Novembre 7th, 2016 Riccardo Fucile
LI CHIAMANO NET, SI BARRICANO NELLA LORO CAMERETTA, COMPUTER SEMPRE ACCESO, MUSICA E LIBRI, MANGIANO LI’
Ritiro sociale è un’espressione ancora poco nota. 
La utilizzano psicologi e operatori delle Onlus per definire i comportamenti del segmento più fragile dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano.
Per avere un’immagine immediata di cosa significhi il ritiro sociale si può pensare a un ragazzo barricato nella sua cameretta con le tapparelle abbassate, il computer sempre acceso, musica e libri, il cibo consumato lì in una segregazione auto-imposta. Il fenomeno è molto conosciuto in Giappone – li chiamano hikikomori – ed è iniziato negli anni 80.
Riguarda per lo più maschi primogeniti e il primo sintomo è la rinuncia a frequentare la scuola.
Motivo: la pressione della società che chiede una competizione alla quale il giovane risponde negandosi. Le stime nipponiche variano da 400 mila a 2 milioni di coinvolti, il trend però è in crescita.
Anche da noi la prima manifestazione del ritiro sociale è l’auto-esclusione dalla scuola, annunciata ai genitori una mattina a sorpresa senza segnali premonitori.
Le stime italiane sono di 100 mila ragazzi – un altro primato europeo di cui non essere fieri – ma ovviamente non è facile elaborare dati così delicati.
A monitorare il fenomeno sono realtà come la cooperativa Minotauro, che ha pubblicato di recente un testo dedicato ai ritirati e dal titolo eloquente: «Il corpo in una stanza». Anche in Italia a essere colpiti sono molto più i maschi perchè a loro è stata trasmessa un’identità fortemente condizionata dal ruolo sociale e dal successo lavorativo.
L’annuncio a sorpresa
I corpi in una stanza non hanno «voce» e l’unica strada per capirne di più è riannodare il filo partendo dai racconti dei genitori.
Così abbiamo fatto, organizzando un focus group nella sede del Corriere a Milano. Rompe il ghiaccio Carmen: «Una sera che non dimenticherò mai, Sandro si è seduto sul mobile della cucina e mi ha detto: da domani a scuola non ci vado più, e così è stato. Era in quarta liceo. Per tre anni è vissuto nella sua camera, ha piantato il calcio, è diventato vegano e ha smesso anche di mangiare a tavola con la famiglia».
Racconta Giulia, un’altra mamma: «Marco ha finito il liceo regolarmente, i guai sono arrivati dopo. Ha lavorato come venditore per un’azienda, ma dopo diversi mesi non gli hanno voluto riconoscere un contratto e non l’hanno pagato. E da lì ha spento la luce, si è rifiutato di continuare gli studi e ha introiettato un senso di vergogna e inadeguatezza. Voleva fare il deejay e adesso l’unica compagnia che ha scelto è la musica».
Si inserisce Nicoletta: «Francesco un giorno mi ha confessato che andare a scuola era diventato un incubo quotidiano. Si è ritirato in camera e si è costruito una rete di amici virtuali in diverse città , ha perfezionato l’inglese ubriacandosi di serie tv e non ne ha voluto più sapere dell’istituto turistico. L’ultima delusione è stata l’impossibilità di essere assunto in un hotel, che pure lo avrebbe preso, perchè ancora minorenne».
Le storie raccolte si assomigliano molto e evidenziano il fallimento del rapporto con la scuola, l’assenza dei padri, la vergogna nei confronti dei compagni di classe, la creazione di circuiti di socializzazione a distanza.
Genitori e insegnanti
«La scuola non raccoglie il dolore» sostiene Carmen. I giovani che per qualche motivo incontrano la sofferenza negli anni della crescita – un incidente, una malattia, la separazione conflittuale dei genitori – rimangono segnati e il sistema scuola non riesce a reincluderli, aumentando le loro probabilità di diventare Neet.
Nel focus group il giudizio sulla scuola è stato materia incandescente: i genitori raccontano episodi di insensibilità degli insegnanti, di demotivazione professionale, di trasmissione di un senso di inadeguatezza e la conseguenza è l’aumento del tasso di dispersione.
L’abbandono scolastico è la prima fabbrica di Neet e infatti cresce (è al 15%) in corrispondenza con l’aumento del tasso di disoccupazione.
Secondo la ricerca della onlus WeWorld denominata «Ghost», proprio perchè dedicata ai ragazzi-fantasma, un quarto di loro ha alle spalle iter scolastici accidentati. Se i conflitti con la scuola potevamo prevederli il focus group ha evidenziato un’altra costante: la totale assenza dei padri.
