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BOSSI SFIDA SALVINI: “LA BASE NON LO VUOLE PIU’ COME SEGRETARIO, SI FACCIA IL CONGRESSO”

Novembre 27th, 2016 Riccardo Fucile

“BASTA CON QUESTO PARTITO NAZIONALE, I MILITANTI SONO STANCHI”… “LUI DICE CHE HA I VOTI? I VOTI NON SERVONO A NULLA SE NON SAI PER COSA LI PRENDI”

Il Senatùr torna nell’arena in un pomeriggio qualsiasi di novembre. Per bocciare la Lega Nord formato nazionale e mettere un’ipoteca sul futuro del Carroccio. “Rischia di cambiare la Lega? No, rischia di cambiare il segretario, la base non vuole più Salvini, non vuole più uno che ogni giorno parla di un partito nazionale”.
Umberto Bossi piazza la zampata a margine della festa per i 30 anni della prima sede del Carroccio, in piazza del Podestà , a Varese
Proprio quando la Lega è chiamata a dimostrare di poter aspirare al rango di partito nazionale e Matteo Salvini si gioca le proprie chance per mettersi alla guida del centrodestra, il presidente lancia il suo richiamo alle origini e mette nel mirino il segretario nazionale, chiedendo che si tenga il congresso federale al più presto, visto che “il 16 dicembre scade il mandato”.
E chi dev’essere il nuovo segretario? “Lo deciderà  il congresso — ha risposto — il congresso è sovrano”.
“Salvini ha i voti? I voti non servono a niente, se non sai per che cosa li prendi“, ha aggiunto Bossi parlando con i giornalisti.
Secondo l’ex leader della Lega, “alla base, soprattutto in Lombardia e in Veneto, non frega niente dell’Italia“.
Quindi, a suo avviso, ci vuole un nuovo congresso federale che stabilisca una linea, anche se per Bossi la linea è una sola: l’indipendenza della Padania, che è scritta nel primo articolo dello Statuto della Lega Nord.
E, possibilmente, “un nuovo segretario, uno che si attenga allo Statuto e non faccia quello che vuole”.
La prima sede del movimento a Varese, aperta nel 1986, è un bilocale, ancora in affitto.
Il Senatùr si è seduto alla scrivania, sigaro in bocca. E ha salutato i militanti, alcuni c’erano già  trent’anni fa.
Poi ha tagliato la torta insieme a Roberto Maroni e all’ex senatore Giuseppe Leoni, fra i fondatori della Lega Lombarda con Bossi nel 1984.
Mentre si alzava dalla scrivania, Bossi ha notato un manifesto dell’epoca con lo slogan Più lontani da Roma, più vicini all’Europa.
“Bisogna mandarlo a Salvini!”, ha esclamato, scoppiando in una risata.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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MATTEO A CASA DI SILVIO PER RUBARGLI I VOTI: NEL SALOTTO DELLA D’URSO ELOGIA IL CAV E STRIZZA L’OCCHIO ALL’ELETTORATO DI CENTRODESTRA

Novembre 27th, 2016 Riccardo Fucile

CONFRONTO A DISTANZA TRA RENZI E BERLUSCONI SU CANALE 5

Matteo si ispira a Silvio a casa Berlusconi. Anzi, di più. Renzi tenta il gioco della sostituzione. Veste i panni politici, a volte retorici, del leader di Forza Italia e patron di Mediaset per sfondare tramite Canale 5 nell’elettorato berlusconiano.
Lo fa nel confronto a distanza con il leader di Forza Italia nel salotto di Barbara D’Urso di Domenica Live.
In fondo l’aveva detto a fine settembre: “Inutile girarci intorno. I voti di destra saranno decisivi al referendum”.
E infatti Matteo Renzi nello sprint finale strizza l’occhio al popolo di centrodestra e non attacca mai Silvio Berlusconi, piuttosto ne fa un elogio di quando, da presidente del Consiglio, voleva riformare la Costituzione e gli è stato impedito a causa della bocciatura nel referendum del 2006.
Renzi intreccia il piano personale a quello politico e dice: “Mi ha colpito molto una dichiarazione di Berlusconi dell’8 giugno 2006, quando disse che se gli italiani avessero votato no alla sua riforma non sarebbe cambiato nulla per anni. Me lo ricordo quel giorno perchè è nata mia figlia Ester, che adesso ha dieci anni. Se ora il vince il no quando vedremo la prossima riforma, quando mia figlia avrà  20 anni?”.
Quasi a sposare quella riforma che venne bocciata nelle urne, Renzi punta sulla spaccatura nell’elettorato di destra e spera di invogliare coloro che dieci anni fa votarono Sì a fare lo stesso il 4 dicembre in nome del cambiamento.
Lo slogan berlusconiano di dieci anni fa sembra lo stesso del renzismo di oggi: “Se voti No non cambia nulla”.
Nel tutti contro Renzi, il premier sa bene che deve guardare al di là  del Pd: “In questo referendum i partiti non contano niente, decidono i cittadini”.
Quindi: “Non voglio minimamente fare polemica con gli altri”. Nè tantomeno con Berlusconi, che in studio, tra l’altro, era stato accolto da una standing ovation.
Tuttavia il presidente del Consiglio ricorda, e qui si rivolge di nuovo all’elettorato di centrodestra ma senza alzare i toni, che Forza Italia in primo momento aveva votato Sì sia alla riforma costituzionale sia alle legge elettorale.
Circostanza che Berlusconi non smentisce: “All’inizio l’abbiamo condivisa anche noi. E facemmo un patto con Renzi per lavorare insieme ma poi il premier in Consiglio dei ministri decise sul nuovo Senato senza consultarci”.
A proposito dell’apertura del leader di Forza Italia a sedersi al tavolo per rivedere la legge elettorale, Renzi si rivolge direttamente a Berlusconi: “Siccome riguarda tutti la cambiamo ma non c’entra niente con la riforma costituzionale che riguarda il numero dei politici, non il modo in cui vengono eletti. Vogliamo fare un accordo? Ok, la legge elettorale si cambia. Ma l’importante è che poi Berlusconi non ricambi idea. Ma non c’entra niente con il Sì o No”.
Ed è qui che Renzi inizia con i toni anti Casta per far leva sull’antipolitica: “Diminuiamo i parlamentari e le leggi avranno un iter più veloce. Questa riforma non è per il governo di adesso, ma per il governo del futuro. Se volete cambiare le cose e dire basta alla Casta c’è la matita il 4 dicembre. O per i prossimi 10, 15, 20 anni, io vi guarderò discuterne dalla tv con i pop corn”.
È malinconico il saluto che fa il premier direttamente dagli studi di Canale 5 : “Il 22 dicembre ci sarà  l’inaugurazione della Salerno-Reggio Calabria. Sicuramente sarà  inaugurata, poi vedremo chi ci sarà  al governo…”.
Anche qui Matteo come Silvio. Teme che la sua riforma venga bocciata come fu per quella di Berlusconi dieci anni fa.

