Destra di Popolo.net

BERLUSCONI TEME LA VALANGA: “MI VOGLIONO CACCIARE PURE DAL PPE”

Marzo 19th, 2014 Riccardo Fucile

PER ASSICURARE LA PRESENZA DI UN BERLUSCONI IN LISTA, SALE L’IPOTESI DELL’OPZIONE DELLA FIGLIA BARBARA

Il buio su Arcore è sceso da un pezzo, quando l’attesa lunga un giorno si conclude nel peggiore dei modo.
Poco prima delle 22 Ghedini comunica a Silvio Berlusconi che anche le ultime speranze sono tramontate, l’interdizione è confermata, ora il leader è davvero fuori dai giochi, game over.
Non si attendeva nulla di diverso. «Sentenza annunciata – attacca lui commentando coi suoi – rientra nel piano dei giudici per farmi fuori, che si completerà  il 10 aprile quando proveranno a rinchiudermi, a tapparmi la bocca, ma non mi fermeranno così».
Tutto, però, ora si complica.
Già  la giornata era trascorsa a discutere tra le mura di casa su come venire a capo in vista delle Europee.
Perchè nel quartier generale forzista a nessuno è sfuggito che la bocciatura dell’ipotesi di una candidatura del leader sia stata recapitata da Bruxelles da quella Viviane Reding che, oltre a essere commissario europeo alla giustizia, è un esponente di spicco del Ppe.
Il messaggio lanciato dalla grande famiglia popolare europea alla quale Forza Italia aderisce è chiaro: una forzatura sulla candidatura del capo, condannato e interdetto, non verrebbe accettata dai moderati europei e, se portata alle estreme conseguenze, potrebbe condurre all’espulsione.
Ipotesi estrema che per ora nessuno conferma, comunque divenuta più concreta in queste ore. Ecco perchè la prova di forza alla quale Berlusconi a giorni alterni si dice pronto, inizia a scemare.
Nessuno crede realmente nella scialuppa di salvataggio della Corte di Strasburgo. «Speriamo che i ricorsi presentati ci diano l’opportunità  di candidarlo» dice ora un cauto Giovanni Toti a Ottoemezzo.
«Nessuno ci impedirà  di considerare in campo il nostro leader, nessuno pensi di non fargli fare la campagna elettorale» insiste, ma il riferimento alla candidatura diventa ormai subordinato a incognite irrealizzabili.
Ecco perchè dallo scorso fine settimana il patriarca ha tenuto a rapporto, in separata sede, i figli di prime e seconde nozze.
Agli uni e agli altri ha spiegato come «non possiamo permetterci di rinunciare al nome Berlusconi nella lista di Forza Italia alle Europee, rischiamo di perdere milioni di voti».
E per farlo, nell’impraticabilità  di una sua candidatura diretta, resta solo la via straordinaria del coinvolgimento di una delle figlie. E Barbara, lo ha confermato l’ultima volta domenica, a differenza della sorella Marina è «disponibile a compiere il sacrificio».
Ma i giochi sono tutt’altro che fatti.
Il patriarca intanto non è sicuro al cento per cento. Sta valutando tutte le conseguenze di una mossa così azzardata e non sono pochi in Forza Italia a invitarlo alla prudenza. I maggiori ostacoli sul sentiero già  impervio, tuttavia, Berlusconi li sta incontrando proprio in famiglia.
A parte Fedele Confalonieri coi suoi dubbi, c’è la netta contrarietà  di Marina, stavolta, a dare filo da torcere sull’opzione Barbara.
E c’è più che il comprensibile scetticismo legato al coinvolgimento diretto della famiglia.
Chi frequenta Villa San Martino legge, dietro l’ostilità , la paura che l’elezione a suon di milioni di voti della sorella – sarebbe capolista in tutte le circoscrizioni – proietti la giovane e intraprendente ad del Milan nella costellazione politica.
Facendone a tutti gli effetti l’erede alla guida di Forza Italia e perfino del centrodestra. Un salto mortale che non convince tutti ma che per il Cavaliere è quasi obbligato, se non si vuole disperdere il patrimonio di voti rischiando un flop il 25 maggio, quando lui sarà  vincolato dai servizi sociali.
Oggi rientrerà  a Roma, per affrontare a Palazzo Grazioli un’altra grana legata alle Europee.
Riunisce la commissione competente per dirimere il nodo dell’eventuale candidatura di deputati e senatori.
Raffaele Fitto (che tace da settimane) scalda i motori, Brunetta vorrebbe, Giulio Tremonti in odore di «ritorno» avrebbe ricevuto l’offerta.
Berlusconi sarebbe orientato a escludere la corsa dei parlamentari per evitare conte interne e il probabile exploit di Fitto.
Ma un veto suonerebbe come un’esclusione ad personam, lo hanno avvertito.

Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)

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FORZA ITALIA SENZA GUIDA IN UN VICOLO CIECO

Marzo 19th, 2014 Riccardo Fucile

ALZARE LA BANDIERA DELLA SUA LEADERSHIP RISCHIA DI PASSARE PER UN GIUSTIFICAZIONE PREVENTIVA DI UNA SCONFITTA DI FORZA ITALIA ALLE EUROPEE

Sarà  anche l’interlocutore obbligato di Matteo Renzi sulle riforme istituzionali. Ma oltre che condannato, Silvio Berlusconi è anche interdetto dai pubblici uffici.
Paradossale e inesorabile, la macchina della giustizia inchioda le residue ambizioni di leadership del capo di Forza Italia.
Azzera la voglia di alcuni fedelissimi, non tutti, di candidarlo comunque alle elezioni europee di maggio. E restituisce intatto il problema di un centrodestra ancora dipendente in gran parte dalla macchina del voto berlusconiano, ma costretto a presentarsi acefalo.
Adesso e per i prossimi due anni: tanti sono quelli dell’interdizione confermata dalla Corte di Cassazione come pena accessoria.
In fondo, il dibattito accanito tra i sostenitori sull’opportunità  o meno della sua candidatura finisce per sottolineare il problema e dilatarne la drammaticità .
E viene percepito come un segno di disperazione. I fautori della sua presenza nelle liste europee tentano di aggirare la normativa europea.
Chi spera in un provvedimento di grazia del Quirinale invita invece a evitare iniziative «estemporanee».
Ma il tentativo di coinvolgere il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in una qualche operazione a favore del Cavaliere, si conferma maldestro.
Era stata accreditata dai berlusconiani più accesi la possibilità  della grazia sulla base di una raccolta di firme promossa dai parlamentari più irriducibili e appoggiata dal Giornale della famiglia.
Ieri sera, però, il Quirinale ha bollato come «fantascienza» quelle voci. E le ha rispedite ai mittenti, insieme con quelle sulla possibilità  di sue dimissioni anticipate.
Con durezza, Napolitano liquida «apprezzamenti, sollecitazioni o previsioni che impegnano semplicemente coloro che le esprimono, in qualsiasi forma, pubblicamente». E rivendica i poteri che gli attribuisce la Costituzione.
Affermare, come qualcuno dentro Forza Italia fa, che il «no» dei magistrati e dell’Europa al Cavaliere è figlio della paura di una sua vittoria, è il velo pietoso dietro il quale nascondere alcune verità  più crude.
La prima è che una condanna definitiva rende impossibile per legge la presenza nelle liste dell’ex premier.
La seconda è che alzare la bandiera della sua leadership gratifica Berlusconi e magari garantisce la sua riconoscenza, ma non cambia la situazione.
La terza è che tanta insistenza non nasconde i timori dell’Europa ma quelli di FI per il rischio di un risultato mediocre.
Si tratta di una sorta di giustificazione preventiva in caso di sconfitta. Siccome Berlusconi vale molti consensi, la sua assenza comporterà  un calo netto dei voti.
Questa previsione, però, sa di alibi. E ripropone, non cancella il problema di un centrodestra che fatica a rinnovarsi e a trovare nuovi leader.
Per la prima volta dopo molti anni, FI promette di apparire più conservatrice del Pd renziano; insidiata da un Movimento 5 stelle di Beppe Grillo che tende a presentarsi come l’unica vera opposizione; e stretta tra l’esigenza di partecipare alle riforme e ai futuri equilibri del sistema, con la riforma elettorale come primo passo, e quella di non essere subalterna alla sinistra.
Il Mattinale, il bollettino diffuso quotidianamente dal gruppo di FI alla Camera, afferma che la candidatura è «indiscutibile».
Ed elenca tutti i pregi attribuiti dal suo partito al Cavaliere. Ma è una lista inutile e forse perfino controproducente: stilata per rincuorare i militanti, rischia di allontanare l’elettorato che si troverà  a votare in assenza di Berlusconi.

