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IL SULTANO SCONFITTO NEL SUO REFERENDUM: UNA RIVOLUZIONE A COLPI DI VOTI

Giugno 8th, 2015 Riccardo Fucile

IL PARTITO CURDO RINNOVATO RACCOGLIE L’EREDITA’ DI GEZI PARK

La giornata nera di Recep Tayyip Erdogan, la giornata rossa del Partito democratico dei popoli.
L’Akp di Erdogan, al potere da 13 anni, viene ancora definito dalla pigrizia delle cronache come il partito “islamico moderato”. In realtà  ha preso una decisa strada islamista.
Sabato scorso, brandendo il libro sacro, aveva proclamato che «la conquista è la Mecca, la conquista è Saladino, è issare di nuovo la bandiera islamica su Gerusalemme» (Saladino del resto era curdo).
Credeva, o fingeva di credere, di avere il vento in poppa. L’Europa, che aveva fatto la difficile e l’aveva mortificato, ora è in crisi e ha la guerra in casa, e lui cresceva fra gli aspiranti all’egemonia sul mondo musulmano.
Preparando la restaurazione del sultanato, si è regalato l’anticipo di un palazzo delle duemila e due notti.
Rotto l’assedio per le prove plateali di corruzione e nepotismi, aveva messo il bavaglio alla magistratura e agli organi di polizia indipendenti, o anche solo non dipendenti.
Si era permesso il doppio gioco internazionale, di notte spallone di reclute jihadiste e contrabbandiere di armi e petrolio col Califfato, di giorno membro della coalizione contraria, con l’aggiunta del compiaciuto divieto di uso della base di Incirlik.
Gli andava bene: mancava l’ultimo metro.
Per tagliare il traguardo aveva barattato il governo con la presidenza, trasformando Ahmet Davotoglu, che avrebbe meritato miglior destino, in un Medvedev turco.
Da lì si sarebbe fatto presidente coi pieni poteri, e a vita, mettendosi la corona sul capo con le proprie mani. Restava la piccola formalità  dell’ennesima vittoria elettorale.
Ci aveva fatto l’abitudine: la Turchia sembrava ribellarsi, scuoterlo, circondarlo e resistere intrepidamente alla ferocia repressiva, e poi le urne davano ragione a lui. Alla commemorazione del genocidio degli armeni aveva rimediato con un altro impegno. I giornalisti riluttanti, in galera, o peggio.
I curdi? Tutti avevano capito (anche Davutoglu) che coi curdi bisognava arrivare a una svolta, che il contesto internazionale lo imponeva, che non si poteva immaginare che Ocalan continuasse a proclamare la rinuncia alla lotta armata dal suo ergastolo un paio di volte a trimestre.
Lui non se ne curava. Quando i despoti perdono il senso della misura – quando si costruiscono palazzi di quelle dimensioni, che sia vera o no la notizia sulla tazza di cesso tutta d’oro zecchino – la storia si ricorda di frugarsi in fondo alle tasche esauste, e tirarne fuori un’astuzia.
E se non è la storia, è la provvidenza, o la dignità  delle persone. Dunque niente referendum, niente revisione della Costituzione, niente maggioranza assoluta.
Il “partito filocurdo”, strana denominazione del resto – come se noi dicessimo “il partito filoimmigrati” – supera lo sbarramento del 10 per cento (il dieci!) e anzi tocca il 12, e manda nel parlamento che doveva plebiscitare Erdogan tra i 79 e gli 82 deputati (su 550).
Per giunta, con una partecipazione elettorale dell’86 per cento dei quasi 57 milioni di cittadini aventi diritto, in patria e fuori.
L’Akp ha i numeri per governare in coalizione, il successo dei nazionalisti parafascisti è triste e inquietante, ma la Turchia da ieri è un altro paese.
Lo era già , nella ricchezza e varietà  della sua società  civile, ma era come se si fosse interrotta la comunicazione fra quella società  e le istituzioni.
È successo mentre i capi del G7 si incontravano, e magari l’Europa troverà  un tempo supplementare per offrire alla Turchia una propria sponda, dopo aver favorito una deriva che l’aveva portata, la partner della Nato e la madrepatria di milioni di suoi cittadini, a rivendicarsi islamista in concorrenza con Iran e Arabia Saudita.
E se avvenisse, sarebbe ancora più grottesco pensare a un’Europa senza Grecia, e con la Turchia
Il provvidenziale “filocurdo” Hdp – il “partito democratico dei popoli” – aveva tenuto il suo primo congresso solo nell’ottobre 2013.
È un partito curdo e “filoturco”, oltre che aperto alle altre minoranze etniche e religiose e a quelle civili («gli omosessuali, gli atei, e gli armeni», nella versione di Erdogan), e capace di parlare ai giovani raccogliendo l’eredità  di Gezi Park.
Ha due copresidenti – una femminista curda e un socialista turco – come nella tradizione europea di femministe e ambientalisti, e riserva il 10 per cento alle persone LGBT.
Alla sua testa sta Selahattin Demirtas, 41 anni, leader prestigioso e saldamente democratico.
I paesi democratici, per compiacenza con Erdogan, hanno continuato a tenere il Pkk curdo nella lista nera delle formazioni terroriste, anche quando i suoi militanti esiliati nel Kurdistan iracheno o nel Rojava siriano erano decisivi nel soccorso agli yezidi (e ai cristiani) braccati o alla popolazione di Kobane.
Faranno bene ad accompagnare il tentativo di Demirtas di guadagnare alla sua causa democratica quella popolazione curda che un’ostinazione ideologica settaria ma soprattutto la discriminazione nazionalista ha tenuto al bando.