(da “Huffingtonpost”)

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LE STRADE DEL QUIRINALE NEL CASO VINCESSE IL NO E IL RUOLO DECISIVO DEL PD

Novembre 27th, 2016 Riccardo Fucile

MATTARELLA IRRITATO PER I SOSPETTI PREVENTIVI DI BROGLI

Anche per il Quirinale i toni incandescenti del dibattito pubblico rischiano di rendere la sfida del 4 dicembre «aberrante», per stare alla definizione data da Napolitano.
Ma, posto che un certo grado d’imbarbarimento sia scontato in una consultazione divisiva com’è sempre un referendum, è un’altra la questione che davvero preoccupa, lassù, in questi giorni: la minaccia preventiva di non riconoscere il risultato delle urne. A lanciarla alcuni esponenti del fronte del No, con l’annuncio di ricorsi pronti a scattare se il voto degli italiani all’estero risulterà  decisivo, ciò che potrebbe insinuare dubbi sulla stessa legalità  dell’appuntamento elettorale.
Una mossa che, dopo le tante pressioni esercitate da vari fronti, aggiunge un elemento destabilizzante (infatti veicola il sospetto di brogli, prospettiva poco sopportabile da una democrazia) a uno scenario già  sovraccarico di emotività  politica e incognite istituzionali.
Ancora una settimana ed entrerà  in gioco il presidente della Repubblica, evocato da tutti con una doppia aspettativa: 1) nel caso che una vittoria del No sfoci in una crisi di governo, dovrà  rimettere in equilibrio il sistema e farlo ripartire o, se questo si rivelerà  impossibile, decretare la fine della legislatura; 2) anche se vincesse il Sì, dovrà  ridare coesione e serenità  a un Paese lacerato, in modo che si torni a lavorare insieme dopo una campagna elettorale lunghissima.
Qualche punto fermo.
Per come Sergio Mattarella si è fatto conoscere interpretando il ruolo, non dobbiamo pensare che tutto sia sempre nelle sue mani e comunque al momento non ci sono le condizioni perchè si assuma la responsabilità  che si prese, ad esempio, Napolitano in certe stagioni complesse, con i governi Monti e Letta.
Insomma: un presidente agisce in quanto interpreta qualcosa che emerge da un sistema politico-istituzionale.
E oggi una maggioranza c’è, e alla Camera è anzi assoluta per effetto del premio sancito dalla legge che ha premiato il Pd.
Mentre è assai arduo immaginare che se ne possano costruire altre.
Di qui partirà  la sua analisi quando, nell’ipotesi che un Renzi sconfitto si presenti davanti a lui dimissionario (non è costituzionalmente obbligato a farlo, ma è stato lui stesso a legare la propria sorte politica al referendum, indicandolo alla stregua di una fiducia), scatteranno le procedure dell’articolo 88 della Carta.
A quel punto è prevedibile che il capo dello Stato lo rinvii alle Camere, e non solo per un atto di cortesia, ma perchè l’esperienza repubblicana, dopo l’approvazione delle leggi maggioritarie, contempla appunto passaggi parlamentari, che servono a chiarire sul da farsi e a orientare le fasi successive.
Passaggio successivo: le consultazioni.
Su queste avrà  un inevitabile peso il problema della legge elettorale da riformare, visto che si dà  per scontata una bocciatura dell’Italicum da parte della Consulta, tra gennaio e febbraio.
Alle correzioni potrebbe provvedere Renzi stesso, accantonando le sue recenti promesse («non voglio galleggiare») e accettando un mandato bis che in molti gli chiedono già .
Incarico con un esecutivo finalizzato a tale missione, non un governo da classificare nella chiave minimalista «di scopo», perchè sappiamo che ogni governo è politico e di pieni poteri. Sempre.
Alternative è arduo ipotizzarne, anche se non sono da escludere.
Basta considerare che, quando si materializza una crisi, l’articolo 88 è una traccia «a tema libero», che permette al presidente di agire andando oltre la scarna regola procedurale.
Ciò che, per capirci, fa azzardare pure un mandato esplorativo (a Grasso?), qualora la situazione si impaludasse.
È chiaro che saranno cruciali tre elementi: lo scarto del voto, i calcoli politici interni alla maggioranza, l’istinto di conservazione del Parlamento.
Sarà  su queste variabili che si giocherà  il futuro della legislatura. E Mattarella dovrà  avere la pazienza di percorrere tutte le strade e far decantare tutte le tensioni se vorrà  garantire la stabilità  alla vigilia della Finanziaria.