Massimo Franco
(da “il Corriere della Sera”)

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NON LAMENTIAMOCI DELL’EUROPA, I VERI VINCOLI CE LI SIAMO DATI DA SOLI

Marzo 19th, 2014 Riccardo Fucile

L’OBBLIGO DI TENERE IL BILANCIO DELLO STATO IN PAREGGIO NELL’ART. 81 DELLA COSTITUZIONE

Un vincolo più forte di quelli che potrebbe metterci l’Europa sta nella nostra Costituzione.
La Commissione di Bruxelles e gli altri governi dell’unione monetaria potrebbero chiederci stupiti perchè qui da noi nessuno pare ricordarsene.
Dal 1° gennaio 2014 dovremmo tenere il bilancio dello Stato in pareggio, salvo «eventi eccezionali» da riconoscere con voto delle Camere.
Se c’è un «cappio al collo», dunque, ce lo siamo messi da soli, con decisione a larga maggioranza al tempo del governo Monti.
La Banca d’Italia, unica a rammentarlo, non si stanca di ripetere che la nuova versione dell’articolo 81 della Carta è più stringente rispetto al tanto vituperato «Fiscal Compact» europeo.
Oggi moltissimi parlamentari che allora votarono quel testo ritengono di aver sbagliato. All’italiana si procede con una prassi interpretativa che, con la tacita intesa di tutti i poteri in campo, consente di ignorare le leggi sgradite.
Purtroppo in Europa, trattandosi di rapporti tra governi sovrani, non ci si può comportare allo stesso modo.
Anche il «Fiscal Compact» è figlio dell’ansia ingenerata da una crisi del debito che minacciava di mandare in pezzi l’area euro.
Nel tentativo di placare mercati impazziti, si adottarono norme che oggi perfino il Fondo monetario internazionale giudica troppo severe.
Da allora, la Commissione europea le ha interpretate con crescente quanto opaca elasticità ; ma ignorarle non può.
Dunque inutile prendersela contro l’Europa. Se errore c’è stato, è stato condiviso.
Allo scopo di allontanare il pericolo della bancarotta, l’Italia aveva sottoscritto impegni di austerità  feroci che per fortuna nessuno ci ha chiesto di rispettare in pieno; abbiamo evitato il peggio realizzandone solo una parte, pesante come tutti sappiamo, eppure solo una parte.
Purtroppo proprio gli stessi mercati che ci hanno costretto ad esagerare oggi ci stanno spingendo, nella loro instabilità , verso l’errore opposto.
I capitali affluiscono verso l’Europa, diversi esperti vedono una nuova «bolla» speculativa che abbassa fin troppo i rendimenti dei titoli di Stato dei Paesi deboli (i decennali dell’Italia sono al 3,4%, gli irlandesi al 3%).
Allentare un poco la stretta del rigore è possibile, per l’Italia.
Ma la scarsa fiducia reciproca tra gli Stati, rivelatasi nel momento del pericolo, sussiste ancora; e fa temere agli altri che la fase favorevole dei mercati ci renda troppo disinvolti. Proprio perchè siamo un Paese grande, preoccupiamo di più.
Sanno che se ci mettessimo di nuovo nei guai, nessuno avrebbe forze sufficienti per salvarci.
D’altra parte, l’esperienza insegna che oltrepassare la soglia del 3% di deficit di per sè non garantisce nulla.
Grazie alla «finanza creativa» di Giulio Tremonti la superammo con l’inganno dal 2001 al 2005: ciò nonostante, la crescita già  ristagnava, e siamo arrivati alla grande crisi già  più deboli.
Non solo: con una economia come la nostra, capace di crescere in media meno dell’1% all’anno, il debito accumulato scende solo se il deficit va ben sotto il 3%; altrimenti sono dolori, per noi stessi già  prima che «per i nostri figli» come Matteo Renzi ha imparato a dire giorni fa.
Possiamo chiedere una deroga temporanea ai dettami più severi del «Fiscal Compact» (la riduzione annua del deficit strutturale riproposta ieri dalla Bce e da Olli Rehn) in nome di un impegno forte per rimettere a posto il nostro Paese — non solo i suoi bilanci — anno dopo anno.

