Novembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
“A TESTA IN SU” DI DI BATTISTA E’ EDITO DALLA RIZZOLI… MA GLI INCASSI COME MAI NON VANNO AL MOVIMENTO?
Alessandro Di Battista, prestigioso esponente del MoVimento 5 Stelle, ha un libro in uscita come tutti i very vip.
Il suo primo tomo (“Sicari a 5 euro”) venne editato dalla Adagio, di proprietà della Casaleggio Associati, ma per questo volume Di Battista si è affidato a una società editrice di maggior peso: la Rizzoli.
E di chi è la Rizzoli? La Rizzoli è stata rilevata dalla Mondadori, di cui la famiglia Berlusconi è azionista di maggioranza tramite il gruppo Fininvest con il 50,39%.
Di Battista ha annunciato che sabato 26 avrà luogo la prima presentazione di “A testa in su, investire in felicità per non essere sudditi“.
Sarà anche che è difficile essere sudditi quando si percepiscono oltre 8.000 euro netti al mesi, ma certamente è insolito che un rivoluzionario scelga una casa editrice “borghese” per veicolare il proprio capolavoro letterario.
Non era più “militante” scegliere la casa editrice vicina alla Casaleggio e annunciare che gli utili sarebbero stati devoluti alle iniziative sul territorio del Movimento o al fondo per le imprese, legato al M5S ?
Non sarà mai che un “rivoluzionario benestante” incassi anche i diritti per un’opera divulgativa della “rivoluzione in marcia”.
E si è mai visto un vero condottiero del popolo che fa guadagnare i “controrivoluzionari” sulla sua opera, percependo lui stesso una mercede dagli stessi?
Più che “testa in su” qui si rischia di dover parlare di “quattrini in più”.
C’è ancora tempo per cambiare il titolo .
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Novembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
IL PREMIER LAVORA CON PISAPIA E ZEDDA A UN SOGGETTO ALLEATO AL PD, NELLA PARTITA ANCHE LA BOLDRINI
È lo schema che alle amministrative della primavera scorsa salvò Renzi, evitando che una sconfitta si trasformasse in una irrecuperabile disfatta.
Il premier-segretario lo chiamò modello-Milano, ed ora è pronto a rilanciarlo su scala nazionale.
Con tre nomi destinati, a giudizio di Renzi, a dare peso e credibilità al progetto.
Due nomi sicuri e ormai acquisiti: quello di Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano, e di Massimo Zedda, quarantenne sindaco di Cagliari; un altro corteggiato, tentato ma non ancora del tutto convinto: quello di Laura Boldrini.
Ed è dunque così, nel buio pesto di questa campagna referendaria, che il presidente del Consiglio sta preparando il dopo: un dopo che – sia che vinca il Sì o che prevalga il No – ha già nell’orizzonte la sfida finale per il governo del Paese.
Renzi è ormai rassegnato all’idea che quella battaglia sarà combattuta con una legge elettorale diversa dall’Italicum: una nuova legge, come si ipotizza, che non prevederà ballottaggio e che sposterà il premio di maggioranza da un partito ad una coalizione – nella migliore delle ipotesi – o che addirittura segnerà uno strabiliante ritorno agli indimenticati fasti del proporzionale.
In entrambi i casi, il Pd dovrà rinunciare all’originaria «vocazione maggioritaria» per cercare alleati e allestire una coalizione: da qui l’idea del rilancio del modello-Milano.
Lo schema è antico e semplice: una lista Pd, una cattolica di centro e una di «sinistra di governo», molto caratterizzata dalla presenza di sindaci legati all’esperienza del cosiddetto «movimento arancione».
Giuliano Pisapia sarebbe pronto a capeggiarla e Massimo Zedda a sostenerla. L’interrogativo – non da poco – riguarda Laura Boldrini, presidente della Camera, figura assai rappresentativa nel mondo della nuova sinistra ma ancora dubbiosa e indecisa.
Matteo Renzi sta insistendo da settimane perchè la presidentessa della Camera accetti di dare lustro e sostanza alla lista di sinistra che vorrebbe alleata alle prossime politiche. Abboccamenti, pour parler, telefonate e una cordialissima chiacchierata la mattina del 4 novembre dopo l’omaggio all’altare della Patria.
Ma più ancora che il premier, è la ministra Boschi – che ha costruito negli anni un buon rapporto con la Boldrini – a tenere i contatti con lei, insistendo sull’importanza di una sua presenza futura.
