Ottobre 13th, 2016 Riccardo Fucile
“PER AVER CREATO UNA NUOVA POETICA ESPRESSIVA ALL’INTERNO DELLA GRANDE TRADIZIONE CANORA AMERICANA”
È stato assegnato a Bob Dylan il Premio Nobel per la Letteratura 2016, per aver «creato una nuova poetica espressiva all’interno della grande tradizione canora americana».
Lo ha comunicato il Comitato dei Nobel a Stoccolma. L’annuncio è stato accolto dal boato dei presenti in sala.
Bob Dylan, alias Robert Allen Zimmerman, è forse il più enigmatico tra i geni della musica popolare.
Nessuno come lui si è accanito contro il suo mito, divertendosi a spiazzare pubblico e critica con scelte sorprendenti che vanno dalla svolta elettrica degli anni ’60 alla conversione al credo dei Cristiani rinati fino al recente approdo agli spot pubblicitari, Victoria’s Secret compreso (ma per gli investitori rappresenta un testimonial formidabile).
Per non parlare del rapporto che ha con il suo repertorio, che rende spesso indecifrabile al pubblico dei suoi concerti.
Menestrello di Duluth, 24 maggio 1941, è un gigante della cultura degli ultimi 50 anni: come ha detto Bruce Springsteen nel discorso con cui nel gennaio 1988 ha introdotto la sua inclusione nella Rock and Roll Hall of Fame: «Bob ha liberato le nostre menti nello stesso modo in cui Elvis ha liberato il nostro corpo. Ci ha dimostrato che il fatto che questa musica abbia una natura essenzialmente fisica non significa che sia contro l’intelletto».
Da questo punto di vista il suo contributo è addirittura difficile da definire: con i dischi incisi negli anni ’60 all’inizio della sua carriera, ha aperto alla musica popolare le porte della grande letteratura, creando un modello (il cantautore) e un mito contro cui ha lottato tutta la vita.
Il fatto è che proprio le sue canzoni più celebri di quel periodo, così immerse nella tradizione popolare americana e al tempo stesso assolutamente anti retoriche nella loro essenza, hanno rappresentato, e ancora rappresentano, la sintesi perfetta dello spirito di quel tempo, diviso tra le aspirazioni a un mondo migliore, il rifiuto della guerra, la ricerca di un’identità per i giovani, da poco diventati effettivamente una nuova categoria sociologica.
Ma da The Frewheelin’ Bob Dylan, Blonde on Blonde, The Times They Are a Changin’ e Highway 61 Revisited sono passati quasi 50 anni e Dylan, che ha sempre ostinatamente rifiutato il ruolo del profeta, li ha trascorsi tra alti e bassi, svolte improvvise e iniziative sorprendenti, ostentando un’olimpica indifferenza a quello che succede attorno alla sua musica.
Dalla metà degli anni ’80 si è imbarcato nell’ormai celebre “Never Ending Tour” (il tour senza fine), suonando, sempre con la stessa band, più di 100 date all’anno: i concerti ormai sono sempre più sgangherati, prevedibili nel rifiuto della ritualità del live show e nella storpiatura dei pezzi.
Non c’è evento che possa cambiarne la natura: possa essere un’esibizione di fronte a papa Wojtyla e a 300 mila persone o, di recente, i suoi concerti in Cina o a Saigon. Inutilmente i media hanno sperato di sentire da lui parole contro la censura praticata dal governo di Pechino o qualche allusione alla guerra del Vietnam.
Ma così come ha fatto tante volte, Dylan è riuscito a sorprendere tutti: dopo più di 30 anni, i suoi album più recenti, Modern Times e Together Through Life sono tornati in classifica e a mettere d’accordo la critica, cosa che non succedeva dalla fine degli anni ’80 con il bellissimo Oh Mercy.
Nel frattempo ha pubblicato una raccolta di canzoni natalizie e, rompendo il suo proverbiale isolamento, ha condotto uno strepitoso programma radiofonico infarcito di raffinate selezioni musicali e divertenti interventi parlati.
Un enigma che ora compie 70 anni: vien da pensare che ha fatto bene il regista Todd Haynes a usare sei personaggi e sei attori (compresa Cate Blanchett) per raccontare Bob Dylan nel film Io non sono qui.