Adriano Sofri
(da “La Repubblica”)

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ERDOGAN NON E’ PIU’ IL SULTANO

Giugno 8th, 2015 Riccardo Fucile

I TABU’ SEPPELLITI DA UN GIOVANE CURDO

Formalmente, il capo dello Stato avrebbe dovuto restare ai margini della contesa.
Non è stato così. Spaventato dai sondaggi e da opache prospettive future, Erdogan, Corano in mano, ha cercato di convincere il popolo turco d’essere l’unico capace di guidarlo.
Il popolo gli ha risposto no.
Il partito islamico moderato Akp, che il leader aveva creato, e che da 13 anni guidava solitario il Paese con consensi crescenti, non soltanto ha mancato il record di 330 seggi su 550, necessario per modificare la Costituzione, trasformando la Turchia in repubblica presidenziale, ma in Parlamento ha perso persino la maggioranza assoluta, alla quale l’Akp era ormai abbonato, governando in beata solitudine.
È cambiato tutto, o quasi, e non per caso.
L’arroganza del presidente ha prodotto l’anticorpo.
È un giovane politico curdo, che ha deciso di far diventare il partito Hdp (Pace e democrazia) una forza politica nazionale, pensionando dubbi e pregiudizi.
Selahattin Demirtas, 42 anni, con il suo stile sobrio e la sua oratoria convincente, ha saputo seppellire un tabù. Quello di aprire l’Assemblea nazionale a un partito di un’importante minoranza che, nel passato, è stata sospettata di tutto.
Ha saputo superare l’altissima soglia del 10 per cento conquistando tutti, con una retorica opposta a quella di Erdogan.
Se il presidente mordeva, Demirtas accarezzava, con linguaggio ghandiano, i giovani che protestavano per il Gazi park, e chiedevano diritti.
Ha scelto di rappresentare tutti gli oppressi, dagli alevi agli armeni, dai siriaci agli yazidi, ai cristiani, naturalmente ai curdi, e agli omosessuali.
Ha chiesto una «Nuova Turchia» ed è entrato in Parlamento.
È chiaro che ora si aprono scenari imprevedibili. Si dovrà  cercare di formare, in 45 giorni, un governo di coalizione.
Se non sarà  possibile – è quanto forse spera il presidente-sultano – , non sono escluse elezioni anticipate.
Erdogan è pronto a tutto pur di non veder sgretolare il suo progetto, il suo potere.