Per altro, la presidentessa della Camera oggi è – di fatto – un leader senza partito (considerato lo scioglimento di Sel e le difficoltà di Sinistra italiana) e dunque non insensibile a offerte di nuovi impegni e nuove prospettive.
Ed è precisamente in questo quadro – segnato però dall’incertezza circa l’esito referendario – che nel giro stretto del premier e dei suoi pochi consiglieri andrebbe maturando un’ipotesi, una possibilità , sulla quale i ragionamenti sono aperti: indicare al Capo dello Stato proprio Laura Boldrini come la personalità incaricata di guidare un governo d’emergenza in caso di crisi dopo il 4 dicembre.
Si soppesano gli elementi a favore (il fatto che sia donna, l’esperienza su un fronte decisivo come quello dell’immigrazione e l’esser stata più in sintonia di Grasso, presidente del Senato, con alcune politiche del governo) e quelli che suscitano perplessità (il non esser assimilabile in alcun modo al «renzismo» e l’inclinazione a muoversi in maniera autonoma e indipendente).
Se ne ragiona, ma senza perdere di vista quello che resta l’obiettivo principale: acquisire il sostegno di Laura Boldrini alla lista rosso-arancione che il Pd vorrebbe alleata alle elezioni politiche che verranno.
Per altro, con Sel in via di scioglimento e di fronte alle difficoltà di Sinistra italiana a darsi un assetto credibile, l’ipotesi di un raggruppamento nazionale che abbia in Giuliano Pisapia il suo riferimento sta suscitando curiosità e interesse in un’area politica disorientata e sofferente nella tenaglia Renzi-Grillo.
Massimo Zedda ha annunciato che non aderirà a Sinistra italiana e con Giuliano Pisapia ha inaugurato, sul referendum, una posizione inedita: non dicono cosa voteranno, ma annunciano cosa non voteranno.
E naturalmente, guarda un po’, non voteranno No…
Federico Geremicca
(da “La Stampa”)
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Novembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
NON SI E’ MAI VISTO UN COMUNE CHE COMUNICA ATTRAVERSO IL BLOG (PRIVATO) DI GRILLO
L’annuncio di una delibera, il video di un’inaugurazione, una lettera aperta ai romani. Pubblicati però sul Blog di Beppe Grillo, piuttosto che attraverso i più ortodossi canali istituzionali.
A Roma le comunicazioni di Virginia Raggi ai cittadini sono diventate un caso politico. Addirittura un’interrogazione formale discussa durante l’ultimo consiglio comunale: il Pd accusa la sindaca di discriminare gli abitanti che non siano elettori del Movimento 5 stelle, se non proprio di procurare un beneficio economico alla Casaleggio Associati.
La sindaca sostiene di non aver mai utilizzato il blog in via esclusiva, nè che ci sia stato alcun guadagno, e attacca l’opposizione: “Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, lo dice la Costituzione. Noi non possiamo scrivere su un blog, mentre il presidente del Consiglio manda lettere a 4 milioni di italiani per il referendum?”, ha chiesto facendo riferimento alle polemiche sul voto all’estero.
“Cosa c’entra Renzi, lei dice falsità ”, la replica della capogruppo Pd Di Biase (in effetti il paragone c’entra come i cavoli a merenda)
Dell’utilizzo (proprio o improprio) degli strumenti di comunicazione da parte della Raggi a Roma si parla sempre con maggior insistenza da qualche giorno.
Già a metà settembre la prima cittadina aveva scelto il sito del leader del M5s per rivendicare i primi interventi della sua giunta, nel pieno della crisi per le nomine degli assessori.
A inizio novembre, però, gli episodi si sono moltiplicati: l’8 novembre l’annuncio della delibera per la lotta al gioco d’azzardo è arrivato proprio attraverso il blog, con un post da oltre 20mila condivisioni (che aveva fatto storcere il naso a mezza opposizione, che di quell’atto non ne sapeva nulla).
Poi il giorno dopo è stata la volta dell’inaugurazione dei 150 nuovi bus e della sperimentazione dei controllori fissi a bordo; prima sul blog, solo dopo sul sito del Comune.
Così le proteste del Pd sono finite nero su bianco in un’interrogazione firmata da Michela Di Biase, la capogruppo dem moglie del ministro Dario Franceschini.
“Nei miei post non c’era alcuna forma di pubblicità , quindi nessun guadagno” replica la Raggi.
Il dubbio che qualche leggerezza dal punto di vista comunicativo sia stata commessa, però, resta.
E forse non a caso di recente lo staff della sindaca ha intensificato l’attività di informazione sul sito del Comune, e da pochi giorni ha anche aperto una nuova apposita sezione chiamata “La sindaca informa”.