Tra i molti riconoscimenti il Grammy Award alla carriera nel 1991, il Polar Music Prize nel 2000, il Premio Oscar nel 2001 (per la canzone Things Have Changed, dalla colonna sonora del film Wonder Boys, per la quale si è aggiudicato anche il Golden Globe), il Premio Pulitzer nel 2008, la National Medal of Arts nel 2009 e la Presidential Medal of Freedom nel 2012.
(da agenzie)
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Ottobre 13th, 2016 Riccardo Fucile
E NEL CENTRODESTRA MOLTI SONO INTERESSATI ALLA RIFORMA ALTERNATIVA
Lui, il leader Maximo riesce persino nell’impresa di riunire Gasparri e Fini: “Non ho provato disagio per la presenza di Fini — dice il vicepresidente del Senato — perchè per fortuna c’era D’Alema”.
A pochi metri di distanza ecco Pippo Civati, uno che qualche anno la nomenklatura comunista (o post) l’avrebbe rottamata o, anche lui, arsa col lanciafiamme: “Io sono d’accordo con la proposta che è stata fatta in questa sede, anche perchè coincide con la mia. Parliamoci chiaro: già vedo i siti che ironizzano sulle facce presenti qui. Ma non farei il gioco delle facce in questi termini visto che dall’altro lato ci sono Verdini e Alfano. Ragionerei della proposta politica”.
Ecco: la prima, vera, proposta che non sia solo un no alle riforme di Renzi, ma anche un sì a una riforma alternativa ha i baffi di Massimo D’Alema, pubblico nemico del renzismo.
Messa nero su bianco e presentata nel corso di un incontro organizzato dalla Fondazione ItalianiEuropei e Magna Carta di Gaetano Quagliariello, ex ministro per le riforme del governo Letta.
Un disegno di legge in tre punti: riduzione del numero dei parlamentari, elezione diretta dei senatori e istituzione di una Commissione di Conciliazione tra Camera e Senato, sul modello americano.
Più che di testimonianza, di mossa politica si tratta, perchè — spiegano fonti informate — entro una settimana “il ddl raccoglierà un centinaio di firme”.
Parterre trasversale in sala, perchè, dice Quaglieriello, “quando si parla di Costituzione, la normalità è che collabori chi la pensa diversamente”.
Parecchia Forza Italia applaude, da Paolo Romani a Maurizio Gasparri ad Altero Matteoli: “Certo che — dice Lucio Malan — la Bicamerale era la nona sinfonia di Beethoven rispetto alla musica di Renzi”.
Lui, dal palco, suona la musica ascoltata in un silenzio quasi religioso: “Chiariamo che non esiste uno schieramento politico del no, mentre esiste un blocco politico del sì, il partito della Nazione, che coincide con parte della maggioranza di governo, coeso, minaccioso, sostenuto anche da poteri forti, e da parte del sistema dell’informazione che lancia insulti che non dovrebbero appartenere al confronto cui siamo chiamati, alimentando un clima di paura e intimidazione da far sentire in colpa chi è per il No come se portasse il paese verso il baratro”.
Massimo Mucchetti, che non ha perso l’immediatezza del giornalista di razza, dà la chiave: “Significa che il 5 dicembre, nel caso vincesse il no, non sarebbe la fine del mondo, ma si apre un confronto in Parlamento su alcuni punti. Lo ha capito il Financial Times, lo capiranno gli italiani. Non finisce il mondo nè la legislatura”.
Prosegue infatti D’Alema, con tono quasi pedagogico: “Non credo che la vittoria del no possa avere effetti catastrofici, in termini di crisi politica, cosa che non si può dire in caso di vittoria del sì che potrebbe spingere a elezioni anticipate sulla scia del plebiscito. E, in caso di vittoria del no, sarebbe un obbligo la revisione della legge elettorale. Un obbligo, non la concessione di un sovrano, diciamo”.
Si intravede, neanche tanto nascosto, l’abbozzo — attorno ai tre punti “limitati”, “chirurgici”, “che si approvano in sei mesi” — se non il programma di un nuovo governo di scopo, quantomeno la trama di una maggioranza per il 2018.
Un disegno per disinnescare il plebiscito.
