sul passaggio tra ruoli, a tutela dell’imparzialità . La partecipazione alla stessa carriera serviva soprattutto a trasmettere al pubblico ministero la cultura della giurisdizione. Invece succede che il pm, per come la funzione è rappresentata dai media, è sempre più spesso identificato come l’accusa. Cioè qualcuno che ha come interesse la condanna, e non invece la corretta ricostruzione dei fatti.
Come è possibile che sia così poco percepito il rischio di una magistratura inquirente dipendente dal potere esecutivo, soprattutto in un Paese come l’Italia?
Questo è un passo ulteriore: una volta separate le carriere, allora sarebbe possibile sottoporre la funzione inquirente all’esecutivo. Sarebbe tragico. Anche se forse a tanti italiani, che mi pare abbiano ancora la mentalità del suddito piuttosto che quella del cittadino, forse non dispiacerebbe.
Per via di questa mentalità ha lasciato la magistratura per andare a insegnare la Costituzione nelle scuole?
Sì, anche ai bimbi piccoli. Capiscono molto più di quanto gli adulti vogliono credere e hanno una gran voglia di coinvolgimento, spesso frustrata da una scuola che, pur con eccezioni significative, tende più all’omologazione dei ragazzi che alla promozione della loro libertà responsabile.
Le esperienze politiche di ex magistrati o magistrati in aspettativa hanno suscitato molte critiche. Lei che pensa al riguardo?
La Costituzione prevede per tutti il diritto di elettorato attivo e passivo. Credo allo stesso tempo che il principio della divisione dei poteri sia fondamentale, da un punto di vista formale e sostanziale, per cui dal mio punto di vista non guasterebbe se chi volesse dedicarsi alla politica si desse la regola di dimettersi dalla magistratura e di lasciar passare del tempo, due-tre anni, tra un’esperienza e l’altra.
Nino Di Matteo è stato più che minacciato, è stato oggetto addirittura di un ordine di esecuzione da parte di Totò Riina, nel silenzio assoluto delle istituzioni.
In Italia, come in nessun altro Paese democratico, sono stati uccisi tanti magistrati. Quando ad ammazzare è stata la criminalità organizzata, le vittime erano spesso persone rimaste isolate: Falcone per esempio ha subito un progressivo isolamento. Sarebbe più che opportuno, anzi direi necessario e doveroso, che le istituzioni facessero sentire la loro vicinanza a Di Matteo. Anche con gesti simbolici, come la presenza fisica (una visita a Palermo, un convegno organizzato lì), ma che mi pare siano molto rari. Le persone che sono oggetto di quelli che a volte sembrano atti preparatori a un omicidio, dovrebbero essere il più possibile protette e garantite. Deve essere chiaro da che parte sta lo Stato.
In questo caso c’è un cortocircuito: nel processo sulla Trattativa, lo Stato è dalla parte sbagliata, quella degli imputati.
Per quel che ne so nessuno tra coloro che ora ricoprono cariche istituzionali è indagato in quel processo.
C’è stata però la questione della distruzione delle conversazioni tra il presidente della Repubblica e Nicola Mancino
Mi pare che quella fosse una questione processuale e non andrebbe confusa con le più generali vicende delle minacce a Nino De Matteo.
Lei è anche consigliere del Cda della Rai, ormai al giro di boa di metà mandato. Bilancio?
Questa è un’altra, lunga, intervista: bisognerebbe parlare di leggi, procedure, competenze, delle difficoltà nell’esercitare le funzioni. E tanto altro…
Silvia Truzzi
argomento: Giustizia | Commenta »
Gennaio 20th, 2014 Riccardo Fucile
QUANDO RENZI DICEVA: “NON SONO INNAMORATO DI UNA LEGGE ELETTORALE MA DI ALCUNI CONCETTI: IL PRIMO E’ CHE L’ELETTORE DEVE SCEGLIERE IL PROPRIO PARLAMENTARE”… QUELLO CHE DECIDE LUI, INTENDEVA
Chi vuole dargli una certa nobiltà lo chiama Italicum. Chi va giù duro con i tecnicismi lo definisce “ispanico-tedesco“. Chi vuole bombardarlo in culla chiama il sistema elettorale sul quale si basa l’intesa tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi “Maialinum“. Un Porcellum in formato mignon.