“Evidentemente la Raggi è corsa ai ripari”, spiega la Di Biase. “E comunque non ha risposto nel merito, perchè i profitti su internet non derivano solo dai banner pubblicitari ma anche dal numero di accessi, al cui incremento la sindaca sicuramente ha contribuito”. Per questo dal Pd adesso continueranno a tenere gli occhi aperti: se dovessero verificarsi nuovi episodi di comunicazione esclusiva non escludono di presentare un esposto contro la sindaca.
Ma la Raggi, probabilmente, starà più attenta.
Lorenzo Vendemiale
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Novembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
MA RISCHIA DI FINIRE INVISCHIATA IN ACCUSE GRAVI
Una piccola e tipica bomba a 5 Stelle sta per scoppiare a Roma.
Virginia Raggi aveva annunciato una guerra ad ACEA durante la campagna elettorale, confermando però poi i vertici alla vigilia del voto.
Oggi Il Fatto Quotidiano racconta di una lettera inviata dal Comune di Roma al management dell’azienda municipalizzata e quotata in Borsa nella quale l’azionista di maggioranza chiedeva “di fornire (…) il documento di due diligence” dell’operazione in corso e “la sospensione in via cautelativa” dell’acquisizione di Idrolatina, che controlla il 49% di Acqualatina, società che gestisce il servizio idrico integrato di 35 comuni laziali con un bacino di circa 270 mila utenti e una rete di 3.500 km.
Il restante 51% del capitale di Acqualatina resterà nelle mani dei Comuni dell’Ambito Territoriale Ottimale4 del Lazio Meridionale. E sta proprio qui la parte interessante della vicenda.
Tutto infatti comincia il 13 novembre scorso, quando proprio Il Fatto racconta che i comitati per l’acqua pubblica e il sindaco di Nettuno Angelo Casto hanno tentato di contattare Virginia Raggi per fermare l’acquisizione, all’epoca annunciata sui giornali, di Acqualatina da parte di ACEA: “Oggi la maggioranza dei sindaci e dunque delle comunità da loro rappresentate appartenenti all’Ato4 —scrivevano i primi cittadini lo scorso luglio — è favorevole alla pubblicizzazione del sistema idrico ”.
Un fronte ampio, pronto a scontrarsi con Acea.
Nel documento firmato dai sindaci della Provincia di Latina c’era anche l’appello alla sindaca di Roma Virginia Raggi per fermare l’operazione di Acea.
“Solo ieri — racconta il sindaco di Nettuno — dopo 3 mesi mi ha risposto il suo staff, chiedendomi di dire che ‘al momento non mi risulta nessun atto ufficiale di Acea’”.
Il portavoce della sindaca di Roma — interpellato dal Fatto — spiegava che non era possibile intervenire direttamente, “per evitare un’accusa di aggiotaggio, essendo Acea quotata in Borsa ”.
Nessun commento sulle richieste inviate quattro mesi fa dai sindaci e dai comitati della Provincia di Latina a Virginia Raggi.
E infatti cosa ha fatto la Raggi, secondo quanto racconta oggi proprio Andrea Palladino sul Fatto? È intervenuta direttamente cercando di fermare ACEA:
Lo scorso 17 novembre —dopo che le voci sull’acquisto venivano confermate da un intervento del l’ad della società romana, Alberto Irace —Virginia Raggi decide di intervenire: “Vi scrivo come socio di maggioranza detentore del 51% del capitale sociale”, è l’incipit di una lettera inviata al presidente di Acea Catia Tomasetti e all’amministratore delegato.
Raggi solleva quattro perplessità sull’operazione di acquisizione di Acqualatina: “Il rilevante indebitamento ”,“la deliberazione (…) della conferenza dei sindaci dell’Ato 4 ”che chiedevano di ridiscutere “il modello di gestione del servizio idrico”,“il debito pari a 23.289.000 euro verso i Comuni” di Acqualatina e “il decreto ingiuntivo del Comune di Nettuno contro Acqualatina (…) per la somma di 1.833.005 euro”.
E infine il motivo più politico, ma di estremo peso: “Sarebbe opportuno tenere in considerazione la coerenza delle azioni da voi attivate con gli esiti della consultazione referendaria tenutasi nel mese di giugno 2011”.
In altre parole, ricordatevi che c’è un voto popolare da rispettare.
Alla fine la sindaca Raggi — che rappresenta il socio di maggioranza assoluta — chiede due cose: “Si richiede di fornire (…) il documento di due diligence ”dell’operazione in corso e “la sospensione in via cautelativa”dell’acquisizione. Un messaggio chiaro e diretto, protocollato da Acea lo scorso venerdì, come ha potuto verificare il Fatto.