Il genitore maschio di fronte al ritiro sociale del figlio si scopre impotente e cede spesso alla tentazione di squalificarlo.
Lo considera un fannullone, un incapace, un «disfunzionale». In uno dei casi il padre ha addirittura diseredato il figlio e persino sul sostegno economico i papà si eclissano. La gestione del ritiro pesa tutta sulle madri, che delle volte trovano maggiore aiuto nei nuovi compagni di vita, più disponibili dei veri padri.
Ci sono anche casi in cui le donne maturano un senso di auto-colpevolizzazione, come Nicoletta che si chiede «se non ho sbagliato, è come se l’avessi tenuto nella pancia anche dopo la nascita impedendogli così di crescere».
«Economicamente è stato un disastro – riepiloga Giulia – ho dovuto vendere una casa che avevamo ereditato e tentare di costruire un percorso formativo. Un curriculum di speranza che lo aiutasse un giorno a reinserirsi».
Se è vero che i padri latitano, una funzione di supplenza la ricoprono le Onlus del terzo settore, che partono dal sostegno psicologico e poi si incaricano di stimolare il ragazzo per fargli recuperare interesse per il mondo reale fuori dalle quattro mura. In questo modo sperano di farlo transitare negli altri segmenti di Neet, i ragazzi che fanno volontariato oppure che si aggrappano alla pratica sportiva per socializzare . «Attacchiamoli alla vita» è il leitmotiv degli operatori.
L’aiuto della Rete
È poi singolare come di fronte alle sconfitte dei soggetti «caldi» – la famiglia e la scuola – il «freddo» Internet, l’elettronica impersonale e mangia-privacy, diventi una ciambella di salvataggio, un assistente sociale h24.
La virtualità attenua la vergogna sociale, ne riduce l’impatto fisico, il filtro del computer rassicura e lascia sempre aperta la via di fuga.
Smaterializza le amicizie e riduce il rischio delle delusioni.
Sono nate così pagine Facebook e chat di Skype per gli hikikomori italiani con più di mille iscritti. «Francesco ha sempre subito le dinamiche di gruppo perchè maturo di testa e piccolo nel fisico, sulla Rete invece ha trovato amici a Firenze, Bari e Roma. Più grandi di lui con i quali gestisce ore e ore di chiacchiere al computer» racconta Nicoletta.
La spiegazione degli psicologi è che nella dimensione virtuale i giovani ottengono le gratificazioni che la vita reale ha negato loro.
Come l’offesa di non ricevere nemmeno una risposta formale agli Sos che inviano a pioggia sotto forma di curriculum e lettere di presentazione ad aziende, centri per l’impiego e possibili datori di lavoro.
Gli stessi studiosi motivano il carattere prevalentemente maschile del ritiro sociale – le ragazze in Giappone sono solo il 10% – con la trasmissione al femminile di un’idea di realizzazione del sè più larga e sfaccettata e non riconducibile agli stereotipi del successo/identità lavorativa. È un lascito di genere – e non un’esperienza maturata sul campo – che però funziona da anticorpo, evita di aggiungere esclusione a esclusione.
Ragazze e maternità
Non vuol dire che l’intero universo Neet – oltre i ritirati – non sia colorato di rosa, ma le traiettorie sono differenti: incide molto la maternità attorno ai 20 anni, la scelta di restare a casa con i figli e non presentarsi sul mercato del lavoro.
Se i genitori dei ritirati sociali di fronte al compito che si para loro davanti lottano per non disperarsi, anche gli altri padri e madri dell’universo Neet finiscono per essere spaesati.
Come sintetizza Lucia Tagliabue di Jointly, una rete di orientamento professionale: «Non sanno che consigli dare ai loro ragazzi perchè il mondo del lavoro viaggia a una velocità diversa e temono di risultare iperprotettivi o eccessivamente rigidi nelle imposizioni ai ragazzi».
P.S. Dal ritiro sociale fortunatamente si può uscire. Oggi Sandro ha 29 anni e fa l’insegnante di Tai chi.
Dario Di Vico
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 7th, 2016 Riccardo Fucile
IN AZIONE 30.000 GUERRIGLIERI, CONQUISTATI I PRIMI VILLAGGI
Legge il comunicato in arabo con un po’ di fatica, Jihan Sheikh Ahmad, capelli raccolti in una coda di cavallo e con indosso mimetica verde.
È lei, una giovane ufficiale curda ad annunciare dal Nord della Siria il via all’offensiva su Raqqa.