Orfini, allievo che ha rinnegato il maestro, da tempo lo ha spiegato a Renzi: “Per la prima volta da tempo, al netto del rancore, Massimo ha un disegno. Un governo che arrivi al 2018 e cambi la legge elettorale, nel frattempo si fa il congresso… è ovvio che il candidato loro è Letta”. Sia come sia, la notizia è che si appalesa un terzo punto di vista, tra il sì di Renzi e il no di stampo grillino, che in fondo al premier piace. Ed è un “no per le riforme”: “Nello statuto del mio partito — dice D’Alema c’è scritto: mettere fine alla stagione delle riforme fatte a maggioranza. Ecco, difendo i valori fondamentali del mio partito che chi dirige ha dimenticato”.
Interessante il parterre di Forza Italia, dopo che Confalonieri ha detto al Corriere, di fatto, che vota sì.
Arriva Maurizio Gasparri, per dirsi pronto al confronto. Poi, con Romani, si allontana proprio per parlare del Biscione, sdraiato sulle ragioni del governo.
Lui, dal palco, non rinuncia al gusto della sferzata: “Chi accusa il fronte del No al referendum di tirare la volata a M5s dovrebbe ricordare che è stato il Pd a consegnare la capitale del paese a Grillo con operazioni che resteranno scritte nei manuali della politica, per spiegare come non si fa la politica. Un minimo di riflessione autocritica, prima di rilanciare accuse”. Diciamo. Esce Cirino Pomicino: “Qua se vince il sì debbo andare in clandestinità ”.
(da “Huffingtonpost“)
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Ottobre 13th, 2016 Riccardo Fucile
DARIO FO E L’IDEA DEL TEATRO COME DIBATTITO, SCONTRO DI IDEE, BATTAGLIE DI PRINCIPI
Coscienza critica, fustigatore dei costumi, polemista inesausto, ma sempre avanti a sinistra. Il Dario Fo “politico” è inscindibile da quello artistico, perchè per lui il teatro e la letteratura erano la continuazione della politica con altri mezzi.
È il vecchio motto della commedia, alla fine: «Castigat ridendo mores», corregge i costumi ridendo.
E dire che il debutto, nella vita e in politica, fu su tutt’altre sponde.
Il giovane Dario, classe ’26, si arruola con i repubblichini nelle fasi finali, tragiche e convulse, della Seconda guerra mondiale.
«Per non finire deportato in Germania», spiegherà poi quando riemergerà dalle nebbie questo trascorso imbarazzante. C’era anche chi per non finire in Germania si schierò dall’altra parte, però.
In ogni caso, il trascorso a Salò lo accomuna a un altro grande del teatro italiano, Giorgio Albertazzi, anzi forse è l’unica cosa che abbiano avuto in comune.
Nel dopoguerra, incontrati i due grandi amori della sua vita, il palcoscenico e Franca Rame, per Fo sembra aprirsi una rassicurante carriera nello star system casalingo ma non indegno dell’Italia democristiana.
Finchè la satira non gli prende felicemente la mano, e con la scandalosa “Canzonissima” del ’62 rompe con l’establishment, quello della Rai e quello del Paese. Non tornerà più in tivù per 14 anni.
“Canzonissima” censuratissima, ma Fo ha trovato sè stesso. E arriva nel momenti giusto. Nel suo teatro finiscono tutte le inquietudini e le contestazioni dell’Italia post-boom. In attesa di prenderlo, il potere si può intanto prenderlo a pernacchie.
L’anno della svolta è probabilmente il ’69. Perchè lui scrive “Mistero buffo”, che oggi tutti ricorderanno come il suo capolavoro e probabilmente a ragione, e con la strage di piazza Fontana e la strategia della tensione, l’attualità irrompe nel suo teatro.
Sono gli anni di “Morte accidentale di un anarchico”, di “Fanfani rapito”, di “Non si paga non si paga”. Eskimo, poncho, Inti Illimani e Dario Fo.
La Palazzina Liberty di Milano diventa un tribunale popolare dove, fra irruzioni della polizia e allarmi bomba, si condannano allo sberleffo la Dc, la borghesia, la polizia, la Chiesa e ovviamente gli onnipresenti «fascisti».
Al di là dei meriti artistici, Fo riesce a raggiungere uno status ambito e difficile per ogni uomo di teatro, anzi per ogni artista: diventare la coscienza critica della società , o almeno di una sua parte.
Non c’è polemica dove Fo non si butti, non c’è manifesto che non firmi, non c’è suo spettacolo che non scandalizzi i benpensanti.