Stefano Lepri

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IL TEATRO DEGLI INGANNI: LA TECNOCRAZIA USATA COME ALIBI, MA SONO GLI STATI AD AFFOSSARE UNA REALE UNIONE EUROPEA

Marzo 19th, 2014 Riccardo Fucile

GLI STATI HANNO POTERE, NON RESPONSABILITA’: SE LE COSE VANNO MALE SI SCARICANO LE COLPE SULLA TECNOCRAZIA

È inutile accusare la tecnocrazia europea per le azioni mancate o sbagliate dell’Unione, come hanno fatto Renzi e Hollande a Parigi, quando sono i governi a fare e disfare l’Europa secondo le loro convenienze.
Ed è inadeguato presentarsi a Berlino come buon allievo, quando le mutazioni hanno da essere radicali. Il rischio è un inganno dei cittadini: dilaterà  le loro malavoglie, i loro disorientamenti e repulsioni.
Come non sentirsi sbalestrati, se non beffati, da discorsi così contraddittori?
A Parigi Renzi ha accusato gli eurocrati, poi a Berlino ha riconosciuto il primato tedesco, ricordando alla Merkel che non siamo «somari da mettere dietro la lavagna, ma un Paese fondatore che contribuisce a dare la linea».
Chi detta legge, in ultima analisi: il tutore tedesco o l’eurocrazia? Chi ha l’ultima parola?
Non dirlo a lettere chiare: questo è aggirare i popoli.
L’inganno è più che mai palese alla vigilia delle elezioni europee, che almeno sulla carta dovrebbero essere diverse dalle precedenti.
Il trattato di Lisbona infatti è esplicito, e i deputati di Strasburgo l’hanno ribadito: il Presidente della Commissione sarà  designato dal Consiglio europeo, ma «tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo» (art. 17).
Quel che ci si accinge a fare è altra cosa. Ancora una volta, la decisione sarà  presa a porte chiuse, senza dibattito pubblico preliminare, dai capi di Stato o di governo.
Lo stesso Parlamento europeo è complice dell’inganno, col suo regolamento interno: la scelta delle nomine è a scrutinio segreto; non è prevista discussione pubblica.
Condotte simili non si limitano a ignorare i trattati: sono anche del tutto incompatibili con la trasparenza da essi ripetutamente evocata.
Riavremo dunque lo stesso occulto mercanteggiamento tra Stati che ha ammorbato l’Unione per decenni. Il Parlamento può certo accampare diritti – può sfiduciare il presidente dell’esecutivo e l’intero collegio – ma il rifiuto avviene dopo la nomina. È più complicato.
Non a caso l’assemblea non s’è mai azzardata a sfiduciare la Commissione.
Se davvero credessero in quel che professano, Renzi, Hollande e la Merkel manderebbero in questi giorni ben altro messaggio ai cittadini refrattari che apparentemente li angustiano tanto. Direbbero: «Ci atterremo alle nuove regole, vi ascolteremo sempre più. Quindi rispetteremo il verdetto delle urne».
Nessuno di loro osa dirlo. Il dominio che esercitano, nella qualità  di sovrani che nominano eurocrati al loro servizio, non vogliono nè dismetterlo nè spartirlo.
Vogliono usarla, la tecnocrazia, come alibi: se le cose vanno male la colpa è sua.
Gli Stati hanno potere, non responsabilità .
La mistificazione è massima perchè la colpa è interamente loro, se l’Unione è oggi un campo di discordie, di ingiustizie sociali asimmetriche.
Sono gli Stati e i governi che hanno fatto propria la teoria, predicata ad alunni somari e non, dell’»ordine» o dei «compiti in casa ».
È la teoria tedesca dell’ordoliberalismo, nata nella Scuola di Friburgo tra le due guerre, che fissa quali debbano essere le priorità , perchè i mercati operino senza ostacoli: prima va rassettata la «casa nazionale», e solo dopo verranno la cooperazione, la solidarietà , e comuni regole di uguaglianza sociale.
Nelle sedi internazionali, e anche in quella sovranazionale europea, basta insomma «coordinare» le singole linee, esortarsi a vicenda.
Il motivo: l’esperienza totalitaria legata a interventi eccessivi dello Stato (memorabile l’accusa rivolta dall’ordoliberista Wilhelm Rà¶pke, negli anni ’50, all’ideatore dello Stato sociale: «Quello che voi inglesi state preparando, con il piano Beveridge, è una forma di nazismo». Non meno antiliberale fu giudicato il New Deal di Roosevelt).