Trentamila uomini della coalizione delle Syrian democratic forces (Sdf), sono già in marcia verso l’altra capitale del Califfato.
Mentre a Mosul si stringe la morsa dell’assedio, con le truppe irachene che avanzano da Sud e sono a quattro chilometri dall’aeroporto, i curdi siriani e i loro alleati arabi, addestrati dagli Stati Uniti, lanciano l’assalto all’ultima roccaforte dell’Isis.
La scelta di una portavoce donna è un segno dell’impronta curda sull’operazione.
Un altro segno è la frase che conclude l’annuncio e invita la Turchia a «stare fuori dagli affari interni siriani».
L’operazione è guidata dai curdi, che contribuiscono per almeno l’80 per cento alle forze dell’Sdf. Sono gli stessi guerriglieri dello Ypg che Ankara considera terroristi e che bombarda un centinaio di chilometri più a Ovest, vicino ad Aleppo.
Il portavoce dei curdi Talal Silo ha poi specificano che c’è già un accordo con gli Stati Uniti per «tenere fuori» la Turchia.
Le truppe speciali di Washington sono embedded con l’Sdf e forse ci sono anche francesi. Parigi è la capitale che più ha spinto per accelerare i tempi della presa di Raqqa, oltre che di Mosul, perchè notizie di intelligence avvertono che lì l’Isis sta organizzando un altro attentato in stile Parigi.
L’attacco è cominciato nella notte di sabato e ieri mattina, il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian ha sottolineato che le due operazioni devono andare di pari passo. In serata l’Sdf annunciava che le sue avanguardie partite da Ain Issa, una cinquantina di chilometri a Nord di Raqqa, erano avanzate di 10 chilometri e liberato «cinque villaggi».
Poco dopo l’inviato speciale di Obama, Brett McGurk, confermava l’avvio dell’offensiva e avvertiva che «non sarà affatto facile» e che gli Usa erano «in stretto contatto» con la Turchia per superare le divergenze e concentrarsi «sull’obiettivo comune», l’Isis.
Il comando di Inherent Resolve, la missione a guida Usa anti-Stato islamico, precisava che i suoi raid avevano distrutto «postazioni e veicoli tattici» jihadisti in zona. L’operazione è stata battezzata «Ira dell’Eufrate» e fa il verso allo «Scudo sull’Eufrate» lanciato dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan quest’estate. L’obiettivo è quello di liberare Raqqa dalle «forze del terrorismo oscurantista» ma la partita fra potenze globali e regionali è altrettanto importante.
Anche se a Mosul l’Isis ha mostrato una resistenza superiore alle aspettative e venerdì ha inflitto pesanti perdite alle forze speciali irachene che si erano spinte troppo in fretta all’interno dei quartieri a Est, la spartizione del Califfato marcia spedita. L’avanzata delle milizie sciite verso Tall Afar, quasi al confine fra Iraq e Siria, viene letta più come avvicinamento a Raqqa che come manovra di accerchiamento di Mosul.
L’ambizione delle forze sciite è quella di congiungersi a quelle di Bashar al-Assad e creare un grande spazio dominato dagli alleati di Teheran, dall’Iran fino al Libano.
È la «mezzaluna sciita» che si delinea nella valle della Mesopotamia e che non fa dormire di notte i leader dell’Arabia Saudita ma neppure Erdogan.
L’attivismo del «reis» turco ai confine con Siria e Iraq è certo dovuto alla volontà di schiacciare la rivolta curda una volta per tutte. I disegni neo-ottomani, però, hanno il loro peso.
I sostenitori dell’Akp, il partito al potere, mostrano cartine della Turchia con incluse le province di Aleppo, Raqqa, Mosul e Kirkuk, antiche wilayat dell’Impero ottomano. Gli stessi curdi dello Ypg denunciano che a Silopi, al confine fra Turchia, Siria e Iraq, l’esercito di Ankara sta ammassando truppe e tank. Da Silopi si può entrare sia in Iraq che in Siria. La scorsa settimana ancora lo Ypg aveva detto di temere «un colpo alle spalle» e per questo ritardava l’attacco verso Raqqa.
Washington ha dato garanzie ai curdi ma Erdogan ha già sorpreso gli alleati della Nato con l’incursione in Siria, appena dopo la conquista della città di Manbij da parte della stessa coalizione Sdf che ora attacca Raqqa. Un «colpo alle spalle» che ha bloccato ogni ulteriore avanzata curda verso Ovest.
Ora la posta in gioco è molto più alta.