Marzio Breda
(da “il Corriere della Sera”)

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VINCE FILLON, RINCORRENDO MARINE: LA MINESTRA E’ SEMPRE LA SOLITA DESTRA ECONOMICA CHE FAVORISCE I CETI BENESTANTI

Novembre 27th, 2016 Riccardo Fucile

FILLON BATTE JUPPE’ 68% A 32%… NEL SUO PROGRAMMA: MENO TASSE SOLO AI PIU’ RICCHI, TAGLI DI 500.000 POSTI NEL PUBBLICO IMPIEGO, 48 ORE DI ORARIO DI LAVORO, PENSIONE A 65 ANNI, FINE DELLA SANITA’ GRATUITA AI PIU’ POVERI, GREMBIULI AGLI ALLIEVI A SCUOLA, POLITICA ESTERA FILORUSSA

Marine Le Pen sembra avere un nuovo rivale, con il quale dovrà  confrontarsi sullo stesso terreno di gioco per convincere i francesi prima delle elezioni presidenziali del prossimo anno.
Franà§ois Fillon si è aggiudicato il ballottaggio delle primarie dei Rèpublicans con il 68,3% delle preferenze, distaccando di 37 punti Alain Juppè, rimasto fermo al 31,6%. Un risultato provvisorio che verrà  confermato solamente in tarda serata.
In quest’ultima settimana il sindaco di Bordeaux non è riuscito a colmare lo scarto accumulato domenica scorsa al primo turno, quando il suo rivale ha riportato un risultato del tutto inaspettato, ottenendo il 44% delle preferenze
L’ex premier di Sarkozy è stato protagonista di un’improvvisa escalation che nell’ultimo mese lo ha proiettato in cima alle preferenze.
Le proposte moderate di Juppè non hanno convinto gli elettori di destra, che si sono orientati verso idee più radicali e gaulliste.
L’affluenza di oggi ha testimoniato l’importanza data dai francesi a queste primarie, le prime organizzate nella storia della destra e considerate da molti come uno dei principali test in vista delle prossime presidenziali, previste tra maggio e aprile del prossimo anno. Alle 17h00 avevano già  votato 2,9 milioni di persone, una mobilitazione leggermente maggiore rispetto a quella del primo turno, che alla stessa ora aveva registrato 2,8 milioni di elettori.
La candidatura di Fillon all’Eliseo costringerà  i suoi avversari a ridisegnare le strategie preparate in questi ultimi mesi. L’uscita di scena di Sarkozy e Juppè ha stravolto tutti i piani, costringendo analisti e osservatori a disegnare nuovi scenari politici.
Il programma di Fillon si posiziona in diretta concorrenza con il Front National di Marine Le Pen grazie ad una serie di proposte sociali di stampo conservatore ottocentesche.
L’ amicizia con il presidente russo Vladimir Putin, l’endorsement della Manif pour Tous, (movimento cattolico contrario ai matrimoni omosessuali), e le sue posizioni antiabortiste e ultracattoliche potrebbero attirare le simpatie dell’elettorato dell’estrema destra francese, livellando così lo svantaggio che i Rèpublicains avrebbero nei confronti del partito lepenista.
Tra le proposte di Fillon il taglio di 500mila posti di funzionari pubblici, l’abolizione delle 35 ore portando l’orario legale di lavoro a 48 ore, meno tasse per i ricchi e austerità  generalizzata per i più modesti, età  della pensione a 65 anni e fine della sanità  gratuita per i più poveri.
Fillon ha anche evocato l’idea di rivedere i manuali scolatici di storia, per tornare alla «narrazione nazionale» di un tempo (vuole mettere anche i grembiuli agli allievi).
Secondo il vice presidente del Front National, Florian Philippot, i progetti presentati da Fillon conterrebbero alcune idee di una “violenza inaudita”, definendo la figura del candidato repubblicano come una “Tatcher con 30 anni di ritardo”.
Questa competizione tra destra ed estrema destra potrebbe andare a vantaggio del Partito Socialista, lacerato da una crisi interna che ne sta mettendo a repentaglio la stabilità .
In un’intervista rilasciata questa mattina a Le Journal de Dimanche, il Primo Ministro Manuel Valls non ha escluso una sua candidatura alle prossime primarie della sinistra, previste per il 22 e 29 gennaio.
“Prenderò la mia decisione con coscienza” ha detto Valls, riconoscendo che “nelle ultime settimane il contesto è cambiato”. Parole, queste, pronunciate nell’attesa che anche Franà§ois Hollande sciolga le riserve su una sua eventuale discesa in campo. Secondo indiscrezioni trapelate in questi giorni, la dirigenza del partito vedrebbe di buon occhio una candidatura del Primo Ministro, dato nei sondaggi al 65% contro Hollande, fermo al 23%.
Il tasso di popolarità  del Presidente è ai minimi storici, con solo il 4% dei francesi che giudicano positivamente il suo operato.
Un record in negativo che prima di oggi nessun presidente della V° Repubblica aveva mai raggiunto.
Contro le sue posizioni conservatrici, giudicate spesso reazionarie, la sinistra dovrebbe tornare sui suoi passi, rivedendo alcune decisioni prese durante quest’ultimo mandato, prima fra tutte la tanto contestata riforma del lavoro.
Per riuscire nell’impresa, l’intero partito socialista dovrà  far fronte all’avanzata delle destre francesi in modo compatto e unito, un atteggiamento che per il momento sembra essere lontano dalla realtà .

