Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile
LA CUGINA: “LO STATO CI HA ABBANDONATO, SE N’E’ FREGATO DI QUESTI POVERI OPERAI”
Il dolore delle famiglie delle vittime, Fausto Piano e Salvatore Failla, l’angoscia per il destino degli altri due rapiti, Gino Policardo e Filippo Calcagno.
La Stampa dà voce allo strazio delle famiglie dei due tecnici uccisi in Libia.
Parla la figlia di Fausto Piano, a Capoterra, provincia di Cagliari.
“Nostro padre non era in Libia per fare la guerra. Era andato solo per portare il pane a casa. Lui era un uomo di pace e non meritava di essere ucciso così. È vittima di un conflitto di cui noi avevamo sentito parlare solo in televisione”[…] Ci ripetevano di avere pazienza, che questo silenzio poteva essere positivo. Noi ci abbiamo creduto, non potevamo fare altro”.
La cugina Aurora ha parole dure verso le istituzioni.
“Siamo stati abbandonati. In tutto questo tempo non ci hanno mai dato notizie di Fausto. Nè ci dicevano cosa stavano facendo per riportarcelo a casa”.[…] Lo Stato se ne è fregato di questi poveri operai. Le famiglie sono state lasciate sole. Fausto era un operaio dalle mani d’oro e dal cuore grande: non meritava di morire così”.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile
“INCREDIBILE LEGGEREZZA CON CUI CERTE AZIENDE ITALIANE NON TUTELANO I DIPENDENTI, PUR OPERANDO IN AREE A RISCHIO”
Il sequestro dei dipendenti della ditta Bonatti , avvenuto nel luglio scorso, scatenò a profonda
irritazione di Palazzo Chigi, “semplicemente incredulo per le modalità con cui il sequestro è avvenuto”. E facendo riferimento ad Eni e Bonatti, “per l’incredibile leggerezza con cui aziende italiane strategiche impegnate in un quadrante di mondo dove l’Italia non ha più un’ambasciata e dove i protocolli di sicurezza devono essere stringenti, non hanno evidentemente saputo proteggere i propri dipendenti integrando le proprie procedure”.
In questa storia, infatti, quel che è certo è che Filippo Calcagno, Salvatore Failla, Fausto Piano e Gino Pollicardo sono stati sequestrati in circostanze sorprendenti.
Rientrati da un periodo di vacanza in Italia, erano volati a Tunisi e da lì, su mini-van con autista libico, come si trattasse di un banale servizio navetta, avevano percorso la lunga autostrada costiera che, attraversato il confine meridionale della Tunisia, punta a est verso Zuwara e il complesso di Mellitah. Dove lavoravano alla manutenzione e dove non sono mai arrivati.
Perchè fermati intorno alle 21 a un posto di blocco da miliziani che li hanno caricati su altri mezzi dopo aver immobilizzato e lasciato sul van che li trasportava l’autista libico.
Nessuna scorta, dunque. essuna particolare precauzione o protocollo, come se la Bonatti ritenesse di potersi muovere in quell’area in forza di una speciale immunità . Che evidentemente non si acquista una volta per tutte. E, soprattutto, non con tutte le milizie che insistono in quel conteso quadrante libico e pretendono regolarmente denaro in cambio di protezione.
Un’immunità , va aggiunto, che evidentemente non si acquista neppure sotto l’ombrello Eni, i cui protocolli di sicurezza, per altro, la Bonatti non rispettava o, a quanto pare, non era tenuta a rispettare (dal febbraio scorso, tutto il personale Eni ancora in Libia, una ventina di tecnici, è sulle piattaforme off-shore e i trasferimenti a terra, se necessari, avvengono solo via mare dopo trasferimento in elicottero a Malta).
Per quali motivi Bonatti ed Eni non condividessero un protocollo di sicurezza comune (essendo per altro Eni il gestore di fatto dell’impianto) non è dato sapere, nè, raggiunto telefonicamente, il portavoce della società di Parma ha ritenuto di poterlo o doverlo spiegare.
Al di là del dato puramente formale che la Bonatti operava come contractor della “Mellitah Oil and Gas”, la società libica “proxy” con cui Eni, attraverso la holding mista Noc, gestisce l’estrazione di 300 mila barili di petrolio al giorno e il flusso di gas di Greenstream.