Si tratta di distruggere le due «capitali» dello Stato islamico in tempi rapidi. Settimane, al massimo mesi. Colpi a sorpresa non sarebbero più tollerati dagli Stati Uniti. La vera incognita è quanto sia ancora forte l’Isis. Visto l’assaggio di venerdì non sarà una passeggiata neanche a Mosul.
Giordano Stabile
(da “La Stampa”)
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Novembre 7th, 2016 Riccardo Fucile
IL LIBRO DI GIUSEPPE LUPO RICOSTRUISCE LA STAGIONE DELLA FABBRICA-COMUNITA’ DI IVREA
«L’idea di fabbrica-comunità concepita da Adriano Olivetti rappresenta qualcosa di unico nel
panorama italiano, probabilmente un’anomalia tanto affascinante quanto vistosa. Il suo obiettivo era finalizzato alla promozione dell’uomo più che a realizzare profitti».
Giuseppe Lupo, scrittore oltre che critico letterario, ha lavorato a lungo sulla letteratura industriale italiana e con il suo nuovo libro ricostruisce quel «laboratorio di idee» olivettiano che fu un confronto tra scrittura, arte, design, architettura, filosofia, sociologia da cui nel 1946 nacque la rivista «Comunità ».
Dalla prima parte del libro, La letteratura al tempo di Adriano Olivetti (Edizioni di Comunità ) , emerge la figura di un imprenditore carismatico e illuminato che legge Maritain, Mounier, de Rougemont, gli «apostoli della Comunità »: «Adriano Olivetti – dice Lupo – si è molto ispirato ai filosofi del personalismo francese. Con una particolarità : ha reso concreto il comunitarismo cristiano, che Maritain e Mounier ritenevano una costruzione teorica».
Oggi cosa rimane di quell’idea?
« In tempi di crisi come questi (crisi di idee, soprattutto) molti invocano il nome di Olivetti, a volte anche con un po’ di sufficienza. Il vero problema è stabilire quanti (imprenditori, politici) siano davvero disposti a concepire il lavoro nelle forme di testimonianza morale, quale veicolo di riscatto non solo economico»
È impressionante la capacità di coinvolgere nel «sogno» di Ivrea il meglio degli intellettuali del tempo (cattolici, socialisti e liberali) all’indomani della caduta del fascismo.
«Come tutti, anche la Olivetti ha attraversato il fascismo, restando indenne, probabilmente grazie alla sua posizione decentrata nella geografia politica. Gli intellettuali coinvolti nel progetto (Sinisgalli, Volponi, Fortini, Bigiaretti, Giudici, Buzzi, Pampaloni, tranne forse Ottieri) rappresentano una garanzia di discontinuità , sono cioè figure che poco o nulla hanno avuto a che fare con l’esperienza del ventennio (Soavi è un caso a parte). Molti (vedi Fortini) sono stati partigiani».
Ansia di progettualità e pianificazione, ma anche diffidenza verso il moderno e nostalgia per la natura. Che cosa si intende per contromodernità ?
«Se per modernità negli anni Quaranta- Cinquanta si intendeva percorrere il mito della città fordista e dell’urbanesimo selvaggio (con le sue deviazioni morali e psicologiche), Olivetti propose un’idea di progresso che andasse decisamente contromano: la comunità a misura umana, delocalizzata ma efficiente nei servizi. Progresso e natura insomma. Qualcosa di antesignano rispetto ai modelli dei distretti».
Qual è l’autore che ha rappresentato meglio di altri l’ideale olivettiano?
«Tenendo presente che non tutti gli intellettuali cooptati da Olivetti condivisero il suo verbo, il più vicino credo sia stato Paolo Volponi, che non solo scrive uno tra i romanzi più belli ispirati da questa esperienza ( Memoriale , nel 1962), ma dedica a Olivetti Le mosche del capitale , definendolo “maestro dell’industria mondiale”. Volponi ha una visione apocalittica dello sviluppo industriale, politicamente scettica verso i modi in cui il capitalismo si andava affermando in Italia, eppure ci dà uno dei documenti più lirici (e nostalgici) del progresso».
Scrivendo di letteratura e lavoro, Calvino parla, con le dovute eccezioni (Volponi), di «kafkismo sociologico» in chiave alquanto sprezzante.
«Per Calvino molta letteratura industriale è grigia, monotona e troppo ideologizzata. Non a caso invocava il paradigma di Kafka quale esempio dell’assurdo e dell’allucinazione con cui venivano raccontate le fabbriche in quegli anni. Una parte di vero nel suo giudizio c’è. Sarebbe stato corretto non fermarsi soltanto ai conflitti di classe, ma raccontare le fabbriche come “una via di libertà ” dalla civiltà della terra».