Che accade? Nulla, fino a ieri mattina.
Ieri mattina viene comunicato l’acquisto. E questo viene interpretato dal M5S come una dichiarazione di apertura delle ostilità : «Sappiamo che non sarà facile, ma da oggi è guerra”, spiegano da ambienti vicini alla giunta secondo il virgolettato del Fatto
Ma quale guerra, Raggi?
Ma la Raggi con quella lettera si sta invece per infilare in una guerra sporca dalla quale rischia di uscire con le ossa rotta.
In primo luogo, giusto per rispondere alle accuse della sindaca, bisognerebbe ricordare che ACEA ha acquisito una percentuale di minoranza della società Acqualatina, pari al 49%: il 51%, ovvero la maggioranza delle azioni, rimane saldamente in mano al consorzio dei comuni, cioè in mano pubblica.
Ecco perchè, posto che non spetterebbe certo al Comune di Roma, come un’avvocata del calibro della Raggi dovrebbe di certo sapere, di sancire eventuali violazioni degli esiti della consultazione referendaria del 2011, la risposta alla domanda della Raggi è nello stato delle cose.
Acqualatina è ancora a maggioranza pubblica e quindi l’esito del referendum è rispettato.
Ma c’è di più.
Nell’articolo pubblicato appena dieci giorni fa sul Fatto il portavoce della Raggi diceva che un intervento della Giunta nella governance di ACEA avrebbe potuto far sollevare l’accusa di aggiotaggio.
Così dicendo, anche se il quotidiano non lo ha rilevato, non si capisce perchè quattro giorni dopo la sindaca abbia cambiato idea e inviato la lettera.
E la lettera di certo rappresenta un’ingerenza nella governance, anche perchè chiede la due diligence sui conti della società acquistata, un documento che di solito viene vagliato dagli amministratori e non certo dagli azionisti.
Senza contare che la questione del tradimento del referendum è falsa.
Insomma, non si capisce chiaramente in cosa consista la dichiarazione di guerra nei confronti dell’AD Irace, che nell’articolo viene accusato addirittura di essere “renziano” mentre si sottolinea che con la decisione di ACEA arriva “una guerra per l’acqua nella Capitale, dichiarata forse non casualmente poco prima del voto referendario sulla Costituzione“: ancora, che c’azzecca il referendum?
La verità è che Raggi, azionista di maggioranza di ACEA, può scegliere diversi rappresentanti del consiglio di amministrazioni rispetto a quelli che attualmente siedono. Lo faccia e ne paghi le eventuali conseguenze in Borsa, se ha davvero nomi alternativi da proporre.
Il resto, dal renzismo altrui al referendum, è solo demagogia.
Piccola, squallida, triste demagogia.
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
A CONTEGGI ULTIMATI SI SCOPRE CHE LA CLINTON NEL VOTO POPOLARE HA VINTO CON CIRCA 2 MILIONI DI VOTI IN PIU’ DI TRUMP
Hillary Clinton deve chiedere un “recount”.
Un comitato di analisti, universitari e attivisti democratici, di cui fa parte il National Voting Rights Institute, chiede alla candidata uscita sconfitta dalle urne lo scorso 8 novembre di muovere un passo ufficiale e contestare la vittoria di Donald Trump, chiedendo un nuovo conteggio dei voti negli Stati chiave delle presidenziali.
Il motivo è che, a loro modo di vedere, seri indizi fanno sospettare che il trionfo del tycoon sia stato favorito dall’intervento di hacker stranieri, specialmente russi.
Secondo fonti citate dal Guardian, questo comitato presenterà la prossima settimana un rapporto alle autorità federali e al Congresso americano, un documento di 18 pagine che analizzerà nel dettaglio il voto in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, stati in cui Trump è riuscito a prevalere con un margine molto ristretto (addirittura il Michigan non è ancora assegnato ufficialmente).
“Sono interessata a verificare il voto”, dice al Guardian Barbara Simons, esperta di voto elettronico.
“Il nostro Paese ha bisogno di un’indagine pubblica e approfondita del Congresso sul ruolo che potenze straniere hanno svolto negli ultimi mesi fino al voto di Novembre” avevano scritto in una lettera aperta ai parlamentari una decina di accademici esperti di analisi dei flussi elettorali e di cybersecurity.