Teatro “in presa diretta”, con i testi aggiornati ogni sera, sull’onda della polemica di giornata. Questo ruolo, Fo non lo perde nemmeno con il riflusso.
Solo che il suo pubblico, che era sempre stato una minoranza, ma rumorosa, adesso è schiacciato dal gran ritorno del mercato, dell’individualismo, del consumismo, di Craxi e così via. Non è più la Milano (e l’Italia) che scende in piazza per chiedere conto della morte accidentale di Pinelli. Ma Fo continua però ostinatamente a parlare a quell’Italia.
Il Nobel, nel ’97, accolto con molti applausi all’estero e molti mal di pancia in Italia, certifica questo percorso:
Fo è un classico, un venerato maestro, e il suo teatro è sopravvissuto all’epoca nel quale era nato. Lui continua a credere nell’impegno, e negli ultimi anni lo identifica con i Cinque Stelle diventandone una specie di padre nobile, spesso anche critico o inutilmente saggio: il grillo parlante dei grillini.
Ora che non c’è più, resta la sua idea del teatro come dibattito, scontro di idee, battaglia di principi, insomma politica.
Che è poi la ragione per la quale, due millenni e mezzo fa, la polis ha sentito il bisogno di inventarlo.
Alberto Mattioli
(da “La Stampa”)
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Ottobre 13th, 2016 Riccardo Fucile
DARIO FO, UNA VITA CONTRO I PUPAZZI DEL POTERE DA “GIULLARE DELLA SOCIALITA'”
Quando è nato Dario Fo? L’anagrafe dice nel 1926, in realtà , visto quel che poi è successo, bisognerebbe indicare il 1968, l’anno in cui Dario Fo scopre il berretto a sonagli del giullare, se lo ficca in testa e ad ogni scrollata di campanelli fa tremare le questure, i tribunali, la borghesia, il partito (comunista).
Coloro che hanno riso come matti alle sue farse adesso vorrebbero buttargli una buccia di banana tra i piedi, ma lui non se ne dà per inteso.
Scrolla la testa e, come un gallo indisciplinato, lancia con quella sua voce adenoidea un chicchirichì tremendo che riempie le piazze più d’un comizio.
Un comico che voleva fare il pittore
Prima del 1968 Dario Fo è stato soltanto un comico che avrebbe voluto fare il pittore. Era smilzo, tutto naso e bocca, il corpo snodabile come una marionetta.
Faceva il piccolo cabotaggio macchiettistico ai microfoni della Rai, scriveva e interpretava i monologhi del Poer nano, e in una rivista degli anni Cinquanta, che si intitolava Cocoricò, lo si poteva vedere con Giustino Durano in passerella.
Paglietta in testa, bastoncino in mano, gesti gemelli, i due inauguravano una comicità asimmetrica e un po’ pazza.
Poi a loro si unì Franco Parenti e nel ’53 fecero Il dito nell’occhio e l’anno successivo Sani da legare. Erano riviste da camera in cui l’apporto mimico era fondamentale, non per nulla vi collaborò Jacques Lecocq e significativamente a Sani da legare prese parte anche un formidabile allievo di Lecocq, Giancarlo Cobelli. Preistoria.
Dario e Franca
Nel ’54 Dario incontra Franca Rame, bionda e splendida discendente di comici raminghi. La sposa in chiesa e con lei forma una coppia artistica che riempie i teatri borghesi, prima con quelle farse riprese dal vecchio repertorio ottocentesco rinnovate però da una straordinaria inventiva mimica, poi con le commedie, sette, una all’anno o quasi.
E’ un teatro dai toni clowneschi e di immaginarie torte in faccia: Non tutti i ladri vengono per nuocere, Gli arcangeli giocano a flipper, Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri, Chi ruba un piede è fortunato in amore, Isabella, tre caravelle e un cacciaballe, Settimo: ruba un po’ meno, La colpa è sempre del diavolo.
Lei fa la svampita, lui è l’istrione un po’ circense che, oltre a scrivere i testi, disegna le scene e i costumi. Il conto in banca cresce con le risate delle platee, ma in quelle risate, chissà come, vibra una specie di campanello d’allarme.