A un certo punto si segnala una contraddizione, o meglio un pericolo: che il progetto umanistico di Olivetti potesse covare in sè qualcosa di facilmente manipolabile.
«Ogni pianificazione architettonica, che presuppone un sistema di vita organizzato, anche se contiene presupposti utopici e dunque potenzialmente positivi, può nascondere il vizio di una civiltà asfittica, felice, appagante, ma priva di libertà . Tra l’altro, è quasi inevitabile lo sconfinamento nella distopia in presenza del progresso tecnologico, lo dice chiaramente Lewis Mumford. E lo sospetta anche uno dei personaggi del romanzo dell’autore Giancarlo Buzzi, L’amore mio italiano (1963)».
Nella presenza intellettuale a Ivrea non mancano aspetti di ambiguità : Fortini esprime imbarazzo per il suo essere organico alla fabbrica e insieme critico sulla modernità industriale.
«Ognuno dei letterati entrati in contatto con questa realtà ha dato una sua rappresentazione, a volte tragica (Volponi), altre volte grottesca (Ottieri), in altri casi ancora inquieta (vedi Buzzi che scrive una storia di amori clandestini tutta giocata sul tema di una irraggiungibile felicità che si traveste di beni materiali): Buzzi meriterebbe di essere riscoperto, anche per essere stato uno degli uomini più vicini al Movimento di Comunità . Non dimentichiamo che è stato uno dei primi in Italia a scrivere un saggio sulla pubblicità : La tigre domestica , nel 1964, recentemente ripresentato da Hacca. Quanto a Fortini, l’esperienza in Olivetti ha creato in lui una crisi di coscienza: poeta convintamente marxista e nello stesso tempo inventore di slogan pubblicitari».
Uscito dai tradizionali luoghi curiali ed entrato in fabbrica, l’intellettuale italiano non ha finito per accrescere il proprio senso di frustrazione?
«La fabbrica è stata probabilmente l’ultimo dei contesti in cui gli intellettuali si sono illusi di avere un ruolo determinante. Scacciati dalle corti rinascimentali, estromessi dai partiti, messi in crisi dalla civiltà di massa, hanno pensato di ricavarsi uno spazio di azione che fosse anche un modo per influenzare la società . Spesso ne hanno tratto la sensazione di essere servi dei padroni (espressione di Fortini) o di “suonare il piffero” agli imprenditori, come racconta Libero Bigiaretti ne Il congresso (1963)».
Che rapporti si stabilirono tra la rivista e il Mezzogiorno?
«“Comunità ” nasce nel 1946 come una specie di diario di bordo attraverso cui studiare la realtà e stimolare dibattiti. È stata tra le più innovative del Novecento e ha dimostrato di sapersi confrontare con i problemi del proprio tempo. La sfida che la rivista lancia al Mezzogiorno è ambiziosa: quale futuro dare al Sud? E come metabolizzare il passaggio dalla civiltà contadina alla civiltà industriale? “Comunità ” guarda sì alla geografia di Matera (che è la capitale delle città contadine, così la chiama Riccardo Musatti), ma pensa anche a Pozzuoli, la sede del nuovo stabilimento che si inaugura nel 1955, dove Ottieri ambienta Donnarumma all’assalto . Quasi a dire: la via del Sud passa per la riforma agraria ma non dimentica i miraggi delle ciminiere».
Resta il fatto che con la morte di Olivetti si è spenta l’energia della sua visione progettuale.
«La morte di Olivetti, scrive Sinisgalli, è stata una sciagura più della morte di Kennedy. E in questa frase si riassume, penso, il grande travaglio suscitato in chi ha creduto nel Vangelo di quest’uomo. Tutto ciò che è avvenuto dopo la sua morte prematura ha contato in termini negativi non solo per l’azienda, ma anche per il Paese. Mi riferisco, per esempio, alla insensata decisione di bloccare lo sviluppo informatico che nei primi anni Sessanta poneva la Olivetti in una posizione leader nel mondo. Sarò un ingenuo, ma continuo a credere che i progetti hanno le gambe lunghe della storia, che non muoiono facilmente, così come non spariscono i libri, come Città dell’uomo , il testamento morale di Olivetti, che continua a essere ristampato dalle rinate Edizioni di Comunità . Finite le fabbriche, spente le sirene, restano le idee».
