Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
I RIBELLI ORMAI IN ROTTA CON SALVINI ANDREBBERO SUBITO CON LETIZIA… LA SCISSIONE, O PRIMA O DOPO IL VOTO, È CERTA
I segnali di plateale insofferenza della fronda ribelle ci sono stati, e anche
pesanti: la sconfitta della maggioranza del (fu) Capitano nei congressi provinciali prima di Bergamo e poi di Brescia, la vittoria per soli 12 voti nella Varese delle origini di un candidato non ostile a Salvini.
Come si fa a dare la spallata definitiva al segretario federale, in carica ormai da nove anni? Qui le idee sul da farsi sono diverse.
Bossi, assieme a Paolo Grimoldi e Angelo Ciocca, intanto sabato scorso ha saggiato la forza militante a sostegno del correntone verde. Sul palco della manifestazione di lancio ufficiale del Comitato Nord c’erano diversi consiglieri al Pirellone: Massimiliano Bastoni, Roberto Mura, Andrea Monti, Silvia Scurati, Simona Pedrazzi, per citarne alcuni.
Essendo ormai dichiaratamente eretici, verranno mai rimessi nelle liste per le prossime regionali? Da questa domanda passa molto delle prossime mosse.
Chi preme per la rottura subito ha già in mente di farlo sostenendo Letizia Moratti. La riflessione è semplice: portando via voti e militanza alla Lega per dislocarli altrove, il risultato del Carroccio sarebbe ancor più deludente del previsto e a quel punto Salvini non potrebbe più fare finta di nulla. Ci rimetterebbe Attilio Fontana, che al Comitato non considerano un nemico. Ma sono gli effetti collaterali di ogni conflitto.
Il Comitato Nord esulta: «Siamo sommersi di telefonate». «Adesso vogliono tutti venire con noi». A quanto pare nella Lega vincono sempre tutti. Anche in un periodo come questo dove i venti di tempesta si fanno sentire.
Così pure Matteo Salvini, ieri, cantava vittoria e rivendicava il bagno purificatore della democrazia interna: «Mentre altri celebrano i congressi sui giornali, noi li facciamo veri». Fingendo, insomma, che fronde interne e rivalità ormai esibite siano un semplice segno di vitalità del partito e non piuttosto un segnale di crisi. Sabato a Pavia il ruggito di Umberto Bossi contro il partito che «ha perso la sua identità» e domenica lo scontro fra bossiani e salviniani per eleggere i segretari provinciali.
L’ultima frattura pare si stia consumando proprio in queste ore e ha a che vedere con le elezioni regionali lombarde di febbraio, il vero «Armageddon» della segreteria Salvini, preludio di una possibile scissione.
A Milano, infatti, si vocifera dell’imminente nascita di un nuovo gruppo all’interno del consiglio regionale lombardo, il cui nome potrebbe essere «Comitato Nord-Movimento autonomista lombardo», formato da almeno tre leghisti di provata fede bossiana. Gruppo che, formandosi prima del termine della legislatura, potrebbe evolvere in una lista elettorale senza bisogno di raccogliere le firme.
E qui si arriva al nodo della questione: per sostenere chi? Il governatore uscente e candidato del centrodestra Attilio Fontana o la candidata del Terzo Polo Letizia Moratti?
«Chi ha deciso di scommettere tutte le sue carte sulla Moratti lo ha già fatto – ragiona un attento osservatore di ciò che succede fra il Pirellone e Palazzo Lombardia -. L’ex consigliere leghista Gianmarco Senna, ad esempio, un paio di settimane fa è passato con Italia Viva e sarà capolista a Milano del Terzo Polo.
Quello che potrebbe succedere nei prossimi giorni è qualcosa di diverso, è il tentativo politico di mettere ulteriormente in difficoltà i salviniani». Il nuovo gruppo, in base a questo ragionamento, si proporrebbe come leale sostenitore del centrodestra, esattamente come il Comitato Nord fin dall’inizio si è dichiarato un progetto interno alla «Lega per Salvini premier», costringendo il segretario a scegliere: o permette la creazione della lista autonomista che correrebbe sotto il nome di Attilio Fontana accanto ai simboli dei partiti di centrodestra e delle altre liste d’area, trasformando di fatto le regionali anche in una conta interna alla galassia leghista (e dando una chance a quei candidati che nelle liste salviniane non troverebbero posto), o blocca l’operazione, spingendo i ribelli verso il centro.