L’illusione ordoliberista, tuttora diffusa ai vertici degli Stati, è che se ognuno lasciasse fare i mercati, mettendo magari la briglia alla democrazia e a leggi elettorali troppo rappresentative, l’ordine finirebbe col regnare nel mondo.
La crisi ha mostrato che solo invertendo le priorità  una soluzione è possibile.
È dalla solidarietà  che urge ripartire, dalla messa in comune di risorse, dopodichè ogni Stato avrà  più forze per aggiustare i conti, spalleggiato da istituzioni e bilanci federali.
Così gli Usa risolsero la crisi del debito dopo la guerra di indipendenza: mettendo in comune i debiti, passando dalla Confederazione alla Federazione, dandosi una Costituzione.
L’esatto contrario avviene nell’Unione. Sono ancora gli Stati che hanno deliberato, nel febbraio 2013, di congelare il comune bilancio e di impedire l’aumento delle risorse che permetterebbe piani comunitari di ripresa, e soprattutto la conversione della vecchia industrializzazione in sviluppo verde, sostenibile.
Una delibera che il Parlamento s’è rifiutato di ratificare, un mese dopo.
Ma alla fine la decisione è stata accettata, pur rinviando il dibattito al 2016.
Sono gli Stati che hanno inventato la trojka, organismo che comprende la Banca Centrale europea, la Commissione, e non si sa per quale complesso di inferiorità  il Fondo Monetario, e che oggi controlla 4 Paesi (Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro).
Una trojka la cui sola bussola è la «casa in ordine».
Sono infine gli Stati che hanno concordato il fiscal compact, che alcuni Paesi – tra cui l’Italia di Monti – hanno inopinatamente messo nella Costituzione nonostante nessuno l’avesse imposto.
Questo significa che viviamo nella menzogna, sull’Europa esistente e su quella da rifondare.
Che chi ha in mano le scelte sono in realtà  i mercati: non l’eurocrazia usata come alibi e non i finti Stati sovrani.
Lo spiega bene Luciano Gallino, su la Repubblica del 15 marzo: non esiste stato di eccezione che consenta un’indifferenza così totale verso le sofferenze inflitte ai cittadini (Grecia in primis, e Italia, Spagna, Portogallo). Quanto al fiscal compact, si tratta, secondo Gallino, di eliminare dalla Costituzione le norme attuative, come proposto da Rodotà : «L’Italia non è in grado di trovare 50 miliardi di euro all’anno da tagliare (per 20 anni, ndr). Accadrà  quello che è già  accaduto altrove: tagli sanitari, bambini affamati, povertà ».
Sono anni che Roma cerca di ingraziarsi Parigi, e forse qui è l’inganno più grande.
I governi francesi, di destra o sinistra, hanno una responsabilità  speciale: sin da quando, caduto il Muro, risposero sistematicamente no – in nome del mito sovrano gollista – all’unità  politica e militare che Kohl chiese con insistenza per puntellare l’euro.
Si denunciano le colpe tedesche, nella crisi, ma l’immobile insipienza francese è ancora più nefasta.
L’Europa, non dimentichiamolo, fu fatta grazie ai francesi Jean Monnet, Robert Schuman.
Quel che fu creato lo si deve a Parigi. Ma anche quel che non fu fatto, e non si fa. A cominciare dall’unità  militare, che consentirebbe all’Europa risparmi enormi: circa il 40%.
Insieme si potrebbe valutare se sia sensato dotarsi degli F-35, e che tipo di pax europea vogliamo, autonoma da quella americana.
Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza.
I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati. Che la Francia è un ostacolo non meno grande di Berlino, anche se governata dai socialisti (Sarkozy almeno ci provò: Hollande sull’Europa è muto).
Che l’Unione ha bisogno di una Costituzione vera, che inizi come negli Usa con le parole: «We, the people…» : non con l’elenco dei governi firmatari.
Altrimenti non avremo solo il predominio degli Stati più forti. Avremo quella che Gallino chiama la Costituzione di Davos: una costituzione non scritta, i cui governi, vittime di una sindrome da “corteggiamento del capitale”, l’assecondano con strategie economiche incentrate sul taglio del Welfare e sui salvataggi bancari a carico dei contribuenti.