Paolo Di Stefano
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 7th, 2016 Riccardo Fucile
IL RETROSCENA: NIENTE PALUDE, AL MASSIMO UN GOVERNO PONTE FINO A MAGGIO
“Si è capito che io vado avanti solo con il Sì? E che se perdo mi dimetto, perchè non ho nessuna intenzione di restare a Palazzo Chigi per farmi rosolare da quelli là ?”. Backstage della Leopolda.
Nel cuore di un privè improvvisato, Matteo Renzi detta la linea ai centurioni.
La camicia bianca è zuppa di sudore, ma lo stringono comunque fin quasi a soffocarlo.
Dal palco, il premier ha appena allargato il fossato che lo divide dalla Ditta, colpevole di manovrare per un “governicchio”.
Ha avvicinato di un altro passo la scissione dei suoi nemici interni. Quanto a se stesso, è deciso a dimettersi in caso di sconfitta.
Non può dirlo pubblicamente, perchè ha deciso di “spersonalizzare” il 4 dicembre, ma mai accetterà di farsi “rosolare”. Ed è questa, assicura, l’unica strada per garantire al Pd – e al renzismo – un futuro alle prossime politiche.
Certo, potrebbero tentare di costringelo a un rapido “traghettamento” verso nuove elezioni. Ma lui potrebbe essere costretto a concedere al massimo un breve sostegno (fino a maggio) a un’altra soluzione – “alla Padoan” – e costruire proprio su questa “distanza” la campagna elettorale.
Candidamente, lo conferma anche Guelfo Guelfi, amico del leader e renziano nel cda Rai: “Vedrete, se perde Matteo si farà da parte, riformerà l’esercito e ci porterà ad elezioni. È questa la nostra finale di Champions, non il referendum. Sì, certo, senza Bersani e i suoi. È quello che aspettiamo da sette Leopolde…”.
I tempi sono duri, i toni adeguati al livello dello scontro.
Abbracci agli amici e botte ai nemici. Quando incrocia l’attore Alessandro Preziosi, lo stringe a sè: “Il tuo intervento mi ha commosso, grazie”.
Al suo fianco, nell’edizione più delicata, c’è anche la moglie Agnese, mentre uno dei suoi figli fa addirittura i compiti nel retropalco.
Sulla scena invece si battaglia. Aver conquistato Gianni Cuperlo alla causa è importante, spiega Renzi, perchè avvicina un primo obiettivo: “Dimostrare che anche la minoranza più ragionevole del Pd è con noi. Ormai è chiaro che chi vota No sceglie un’altra strada”.
Per coprire anche il fianco sinistro, a dire il vero, il capo del governo investe molto anche nella “missione sindaci”. Il primo cittadino di Bari Antonio Decaro marca a uomo il collega di Cagliari, Massimo Zedda – “vieni con noi, entra nel Pd” – mentre proprio l’ex sindaco di Milano è vicino a sciogliere la riserva: “O entriamo nel Partito democratico – è la linea – o costruiamo un soggetto di sinistra che dialoga con Renzi”.
Il secondo obiettivo di Renzi, più delicato, è tenere assieme i gruppi parlamentari. Non può permettersi di perdere il controllo del partito, in caso di crisi.
“Non possiamo accettare la palude”. Gli volteranno le spalle i bersaniani, questo è certo. Non a caso ha bisogno di Dario Franceschini, presente ieri a Firenze.
Sulla sua lealtà i renziani hanno rassicurato il leader, riferendo quanto andrebbe ripetendo in privato proprio il ministro: “Per me dopo Renzi c’è solo Renzi”.
Che prevalga il Sì o il No, resta un dettaglio di non poco conto: con che legge si tornerà a votare? “Se la riforma passa – assicura il capogruppo dem Ettore Rosato – abbiamo già l’accordo per modificare l’Italicum. Anche i berlusconiani ci hanno fatto sapere di essere interessati a ragionare”.
E se invece prevalesse il No? “A quel punto vedo le urne”.
Non tutti, a dire il vero, sono felici di archiviare l’attuale sistema elettorale: “Rinunciare al ballottaggio – ragiona Roberto Giachetti – sarebbe un suicidio. Vogliamo davvero suicidarci?”.
Giachetti comunque si adeguerà alla maggioranza, il problema è l’ostilità della falange del No. Non si tratta solo di Pierluigi Bersani e Roberto Speranza, ormai, in campo c’è anche il “fattore Emiliano”, schierato contro la riforma.