Letizia Moratti, intervistata da La Stampa, ha già detto di essere pronta ad accoglierli «a braccia aperte». Del resto la civica morattiana «Lombardia Migliore» sta già inserendo in ogni listino provinciale almeno un esponente di quel mondo nordista che non ha mai aderito alla «Lega per Salvini premier» e che fa riferimento al mantovano Gianni Fava, ex braccio destro di Bobo Maroni e sfidante di Salvini alla segreteria della Lega Nord nel 2017.
I primi nomi sono quelli dell’ex presidente del Consiglio regionale lombardo Davide Boni per Milano, di Christian Borromini (già segretario del Carroccio a Sondrio), di Luca Baj Rossi a Como (affiancato dall’ex sindaco «civico» di Cantù Claudio Bizzozzero, che nel 2012 riuscì a battere il leghista Nicola Molteni) e di Alessio Anghileri per Monza e Brianza.
I consiglieri regionali della Lega contati fra i bossiani (erano nove quelli presenti sabato al castello di Giovenzano per il ritorno del Senatur) sull’ipotesi del nuovo gruppo per ora si limitano a un rigoroso «no comment». I frontman del Comitato Nord, Paolo Grimoldi e l’eurodeputato Angelo Ciocca, invece, guardano soprattutto alle prossime mosse organizzative.
Domenica nella villetta di Gemonio c’è stata una riunione dedicata ad analizzare l’evento del giorno prima. «Bossi ha voluto far passare uno per uno i nomi di tutti gli 800 partecipanti perché lui ha ancora una conoscenza millimetrica del nostro popolo – racconta Ciocca -. A ogni cognome associa padri, figli, territori e consenso elettorale. Era molto soddisfatto e assolutamente determinato perché in poco più di un mese abbiamo raccolto oltre 1200 adesioni».
Ma a Gemonio si è parlato anche di un tavolo tecnico dedicato ai temi sanitari, da affidare a due medici, «perché Umberto ci ha chiesto che il Comitato fornisca contenuti sui problemi reali del Paese». Le prime bozze programmatiche di un nuovo partito? Ciò che è certo è che la fune, a furia di tirare, rischia di strapparsi. Uno dei più preoccupati sembra il governatore del Veneto Luca Zaia: «Per me esiste la Lega, punto e basta – ha detto ieri, in trasferta a Milano per partecipare al Forum delle Regioni -. Un giorno hanno chiesto a Carducci di fare un tema su sua madre e Carducci scrisse “mia madre è mia madre punto e basta”». Ma anche Matteo Salvini, al di là delle dichiarazioni ufficiali, sta vivendo giornate complicate. Fra i leghisti gira voce che presto lui e Bossi si vedranno per un faccia a faccia.
(da La Stampa)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
SI TRATTA DI UNA LETTERA CHE IL PM LUCA TURCO SPEDISCE L’8 MARZO 2022 AL COPASIR CHE GLI AVEVA CHIESTO GLI ATTI DELL’INCHIESTA OPEN – “COME FA RENZI AD AVERE QUESTO DOCUMENTO? SE GLI ATTI DEL COPASIR SONO SEGRETI, COME HA POTUTO PUBBLICARE LA LETTERA? CHI GLIEL’HA DATA HA COMMESSO IL REATO DI RIVELAZIONE DI SEGRETO D’UFFICIO?”
Mentre Matteo Renzi continua ad attaccare i magistrati fiorentini sul caso degli atti spediti al Copasir, e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, invia gli ispettori in quella stessa Procura, si scopre che il leader di Italia Viva nella versione aggiornata del suo libro Il mostro ha riportato un atto che nel momento in cui è stato pubblicato poteva essere segreto.