Barbara Spinelli
(da “La Repubblica”)

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INTERDETTO DUE ANNI, LA CASSAZIONE CHIUDE CON MEDIASET

Marzo 19th, 2014 Riccardo Fucile

SILVIO BERLUSCONI, GIà€ DECADUTO DAL SENATO, NON POTRà€ NEMMENO VOTARE ALLE EUROPEE… SI COMPLETA COSàŒ LA SENTENZA DI UN PROCESSO DURATO 13 ANNI

Dalle 21.50 di ieri sera Silvio Berlusconi è anche un interdetto definitivo dai pubblici uffici per due anni.
E quindi per due anni non solo non può candidarsi ma non può neppure votare.
Resta valida, naturalmente, l’espulsione dal Senato e l’incandidabilità  per 6 anni, sulla base della Severino. Il Cavaliere, apparentemente, non si scompone: “Vado avanti. Non mi farò da parte”.
È stata la terza sezione della Cassazione, presieduta da Claudia Squassoni, a confermare i due anni di pena accessoria per frode fiscale, processo Mediaset, che si aggiungono alla pena principale, quattro anni, di cui tre indultati, confermata ad agosto.
I giudici hanno ritenuto “irrilevanti” le eccezioni di incostituzionalità  delle norme tributarie e hanno “rigettato” gli altri punti del ricorso.
Il verdetto di ieri sera era ineluttabile. Ad agosto, infatti, la sezione feriale presieduta da Antonio Esposito aveva confermato in tutto e per tutto la sentenza d’appello dei giudici milanesi, ad accezione dell’entità  dell’interdizione dai pubblici uffici.
Come quelli di primo grado, i giudici d’appello avevano inflitto a Berlusconi 5 anni di pena accessoria, ma secondo la Cassazione avevano sbagliato ad applicare la legge ordinaria: avrebbero dovuto applicare quella tributaria che prevede una pena da uno a tre anni. E solo per il ricalcolo della pena avevano ordinato un appello bis.
Il 19 ottobre scorso i nuovi giudici d’appello hanno condannato Berlusconi a due anni di interdizione dai pubblici uffici .
Pena confermata ieri. Dal collegio giudicante si sono ritirati Amedeo Franco, tra i giudici che ha condannato Berlusconi ad agosto e Luigi Marini, che si era già  occupato di Berlusconi, ma soprattutto è presidente della corrente “comunista”, Md, che lo perseguita, ripete sempre l’ex premier.
Anche la procura generale, con il sostituto Aldo Policastro, ieri ha chiesto la conferma della condanna: “I giudici di Milano hanno esattamente indicato i criteri in base ai quali hanno determinato in due anni l’interdizione per la estrema gravità  dei fatti accertati, il dolo intenzionale e la realizzazione di un sistema duraturo di evasione fiscale”.
Ha fatto notare che la “colossale” frode fiscale, per usare le parole dei giudici milanesi, non era stata certo fatta a insaputa di Berlusconi, anzi: “Si deve tenere conto della condotta così come è stata accertata e la condotta è interamente ascrivibile a Berlusconi”.
E ha evocato la sentenza definitiva per quanto riguarda la pena principale: “La realtà  che ci consegna la sentenza passata in giudicato è assolutamente insuperabile. La quantificazione della pena è insindacabile”.
Gli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini hanno provato a porre le stesse questioni presentate al processo d’appello bis e bocciate dai giudici milanesi.
Questa volta hanno usato anche il caso dell’avvocato della famiglia Agnelli, Franzo Grande Stevens. Hanno citato la sentenza della Corte di Strasburgo che il 4 marzo ha stabilito la violazione dei diritti umani per Grande Stevens e Luigi Gabetti, condannati dalla Consob e poi in sede penale per l’inchiesta Ifil-Exor.
Un caso, secondo i legali di Berlusconi, sovrapponibile a quello del loro assistito, che subisce l’interdizione e la legge Severino.
Ma per la Cassazione evidentemente non è così. Secondo i giudici dell’appello bis, la Severino “non è sovrapponibile” a un processo penale, ha un iter “distinto”.
Sempre ieri gli avvocati hanno tentato pure a carta della Consulta per “profili di incostituzionalità ” delle norme tributarie che non hanno consentito a Berlusconi di saldare il debito con il fisco.
I giudici dell’appello bis, investiti della stessa questione, hanno respinto, rivelando, tra l’altro, che la comunicazione in udienza di un pagamento di 11 milioni era solo un annuncio e che comunque era fuori tempo massimo perchè doveva avvenire prima del dibattimento.
Prossima puntata a Milano, il 10 aprile, quando il tribunale di Sorveglianza dovrà  decidere se affidare Berlusconi ai servizi sociali, come ha chiesto, o se metterlo agli arresti domiciliari per scontare l’anno residuo di pena principale.

Antonella Mascali

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BANCHETTI E FESTE: 120.000 EURO DI DEBITI PER IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DELLA CALABRIA

Marzo 19th, 2014 Riccardo Fucile

CENE ELETTORALI, PRANZI, TAVOLATE DI DUEMILA PERSONE MAI SALDATE: DECRETO INGIUNTIVO PER FRANCESCO TALARICO (UDC)