Antonio Ferrari
(da “il Corriere della Sera”)

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MARONI, ZAIA E TOTI, SMASCHERATI I BALLISTI: IN TRE ACCOLGONO MENO PROFUGHI DELLA SICILIA

Giugno 8th, 2015 Riccardo Fucile

SU 67.128 PRESENZE IL 21% E’ OSPITATO IN SICILIA, IL 13% IN LAZIO, APPENA IL 9% IN LOMBARDIA, IL 2% IN LIGURIA

Tremilaquattrocentottanta migranti salvati il 6 giugno. Altri 2371 ieri, 7 giugno.
Per un totale di arrivi che, dall’inizio dell’anno, supera le 50.000 persone.
Gli immigrati, secondo quanto stabilito dal Viminale e reso noto tramite una circolare, dovranno essere distribuiti in tutte le regioni italiane. Comprese quelle del nord, che non hanno raggiunto la massima capienza.
I governatori di Liguria, Veneto e Lombardia non li vogliono. Ma contro i governatori “ribelli” il Viminale farà  partire “una nuova circolare ai prefetti e costringeremo ciascuno a fare il suo. Noi non ci fermiamo”, si legge su Repubblica.
E il prefetto Morcone sottolinea che, proprio quelle regioni che non vogliono i migranti, sono in debito di accoglienza rispetto, ad esempio a Lazio e Sicilia.
I numeri parlano chiaro.
Sono contenuti nell’ultimo report elaborato dal ministero dell’Interno, pubblicato a marzo: alla voce “Distribuzione generale dei migranti nelle strutture temporanee, nei CARA e nello SPRAR” risulta che a febbraio 2015 su un totale di 67.128 presenze, il 21% dei migranti è ospitato in Sicilia, il 13% nel Lazio.
Molto più basse le percentuali nelle regioni “ribelli”: la Lombardia ne accoglie il 9% (quanti la Puglia), il Veneto il 4% e la Liguria il 2%.
In pratica le tre regioni che hanno annunciato di volersi opporre alle indicazioni del Viminale accolgono complessivamente il 15% delle presenze, molto meno di quanto non faccia da sola la Sicilia.
“Il peso dell’accoglienza non è equamente distribuito a livello nazionale — spiegava a febbraio la Fondazione Pio La Torre — la Sicilia, ad esempio, accoglie 9 mila migranti in più rispetto a quanti le spetterebbero secondo il criterio della proporzionalità  con la popolazione residente. Al contrario, se si applicasse correttamente la ripartizione, molte regioni dovrebbero accogliere un numero maggiore di profughi: in particolare la Lombardia (5.535) e il Veneto (3.322), ma anche Piemonte, Toscana ed Emilia Romagna”.
Morcone: “Lombardia in debito d’accoglienza”
Mario Morcone, capo dipartimento per l’integrazione risponde a Maroni sottolineando che la sua Regione ha accolto molto meno migranti rispetto ad altre, come ad esempio Lazio e Sicilia.
Secondo il prefetto le parole del governatori delle regioni del nord “sono collocate un poco più in là  dell’azzardo, tenuto conto che sono parole che minano il senso unitario della comunità  nazionale, sfregiano la solidarietà  civile che non conosce confini geografici e fa giudicare alcune proposizioni non se sono vere o false ma, spesso, prive di significato”.
“La Sicilia — spiega Morcone — accoglie il 22% degli immigrati che giungono in Italia, dietro di lei Lazio e Campania. La Lombardia nonostante possa apparire terza in classifica nazionale, rispetto al numero degli abitanti e al Pil regionale, due criteri per la ripartizione dei migranti, è decisamente in debito di accoglienza. In coda — prosegue — Veneto e Valle d’Aosta. Un terzo dei migranti accolti in Italia, minori esclusi, è distribuito in due regioni: Sicilia e Lazio, che ospitano rispettivamente il 22% e il 12% dei 73.883 totali”.
Morcone prosegue dicendo che “il Veneto è tra le grandi regioni del Nord quella che ospita meno persone, con il 4%, mentre chi ha meno migranti è la Valle d’Aosta, che ne ospita solo 62″.
“L’ex ministro Maroni — dice Morcone — avrebbe fatto bene a riflettere prima di parlare. Lui conosce a fondo le difficoltà ”.
La risposta del Viminale al rifiuto delle Regioni
Al no di Maroni intanto, il Viminale risponde che è stato lui stesso ad inventare le quote nel 2011. E, secondo Repubblica, lo stesso esecutivo sostiene che di fronte ad una “ritorsione istituzionale” dei governatori del Nord “si aprirebbe un contenzioso istituzionale di massima gravità  al quale reagiremmo con misure straordinarie”. E, ancora, dal Viminale “faremo partire una nuova circolare ai prefetti”. “I centri di accoglienza sono abbastanza pieni, ma siamo sempre pronti a fare la nostra parte in termini di solidarietà ”, ha detto in mattinata il prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca, rispondendo a una domanda sulla situazione-migranti in città  e provincia.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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IL VIMINALE: “FU MARONI A INVENTARE LE QUOTE, ORA ALZA LA VOCE PER FAR DIMENTICARE LO SCANDALO DELLE SUE COLLABORATRICI”