(da agenzie)

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USA, SI RICONTANO I VOTI NEL WISCONSIS

Novembre 27th, 2016 Riccardo Fucile

SOSPETTI DI HACKERAGGIO ANCHE IN ALTRI DUE STATI CHIAVE

Si ricontano i voti.
La Commissione elettorale del Wisconsin ha deciso di accogliere il ricorso presentato dalla candidata dei Verdi, Jill Stein, non senza aver prima incassato i 5 milioni di dollari necessari per coprire le spese.
In questo Stato del Nord industriale, Donald Trump ha vinto di misura, e a sorpresa, l’8 novembre, raccogliendo 1.409.467 preferenze contro 1.382.210 di Hillary Clinton. Stein ha ottenuto solo 31.006 consensi e l’altro candidato che ha firmato la petizione, Rocky Roque De La Fuente, del partito riformista, ancora meno: 1.514.
I due, però, sollevano una questione di regolarità  generale, chiedendo la revisione anche in Michigan e in Pennsylvania.
La tesi del duo Stein-De La Fuente è che ci siano state manipolazioni interne o intrusioni di hacker nei computer degli uffici elettorali.
Prove? Nulla di stringente, per ora. Solo analisi elaborate da esperti e accademici, tra i quali J. Alex Halderman, dell’Università  del Michigan.
Con un sospetto cardine: nei distretti in cui si è proceduto alla vecchia maniera, urne e schede di carta, l’esito è stato più favorevole a Clinton rispetto ai collegi in cui si è adottato il voto elettronico.
Il meccanismo prevede la ripartizione di 538 grandi elettori Stato per Stato, sulla base della somma dei deputati e senatori espressi da ogni singolo territorio.
Diventa presidente chi raggiunge la soglia di 270 rappresentanti. Trump ne ha totalizzati 290; Clinton 232.
Mancano i 16 grandi elettori del Michigan, dove però «The Donald» è già  dato vincente. Il Wisconsin esprime 10 seggi. Da solo, non basterebbe a ribaltare il risultato finale.
Ma se il riconteggio fosse accettato anche in Michigan (16 grandi elettori) e in Pennsylvania (20), tornerebbe in gioco un pacchetto decisivo di 46 rappresentanti.
A quel punto, se in tutti e tre gli Stati il verdetto finale a favore di Trump fosse capovolto, Hillary si ritroverebbe nello Studio Ovale con 278 rappresentanti.
Ma prima che intervenisse lo staff di Obama, Marc Elias, consigliere generale della campagna di Hillary, aveva precisato: «Non ci risultano indizi di hackeraggio». Tuttavia Elias annuncia che gli esperti della sua squadra parteciperanno al nuovo scrutinio in Wisconsin ed eventualmente in Michigan e in Pennsylvania.
Le regole consentono a tutte le parti in causa di assistere al ricalcolo e impongono a chi presenta ricorso di pagare le spese.
Stein ha raccolto i fondi per cominciare dal Wisconsin e, sembra di capire, lo staff di Hillary assisterà , ma senza versare un dollaro.
Non resta molto tempo.
Il 19 dicembre 2016 si riuniranno i 538 delegati per ratificare la nomina di Trump.

Giuseppe Sarcina
(da “il Corriere della Sera”)

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INTERVISTA A INGE FELTRINELLI: “IO, GIANGIACOMO E FIDEL, QUEGLI INCONTRI IN PIGIAMA A PARLARE DI POLITICA”

Novembre 27th, 2016 Riccardo Fucile

I RICORDI DEI VIAGGI A CUBA E I COLLOQUI CON CASTRO: “DISCUTEVA DI MARXISMO, MA ERA SUPERFICIALE”