Un nuovo inizio
Forse Dario sente che c’è un equivoco alla base di quel successo. Fa ridere la borghesia prendendola a schiaffoni e la borghesia lo ricambia con gli applausi.
Ma quando, nella Canzonissima del ’62, si mette a parlare di omicidi bianchi e di mafia, il meccanismo salta.
Lo cacciano dalla televisione, i grandi teatri gli chiudono le porte e lui capisce di dover ricominciare. «Ero diventato l’alka seltzer della borghesia» spiegherà .
Ed è così che tende l’orecchio ai boati della contestazione giovanile, ma soprattutto ascolta il rombo smorzato di un soffio che viene da lontano, dalla cultura popolare, dalle storie di piazza e di campo: cose che lui ha già trasformato in spettacolo nel ’66 con Ci ragiono e canto, ma che adesso lo invadono con forza irresistibile, lo obbligano a rispecchiarsi nelle voci del dissenso fino a farvi coincidere la propria natura di interprete-non-attore, di giullare della socialità salito su una pedana in mezzo a una piazza.
Da qui la scelta del non-teatro, della balera, della casa del popolo, del palazzetto dello sport, della palazzina diroccata.
I pupazzi del Potere e il giorno più duro
Comincia a costruire i suoi pupazzoni satirici. Gli escono come un’esplosione liberatrice della fantasia. Sono i pupazzi del Potere.
Fo gli sfonda la pancia e ne cava re canuti, generali, capitalisti, prelati; vengono anche fuori lo Jesus dei giullari medievali, l’ubriaco delle nozze di Cana, il Matto che si fa passare per magistrato e conduce un’allucinante inchiesta farsesca sul caso Pinelli e sull’attentato di piazza Fontana.
Unifica testi remoti in una lingua padana vagamente quattrocentesca con lampi ruzantiani e nel ’69 ci dà il meraviglioso sproloquio di Mistero buffo, che reciterà , trasformandolo, per il resto della vita, mentre altri lo interpreteranno ovunque nel mondo, anche in Cina.
I suoi spettacoli sono tendenziosi e tumultuosi (Il Fanfani rapito, Storia di una tigre, La marijuana della mamma è sempre più bella) e provocano lo scontro: incursioni della polizia, sequestri e l’episodio più odioso e tremendo: Franca sequestrata dai neofascisti, violentata e seviziata. Un clima orrendo.
Nel ’91 nasce Johan Padan a la descoverta de le Americhe ed è un nuovo modo di stare in scena. Dario racconta sfogliando disegni. Parola e immagine sono tutt’uno, una soccorre l’altra e una completa l’altra. Seguono questo schema Lu santo jullare Francesco e le lezioni-spettacolo a cui Dario volge ormai la propria attenzione.
Lo “scandalo” del Nobel
L’ultima svolta è del ’97, quando Dario riceve il Nobel per la Letteratura. Che putiferio. I letterati gridano allo scandalo: il Nobel a un giullare? gemono.
E il giullare incassa con orgoglio, devolve una parte dell’assegno agli handicappati, acquista per loro pulmini speciali, dopo di che mette un po’ in ombra la coccarda dell’attore e dipinge, scrive libri (La figlia del papa, Razza di zingaro, Dario e Dio) mentre riceve lauree honoris causa alla Sorbona di Parigi e alla Sapienza di Roma.
Fa notare che prima di lui Roma ha concesso l’onorificenza a due soli teatranti: Pirandello e Eduardo.
«Attento te…» ammonisce. Sa di essere diventato un monumento e la cosa non gli dispiace: crede di aver creato l’ultima «opera dello sghignazzo» e l’ha scritta su se stesso.
Osvaldo Guerrieri
(da “La Stampa”)
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Ottobre 13th, 2016 Riccardo Fucile
“FINALMENTE UN PONTEFICE CHE CONSIDERA IL DENARO LO STERCO DEL DIAVOLO”… “DESTRA E SINISTRA INSIEME: VEDREMO, FAREMO E NESSUNO PIU’ SI INDIGNA”
Il Nobel riceve nella sua bella casa milanese vestito da pittore, sì, proprio con la casacca tutta sporca di colori, tipo Cavaradossi.
Si alza da un quadrone che sta dipingendo, si siede dietro un muro pieno di fotografie non incorniciate (i familiari, gli attori, Falcone e Borsellino, una Franca Rame – lei sì, in cornice – giovane e bellissima), si aggiusta l’apparecchio acustico e inizia ad alluvionarti di parole.