Un documento nella disponibilità del Comitato e che non è depositato nell’indagine Open, dove Renzi è imputato per concorso in finanziamento illecito (è in corso l’udienza preliminare). Nel libro, infatti, a pagina XVII, il senatore ha pubblicato la lettera che il pm Luca Turco spedisce l’8 marzo 2022 al Comitato che gli aveva chiesto gli atti dell’inchiesta Open.
Documenti che per il leader di Italia Viva non potevano essere trasmessi perché era già intervenuta una sentenza della Corte di Cassazione che ne ordinava la restituzione agli indagati, ossia all’imprenditore Marco Carrai, che aveva subito il sequestro a novembre 2019. Per questi fatti i pm Luca Turco e Antonino Nastasi sono stati pure denunciati da Renzi e Carrai a Genova, ma la Procura dopo aver iscritto i magistrati per abuso d’ufficio, ne ha chiesto l’archiviazione ritenendo quell’invio lecito.
Nel suo libro dunque, il senatore, dopo aver fatto riferimento alla decisione della Cassazione, scrive: “E cosa fa il pm Turco? Nel marzo del 2022 scrive al Copasir che aveva richiesto gli atti alla procura. E scrive testualmente: ‘Rappresento che l’annotazione Gdf 17.2.22 prot. 54737 contiene, tra l’altro, l’esito delle analisi dei reperti informatici sequestrati all’imputato Carrai Marco. Senonché, in data 18.2.22, la Suprema Corte ha annullato tale sequestro, con la conseguenza che le informazioni contenute in tale annotazione sono processualmente inutilizzabili. A fronte di tale annullamento, considerate le finalità istituzionali del Comitato, non condizionato da regole processuali, ritengo comunque doveroso trasmettere anche le sopra indicate annotazioni unitamente alla copia forense del materiale sequestrato al predetto Carrai'”.
Come fa Renzi ad avere questo documento? […] se gli atti del Copasir sono segreti, come ha potuto pubblicare Renzi quella lettera? Avrebbe potuto fare un’istanza al Comitato, ma secondo quanto risulta al Fatto quella carta non gli è stata fornita ufficialmente dal Copasir. Inoltre gli atti di Firenze sono a protocollo riservato, mai depositato.
Allora da dove proviene la lettera? Chi gliel’ha data ha commesso il reato di rivelazione di segreto d’ufficio?
Su un fatto del genere dovrebbe indagare la Procura di Roma, ma non risultano fascicoli aperti. Ma se così dovesse avvenire in futuro – e siamo nel campo delle ipotesi – Renzi potrebbe essere convocato dai pm e come teste dovrebbe rivelare la sua fonte. […] quando il leader di Italia Viva scrive il libro non c’era ancora la richiesta di archiviazione e dunque Renzi non può aver chiesto copia di quegli atti. E così la domanda resta: il senatore poteva avere e pubblicare quel documento segreto?
(da il “Fatto quotidiano”)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
“INDEBOLITA LOTTA ALL’EVASIONE E AL RICICLAGGIO”
Dopo le critiche da parte di Bankitalia, anche l’Ufficio parlamentare di
Bilancio ha espresso le proprie perplessità e osservazioni critiche su alcune misure contenute nella Legge di Bilancio del governo Meloni. L’Upb ha espresso criticità soprattutto in relazione alla proposta di innalzamento al tetto dei pagamenti in contante a 5.000 euro, così come la proposta di accettare pagamenti con carta di credito o con servizi digitali soltanto sopra i 60 euro, senza il rischio di incorrere in sanzioni. Una soglia che è raddoppiata rispetto ai 30 euro proposta nella prima stesura del testo della manovra. A tal proposito Lilia Cavallari, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, nell’audizione davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, ha dichiarato che l’introduzione di queste misure «allentano due vincoli che possono contribuire a contrastare l’evasione fiscale e il riciclaggio», sottolineando che «misure volte a limitare l’utilizzo del contante potrebbero svolgere un ruolo positivo sia nella lotta conto l’evasione, sia contro il riciclaggio di denaro». Ma non solo. Pur osservando che, nel complesso, la Manovra «conferma una valutazione positiva sull’impegno a ridurre il rapporto tra debito pubblico e il Pil», al contempo viene evidenziato che nella Legge di bilancio «sono presenti alcune misure le cui quantificazioni risultano piuttosto incerte, con riferimento, per esempio, alle stime del gettito derivante da definizione agevolata del contenzioso, sia dal lato degli impieghi, come nel caso della Flat tax incrementale sugli autonomi».