Perchè il segretario del Pd dice che c’è una “sintonia profonda” con il Cavaliere praticamente su tutta la linea e tra l’altro questo basta per sentire già scricchiolare il mega-consenso raccolto a dicembre nei circoli.
Se c’è “sintonia profonda” c’è anche su un punto, scavallando i meccanismi complicati su distribuzione dei seggi, soglie di sbarramento e ipotesi su sistemi francesi, tedeschi, austriaci, turchi, giapponesi.
E quel punto è che ancora una volta non ci saranno le preferenze e che il Parlamento sarà di nuovo costituito da nominati dalle segreterie di partito.
Le liste di nomi saranno molto più corte (5-6 e non trenta e oltre come nella Porcata fatta a fette dalla Consulta), ma il concetto non cambia di un millimetro.
Certo, le preferenze dilaniano spesso i partiti al loro interno (per effetto della concorrenza tra candidati).
Certo, le preferenze non garantiscono granchè sotto il profilo di una selezione della classe dirigente (Franco Fiorito arrivò nel consiglio regionale del Lazio con una vagonata di voti personali).
Certo, le preferenze sono state spesso il piatto ricco con il quale la criminalità organizzata ha potuto spesso fare affari, anche per le carenze della legge sullo scambio elettorale politico-mafioso.
Anche alcuni costituzionalisti sono dell’idea che la preferenza non sia affatto la panacea.
“Ricordiamo Tangentopoli — diceva Augusto Barbera alcuni giorni fa in commissione Affari costituzionali alla Camera — causata dalla ricerca di ingenti risorse finanziarie necessarie per cercare voti in concorrenza agli altri candidati presenti nella stesso partito”.
Fin qui i difetti del sistema delle preferenze.
Ma poi resta la storia degli ultimi 8 anni con tre Parlamenti composti dai capi di partito, che in alcuni casi hanno dovuto scegliere i più fedeli (da Cosentino e Dell’Utri fino a Razzi e Scilipoti) e in qualche altro caso hanno dovuto scegliere con il manuale Cencelli per non far esplodere la faida delle correnti (teodem, modem, renziani, bersaniani, franceschiniani, Giovani Turchi…).
Eppure Renzi diceva: “C’è un solo meccanismo di legge elettorale che funziona in Italia, quello per eleggere i sindaci. Magari un elettore di Firenze che ha votato contro di me è dispiaciuto che abbia vinto, però ha un punto di forza: un’ora dopo la chiusura dei seggi sappiamo chi è il sindaco. Ci sono dei consiglieri comunali eletti con le preferenze, che non fanno ‘inciucetti’ di Palazzo per cambiare il sindaco. E’ l’unica legge che funziona. Non capisco perchè questi scienziati continuino ad inventare dei meccanismi assurdi dal porcellum al provincellum. Giochiamola semplice. Comunque non sono innamorato di una legge elettorale piuttosto che di un’altra, sono innamorato di alcuni concetti: il primo è che bisogna scegliere il proprio candidato leader, ma anche il proprio parlamentare”.
Era il luglio 2012.
E’ chiaro che il segretario del Pd, per intavolare un confronto, ha dovuto presentare tre opzioni diverse (spagnolo, “sindaco d’Italia” e Mattarellum da rivisitare). Ma non è necessario innamorarsi di una legge elettorale o di un’altra.
Basterebbe innamorarsi di alcuni concetti
.
Diego Pretini
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Berlusconi, Renzi | Commenta »
Gennaio 20th, 2014 Riccardo Fucile
“LE INDICAZIONI DELLA CORTE SUL PREMIO DI MAGGIORANZA E SULLE PREFERENZE SONO STATE ESPLICITE”
«Stiamo attenti a non sottovalutare i vincoli fissati dalla Consulta». Appena tre giorni fa è stato sentito dalla commissione Affari costituzionali della Camera e Massimo Luciani, professore di diritto costituzionale alla Sapienza, aveva raccomandato proprio «di considerare che, per definire la nuova legge elettorale, la Corte ha lasciato al legislatore uno spazio discrezionale ampio, ma non illimitato ».
Premio di maggioranza e niente preferenze. Siamo dentro o fuori quei limiti?