Il conducente libico dell’automezzo su cui i tecnici italiani viaggiavano senza alcuna scorta fu lasciato libero di andarsene e riferì che i sequestratori non avevano ostentato “posizioni radicali o politiche”. Stando al racconto reso dal “tassista” alla Bonatti e alle autorità di Tripoli, il sequestro era avvenuto poco dopo le 20 del 19 luglio. “Per alcune ore tutto tranquillo poi, quando eravamo a un centinaio di chilometri dalla nostra destinazione, siamo stati bloccati da un pick-up con quattro uomini armati di mitra. Ci hanno fatti scendere dal nostro pulmino e ci hanno perquisito. Hanno controllato i nostri documenti e uno di loro si è poi messo alla guida del nostro automezzo mentre il pick-up ci ‘scortava’ fino al villaggio di Al Jmal”.
A quel punto, stando sempre al suo racconto, i rapitori lo avevano lasciato libero consegnandogli anche l’automezzo e poi si sarebbero allontanati con i quattro italiani verso un altro villaggio non lontano da Al Jmal.
Sulla base di questa testimonianza, si ritenne che i tecnici italiani fossero stati sequestrati da una piccola milizia, composta da un centinaio di uomini bene armati, che all’epoca controllava il territorio tra Zuara e Tripoli e faceva capo alla “Jaysh A Kabael”, l’Esercito delle tribù libiche dedito al traffico di armi, al contrabbando di petrolio ma con interessi anche nella custodia dei migranti diretti in Italia.
Un gruppo interessato soprattutto ai soldi. Che successivamente potrebbe avrebbe venduto o semplicemente ceduto gli ostaggi alla cellula Is attaccata a Sabrata.
Trattare il rilascio con gruppi islamisti, interessati anche a un riconoscimento politico, può rendere molto più complicate trattative che spesso passano per mediatori dall’attendibilità tutta da testare. Potrebbe essere stato questo il caso degli italiani.
Il sindaco di Sabrata ha riferito alla Bbc che i sequestratori avevano fissato in 12 milioni di euro il prezzo del riscatto dei tecnici italiani.
(da agenzie)
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Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile
PIANO E FAILLA ERANO STATI RAPITI DA MILIZIANI VICINI ALL’ISIS… I DUE CONNAZIONALI LIBERATI ERANO STATI AFFIDATI A UN ALTRO GRUPPO
La vigilia è finita, la ebbrezza sanguinaria comincia. Il cannone tuona. La terra fuma. È vero? Incredibile sembra l’evento dopo tanta esitazione.
Invece l’uccisione comincia, la distruzione comincia. È vero. Perchè ci sono già due morti. Fausto Piano e Salvatore Failla, ostaggi di questa eruzione demoniaca, della metastasi libica del califfato, dipendenti della impresa Bonatti di Parma, rapiti nel luglio dello scorso anno.
Da banditi si diceva più che da islamisti: ma dove inizia il confine che separa gli uni dagli altri? I banditi non diventano spesso combattenti di dio?
Si può morire così, con una pallottola alla nuca, a Sabratha, l’esecuzione prima che gli assassini a loro volta venissero uccisi, a settanta chilometri da Tripoli, in una città di fastose rovine romane e di sanguinosi fanatismi.
I sanguinari piromani del Califfato universale sono arrivati anche qui. Una casa nel nulla, una prigione rifugio usata forse prima di un altro, ennesimo spostamento.
Gli italiani usati – secondo quanto racconta un testimone — come «scudi umani», per coprire la fuga.
Dentro la casa un pugno di armati non si sa esattamente quanti, una donna e un bambino. Sì, in mezzo alle cartucce, ai mitra, alle salmodianti preghiere e all’odio, una donna e un bambino, il jihad come fatica quotidiana, banale.
Sono gli unici sopravvissuti alla battaglia tra una milizia fedele del governo di Tripoli e un gruppo di combattenti di Isis.
Sarebbero tunisini: ancora il marchio della Tunisia, terra che qualcuno descrive giulivamente fuori pericolo, sollevata per miracolo dalla peste del fanatismo armato. Sabratha a 170 chilometri dal confine tunisino: lì c’è un campo di addestramento da cui sono partiti i responsabili degli attentati al Bardo e a Sousse.
Alla fine hanno contato nove morti e una donna che urla e un bambino ferito; ed è lei a raccontare di essere moglie di uno dei combattenti e che tra i cadaveri ci sarebbero anche degli stranieri: ostaggi italiani. In quattro erano stati rapiti nel 2015, altri due dipendenti, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, della ditta italiana. Non sono lì, ha detto la donna, perchè sono stati affidati a un altro gruppo in un altro luogo. A venderli sarebbe stato l’autista libico ora sotto interrogatorio.