Cavallari ha infatti espresso dure critiche verso la Flat tax con tetto a 85mila euro e che secondo le stime dell’Ufficio di bilancio permetterà ai liberi professionisti di risparmiare più di 13mila euro sulle tasse rispetto a un lavoratore dipendente con lo stesso reddito. Questo però causerà «squilibri sulla base dei principi di equità orizzontale del prelievo – ha osservato Cavallari -. Due contribuenti che nel 2023 conseguono lo stesso reddito, l’uno aumentando il reddito dell’anno precedente e l’altro mantenendo un livello di reddito invariato, sono sottoposti a una tassazione diversa senza che questo sia giustificato da una diversa capacità contributiva». E la presidente dell’Upb ha anche sottolineato che il vantaggio fiscale derivante dalla Flat tax andrà soprattutto alle persone con reddito alto, perché «i criteri impliciti derivanti dall’applicazione del regime determinano una selezione tale per cui i soggetti che aderiscono appartengono per oltre il 77% al 10% dei contribuenti con reddito da lavoro più elevato». Cavallari ha inoltre espresso forti dubbi anche sulla quantificazione di alcuni impieghi e soprattutto delle coperture, sottolineando che la relazione tecnica non quantifica «gli effetti che le misure che incidono sui meccanismi di monitoraggio, accertamento e riscossione delle imposte potranno avere sul livello di compliance, e quindi sul livello delle entrate future».
Critiche anche sul fronte delle pensioni, in particolare rivolte al sistema di indicizzazione nelle rivalutazioni, che secondo il dossier del governo prevede un adeguamento automatico provvisorio per il 2023, pari al 7,3%, che verrà corrisposto a partire dal 1 gennaio 2023, e per cui è previsto un ricalcolo trimestrale anziché annuale. Cavallari ha osservato che «rispetto alle persone attive sul lavoro hanno, i pensionati hanno meno possibilità di difendersi dall’inflazione, e pertanto il mantenimento del loro potere di acquisto è affidato quasi esclusivamente all’indicizzazione». Per le quote delle pensioni calcolate con le regole contributive, «il rallentamento o il congelamento anche temporaneo della rivalutazione è da considerarsi alla stregua di un’imposta: se viene indebolita la regolare indicizzazione ai prezzi anno per anno, alla fine il pensionato riceve, come rendita, meno di quanto gli spetterebbe. Le regole sulla rivalutazione dovrebbero quindi rimanere il più possibile stabili». Osservazioni critiche anche sul capitolo sanità. Oltre alla criticità dell’aumento dell’indennità di pronto soccorso – che dovrebbe essere introdotta nel 2024 – Cavallari ha sottolineato la «mancanza di indicazioni sui contratti del pubblico impiego», evidenziando che la Flat tax con tetto a 85mila euro «potrebbe contribuire a incentivare l’opzione per la libera professione nel privato». Il tutto mentre «si diffondono forme contrattuali diverse dal lavoro dipendente, mediate da cooperative, con aumenti dei costi e un impatto sfavorevole sull’organizzazione dei servizi».
(da La Repubblica)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
MA BANKITALIA E’ UN ISTITUTO DI DIRITTO PUBBLICO
Per rispondere alle critiche della Banca d’Italia alla Legge di Bilancio del governo Meloni ieri il sottosegretario all’attuazione del programma Giovanbattista Fazzolari ha detto, tra l’altro, che via Nazionale è finanziata dai privati «Bankitalia è partecipata da banche private, è una istituzione che ha una visione, legittimamente, e questa visione fa sì che reputi più opportuno che non ci sia più di fatto utilizzo di denaro contante».