«Ci sono dei dubbi. Perchè la Corte costituzionale ha sottolineato l’esigenza di garantire la “funzione rappresentativa dell’assemblea” e quella di assicurare agli elettori il potere di “incidere sull’elezione dei propri rappresentanti”. E non è detto, almeno da quanto si capisce dalle prime frammentarie informazioni, che il nuovo sistema le soddisfi entrambe».*
Lei avverte il rischio di un nuovo Porcellino?
«Il sistema sembra molto diverso, ma alcuni dei vecchi difetti sembrano ancora in vita».
Le liste corte, quindi con candidati riconoscibili, possono bastare?
«Penso proprio di no. È vero che la Corte non ha escluso che liste brevi, senza preferenza, possano andare bene, ma vedo qui due difficoltà : la prima è giuridica e consiste nel fatto che i seggi sarebbero suddivisi tra i partiti su base nazionale e assegnati alle singole circoscrizioni secondo i risultati ottenuti in ciascuna di esse. È chiaro, a questo punto, che l’elezione dipenderebbe non solo dalla volontà degli elettori di quella circoscrizione, ma anche da quella degli altri, sicchè ci sarebbe un elemento di problematica casualità ».
E il secondo problema qual è?
«L’opinione pubblica non ne può più di essere vincolata dalle segreterie dei partiti».
Questo sistema piace molto a Berlusconi, ma non rischia di far restare “vecchia” e con i vecchi difetti la classe politica che ci governa?
«Questo dipenderà dalle scelte delle segreterie, ma il problema è appunto che nessuno vuole più lasciar loro il monopolio».
Ma allora la via più semplice non è quella di rimettere in pista le preferenze?
«Certamente, anche perchè la Corte ha ricordato che la preferenza unica (magari corretta, aggiungo io, per assicurare la parità di genere) era stata voluta dai cittadini con il referendum del 1991. So che si obietta che le preferenze possono aumentare i costi delle campagne elettorali e generare rischi di corruzione, ma questi problemi si porrebbero ugualmente istituzionalizzando il sistema delle primarie, che sarebbe l’unica altra alternativa alle liste bloccate».
Il premio di maggioranza del 15-20% per la coalizione che raggiunge il 35% è eccessivo?
«La Corte ha già detto che un premio troppo alto sarebbe incostituzionale, ma non ha chiarito quale sarebbe la soglia giusta. Certo, quello immaginato sarebbe un premio molto alto e c’è da chiedersi se non sia, come ha detto la Consulta, “tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente”. E quindi, direi, anche il sistema delle garanzie».
Abolire il Senato è un sacrificio necessario?
«Cambiare il nostro bicameralismo è essenziale. In particolare lo è riservare a una sola Camera il rapporto di fiducia con il governo. Senza una riforma del genere le nostre istituzioni corrono maggiori rischi di instabilità ».
Siamo sicuri che un nuovo Bozzi, l’autore del ricorso contro il Porcellum, non porti all’incostituzionalità anche della legge Renzi-Berlusconi?
«Stando così le cose avrei davvero qualche timore».
Liana Milella
(da “La Repubblica“)
argomento: Renzi | Commenta »
Gennaio 20th, 2014 Riccardo Fucile
A SCEGLIERE GLI ELETTI SARANNO SEMPRE I CAPIPARTITO, NON CI SI SCOLLA DALLE LISTE BLOCCATE
Ma a scegliere gli eletti saranno gli elettori o sempre i capi partito? Perchè qui siamo ancora alle liste bloccate.
Più in generale, nella «Terza Repubblica» la classe dirigente uscirà dalla selezione popolare dei migliori o sempre dalla cooptazione?
È positivo che la macchina delle riforme, imballata da anni, si sia rimessa in moto, coinvolgendo sia la maggioranza sia una parte dell’opposizione.
Ma è tutto da vedere che la legge elettorale ipotizzata nell’incontro Renzi-Berlusconi garantisca i due requisiti di base: la governabilità e, soprattutto, la rappresentanza.
.Quel che invece gli elettori rischiano di non poter decidere neppure stavolta è il nome degli eletti.
Il modello Renzi-Berlusconi evita solo formalmente il vizio del Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta: l’impossibilità di individuare i candidati.
Le liste più brevi renderanno se non altro i deputati riconoscibili.
Ma essi non dovranno il loro mandato a una scelta popolare, come nel caso dei collegi uninominali; saranno comunque e sempre legati al capo partito.