Più che la casa di un rivoluzionario, sembra l’interno progettato da un designer, con la poltrona di pelle dèlabrè, il parquet a listoni robusti, e quegli stivali tirati a lucido che non sfigurerebbero in una pubblicità  del lusso.
Siamo all’Avana, nel febbraio del 1964, nell’appartamento di “Barba Massima”, come lo chiama nel suo diario Giangiacomo Feltrinelli.
L’editore è venuto a Cuba per realizzare un nuovo successo internazionale: le memorie di Fidel Castro.
Con lui è la moglie Inge, brillante fotoreporter che velocissima con la sua Rolleiflex cattura scatti ovunque. «Non credo esistano altre fotografie del leader in pigiama», racconta Inge nella sua casa milanese. «Andavamo da lui la mattina molto presto e lo trovavamo ancora con la giacca da camera»
Lui voleva affidarvi le sue memorie?
«Sì, ci aveva scelto tra tanti editori internazionali. Ma all’inizio non fu facile avvicinarlo. Eravamo ospiti del governo in una fantastica villa d’un barone dello zucchero, la Casa di Protocollo numero uno, la stessa che aveva ospitato il potente ministro sovietico Mikojan. E per una settimana aspettammo invano un suo cenno. Tanto che una mattina convinsi Giangiacomo ad andare al mare con la jeep. E proprio quel giorno si presentò il là­der mà¡ximo nella sua divisa mimetica. Ci avrebbe scherzato sopra al telefono: ma come, io vengo a trovarvi e voi sparite?»
Giangiacomo se la prese?
«Voleva quasi ammazzarmi. Per fortuna Fidel tornò da noi una seconda volta. Al principio rimase deluso da Giangiacomo che non aveva l’allure da borghese riccone. “Ma è proprio lui il miliardario?” continuava a chiedere ai suoi che riuscirono a rassicurarlo. Parlarono di tutto, della produzione agricola e della crisi dell’Ottobre rosso, di America Latina e dei contrasti con gli Stati Uniti. E poi ci diede appuntamento a casa sua, la mattina molto presto»
Per questo lo trovaste in pigiama
«Sì, un pigiama borghese, molto curato nelle cuciture sul polsino e sul colletto della camicia. Era un uomo elegante, con le lunghe mani affilate da aristocratico spagnolo. Anche di primo mattino fumava dei sigari Cohiba molto sottili che ne accentuavano il fascino. La sua voce era invece deludente: una tonalità  molto alta, quasi effeminata, che contraddiceva le pose da macho».
Di cosa parlaste?
«Il dialogo era esclusivamente con Giangiacomo. Io non ero considerata, se non come appendice. Avevo l’impressione che fosse anche impaurito dalle donne»
Perchè?
«Ricordo che Giangiacomo lo criticò per la politica ostile ai gay: volete creare il mondo nuovo e vi comportate da persecutori? E lui fece un discorso sulla gioventù cubana rovinata da un mammismo impregnato di cattolicesimo. Accusava le madri di un eccesso di invadenza nella vita dei figli. E le donne risaltavano nel suo racconto come figure forti e castratrici»
Feltrinelli gli domandò anche che tipo di donne gli piacesse.
«Sì, vero. Rispose con una faccia marpionesca che gli piacevano “fini, spirituali, dolci”. In realtà  il suo genere era la Lollobrigida »
Raccontava di sè, del suo privato?
«No, tutt’altro. La sua vita era solo la revolucià³n. Parlava di economia e di marxismo ma non era un comunista teorico: al contrario appariva superficiale e velleitario ».
Impietoso appare il giudizio annotato da Feltrinelli sul suo diario: “impulsivo”, “retorico”, “ideologicamente confuso”, “incapace di un pensiero forte e organizzato”.
«Sì, così. E non sapeva nulla neppure di letteratura. Un ruolo istruttivo importante l’avrebbe svolto Garcà­a Mà¡rquez, che gli fece conoscere la narrativa sudamericana. Il loro rapporto era stravagante, complice ma anche competitivo. Una volta ho scritto che insieme mi ricordavano Federico il Grande e Voltaire. In realtà  Gabo non era Voltaire. E Fidel non era Federico il Grande».
Erano animati da gelosia reciproca?
«Sì, erano entrambi Re. E quando la fama ne accentuò smisuratamente l’ego, Gabo non reggeva la presenza di Fidel, che anche fisicamente lo sovrastava».
Hobsbawm ha scritto che «nessun capo nel secolo breve ebbe ascoltatori più entusiasti di questo uomo barbuto con la mimetica sgualcita che parlava in modo assolutamente confuso». Al di là  delle riserve, anche voi ne subiste il fascino.
«Io ero stata a Cuba la prima volta nel 1953. Uno spettacolo deprimente: alberghi di lusso, bordelli e bambini in stracci, quasi morenti. Una povertà  estrema, come quella di Calcutta. In pochi anni Castro era riuscito a trasformarla, puntando sull’educazione e sulla salute della popolazione. Nel 1964 trovai Cuba completamente cambiata».
Però poi prevalsero gli aspetti illiberali.
«A Castro non perdonerò mai l’assassinio di Orlando Ochoa, l’eroe dell’Angola. Ma non concordo con la definizione di regime».
Nella vicenda politica di Giangiacomo la figura di Castro ebbe un impatto fondamentale, anche deflagrante.
«Sì, nella prima fase — gli anni tra il 1964 e il 1965 — prevaleva l’interesse dell’editore all’inseguimento del grande libro. La seconda fase dal 1967 al ’70 fu un’altra cosa, che attiene più alla militanza politica di Giangiacomo ».
Fu Castro a ispirargli l’idea di fare della Sardegna la “Cuba del Mediterraneo”?
«Non credo che Castro sapesse dov’era la Sardegna, ma non escludo che ne abbiano parlato. Però io non posso saperlo: allora mi ero allontanata politicamente da Giangiacomo».
E le memorie di Castro?
«Fidel divenne più esigente con se stesso. E non ebbe il tempo sufficiente per concludere l’intervista, cominciata con Giangiacomo e proseguita con Valerio Riva. Del libro, alla fine, non se ne fece niente».