La visione di Bankitalia, però, ha sostenuto il sottosegretario, non è quella della Bce che «ribadisce che la banconota è l’unica moneta a corso legale e che gli Stati membri non possono limitarne l’utilizzo a favore di una moneta privata». Quello che sostiene Fazzolari però è tecnicamente falso.
Un istituto di diritto pubblico
Come ricorda oggi Stefano Lepri su La Stampa, Bankitalia è un istituto di diritto pubblico. La sua indipendenza è garantita dalle leggi italiane ed europee. Il governatore viene scelto dal presidente della Repubblica su proposta del governo. Essere «finanziati» vuole dire che qualcuno dà soldi per la gestione. Come spiega Palazzo Koch sul suo sito, «il capitale della Banca d’Italia è di 7.500.000.000 euro rappresentato da quote nominative di partecipazione il cui valore nominale, determinato per legge, è di euro 25.000 ciascuna. Le quote di partecipazione possono appartenere a: banche e imprese di assicurazione e riassicurazione aventi sede legale e amministrazione centrale in Italia; fondazioni di cui all’articolo 27 del d.lgs. n. 153 del 17 maggio 1999; enti ed istituti di previdenza e assicurazione aventi sede legale in Italia e fondi pensione istituiti ai sensi dell’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 252 del 5 dicembre 2005». L’articolo 38 dello Statuto dice che l’utile netto è destinato:
alla riserva ordinaria, fino alla misura massima del 20 per cento;
ai partecipanti, che risultino titolari delle quote al termine del quarantesimo giorno precedente alla data dell’assemblea in prima convocazione, fino alla misura massima del 6 per cento del capitale;
alla riserva straordinaria e a eventuali fondi speciali, fino alla misura massima del 20 per cento;
allo Stato, per l’ammontare residuo.
Nessuno dei partecipanti al capitale ha voce sulla gestione. Mentre i pareri che vengono forniti al Parlamento sulle leggi sono richiesti dalla politica. Che poi si arrabbia puntualmente quando non le piacciono. In ultimo, la Bce ha proposto l’euro digitale come moneta elettronica. Ovvero l’esatto contrario del contante.
(da Open)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
I DRONI HANNO COLPITO NEL CUORE DELLA RUSSIA
“Chi osa vince”. Gli ucraini hanno fatto loro il motto delle forze speciali
britanniche e lanciano raid sempre più temerari, colpendo in profondità il territorio russo. Incursioni simboliche, che non causano gravi danni ma incrinano la credibilità interna di Vladimir Putin.
Domenica notte un duplice attacco ha bersagliato le basi più importanti di tutte, quelle dei bombardieri strategici destinati a usare le armi nucleari, arrivando a soli duecento chilometri da Mosca. La dinamica ancora non è chiara. Sulla pista di Dyagilevo, nella regione di Rjazan che confina con il distretto della capitale, è esplosa un’autocisterna di carburante: tre avieri sono morti e quattro sono rimasti feriti. Nelle foto si vede pure un grande jet Tupolev Tu-22 Backfire con la coda devastata. Le immagini fanno pensare a un sabotaggio e a una bomba piazzata da agenti infiltrati, ma i russi dicono sia opera di un drone. Negli stessi minuti ordigni teleguidati sono piovuti sull’aeroporto di Engels, lungo il Volga nel territorio di Saratov: due quadrimotori Tupolev 95 sono stati messi fuori uso.
La propaganda russa non ha potuto negare gli assalti e sui canali Telegram dei “falchi” si sono moltiplicate le critiche ai generali, “così inetti da non riuscire a proteggere le installazioni più delicate della patria”: accuse che rischiano di inasprire ulteriormente la reazione del Cremlino.
Gli ucraini stanno facendo di tutto per estendere le missioni: due settimane fa droni navali hanno preso di mira un terminal petrolifero nel porto di Novorossiysk, a occidente della Crimea. Questa determinazione potrebbe provocare malumori alla Casa Bianca, intenzionata a limitare i pericoli di escalation nucleare.