Mentre viaggio verso Misurata penso che il nulla esiste più di tutto ciò che esiste. E che non si minacciano le guerre se poi non si ha il coraggio di farle davvero.
Che attendere i comodi dell’Onu, il girovagare di mediatori senza forza e l’interminabile arte del rinvio dei politicanti libici impegnati a spartirsi poltrone e rendite petrolifere, è più che un errore.
La guerra non è qualcosa che si annuncia, che si dibatte, su cui si fanno circolare «voci»: la fai e basta, se pensi sia giusta e necessaria, attacca, spara, mettiti al riparo quando devi. Tutto qua. E poi recupera i morti. L’occidente non ha fatto la guerra e recupera già questi poveri morti.
La faremo questa guerra, prima o poi, cinque anni dopo aver annientato il regime psicopatico di Gheddafi torneremo qui per riparare alle nostre colossali e colpevoli imprevidenze.
Torneremo certo «per finire il lavoro», triste formula con cui copriamo la nostra passata incapacità .
Torneremo, questa volta, non per smontare un tiranno (amico nostro), ma per un obbiettivo totalmente egocentrico: difendere i nostri interessi economici (la maledizione libica: avere le più grandi riserve di idrocarburi dell’Africa) e fermare i migranti in un altro possibile stato terrorista.
Ma Piano e Failla, in questo disegno che posto avevano?
Qualcuno aveva pensato a loro, quando annunciava azioni di corpi speciali, raid di bombardieri e altre meraviglie belliche prossime e venture per sgretolare gli assassini di Dio? Ed erano solo annunci.
Li dimenticheremo in fretta i due lavoratori inghiottiti da una normale storia del nostro tempo, ovvero il restringersi del mondo che possiamo vivere e percorrere: sì, li dimenticheremo come abbiamo dimenticato il giovane cooperante Lo Porto, ammazzato dagli americani in Afghanistan «per errore», ucciso da coloro da cui attendeva in fondo al suo martirio la liberazione.
Come abbiamo dimenticato Lamolinara, l’ingegnere ammazzato in Nigeria in un blitz tecnicamente imperfetto.
Non è facile raggiungere Sabratha, eppure sarebbero solo settanta chilometri. Ma a Janzur, appena superato il vecchio aeroporto internazionale di Tripoli ora chiuso e distrutto, scontri tra le infinite milizie rivali hanno interrotto la strada: muri alzati con la sabbia e grandi trincee che hanno tranciato l’asfalto.
Bisogna scendere a sud, allora, compiere una grande diversione nel deserto e poi riguadagnare la strada litoranea.
Ma ad Al Azazyiah, quando pensi che il peggio è dietro di te e le milizie di Sabratha ostili a Isis hanno il controllo, il deserto è ancora più pericoloso: perchè i gruppi jihadisti, costretti a lasciare le posizioni in città , si sono dispersi per render la maggior parte del territorio impraticabile.
L’auto avanza e vedo alla mia destra rupi che precipitano verso il mare e le palme che sono più grigie che verdi e ogni tanto una certa erba verde e crudele, un’erba al sangue.
Dopo tanti chilometri di sabbia, c’è qualcosa di miracoloso e ancor più meraviglioso perchè a contatto con il deserto: il mare, che richiama con le onde infiniti pensieri. La Libia come la Siria e lo Yemen, il Paese delle maledizione e dei miti, le intatte solitudini, quella che un tempo era l’ultima verità concessa ai nostri sogni.
Penso a ciò che nessuna ricostruzione potrà mai colmare. Al vuoto dei sette mesi di prigionia dei poveri morti. Posso farlo, ne ho un poco il diritto.
Conosco i sogni di liberazione che ti trascinano ininterrottamente, e ininterrottamente si spezzano come fili marci. E il tempo che non esiste, il giorno e la notte, le ore e i minuti che si confondono. L’attesa è una dimensione spaziale così come il tempo.
Duadi, è il sindaco di Sabratha, come tutti gli arabi si muove e parla come se avesse nel petto una perenne tempesta.
Racconta la dinamica dello scontro in cui hanno perso la vita gli italiani; e come sia difficile cacciarli via. Qualche giorno fa il governo a Tripoli con molto ottimismo aveva annunciato che il problema era risolto.