Se i seggi saranno ripartiti su base nazionale si eviterà il pericolo di frammentazione, impedendo a ogni collegio di eleggere un sindacalista del territorio; ma si concentrerà ancora di più il potere di selezione della classe dirigente nelle mani di pochi.
Per tacere dei 92 seggi attribuiti con il premio di maggioranza e quindi del tutto svincolati al territorio.
In un sistema simile, l’unico rimedio alle liste bloccate sarebbe la preferenza. Che però implica, e non soltanto al Sud, la resurrezione o meglio il riconoscimento del clientelismo.
Oltretutto, di ridurre il numero dei parlamentari non si parla più.
Mentre viene attribuita una funziona salvifica al superamento del bicameralismo perfetto, che in effetti rallenta le decisioni, ma non ha impedito agli Stati Uniti (dove le leggi devono passare al vaglio di Camera e Senato) di diventare la più potente democrazia al mondo.
Non è solo una questione politica. La crisi della rappresentanza non riguarda soltanto i partiti. Trasferire potere dalle segreterie ai cittadini è condizione necessaria ma non sufficiente.
La rivolta contro le èlite investe l’intero establishment , dai sindacati alle varie istituzioni. Non saranno primarie semiclandestine come quelle tenute dal Pd tra il Natale e il Capodanno 2012, o consultazioni online poco trasparenti come quelle grilline, a sciogliere un nodo che non riguarda solo l’Italia ma è il grande tema del nostro tempo.
Per recuperare un minimo di credibilità , di capacità di guida, di rapporto con la base, le èlite devono porsi il tema della rappresentanza.
La logica di Grillo – sostituirle con «uno di noi» – palesemente non funziona, così come non ha funzionato l’utopia leninista di affidare l’amministrazione dello Stato alla cuoca (che nell’epoca della cucina-spettacolo ha trovato ben altre gratificazioni).
Ma questo non autorizza nessuno a richiudersi nella logica delle consorterie e dei partiti personali.
I rappresentanti del popolo per definizione devono rispondere ai rappresentati; non al segretario generale.
Aldo Cazzullo
argomento: denuncia | Commenta »
Gennaio 20th, 2014 Riccardo Fucile
UN GRUPPO DI IMBECILLI AVEVA FISCHIATO “CARUSO” DI LUCIO DALLA E ACCOLTO I TIFOSI PARTENOPEI CON IL CORO “VESUVIO LAVALI COL FUOCO”… CI VUOLE ANCORA MOLTO PERCHE’ QUESTA FECCIA VENGA MESSA IN GALERA INSIEME AI LORO MANDANTI MORALI?
Dopo i fischi e i cori discriminatori di ieri a Bologna contro i napoletani arriva la dura presa di posizione di Gianni Morandi, presidente onorario rossoblù.
«Ieri allo stadio è successo qualcosa di inqualificabile e di cui mi sono vergognato», il suo commento su Facebook. Quando gli altoparlanti del Dall’Ara trasmettevano la canzone “Caruso” di Lucio Dalla, i tifosi rossoblù hanno iniziato a fischiare e intonare cori discriminatori («Vesuvio, lavali col fuoco»).
«Prima dell’inizio della partita sono comparsi striscioni intollerabili contro la squadra e la città di Napoli e mentre le note di Caruso con la voce di Lucio risuonavano nell’aria, una parte della curva dei tifosi rossoblù ha cominciato a fischiare. Non credevo che il tifo fosse degenerato a questo punto», continua Morandi.
«Non mi riconosco in questi tifosi, che oltraggiano la figura di Lucio e insultano gli avversari con questa maleducazione deficiente. E essere il presidente onorario, anche se è una carica simbolica e forse inutile, non mi piace più “.
Era stato il presidente onorario dei rossoblù Gianni Morandi a proporre di diffondere la celebre canzone dell’amico cantautore scomparso, per stemperare gli animi, ma le parole sono state quasi coperte da dischi e cori.
Prima della canzone dai tantissimi tifosi del Napoli presenti era partito un applauso e l’invocazione ‘Lucio Lucio’
«Sono lontani i tempi quando lo stadio di Bologna veniva preso ad esempio per la civiltà e la sportività del pubblico presente, che sapeva addirittura applaudire la squadra avversaria quando giocava meglio della nostra. Non so quanti fossero ieri quegli incivili, capaci di un simile comportamento, razzista ed offensivo -dice ancora a chiare lettere Morandi-. Spero fossero pochi», l’amara conclusione di Morandi.