I teorici del complotto hacker vedono alcuni indizi, ad esempio, nel voto al Cedarburg Community Center di Milwaukee, in Wisconsin, dove Trump ha preso via Internet un numero di voti sproporzionato rispetto a quelli ottenuti con le tradizionali schede elettorali cartacee.
Il guru delle analisi elettorali in America, Nate Silver, fondatore del sito Fivethirtyeight, spiega tuttavia questa divergenza con le differenze di razza e istruzione, che hanno inciso molto sul voto all’uno e all’altro candidato alle presidenziali.
Secondo il New York Magazine, il capo della campagna elettorale di Clinton, John Podesta, ha incontrato gli attivisti e secondo fonti ben informate del Guardian lo stesso Podesta avrebbe affrontato il tema anche con la presidente del Comitato nazionale democratico Donna Brazile, riflettendo con lei sulla correttezza del risultato del voto.
Per Hillary Clinton, tuttavia, che ha attaccato più volte Donald Trump per aver denunciato il pericolo di brogli, non è una situazione semplice da gestire nè un passo agevole da compiere.
Il conteggio dei voti non è ancora terminato.
Hillary è in vantaggio netto, almeno 1,7 milioni di preferenze, rispetto a Donald Trump. Un distacco che potrebbe addirittura superare i 2 milioni di voti.
Per questo nell’occhio del ciclone dall’8 novembre scorso è il sistema elettorale americano, che dà la vittoria al candidato che ottiene la maggioranza dei seggi elettorali assegnati dai diversi Stati, 290 per Trump, 232 per Clinton.
Un sistema che non piace neanche al presidente eletto: “Non sono mai stato un fan del collegio elettorale – ha detto ieri The Donald al Nyt – Andrei piuttosto con il voto popolare”.
Quello che però avrebbe assegnato la vittoria alla sua rivale.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
“IL CREMLINO USA THINK TANK, TV, PSEUDO-AGENZIE DI STAMPA PER DESTABILIZZARE L’EUROPA”
La pressione propagandistica da parte della Russia e di gruppi terroristi islamici sull’Unione europea “sta crescendo”.
Lo sostiene una risoluzione approvata oggi dal Parlamento europeo, in cui si sottolinea anche come il Cremlino stia “finanziando partiti e altre organizzazioni all’interno dell’Ue” di ispirazione antieuropea.
“Il governo russo – si legge nel documento votato dall’assemblea di Strasburgo – sta utilizzando un ampio ventaglio di strumenti come think tanks, tv multilingua come Russia Today, pseudo-agenzie di stampa e service come Sputnik, social media e troll sul web per sfidare i valori democratici e dividere l’Europa”.
La risoluzione sottolinea la necessità per l’Europa di contrastare queste “campagne di disinformazione” e suggerisce di rafforzare la task force per la comunicazione strategica dell’Ue già al lavoro a Bruxelles e di investire di più per promuovere consapevolezza, educazione, media online e locali, giornalismo investigativo e alfabetizzazione nel campo informativo
La risoluzione è stata approvata con 304 voti a favore, 179 contrari e 208 astensioni.
La relatrice, la conservatrice polacca Anna Fotyga, ha apertamente ricondotto l’opera di “disininformazione e manipolazione da parte della Federazione russa” di cui “molti Paesi sono pienamente consapevoli” alla posizione dell’Unione contro “l’annessione della Crimea e l’aggressione all’Ucraina orientale” da parte di Mosca nel 2014, da cui sono derivate le sanzioni economiche adottate contro la Russia nel 2014.
“Anche questo rapporto – ha aggiunto Fotyga -, mentre era in via di preparazione, è finito nel mirino di una propaganda ostile”.
Il mese prossimo l’Unione Europea sarà chiamata a estendere le sanzioni contro la Russia, che già includono restrizioni poste all’accesso delle banche russe ai mercati monetari.
Il documento approvato a Strasburgo segna evidentemente un punto a favore di chi propende per la linea dura contro il Cremlino rispetto a Paesi membri Ue, come l’Italia e l’Ungheria, che avevano con la Russia un forte scambio commerciale e sentendosi piuttosto danneggiati vorrebbero porre fine alle sanzioni denunciando la loro “inefficacia”.
Ma la risoluzione di Strasburgo potrebbe suggerire anche sanzioni contro i media russi, come l’agenzia Sputnik e il canale Russia Today.
Per il presidente Putin, sanzionare i mezzi di informazione russi come proposto dai legislatori europei testimonia il degrado della democrazia in Europa.