Qui come nel califfato della terra dei due fiumi il reclutamento delle milizie Isis è internazionale ma la sua anima è locale, radicata nelle mille contraddizioni di questo posto violento.
Ancora la micidiale capacità del califfato di mescolare forze diverse. Sirte che era il feudo della tribù di Gheddafi, duramente bombardata dagli occidentali nel 2011, è stata poi malmenata dai successori del dittatore: come le tribù sunnite di Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein.
Imitando gli ufficiali di Saddam molti pretoriani del Colonnello hanno raggiunto le file dell’Isis per cercare la rivincita. E nuovo potere.
Così in Libia dove l’internazionale islamica progetta di creare una nuova provincia del califfato o di trasferirsi in caso di sconfitta in Medio Oriente, la generazione di Gheddafi ha fatto alleanza con quella di Saddam per combattere il jihad.
Feroce malizia della storia: entrambi sono passati dall’anti-islamismo originario all’islamismo più radicale.
Domenico Quirico
(da “La Stampa”)
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Marzo 4th, 2016 Riccardo Fucile
DOPO LA TRAGICA MORTE DI PIANO E FAILLA, LA NOTIZIA CHE GLI ALTRI DUE OSTAGGI POLICARDO E CALCAGNO SONO LIBERI
“Io sono Gino Pollicardo e con il mio collega Filippo Calcagno oggi 5 marzo 2016 siamo liberi e stiamo
discretamente fisicamente, ma psicologicamente devastati. Abbiamo bisogno di tornare urgentemente in Italia”.
Questo il messaggio scritto in stampatello su un foglietto di quaderno pubblicato su Facebook insieme ad una foto di Pollicardo e Calcagno, con barba e capelli, mentre parlano al telefono dopo la liberazione.
A dare una prima conferma della notizia, battuta per prima dal sito online della Stampa, era stato ai microfoni di Rai News 24 il presidente del Copasir, il senatore Stefano Stucchi, mentre la conferma definitiva sulla sorte di Pollicardo arriva dai familiari.
Il figlio Gino junior urla: “È finita, è finita”, mentre la moglie Ema Orellana in lacrime ha detto di averlo sentito al telefono: “Sto bene e presto vengo a casa” avrebbe detto Pollicardo.
“Abbiamo appreso la notizia dagli stessi giornalisti – ha detto invece, Gianluca Calcagno, figlio di Filippo – Poi abbiamo ricevuto conferme attendibili sul fatto che mio padre sia libero. E ora voglio parlare con lui”.
Stucchi a Rai news 24 aveva riferito che era “arrivata la notizia anche a me, ma devo ancora confermarla con l’intelligence. Avevamo sempre detto che l’importante era riportarli a casa vivi”.
A Sky Tg24, poi, Stucchi aveva aggiunto che “l’ufficialità non è ancora possibile darla”. La Farnesina aveva mantenuto un atteggiamento cauto, ma i due tecnici sarebbero in mano alla polizia locale.
Fonti del Ministero invitano alla prudenza: sono ancora in corso verifiche per accertare le effettive circostanze di quanto accaduto e che i due italiani si trovino effettivamente in mani sicure.
Secondo gli 007 italiani presto saranno trasferiti in una “zona sicura” e presi in consegna da agenti italiani che li riporteranno in patria.
“Quello che so è che è stata un’azione collegata a quella che ha portata purtroppo alla morte degli altri due italiani, dopo le confessioni della donna che era stata bloccata e ha dato indicazioni sul posto dove era tenuti; e’ un posto complicato” sottolinea l’inviato de La Stampa in Libia, Domenico Quirico, ai microfoni di Rainews24.
La notizia di ieri della Farnesina sull’uccisione a Sabratha di Fausto Piano e Salvatore Failla, colleghi di Pollicardo e Calcagno alla ditta “Bonatti” di Parma, era arrivata con un macigno nelle case dei rapiti in Libia nel luglio 2015.
Poi dall’audizione del sottosegretario Marco Minniti al Copasir era arrivato un barlume di speranza, visto che secondo le informazioni di intelligence Pollicardo e Calcagno erano ritenuti ancora vivi. Per lo spezzino e il siciliano la speranza non è ancora spenta. Le famiglie di Pollicardo e Calcagno avevano seguito il consiglio di non parlare con nessuno.
(da agenzie)
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