Ieri il Wall Street Journal ha rivelato che gli Himars consegnati alla resistenza sono stati modificati per impedire l’uso di razzi con portata superiore ai cento chilometri. Invece, stando alle prime notizie, Kiev ha condotto il blitz notturno utilizzando vetusti droni sovietici: si tratterebbe dei Tupolev 141 Strizh, risalenti agli anni Settanta, con un raggio di azione superiore a mille chilometri e resi più precisi dagli ingegneri ucraini inserendo un sistema di guida gps.
La risposta non si è fatta attendere. Ieri pomeriggio l’allarme è scattato sull’intera Ucraina, mentre navi e aerei russi hanno fatto partire almeno settanta missili. Kiev sostiene di averne abbattuti sessanta; Mosca dichiara di avere centrato diciassette obiettivi. Si tratta dell’ottavo bombardamento su larga scala portato a termine in due mesi. I bersagli privilegiati sono sempre gli stessi: gli snodi della rete elettrica, in modo da bloccare le forniture di energia. Gli impianti sono stati distrutti più volte e i tecnici faticano a ripararli, anche per la carenza di pezzi di ricambio. La valenza è doppia. Da una parte si cerca di lasciare la popolazione al buio e al freddo, con le temperature che sono scese in molte zone sotto lo zero. Dall’altra si punta a paralizzare le linee ferroviarie, fondamentali per alimentare la resistenza al fronte.
I rifornimenti bellici viaggiano sui binari: bisogna spostare tank pesanti cinquanta tonnellate e centinaia di vagoni di proiettili, attività impossibile lungo le strade. I convogli inoltre trasferiscono in direzione opposta decine di mezzi danneggiati o bisognosi di manutenzione nelle officine delle retrovie e delle nazioni confinanti. Senza treni, in pratica, l’esercito ucraino rischia di restare disarmato. Per questo ieri sera il gestore dell’energia Ukrenergo ha annunciato blackout in tutto il Paese – il 40 per cento della provincia di Kiev è senza luce – per destinare la corrente “alle infrastrutture essenziali”.
In una guerra di logoramento, la logistica è l’elemento determinante: ogni giorno gli eserciti necessitano di migliaia di tonnellate di combustibile e munizioni. Lo si comprende anche dal gesto di Putin, che ieri ha percorso a bordo di una Mercedes il ponte di Kerch, il lungo viadotto che unisce Russia e Crimea fatto saltare in aria l’8 ottobre e parzialmente ricostruito. L’esplosione del ponte ha pesato sulle decisioni dei generali russi, contribuendo alla ritirata da Kherson. Adesso Mosca accumula brigate e prepara nuove offensive, che il comando ucraino tenterà di anticipare. Si teme che sarà un Natale di fuoco.
(da agenzie)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
DIVISI SU TUTTO MA UNITI DAL CALCIO
Stefano Bonaccini e Elly Schlein, ordine alfabetico, hanno un grande terreno di intesa: il piacere di giocare a calcio. Lui l’ha fatto fino a 38 anni, è arrivato in Promozione, lei è uno degli elementi di punta della Nazionale parlamentari. Fine delle intese. Dice: ma come? Non hanno pure lavorato insieme in Regione Emilia Romagna, dove Schlein è stata la vice di Bonaccini? Sì, e il ticket era un’altra prova della loro diversità, anzi era studiato e varato proprio per la complementarietà: cosa serve a Bonaccini per non essere troppo Bonaccini? Schlein. Cosa serve a Schlein non essere troppo Schlein? Sapete la risposta.
Se la sceneggiatura l’avesse decisa l’algoritmo che sonda e secerne i gusti del pubblico delle piattaforme video, non avrebbe potuto assortire più schematicamente gli antagonisti della serie dem “Il Congresso”. Bonaccini e Schlein sembrano fatti per incarnare ogni tipo di antinomia: uomo contro donna, lui nato a Modena, un po’ Bruce Willis va in Emilia (dopo il cambio di look), lei nata a Lugano, la Alexandria Ocasio-Cortez di noialtri, come la stella della new left newyorchese è cresciuta da spina nel fianco dell’apparato, provincia contro cosmopolitismo, centrosinistra e sinistracentro, in questo caso il centro forse, piadine e avocado, Guccini e Dylan, pure gli hobby li distanziano, sebbene forse più per ragioni anagrafiche (rispettive date di nascita: 1967 e 1985).