(da “Huffingtnopost”)
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Novembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
ADDIO AL PAREGGIO DI BILANCIO, RIDUZIONE DELLE PREVISIONI SUL PIL
Londra misura l’effetto Brexit: quattro anni di flessione del ritmo di crescita, l’addio al pareggio di bilancio, un boom del debito pubblico, costi aggiuntivi per 122 miliardi di sterline nei prossimi 5 anni.
IL PIL RALLENTA
Nell’Autumn Statement il Cancelliere per lo Scacchiere inglese, Philip Hammond, ha delineato uno scenario economico che, dopo un buon 2016, vede un progressivo rallentamento, che si protrarrà nel tempo.
L’anno in corso andrà meglio delle previsioni, con il Pil a +2,1% contro il 2% stimato a marzo, poi gli effetti del “Leave” si abbatteranno sulla Gran Bretagna.
Nel 2017 il Pil britannico si fermerà all’1,4%, ben 0,8 punti sotto le precedenti previsioni; nel 2018 il Pil dovrebbe registrare un +1,7%, con una revisione delle stime di 0,4 punti; nel 2019 la crescita arriverà al 2,1%; nel 2020 al 2%.
Solo nel nuovo decennio la Gran Bretagna riprenderebbe il ritmo di crescita immaginato nell’era pre-Brexit.
A pesare sarà soprattutto la pesante flessione dei consumi.
ADDIO PAREGGIO DI BILANCIO.
Il governo britannico stima in 122 miliardi di sterline, pari a 143 miliardi di euro, le spese aggiuntive che dovrà fronteggiare nei prossimi 5 anni per uscire dall’Unione europea.
La cifra corrisponde, secondo quanto riferisce il governo, alle spese aggiuntive previste per coprire il periodo fino all’inizio del 2021, in cui Londra ha stimato un rallentamento della crescita economica.
Il responsabile del Tesoro ha detto che Londra ha formalmente abbandonato il suo piano di raggiungere il surplus di bilancio entro il 2020, rinviando il progetto a data da destinarsi.
Nel periodo 2017/2018 il debito pubblico dovrebbe così portarsi su un picco pari al 90,2% del Pil.
“Il nostro compito ora è preparare l’economia a essere forte nel momento in cui usciremo dall’Unione europea e in buona forma per la transizione che seguirà “, ha spiegato Hammond al Parlamento di Westminster.
SPINTA SUGLI INVESTIMENTI.
Hammond ha annunciato che la corporate tax nel 2020 scenderà al 17%, un provvedimento atteso dopo che il primo ministro Theresa May aveva annunciato una misura per la competitività . È previsto anche un fondo da 23 miliardi di sterline per stimolare la produttività .
Il Governo intende portare l’investimento in infrastrutture economiche all’1-1,2% del Pil dal 2020, rispetto all’attuale 0,8%.
Il governo intende inoltre sostenere il settore immobiliare e a questo scopo ha promesso investimenti per 1,4 miliardi di sterline per la costruzione di 4 mila nuove abitazioni, mentre allo stesso tempo propone di cancellare la cifra dovuta dalle famiglie alle agenzie immobiliari al momento della sottoscrizione di un contratto di affitto.
Tali costi si attestano in media a 337 sterline (quasi 400 euro) secondo il ministero. Un miliardo di sterline sarà destinato alla fibra ottica e alla diffusione del 5G nel Paese.
Per venire incontro invece alle esigenze delle fasce di popolazione meno abbienti, il Governo ha annunciato l’aumento del salario minimo del 4% a 7,5 sterline all’ora, pari a 8,8 euro, a partire dall’aprile 2017.
Lo scorso marzo la cifra era stata già aumentata da 6,70 a 7,20 sterline.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
“NON SI FARA’ LOGORARE, LUI RESTA SOLO PER CAMBIARE”…NESSUN INCIUCIO CON BERLUSCONI, NON DARA’ UN ARGOMENTO A GRILLO… E SARA’ UNA CAMPAGNA ELETTORALE TUTTA ALL’ATTACCO, FORTE DELLA PERCENTUALE RAGGIUNTA DAL NO
Per la prima volta il “piano b” di Matteo Renzi, in caso di vittoria del NO, esce dai retroscena.
E ne parla uno dei pesi massimi del Pd, il vicesegretario Lorenzo Guerini sulla scena di Bloomberg, l’agenzia di stampa economica più vista dalla comunità finanziaria internazionale. Soggetto e contesto rendono la notizia assolutamente rilevante.
Ecco il passaggio chiave di Guerini: “If there is the political will, we can work over a brief period on a new electoral law, and have elections with a new electoral law soon, by the summer of 2017,” Guerini said in his Rome office. “If there are not the political conditions and the electoral reform is used as an excuse for a weak government surviving, we’re not interested.”