E nelle ultime ore proprio il governatore, conversando con qualche amico che provava a “placarlo”, non ha celato ambizioni di leadership: “Non posso votarla. Lo so, con il No Renzi può cadere e perdere il controllo del partito. Ma tranquilli, nel caso servisse io sono a disposizione…”.
(da “La Repubblica“)
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Novembre 7th, 2016 Riccardo Fucile
“SU QUEL FOGLIETTO DI CARTA C’E’ SCRITTO STAI SERENO”… “I CORI FUORI, FUORI ALLA LEOPOLDA? ARROGANZA E SUDDITANZA”
“Provo grande amarezza, perchè vedo un partito che sta camminando largamente su due gambe:
arroganza e sudditanza. E cosi’ non si va da nessuna parte”.
Lo ha detto Pier Luigi Bersani, parlando delle contestazioni alla minoranza del Pd nel corso della Leopolda, a Firenze.
“Ci vuole libertà , responsabilità , autonomia, democrazia, schiena dritta. Non arroganza e non sudditanza – ha aggiunto Bersani, a margine di un convegno alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo -. Non mi interessano i tifosi leopoldini che urlano ‘fuori, fuori, fuori’, ma tutti gli altri che stanno zitti. Questo non va bene. Sono abituato a una politica diversa. Io non voglio niente, vorrei poter dire la mia finchè è consentito parlare”.
Quanto all’accordo siglato da Gianni Cuperlo per modificare l’Italicum, Bersani resta della propria posizione.
“Un partito che è al governo e ha la maggioranza in Parlamento e pone la fiducia sull’Italicum non può certo cavarsela con un foglietto fumoso. Penso che Renzi voglia tenersi mano libere, altrimenti ci sarebbe stato qualcosa di serio”.”
“Il ‘no’ al referendum è un modo per far saltare l’Italicum – ha aggiunto -, il resto sono chiacchiere. Su quel foglietto c’è scritto stai sereno, ma io voto no”.
“Questa storia che il Pd fa tutto da solo si sta dimostrando debole, abbiamo perso tutti i ballottaggi. Bisogna costruire un area ulivista di centrosinistra, il Pd deve essere una infrastruttura non può essere il pigliatutto con la logica de comando”, ha aggiunto l’ex segretario.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 7th, 2016 Riccardo Fucile
LA MINORANZA DEM: “PAROLE DA CAPO-ULTRA'”
Il “derby” precipita sul Pd. Quando Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani si sentono per un rapido scambio, appena finito il discorso di Renzi, la rabbia per i toni ascoltati alla Leopolda scalda la linea telefonica: “Questo non è nè il discorso di uno statista ne’ di un leader. È il discorso di un capo ultras che aizza le curve. Usa la costituzione prima per dividere il paese, ora per dividere il Pd”.
È così forte la rabbia che, a quel punto, l’ex segretario stacca il telefono, per qualche ora di pace prima di volare a Palermo, per il suo tour siciliano a favore del no, da dove risponderà colpo su colpo.
Mentre Roberto Speranza, invece, inizia a dare interviste ai quotidiani.
Il problema, come in ogni derby, è come si arriva al 90 minuto. Perchè la Leopolda segna il salto di qualità . Nel senso che si è passati dal “noi non ce ne andremo dal Pd che è casa nostra” al “Renzi ci vuole cacciare”.
Gli affondi dal palco contro la Ditta, annoverata nell’elenco degli avversari come Grillo e Salvini, l’ironia su Schifani “che ha cambiato idea per alludere a Bersani” con la complicità della platea, ma soprattutto quei cori: “Fuori, fuori” all’indirizzo dei propri compagni di partito: “Se vince il si – ragiona Speranza con i suoi compagni nasce il Partito di Renzi”.
L’odore della pulizia etnica delle liste già si sente: “Ormai – dice un militante di Montecatini alla Leopolda – l’insofferenza è antropologica, si vive da separati in casa. I bersaniani con me non parlano, io non parlo con loro”.
Gli applausi più forti alla Leopolda sono contro la sinistra interna. Nè c’è un solo dirigente renziano che minimizza i cori “fuori fuori”, o che magari dice “è un errore di qualche scalmanato”, “dal 5 novembre si sta tutti assieme, chi ha votato si e chi ha votato no”: “Renzi – sbotta arrabbiato Bersani – continua a mettere le dita negli occhi alla sua gente, pensando che arrivino i voti delle destra ma sbaglia”.
Accaldato, camicia pezzata di sudore più di quella di Bettino Craxi a Bari, il premier ha chiamato alle armi per la battaglia finale.