Farlo parlare non è mai stato un problema. Il problema semmai, ma non per gli intervistatori, è sempre stato quello di farlo stare zitto.
«Vede questo?», e ostende una copia del Sole24ore: «Anche un vescovone, Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, recensisce il mio libro con rispetto, il rispetto che si ha per una persona che ragiona. E del resto io di Dio con rispetto ho sempre parlato, anche quando ci facevo sopra uno sghignazzo».
Non starà meditando una conversione last minute?
«No. Anzi, vede questi (stavolta tocca a una pila di libri pericolosamente in bilico sul bordo del tavolone)? Sto studiando Darwin, voglio imparare, capire che macchina abbia montato. Tanto più che sono andato a parlare con gli studenti e ho scoperto che dell’evoluzionismo non sanno niente. Il prossimo libro lo dedicherò a Darwin e magari ci farò sopra pure uno spettacolo. Io sono ateo soprattutto per logica».
Infatti nel suo libro parla spesso del problema del male.
«Non mi piace il Dio dell’Antico Testamento, un Dio incazzoso, vendicativo, che tenta le sue creature sapendo già che cederanno. E allora, potrebbe rispondere l’uomo, non dovevi mettermi alla prova, anzi non dovevi proprio crearmi. Caccia Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, li condanna a morire. Ma loro vivranno nell’amore, e la loro eternità saranno i figli».
Ateo, però le piacciono i due Franceschi.
«Questo Papa, sì e molto, specie quando dice che il denaro è lo sterco del diavolo, che l’amore per i poveri è nel Vangelo prima che nel marxismo. Già , è vero, ma non lo ricordavano mai. E poi mi piace perchè parla dell’altro Francesco».
Il Santo.
«Però quello vero, non quello censurato per farne una caricatura mansueta e inoffensiva, il santino che conosciamo. Il Francesco autentico è un rivoluzionario, uno che abbatte con le corde le torri nobiliari di Assisi, uno che entra nell’esercito, che conosce la guerra e la galera, che si spoglia nudo davanti al vescovo, che fa, agisce, lotta, che è il contrario del lasciar correre, dell’”e chi se ne frega”, del “chi me lo fa fare”. E sempre dalla parte degli umili e dei mortificati. Degli ultimi. Tutto a che vedere con il Vangelo, poco con la Chiesa».
Nel libro, lei si schiera anche per l’eutanasia…
«Trovo indegno far soffrire oltremodo una persona quando non c’è più speranza. Me l’ha insegnato Franca, che si è sempre preoccupata e fatta coinvolgere dai disperati. Seguì per anni una ragazzina drogata che si spense per l’Aids, mangiata dal male perchè quello è un male che ti mangia, ti svuota, ti riduce a uno scheletro. Le morì fra le braccia, ridotta a qualche chilo. Perchè questo calvario, a chi giova? Ma ormai parliamo di decenni fa, e ancora l’eutanasia non è legale».
Di Franca Rame, nel suo libro, c’è un ricordo inaspettato.
«Mi succede, quando sono nei guai, di sorprendermi a sussurrare: Franca, aiutami! E dopo un po’, ecco la soluzione. Capita, davvero».
Ha qualche rimpianto?
«Nessuno. Ho sempre avuto una fortuna enorme: tutto quello che mi è andato male mi ha fatto bene».
E’ un paradosso?
«E’ la verità . Ho studiato otto anni a Brera, e quando ho iniziato a fare il pittore ho scoperto che i meccanismi di quella carriera non mi piacevano. Ho studiato al Politecnico, e mi sono accorto di quanto era sporco l’ambiente delle commesse. Quelle delusioni sono state la mia fortuna. Ero depresso, mangiavo e vomitavo. Mi salvò un amico: sei bravissimo a recitare, perchè non provi a farlo di mestiere? Ed è andata a meraviglia. Oggi nel mondo ci sono 400 compagnie che mettono in scena i testi miei e di Franca, 400. E poi mi hanno dato anche il Nobel, il che ha fatto arrabbiare parecchia gente».
Perchè?
«Perchè non accettavano, e non accettano, che un attore, un guitto salga in cattedra e rubi loro i premi».
L’Italia era migliore quando lei ha iniziato a recitare o adesso?