Dunque uno, analogicamente, fa la collezione a kilometro zero di album Panini e l’altra, millennial, ama rilassarsi con i videogiochi, il primo ha visto tutte le puntate del tenente Colombo e di Ellery Queen, la seconda suona il piano e la chitarra elettrica. Schlein ha avuto anche un passato nel cinema, da aiuto regista di un documentario sull’immigrazione albanese, molto impegnato, il film preferito di Bonaccini è Novecento di Bernardo Bertolucci, che almeno era pieno di bandiere rosse.
Le distanze, ovviamente, ci sono anche se si parla di politica. E di guerra. Bonaccini è un convinto sostenitore della linea del Pd sul conflitto in Ucraina: la pace va cercata sì, ma intanto non si può lasciare l’aggredito in balìa dell’aggressore. Schlein è ambigua sull’invio di armi: parliamone, dice, ma ora serve uno sforzo diplomatico. Sembra la linea di Giuseppe Conte.
Del Jobs Act Schlein ha detto, proprio a Repubblica, che fu la prova dell’asservimento del Pd al “mantra neoliberista”. Altre cose del Pd che Schlein punta a rottamare: le politiche di Minniti sull’immigrazione, le aperture all’autonomia differenziata. Su quest’ultimo punto, però, anche Bonaccini sembra in fase di ripensamento dopo una disponibilità a ragionarci. Nessuno vuole il sostegno delle correnti, ma ognuno volente o nolente ne prenderà i voti.
Un tempo si sarebbe detto il riformista contro la radicale, non nel senso pannelliano ma della nettezza delle posizioni. Ha ancora senso? Per la riuscita del congresso è una iattura, per i diretti interessati pure, però al resto del mondo – leggi soprattutto: i rispettivi sostenitori – piace incasellarli più di quanto già non lo siano.
I fan del governatore emiliano ne lodano il pragmatismo e la solidità politica, e rischiano di scoraggiare chi giustamente dopo anni di batoste e delusioni chiede il brivido di una svolta profonda; i fan della sua ex vice ne vantano la freschezza e l’idealismo, e rischiano di impaurire chi teme il salto nel buio, perché guidare il Pd è senz’altro più complicato che occuparlo, come Schlein fece dopo la congiura dei 101 contro Prodi, il movimento si chiamava Occupy Pd come quello contro Wall Street, una delle molte etichette adottate dalla sinistra italiana negli ultimi anni che, non si offenda la mozione internazionalista, hanno funzionato meglio al Village che all’uscita del turno di Melfi.Tra le oggettive distanze antropologiche che separano i due principali aspiranti alla leadership del Pd c’è poi il fatto che Bonaccini è un ragazzo di sezione, papà camionista e mamma un po’ operaia un po’ casalinga, entrambi comunisti del Pci, tutti in lacrime ai funerali di Enrico Berlinguer; Schlein, invece, figlia di un politologo di origine ebraica e di una docente universitaria, è una ragazza di intersezione, la teoria di matrice Usa che ha reso non binaria anche la vecchia lotta di classe e assegna i punti sfruttamento in base a genere, etnia, colore della pelle, disabilità: chi somma tutti gli svantaggi è insieme il rappresentante e il rappresentato ideale della politica progressista. Se la segreteria del Pd si decidesse sulla base dell’intersezionalismo, Bonaccini sarebbe spacciato. È maschio bianco etero abile: non benissimo. Schlein due anni fa annunciò di essersi innamorata di una donna. Resta nelle biografie quel gancio che può svoltare la giornata di un editorialista sovranista e pigro: è un (ex) proletario il candidato leader più moderato, è una borghese la candidata che pensa il Pd più spostato a sinistra.