Certo, precisa poi Guerini, “sul voto decide il Colle”. Ma il senso politico è chiaro.
Se vince il no la linea è: legge elettorale e voto anticipato.
“Ne trarremo le conseguenze” precisa anche Orfini, nel primo giorno in cui si parla del “dopo”.
Tasselli in più rispetto alle parole d’ordine del premier degli ultimi giorni: “no a inciuci”, “no ai governicchi”, “se non volete cambiare trovatevene un altro”.
Tasselli che dice quanto sia cambiata la linea rispetto al “se perdo lascio la politica” e che fa capire come a palazzo Chigi si sta pesando a come governare una complicata transizione che consenta a Renzi di tenere il partito e di ricandidarsi a palazzo Chigi.
Al momento l’idea è quella di consentire la nascita di un governo che faccia la legge elettorale e porti al voto in sei mesi, entro la primavera.
Legge elettorale resa necessaria da una doppia necessità : quella di avere un sistema di voto anche per il Senato e quella più politica di avere una legge più favorevole a contrastare l’avanzata grillina, perchè in fondo questo referendum si configura già come un ballottaggio.
Il problema non sono le consultazioni, perchè è chiaro che Renzi salirà al Colle in quanto segretario del Pd e sarà il king maker di qualunque governo, forte anche di un risultato delle urne “tutto suo”, come amano dire i renziani: “Perde con il 48? Il 49? Quel 48-49 è tutto suo mentre nel 51 c’è l’accozzaglia”.
Insomma, è il segretario di maggioranza relativa, ha mezzo paese con sè.
È chiaro — e Mattarella non ha alcuna intenzione di fare un “governo del ribaltone” — che senza il suo consenso non nasce il governo.
Per capire il “piano b”, però, e qui torniamo nei ragionamenti in progress, il punto è quale tasso di coinvolgimento politico avrà il Pd in questo governo.
Più fonti spiegano che si tratta di un governo “su cui Renzi non mette la faccia”, ovvero ne rende possibile la nascita ma non si tratta di un governo in cui il Pd entrerebbe organicamente.
Una specie di appoggio esterno pur consentendone la nascita.
Nè, al momento, accetterebbe un accordo con Berlusconi e Forza Italia, che equivarebbe a mettere legna nel falò grillino.
Altro che grande coalition, come ha auspicato l’ex premier a Porta a Porta.
E dove metterebbe la faccia Renzi? Si metterebbe alla guida del partito per affrontare un’ordalia congressuale, contro Bersani&Co — per la serie “ho perso per colpa vostra” — contro l’accozzaglia, contro il partito dell’inciucio che ha bloccato la rivoluzione. Per tornare, poi, da candidato premier.
Nel Palazzo già va forte il toto nomi su “chi andrà a palazzo Chigi”.
Il più gettonato è quello di Pier Carlo Padoan, l’attuale ministro dell’Economia perchè è figura “tecnica”, di assoluta fiducia di Renzi, “colui che ha scritto la finanziaria che sarà da approvare al Senato”: un governo a cui non sarebbe difficile, come si dice in gergo, “staccare la spina”.
L’altro è Piero Grasso, il presidente del Senato. E questo sarebbe il classico governo istituzionale, nato su impulso del capo dello Stato di fronte all’impasse. Costituzionalisti che hanno familiarità con gli uffici giuridici del Colle già indicano i precedenti di una soluzione di questo tipo.
Il primo riguarda l’aprile 1987, quando l’incarico di formare un governo fu dato ad Amintore Fanfani, allora presidente del Senato.
Il secondo, nel giugno 1989, quando fu dato allora presidente Giovanni Spadolini.
Il terzo, nel gennaio 2008, quando Giorgio Napolitano diede a Marini un mandato esplorativo per vedere se c’erano le condizioni di un “governo per la legge elettorale”. Nessuno dei tre ebbe una gran fortuna, ma i precedenti indicano una prassi consolidata per un governo istituzionale che faccia la legge elettorale.
Le incognite, nell’ambito del “piano b”, riguardano il partito.
Perchè è chiaro che tutti questi ragionamenti si fondano su un presupposto. E cioè che il premier continui ad avere il controllo del partito e dei gruppi.
Nel giro stretto del premier si chiedono: “Che farà a quel punto Orlando? E Martina?. Vogliono rimanere al governo e giocheranno una partita autonoma nel Pd?”.