Giugno 8th, 2015 Riccardo Fucile

“PREFETTI IN CAMPO CONTRO LE REGIONI RIBELLI”

“Se Maroni proverà  davvero a bloccare i migranti la reazione del governo sarà  durissima “.
Tra Palazzo Chigi e il Viminale i giudizi che si sprecano sul presidente lombardo sono tutt’altro che benevoli.
Il sospetto di Matteo Renzi, ieri impegnato nel G7 in Baviera, e di Angelino Alfano è che l’offensiva sui rifugiati dell’ex numero uno della Lega miri a “reagire” allo scandalo giudiziario, legato ai viaggi e ai contratti di lavoro ottenuti dalle amiche dei governatore, che negli ultimi giorni ha rumorosamente invaso il circuito mediatico italiano.
Eppure l’esecutivo prende sul serio la minaccia di Maroni, dettata o meno da ragioni di immagine, di tagliare i fondi ai sindaci che accoglieranno i migranti.
Al punto che più di un ministro nei contatti telefonici domenicali garantiva che di fronte ad una “ritorsione istituzionale” dei governatori del Nord “si aprirebbe un contenzioso istituzionale di massima gravità  al quale reagiremmo con misure straordinarie “.
Praticamente forzando le regioni ribelli   –   oltre a Maroni sul piede di guerra ci sono anche il veneto Zaia e il ligure Toti   –   a farsi carico degli stranieri in arrivo dalle coste del Mezzogiorno.
D’altra parte al ministero degli Interni si ricorda che la direttiva che impone la spartizione dei migranti risale al 2011 e fu firmata proprio da Roberto Maroni, ai tempi ministro dell’Interno di Berlusconi.
“E come allora, nemmeno oggi possiamo lasciare da soli i sindaci solidali, per nessuna ragione al mondo”, era il ritornello che ieri Alfano andava ripetendo ai collaboratori sbalordito per la sortita del suo predecessore al Viminale.
Proprio oggi il ministro parlerà  con i presidenti dell’Anci e della Conferenza delle regioni, Fassino e Chiamparino, per fare il punto della situazione, convinto che i governatori ribelli non abbiano i poteri per bloccare l’accoglienza dei migranti.
La minaccia oltretutto   –   almeno questa è la convinzione del governo   –   danneggia l’immagine dell’Italia proprio mentre Renzi è impegnato nella battaglia europea per distribuire tra tutti i partner dell’Unione i migranti che sbarcano in Italia e in Grecia. Oggi Alfano riceverà  a Roma il commissario europeo all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos, la cui visita era già  fissata da giorni.
Ma il ministro ne approfitterà  per rassicurarlo sulla capacità  italiana di gestire la situazione per poi rilanciare sul piano approvato da Bruxelles proprio su spinta del responsabile greco e ora al vaglio dei governi.

Alberto D’Argenio   e Vladimiro Polchi
(da “La Repubblica”)

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