Simonetta Fiori
(da “la Repubblica”)

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POPULISMO AUTORITARIO, LO SPETTRO CHE SI AGGIRA SULL’EUROPA

Novembre 27th, 2016 Riccardo Fucile

UNO STUDIO INGLESE: ALLA BASE EGOISMO E RAZZISMO

Hanno sentimenti negativi verso i migranti, i diritti umani e l’Unione europea: piuttosto che allargare le maglie vorrebbero restringerle, su tutte e tre le questioni. Sono ostili ai giornali, e si fidano di più di un tuffo in Internet senza stare a sottilizzare particolarmente su quale sia la fonte a cui si affidano, nella scia della massima di Donald Trump «non credete ai giornali, credete a Internet».
Uno studio condotto in Inghilterra da tre professori – David Sanders dell’University of Essex, Jason Reifler dell’University of Exeter, Tom Scotto dell’University of Strathclyde – per analizzare la questione del referendum sulla Brexit, ha scoperto che il 50 per cento degli inglesi condivide questa «mentalità » e questi «sentimenti negativi».
I tre prof utilizzano, per definirla, l’etichetta di «populismo autoritario» (Pa), che è un vero e proprio «insieme coerente di convinzioni».
Lo studio, bisogna rilevarlo, non è un sondaggio ma un’analisi sui dati di una serie di indagini su panel di YouGov condotte tra il 2011 e il 2015, quindi nel quadriennio che porta dritti alla Brexit.
Ne vien fuori questo ritratto: i populisti autoritari non sono, per capirci, esattamente dei «fascisti», o ciò che eravamo abituati a intendere con questa parola, intanto perchè occupano una fascia centrale dello spettro politico – e non la tradizionale, limitata destra o estrema destra.
Ma sono anche diversi dal populismi sudamericani, così nutriti di emotività , e non necessariamente permeati dai medesimi elementi (per esempio l’ostilità  ai migranti).
Abbiamo potuto conversare con i tre studiosi che hanno avuto a disposizione questi dati e abbiamo chiesto loro sostanzialmente due cose: il «populismo autoritario», studiato con riferimento al Regno Unito, è una dinamica che accomuna solo i Paesi anglosassoni della Trump-Brexit, o riguarda anche posti come la Francia di Marine Le Pen, o l’Italia del Movimento cinque stelle?
Secondo: il Movimento cinque stelle, alleato di Nigel Farage (uno dei campioni dell’attitudine «populista autoritaria») al parlamento europeo, condivide gli stessi sentimenti, a giudizio di questi studiosi, almeno per la comune fascinazione – sempre più percepibile anche ai più distratti – per il mito dell’uomo forte (The Helping Man) alla Trump, o alla Vladimir Putin?
David Sanders ci racconta: «Ho fatto alcuni recenti lavori con YouGov, l’agenzia di rilevazioni inglese, compreso uno studio sul populismo autoritario europeo su dodici nazioni. Cercavamo un set di attitudini consistente (verso l’Ue, l’immigrazione, la politica estera, i diritti umani, il collocamento sull’asse destra-sinistra), che giace come una risorsa sottostante per forze politiche differenti – compresi ovviamente partiti autoritari o anti-establishment. Abbiamo trovato in Europa modelli simili a quelli in Regno Unito»: supporto potenziale per la Le Pen, Danimarca, Olanda, Svezia, Finlandia, Polonia, Spagna, e in misura più limitata, Germania.
In tutti questi posti il populismo autoritario tende a destra, è anti Ue, egoista in politica estera e vuole una robusta politica di difesa.
In Francia, un’attitudine al Pa occupa addirittura il 60% dell’elettorato».
E in Italia? «Come in Romania, da voi c’è una cosa singolare: il populismo autoritario è stato mischiato anche con movenze prese dalla sinistra radicale. È il caso del populismo autoritario del M5S e di Grillo».
Spiega Tom Scotto: «L’attitudine di questo tipo di elettorato è un rigetto, diffuso in molti Paesi occidentali, del “liberalismo cosmopolita”.
La working class, e anche la parte bassa della middle class, nelle democrazie avanzate hanno visto spostarsi i loro lavori in outsource verso le economie emergenti.
Persone che appartengono alla fascia compresa nell’80-90% del patrimonio globale esistono sia in Uk, sia in Usa, Francia, Italia: questa gente si sente insicura, e l’insicurezza non si ferma ai confini delle nazioni».
Certo, il Pa «ha poi molto a che fare col tema della razza, anche se è ingiusto dire che gli elettori di Trump, o della Le Pen, siano tutti razzisti».
Il Pa si nutre poi molto anche del «culto del capro espiatorio», indicare la soluzione semplice a problemi complessi: cosa succederà  quando vedranno che soluzioni semplici a queste insicurezze, economiche e sociali, non ci sono?
«Questi movimenti potrebbero moderarsi, diventare più una sorta di conservatorismo sociale teso a qualche forma di redistribuzione; ma la transizione la vedo difficile. Più probabile una ricerca ancora più forte del capro espiatorio, ma a quel punto il bivio diventa drastico: o il Pa si affievolisce, o diventerà  ancora più tossico nei comportamenti sociali».
Reifler osserva: «La vera domanda secondo me sarà : fino a quanto puoi arrivare a essere apertamente razzista, e nello stesso tempo conquistare il potere? I partiti sembrano avere più successo quando non sono così catturati dal razzismo, o dalle teorie cospirazioniste. Ma Trump ha smentito questo assunto; anche se va detto che l’America ha una storia brutta e difficile sulla razza, e Trump in questa storia non è il primo».

Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)

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VIA PADOVA: “ESERCITO IN STRADA? IL PROBLEMA SONO LE CASE SOVRAFFOLLATE”

Novembre 27th, 2016 Riccardo Fucile

DECINE DI APPARTAMENTI DI PROPRIETA’ DI ITALIANI AFFITTATI AL DOPPIO DEL PREZZO DI MERCATO, IN 50 MQ STIPATE 8 PERSONE… “A CHE SERVE L’ESERCITO CHE CONTROLLA SOLO LE STRADE?”

Italiani che vogliono mandare via gli stranieri, italiani che speculano sulla disperazione degli stranieri, stranieri che speculano sulla disperazione dei loro connazionali.
Situazioni diverse e contraddittorie tra loro che convivono nello stesso quartiere, spesso anche nello stesso palazzo.
Succede in via Padova a Milano.
Decine di appartamenti della zona, infatti, sono di proprietà  di italiani. Il loro obiettivo è guadagnare il più possibile da questi alloggi.
Per questo, non affittano a un nucleo familiare ma a posto letto, al prezzo di 100-200 euro al mese. Molte persone arrivate da poco in Italia accettano di vivere in otto dentro appartamenti da 50 metri quadrati.
In questo modo i proprietari guadagnano fino a 1200 euro al mese per un bilocale. Secondo le agenzie immobiliari della zona, però, il prezzo di mercato degli affitti non va oltre i 700 euro.
“In queste case si vedono solo tanti materassi buttati sul pavimento — racconta chi ci è entrato — per i mobili non c’è spazio”. Ma molti proprietari sono stranieri e il meccanismo è lo stesso, con una rigida divisione: i sudamericani affittano a sudamericani, gli egiziani solo a egiziani e i cinesi ad altri cinesi. Indipendentemente dalla nazionalità , molti degli inquilini di questi alloggi fatiscenti spacciano al parchetto di via Padova. I proprietari lo sanno ma fanno finta di niente. Basta camminare pochi minuti dalle sei del pomeriggio in poi per essere fermati. La domanda è sempre la stessa: “Coca o fumo?”.
Una situazione particolare la vive, infine, via Cavezzali, una piccola via 200 metri dopo il parchetto.
Al civico 11 c’è un grosso palazzo di nove piani. Anche qui gli appartamenti sono abitati da spacciatori e prostitute. A fare da intermediario tra i proprietari e gli inquilini c’è un uomo italiano.
“E’ il boss del palazzo — raccontano alcuni abitanti — Più stranieri butta dentro gli alloggi, più ci guadagna. Dice ai proprietari di averli affittati a due persone ma in realtà  ci vivono in quattro”.
L’Esercito che arriverà  in via Padova troverà  questa situazione.
“I militari stanno in strada, non vanno a controllare gli appartamenti — racconta un residente — Se non si spaccia in strada, si spaccia nelle case”

Alessandro Sarcinelli
(da “il Fatto Quotidiano”)

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DUE MILIONI E MEZZO DI ITALIANI HANNO RINUNCIATO ALLLE CURE MEDICHE PERCHE’ NON HANNO SOLDI