Per il presidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Talarico tutto era rigorosamente gratis: banchetti, pranzi, cene e feste.
Non importa se gli invitati erano 10 o 2000: l’esponente dell’Udc calabrese non ha sborsato un euro per avere i big della politica, anche nazionale, a sostegno della campagna elettorale per le regionali del 2010 che lo hanno visto stravincere nel territorio di Lamezia Terme.
Dal governatore Giuseppe Scopelliti a Lorenzo Cesa.
Tra calici di vino e tartine di caviale, tutto il centrodestra ha mangiato al ristorante “Samart music cafè”.
E non solo in vista delle regionali. Francesco Talarico, infatti, non ha risparmiato inviti neppure per le politiche del 2012.
D’altronde la politica, a queste latitudini si fa anche così.
Ha un costo che, però, il presidente del Consiglio regionale non sembra considerare e in due anni ha accumulato oltre 120mila euro di debiti.
A presentare il conto non è più solo il titolare del ristorante, Salvatore Mazzei, ma anche il Tribunale di Lamezia Terme che ha accolto e spedito un decreto ingiuntivo di 52mila euro a casa di Talarico che ora ha 40 giorni di tempo per fare opposizione e scongiurare l’esecuzione forzata attraverso un pignoramento.
L’avvocato del ristoratore, Francesco Pitaro, ha ricostruito ai giudici ogni singolo banchetto organizzato dal politico dell’Udc.
Come quello del 28 febbraio 2010 quando, in occasione della campagna elettorale per le regionali, al “Samart” Talarico ha raccolto duemila persone per un costo di 60mila euro mai corrisposto.
Così come una serie di banchetti organizzati nei mesi successivi per ringraziare gli elettori che lo hanno votato con un consenso tale da consentirgli di essere nominato presidente del Consiglio regionale.
“Conti rimasti rigorosamente scoperti” si legge nel ricorso presentato in Tribunale dove l’avvocato Pitaro ha depositato anche la lista di invitati che oggi, se si dovesse arrivare a un processo, potranno essere chiamati a testimoniare contro Talarico.
Tra questi anche Lorenzo Cesa, una delle 1600 persone che hanno partecipato a una cena del dicembre 2013 quando Talarico non ha badato a spese chiedendo al ristoratore prelibatezze e vini di prima qualità  per un totale di 48mila euro dei quali solo stati pagati solo 2800 euro.
La scena era sempre la stessa: tavolate immense e mangiate colossali che lasciavano poco spazio a discorsi politici.
E poi tutti via lasciando Salvatore Mazzei solo a fare i conti con le spese del suo ristorante, con gli stipendi dei camerieri e le fatture dei fornitori chiamati dal “Samar music cafè” per “sfamare” la politica calabrese.