Pochi o tanti che fossero, basterebbe una volta per tutte che la partita venisse sospesa, il gruppo di imbecilli isolato da un cordone di polizia, trasportato direttamente in carcere, processati per direttissima con pene minime di un anno senza condizionale.
E coglioni in giro ce ne sarebbero di meno.
argomento: Razzismo | Commenta »
Gennaio 20th, 2014 Riccardo Fucile
“I VERI SCONFITTI SONO SOLO I MAGISTRATI: LA TERZA REPUBBLICA NASCE CON SILVIO”
Daniela Santanchè ha voglia di togliersi qualche macigno dalle scarpe.
E siccome interpreta la politica come eterna battaglia, non definisce quella del Cavaliere una rinascita: «Direi piuttosto che dopo l’incontro con Renzi Berlusconi ha dimostrato che non si è fatto ammazzare. Dicevano: la Terza Repubblica inizierà il giorno che Berlusconi sarà morto. L’atto di nascita porta invece la sua firma».
Onorevole, Forza Italia esulta. Sostiene che la guerra è finita.
«La fine di una guerra è la conseguenza di una prova di forza, non di una debolezza. Chi è debole e tratta ad oltranza è destinato a essere travolto. Lo insegna la storia: l’unico disarmo possibile è bilaterale. Chi getta le armi per primo è morto».
Insomma, rivendica la linea dura dei falchi.
«Per mesi ci hanno additato come il problema per una pacificazione. Invece siamo stati la soluzione. Paradossale no? Alfano se ne è andato dicendo che in un partito dove ci sono Santanchè e Verdini si resta isolati dal mondo. Bene. Noi siamo entrati, graditi e riveriti ospiti, nella sede del Pd. Lui sta elemosinando una telefonata di Renzi per sapere come è andata e dal segretario del Pd riceve sfottò e disprezzo. Chi aveva ragione? Rivendico di essere stata tra chi non ha ceduto alle sirene, dal Quirinale alla sinistra, che ci promettevano: sacrificate Berlusconi e avrete salva la vita».
È stato Renzi a rimettere in gioco Berlusconi?
«Se ieri è successo quello che è successo, è perchè Berlusconi ha coraggio e forza da leoni e perchè noi falchi abbiamo tenuto alta la tensione e il livello dello scontro con la magistratura, col Quirinale, con la sinistra, con i traditori che hanno venduto la sua dignità personale e politica al nemico».
Con la nuova legge dovrete però allearvi ancora con Alfano.
«Il destino di Alfano non mi appassiona, affari suoi e loro. Ha fallito. Nessuno vuole ucciderlo nella culla, è lui che si è ucciso da solo. Mi auguro che non vada con la sinistra. E se non avrà tradito i valori di chi lo ha eletto, è ovvio che dovremo stare insieme. Con Berlusconi leader. E poi vorrei dire un’altra cosa».
Dica.
«I veri sconfitti di ieri sono i magistrati. Il loro sporco tentativo di rendere impresentabile Berlusconi è fallito definitivamente. Possono anche arrestarlo domani mattina, ma dopo ieri – per la storia e per l’opinione pubblica – in cella non finirebbe un pregiudicato ma uno statista perseguitato politico. E offro un consiglio non richiesto a Napolitano: prenda atto che aveva sbagliato visione politica e giudizio sulla persona e firmi una grazia tombale all’uomo che da vent’anni si sta prendendo il Paese sulle spalle».
Punti di vista, onorevole. Intanto non parlate più di election day. Una marcia indietro?
«Non è più il tema. Questo governo è un’accozzaglia: prima se ne va, meglio è. Si andrà a votare quando Berlusconi e Renzi avranno fatto ciò che hanno sottoscritto ieri. Se poi qualcuno vuole farlo saltare prima, si accomodi, non abbiamo paura».
In futuro pensate di sostenere Renzi?
«Renzi resta un avversario. Non ci interessa nè il renzismo, nè la rottamazione. E chi fra noi non lo capisce e parla di modello renziano, ricordi che Berlusconi ci ha insegnato sempre a essere inseguiti, non a inseguire».
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica“)
argomento: Forza Italia | Commenta »