Novembre 27th, 2016 Riccardo Fucile

MANCATO ACCESSO ALLE TERAPIE, DIFFICOLTA’ PER I GIOVANI, SUICIDI IN AUMENTO

Se in Italia la grande depressione degli anni ’20-’30 è passata senza colpo ferire, la grande recessione economica iniziata nel 2008 provoca ancora i suoi effetti su salute e mortalità .
Si va dall’accesso alle cure, alle difficoltà  per i giovani, fino al fenomeno dei suicidi. Tantissimi gli italiani, infatti, che rinunciano alle cure mediche perchè pur avendone bisogno non hanno le risorse economiche per pagarne i costi.
Lo ha dimostrato l’indagine Istat del 2013 (su dati 2012-2013 che riguardavano 60mila famiglie): due milioni e mezzo di persone hanno dichiarato di aver rinunciato per motivi economici, un milione e 200mila erano donne, 800mila dai 40 ai 64 anni, proprio nell’età  in cui è più necessario fare prevenzione.
Ma a pagare di più la crisi sono i giovani: l’11 per cento dei ragazzi sotto i 18 anni vivono in famiglie povere in senso assoluto, il 20 per cento in condizioni di povertà  relativa.
È quanto è stato evidenziato ieri, da Viviana Egidi ed Elena Demuru, rispettivamente professore ordinario del Dipartimento di Scienze statistiche e dottore di ricerca della Sapienza di Roma.
Il loro convegno si è tenuto nell’ambito del ciclo di incontri scientifici sulla società  italiana e le grandi crisi economiche in Italia, organizzati in occasione delle celebrazioni per l’anniversario della fondazione dell’Istat.
IL LEGAME TRA SALUTE, MORTALITà€ E BENESSERE ECONOMICO
La salute degli individui e delle popolazioni è strettamente legata al benessere economico, tanto a livello individuale che collettivo.
“In anni in cui il tasso di mortalità  scendeva molto rapidamente grazie a miglioramenti ambientali e delle condizioni di vita — ha spiegato a ilfattoquotidiano.it la professoressa Viviana Egidi — la grande depressione non ha comportato alcuna conseguenza immediata, al contrario la crisi attuale ha avuto effetti sensibili”.
Primo fra tutti un significativo rallentamento della riduzione della mortalità  per malattie del sistema circolatorio, che ha agito negativamente sulla mortalità  complessiva.
“In pratica — spiega la docente — non è che la mortalità  stia aumentando, ma ha smesso di diminuire ai ritmi che hanno caratterizzato il periodo antecedente al 2008”. A questo dato si aggiunge il fatto che se in passato le malattie cardiovascolari erano tra le prime cause di decessi insieme a diverse patologie, negli ultimi decenni l’aspettativa di vita è molto aumentata quindi le variazioni nei tassi di mortalità  diventano più sensibili a crisi economiche e cambiamenti ambientali.
“Basti pensare — spiega la docente — ai decessi registrati nel 2015 a causa del caldo tra gli anziani”
L’ACCESSO ALLE CURE
Il rapporto Istat 2015 ha evidenziato come il processo di rientro dal debito, cui hanno dovuto far fronte numerose Regioni, associato alla difficile congiuntura economica, ha avuto come conseguenza una riduzione dell’equità  nell’accesso alle cure.
Al fatto che alcune delle Regioni sotto piano di rientro dal debito non siano riuscite ad assicurare i livelli essenziali di assistenza si aggiunge il fenomeno della rinuncia a prestazioni sanitarie.
Secondo il rapporto il 9,5 per cento della popolazione non ha potuto fruire di prestazioni che dovrebbero essere garantite dal servizio sanitario pubblico per motivi economici o per carenze delle strutture di offerta (tempi di attesa troppo lunghi, difficoltà  a raggiungere la struttura oppure orari scomodi).
“Il problema grave — spiega la docente della Sapienza — è che la rinuncia alle cure può portare a un peggioramento delle patologie con il rischio che i tumori vengano diagnosticati in una fase troppo avanzata della malattia e che si mandi all’aria il lavoro fatto sulle diagnosi precoci”.
Sempre in termini di accesso alle cure, durante la crisi le differenze si sono allargate anche sotto questo profilo: “I differenziali territoriali che prima del 2008 si stavano lentamente colmando — aggiunge Viviana Egidi — sono tornati ad ampliarsi”. Il rapporto Istat del 2015 lo evidenzia: nel Nord-ovest si registra la quota più bassa (6,2 per cento) di rinuncia per motivi economici o carenza dell’offerta, mentre nel Mezzogiorno la quota è più che doppia (13,2 per cento).
I SUICIDI
Sebbene non si possa parlare di relazione causale tra crisi e suicidi, c’è una teoria che lega questo tipo di decessi alle condizioni economiche: “Se con la grande depressione tra il 1930 e il 1931 si è registrato un temporaneo aumento di uomini che si sono tolti la vita (parliamo numericamente di 500 suicidi in più) ma già  nel ’32 si è tornati ai valori normali, nel periodo recente l’alterazione è diventata più duratura e ha riguardato, sempre uomini, dai 30 ai 74 anni”.
Per la docente “non si può parlare di causa-effetto, ma si notano delle associazioni”. In alcuni casi, l’aumento dei suicidi si verifica anche prima che inizi la crisi economica vera e propria. Si tratta dei cosiddetti ‘eventi-sentinella’.
Solo di recente, comunque, i numeri si stanno via via tornando alla normalità .
UN’IPOTECA SUL FUTURO
Il convegno si è chiuso con un monito che riguarda le nuove generazioni, quelle che stanno pagando la crisi in modo maggiore.
La salute dei giovani peggiora. Il 31 per cento dei ragazzi sotto i 18 anni vivono in condizioni di povertà  assoluta o relativa.
“Diversi studi — ha concluso la docente — dimostrano che se si vive in condizioni di difficoltà  economiche da bambini, si tende a rimanere in quelle stesse condizioni fino alla terza età ”. Le condizioni di vita nell’infanzia influenzano gli esiti di mortalità  e di salute durante l’intero corso della vita.
Le conseguenze? “Se si arriva a 80 anni dopo aver sofferto fin da bambini, si rischia di vanificare tutti gli sforzi che si stanno facendo per garantire ai cittadini di invecchiare in buona salute, una necessità  per evitare che il sistema sanitario nazionale non collassi”.

Luisiana Gaita
(da “il Fatto Quotidiano”)

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