E ancora: “I gruppi reggeranno e saranno disposti a staccare la spina?”, “sulla legge elettorale Renzi avrà la forza di tenere tutti su una proposta o ognuno avrà la sua e sarà difficoltà chiudere in sei mesi?”
A dodici giorni dall’ora X del 4 dicembre regge ancora il “piano b” che mette in chiaro Guerini.
Ma, al tempo stesso, parlando con più fonti, sembra anche un modo per esorcizzare un dato che suscita timore.
E cioè che il governo sia una colla indispensabile per Renzi per tenere i suoi, qualora il referendum dovesse sancire l’esaurimento dell’altra di colla, il “con me si vince”.
E se gli chiedessero di rimanere, non solo Bersani e D’Alema, ma anche Mattarella, i cantori della “stabilità ” a tutti i costi e i suoi, affezionati alle leve del comando?
Per ora, nei conciliaboli sul piano b, rispondono: “Non si farà logorare. È uno che resta solo per cambiare”. Meno dodici.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
A PORTA A PORTA EMERGE LA SUA STRATEGIA: PROPONE IL PROPORZIONALE E LA GRANDE COALIZIONE ALLA TEDESCA
Dichiarasi strenuamente contro la riforma Boschi facendosi però lungamente desiderare in campagna elettorale.
Annunciare per mesi ri-discese in campo, salvo aspettare l’ultimo minuto per farlo. Chiamare Matteo Renzi “dittatore” o “affabulatore” e, allo stesso tempo, definirlo “unico leader in campo” (a parte lui, si intende).
Oscillazioni, ambiguità , evidenti anche ai suoi alleati di centrodestra. Ora, a due settimane dal voto, Silvio Berlusconi torna in televisione — da sempre suo pulpito preferito — e i tentennamenti degli ultimi tempi trovano la loro esegesi in due parole: grosse koalition.
‘Porta a porta’ è la prima di una serie di apparizioni televisive che l’ex premier ha programmato da qui al 4 dicembre.
Nel salotto di Vespa, il leader azzurro mette insieme le ragioni della politica e quelle delle aziende che spesso negli ultimi mesi sono sembrate in rotta di collisione, ma alla fine si ritrovano ad essere collimanti.
Perchè l’obiettivo del Cavaliere è sempre stato uno: tornare a contare per salvare l’uno e le altre.
In fondo è lui stesso ad ammettere quanto le due sfere siano sovrapposte.
Confalonieri e tanti dentro Mediaset voteranno sì — spiega – perchè “hanno paura della possibile ritorsione di chi è al potere” ed “essendoci dentro queste aziende una maggioranza di risparmiatori, certe dichiarazioni di Confalonieri sono attribuibili alla difesa di questi risparmiatori e investitori”.
Sul suo no si concede anche una battuta, scherzare con l’ambiguità evidentemente gli fa gioco. “Perchè lo faccio? Sa che me lo domando anch’io…”, dice prima di partire con l’elenco di “ragioni molto serie” per le quali giudica questa riforma “inefficace”.
E allora va bene anche che, pur avendo basato buona parte della sua storia politica sul bipolarismo, rimanga folgorato sulla via del proporzionale.
Adesso quel sistema da prima Repubblica sulle cui ceneri ha costruito il suo impero politico gli sembra la soluzione perfetta per superare l’Italicum, con l’aggiunta di uno sbarramento per esempio del 5% per metter “un limite ai partiti minori” e dunque “arrivare a una grosse koalition”.
Così, conferma, Forza Italia potrebbe presentarsi “da sola” ed evitare che “gioco forza, il centro moderato e la destra stiano insieme”.
A quel punto, basterà tornare a raccogliere il 15% di consensi per essere della partita. E, magari, anche ago della bilancia. Tu chiamalo se vuoi, post Nazareno.
A differenza dei suoi alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni, d’altra parte, Berlusconi non sembra avere tutta questa fretta di andare a votare.
Cosa accadrà se dovesse vincere il no? “Questo governo — si dice sicuro – non cade” perchè “Renzi ha una maggioranza, una maggioranza che non convince ma c’è” e poi — sottolinea — “non credo ci vorrà poco tempo per cambiare l’Italicum”.
L’ex premier mette in chiaro anche di non fidarsi affatto delle promesse di modifica della legge elettorale fatte dal presidente del Consiglio.
“Se questo accadrà benissimo, ma oggi — sottolinea – è soltanto una promessa e questo governo di promesse ne ha fatte tante e non le ha mantenute”.
Il suo messaggio a chi di dovere, intanto, lo ha mandato. Ora bisogna vedere chi e se lo raccoglierà .
(da “Huffingtonpost“)
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