Eppure era stato proprio il presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico a redarguire i consiglieri della Calabria finiti al centro dell’inchiesta “Rimborsopoli” grazie alla quale la guardia di finanza ha scoperto come i politici di Palazzo Campanella facevano ricorso ai rimborsi dei gruppi anche solo per un caffè o un gratta e vinci.
Pochi mesi fa, in un’intervista al fattoquotidiano.it, Talarico aveva affermato che “i responsabili dovranno pagare. Non posso immaginare che un consigliere regionale inserisca un gratta e vinci nella rendicontazione dei gruppi perchè altrimenti si tratterebbe di gente incapace”.
Tra rimborsi illegittimi e chi non paga i conti sembra esserci un minimo comune denominatore: la fatica dei politici calabresi a mettere le mani nelle proprie tasche.

Lucio Musolino

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“MANCANO MEDICI PER L’EMERGENZA”, OSPEDALI A RISCHIO COLLASSO: RENZI PENSI ALLA SALUTE DEGLI ITALIANI NON A SPECULARE SUI MALATI

Marzo 19th, 2014 Riccardo Fucile

“BORSE DI STUDIO SOLO PER UNO SU SEI”: E’ ALLARME IN TUTTE LE REGIONI

Le borse di studio per la Scuola di specializzazione in medicina di emergenza-urgenza   portano negli ospedali soltanto un sesto dei medici che sarebbero necessari.
Mancano soldi per formarne di più.
È la denuncia del presidente nazionale Simeu, Gian Alfonso Cibinel, in una lettera inviata ai ministri dell’Istruzione e della Salute, Stefania Giannini e Beatrice Lorenzin.
Dopo la manifestazione nazionale che si è svolta il 5 marzo scorso, l’appello – sottoscritto dagli specializzandi – ai ministri ribadisce i contenuti del flash mob che si è tenuto davanti al Miur.
Spiega il dottor Gian Alfonso Cibinel: «Oggi in Italia ci sono 20 milioni di accessi l’anno nei pronto soccorso. Per l’anno accademico 2012/2013 le borse finanziate sono state 46 contro il fabbisogno espresso dalle Regioni di 241 specialisti dell’emergenza».
Come non bastasse, «i tagli preannunciati — prosegue il presidente Simeu – non lasciano sperare in un incremento dei contratti e fanno temere al contrario una riduzione».
Se così avvenisse «si metterebbe a rischio la funzionalità  del nostro sistema sanitario, che a fronte della progressiva riduzione dei posti letto ha bisogno per sopravvivere di una rete di emergenza territoriale e ospedaliera di alta qualita».

Marco Accossato
(da “La Stampa“)

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