Nei toni, però, in parecchi vedono anche evidenti segni di paura, anche tra i suoi: “È stanco, nervoso – dice chi ha scambiato qualche battuta nel backstage – perchè i sondaggi non sono belli”.
I suoi collaboratori coccolano i giornalisti, l’attenzione alla comunicazione, trasmissioni e tg, è quasi maniacale, a vedere gli sguardi preoccupato con cui guardano Marco Travaglio a In Mezz’ora per poi mettere a punto il contro spin.
Uno di loro fa notare che, nel rumore di fumi e tamburi del derby, rischia di sfuggire la “notizia”, ovvero che il premier ha dato appuntamento alla prossima Leopolda dal 20 al 22 ottobre del 2017.
Significa che non solo non cambia mestiere, non solo non lascia la politica, ma che la battaglia continua, sia in caso di vittoria che di sconfitta: “Gli basta lo 0,1 in più per fare piazza pulita” assicurano.
Non a caso Gianni Cuperlo non è stato nemmeno nominato, nè il famoso documento sulla legge elettorale in nome del quale Cuperlo ha rotto, segno che il premier di qui a un mese tutto ha intenzione di fare fuorchè parlare delle modifiche all’Italicum: “Quella bozza – dice Bersani – è un pezzetto di carta che non vale nulla”.
Quel che vale, a questo punto, è solo il risultato al novantesimo minuto: “Sta trasformando in un bunker l’Italia del si – dice Miguel Gotor – lacera il paese, divide il Pd. Con questo approccio già abbiamo visto come sono andate le amministrative. Avrà un risveglio amaro”.
Due milioni di voti del Pd è la cifra stimata per procurare a Renzi questo tipo di risveglio, ovvero un quinto dell’elettorato del Pd.
Questi i calcoli del pallottoliere della Ditta. Risveglio amaro, ma fino a un certo punto, dicono gli altri.
David Ermini, un ragionatore, pacato, parlotta vicino al bar: “Io sono convinto che vince il si, ma nella malaugurata ipotesi che vinca il no, quello che prende Matteo, il 48, il 47, il 49 che sia, è tutto suo. È un capitale politico enorme, mentre nel restante 52 ci sono Grillo, Salvini, D’Alema, Berlusconi. Ma dove vanno?”.
Ipotesi, scenari, timori. 28 giorni al risultato, in un clima infernale dentro il Pd: “Per Renzi – è la battuta che fa spesso Bersani con i collaboratori – il comunista buono è solo quello morto”.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 7th, 2016 Riccardo Fucile
PER UNA SETTIMANA TRUMP AVEVA GUADAGNATO CONSENSI SPECULANDO SU UNA NOTIZIA INFONDATA
In una nuova lettera inviata al Congresso, il capo dell’Fbi, James Comey, ha fatto sapere che il
Bureau non ha cambiato le proprie conclusioni già espresse a luglio per quanto riguarda le indagini sulle email di Hillary Clinton, la quale dunque non sarà incriminata per il cosiddetto email-gate, ossia l’uso esclusivo nei 4 anni in cui è stata segretario di Stato (2009-2013) di un server di posta privato.
Comey ha confermato la scelta dopo la verifica sulle email trovate nel computer di Anthony Weiner, marito del braccio destro di Clinton, Huma Abedin.
L’Agenzia aveva rivelato la scoperta dei documenti il 28 ottobre scorso, a 11 giorni dal voto, annunciando una valutazione sulla loro rilevanza.
“Durante l’intero processo di verifica di tutte le comunicazioni che sono state inviate o ricevute da Hillary Clinton mentre era segretario di Stato – ha scritto Comey – non sono emersi elementi per modificare le nostre conclusioni già espresse a luglio”.
Comey, repubblicano ma nominato dal presidente Barack Obama nel 2013 al vertice dell’Fbi, era stato investito da accuse di ogni tipo dal fronte democratico, a partire dalla stessa Hillary al presidente Obama.
Nel commento sull’esito delle nuove indagini dell’Fbi, rilasciato pochi minuti dopo la diffusione della notizia, Jennifer Palmieri, capo della comunicazione dello staff di Clinton, si è detta “felice di vedere che (Comey) ha deciso, come eravamo certi, di non dover modificare le conclusioni cui era giunto a luglio. Siamo quindi contenti che tutta questa vicenda sia stata risolta”.
Dura invece ovviamente la prima reazione di Donald Trump alla lettera di Comey: “E’ un sistema corrotto. E Hillary Clinton è protetta e lei è perfetta per questo sistema”, ha detto il candidato repubblicano durante un comizio a Minneapolis.
(da agenzie)
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