«Allora, senza dubbio. L’abbiamo peggiorata moltissimo. Intanto allora poteva capitare quel che è capitato a me, che oggi sarebbe impossibile. E poi c’era un pubblico che voleva la satira, che non si accontentava delle verità ufficiali, che dettava i temi. Era lui che ci chiedeva di parlare della morte di Pinelli o delle stragi di Stato. Con Morte accidentale di un anarchico portavamo nei palazzetti dello sport diecimila persone. L’Italia adesso è addormentata».
Da chi?
«Dalle chiacchiere, dalle balle, dall’ipocrisia, da questo tormentone per cui tutto va bene, tutto è meraviglioso, starete sempre meglio e perfino i ricchi pagheranno le tasse. Va avanti così dai tempi della Dc, destra e sinistra insieme».
Anche con Renzi?
«Ma certo, il sistema è sempre quello, i metodi per fregare la gente anche. Guardi le banche: le banche si salvano, chi è stato ingannato dalle banche muore. E’ tutto un vedremo, faremo, diremo. E la gente ha perso la voglia di indignarsi, di chiedere dei conti. È sgionfa».
Prego?
«Sgionfo, in milanese, vuol dire gonfio, inerte, senza slancio. L’Italia è sgionfa».
Alberto Mattioli
(da “La Stampa”)
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Ottobre 13th, 2016 Riccardo Fucile
IL NOBEL PER LA LETTERATURA AVEVA 90 ANNI… ERA RICOVERATO DA UN PAIO DI SETTIMANE
A 90 anni e 7 mesi, tre anni dopo l’amata Franca Rame, se n’è andato anche Dario Fo. Era ricoverato da quasi due settimane all’ospedale Sacco per alcune complicazioni polmonari.
Un’uscita di scena in punta di piedi, per uno che come lui da più di mezzo secolo calcava i palchi di mezzo mondo e occupava uno spazio importante nel dibattito culturale e non solo.
Con quel tono di leggerezza che era stato un suo tratto distintivo anche nei momenti difficili. Come negli Anni Sessanta quando la Rai allora assai bacchettona lo allontanò da un programma televisivo per uno sketch irriverente sui morti sul lavoro.
O come poche settimane fa a questo giornale, nella sua ultima intervista, quando la messa al bando in Turchia di tutte le sue opere gli fece esplodere la sua fragorosa risata: «È come se mi avessero dato un altro premio Nobel».
Erdogan non solo lo aveva epurato ma con lui aveva tolto di scena Shakespeare, Cechov e Brecht. «Essere insieme a loro è solo un onore. Speriamo che nessuno dica ad Erdogan che sono l’unico ancora in vita».
Il premio Nobel, quello vero, glielo avevano dato nel 1997 ma la prima candidatura era del 1975. Quando gli era arrivato il riconoscimento più importante per la letteratura qualcuno in Italia si era scandalizzato.
Non era solo invidia era la paura che un riconoscimento al genio irriverente scardinasse logiche antiche e oramai un po’ ammuffite. Ma da Dario Fo non era arrivato nemmeno uno sghignazzo. Lui che da sempre aveva calpestato il lato scomodo della strada con le sue opere.
Drammaturgo, regista, scrittore, pittore, agitatore culturale e pure candidato alla Presidenza della Repubblica in 90 anni Dario Fo non si è fatto mancare niente.
Nè il successo nè le polemiche. Perchè ogni sua opera era una polemica.
Da «Mistero buffo» a «Morte accidentale di un anarchico», scritta di getto dopo la strage di piazza Fontana per non dimenticare Pino Pinelli, l’anarchico – lui sì, innocente – caduto dalla finestra al quarto piano dell’ufficio del commissario Calabresi alla Questura di Milano.
Ogni polemica, ogni successo, lo vedeva sempre accanto alla bellissima Franca Rame, attrice e tanto altro. Entrata pure in Senato con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Una delle tante tappe di questa coppia di sinistra che incarnava ogni mal di pancia della sinistra libertaria.
Di cui si ricordano le battaglie a sostegno di Adriano Sofri nel processo per l’omicidio del commissario Calabresi. E l’avvicinamento ultimo al Movimento 5 Stelle. Sempre accanto a Franca Rame, uniti nella vita e pure adesso.
Fabio Poletti
(da “La Stampa”)
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