Il governatore è già gravato da un problema evidente, deve convincere molti di non essere in missione per conto di Renzi, di cui fu coordinatore della segreteria prima di candidarsi in Regione. In realtà Bonaccini ha preso da tempo le distanze dall’ex premier. Ad accomunarli c’è forse qualche tratto caratteriale, Bonaccini è un sanguigno, istintivo come Renzi seppure decisamente meno machiavellico. Nel Pd che è da anni un campo di battaglia le polemiche trasversali vanno forte. “Zitto tu, che ti vota Lotti”, dicono dunque al governatore gli ultras della curva Schlein. “Zitta tu, che ti vota Franceschini”, rispondono dalla curva opposta. Franceschini stesso, d’altra parte, la spiega così: “Bonaccini è l’usato sicuro, Schlein è il rischio, ma questa è la fase in cui il Pd o rischia o muore”.
Dire oggi chi prevarrà nella sfida ai gazebo è impossibile. E forse è un bene che lo sia. Tra gli iscritti è probabile prevalga Bonaccini, molti non gradiscono che la guida del partito vada a una neo tesserata. Alle primarie può succedere di tutto e per molti non sarà facile decidere: Stefano o Elly? Dentro o fuori? E soprattutto: qual è il contrario di usato sicuro?
(da Repubblica)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
“IN CITTA’ L’80% DELLE ATTIVITA’ APPPREZZA IL POS”
Vorrei, ma non Pos. A parte poche eccezioni e molti mugugni, quando si
tratta di pagare sembra che Genova – complice il Covid – abbia imparato a usare le carte al posto del denaro contante. Anche per le piccole cifre. Però, attenzione: la manovra del governo, che vuole togliere le sanzioni agli esercenti che negano il pagamento elettronico ai clienti – l’obbligo rimane, ma niente più multe a chi trasgredisce quando si tratta di un somma inferiore (per ora) ai 60 euro – rischia far precipitare tutto in un Far West. Il recente episodio che ha coinvolto Silvia Salis, oggi vice-presidente del Coni, lo conferma.
Salita su un taxi e diretta all’aeroporto Colombo, l’ex campionessa di lancio del martello ha chiesto di usare la carta per la corsa (32 euro) e si è sentita rispondere in maniera “arrogante”: “È finita la pacchia delle banche. Servono i contanti”. Il suo racconto su Instagram è stato subito ripreso da Selvaggia Lucarelli. Che ha commentato con sarcasmo: “Con Giorgia Meloni verso il futuro”.
Davvero è proprio dal capoluogo ligure – dove il pagamento elettronico è assicurato nell’80-90% dei casi – che può partire questa rivoluzione al contrario? Quante contraddizioni. C’è solo una su cui sono sembrano tutti d’accordo: “Basta con le commissioni bancarie”. “Stiamo cercando il tassista. Se è andata così, rischia una lunga sospensione e una multa”.
Valter Centanaro, presidente della Cooperativa Radiotaxi: 750 aderenti su 869 tassisti genovesi. Ci sono buone ragioni per credere che quello della “pacchia finita” sia uno dei suoi. “Non ci siamo mica: il linguaggio mi ricorda qualcosa che non mi piace per niente”. Altra storia, restiamo seri. “Qui il Pos lo abbiamo da più di 7 anni. Dalla passata primavera il regolamento comunale lo ha reso obbligatorio. Non c’è più bisogno di segnalarlo nella telefonata di prenotazione”. Spiega che due terzi del suo incasso di quest’anno è passato attraverso il pagamento elettronico.
“Tanti turisti stranieri. E per loro, l’uso della carta è normale”. Appunto. “Il fatto è che questa nuova manovra del governo ha finito per sorprendere tutti, e crearci qualche problema”. Si ritorna ai contanti, come dice quel suo collega che ha accompagnato la Salis? “Mi sono già messo in contatto col Comune, per capire cosa potrebbe accadere dal prossimo anno. La Meloni dirà che non c’è più obbligo di Pos, il sindaco Marco Bucci sì: chi ha ragione? Io giuro che la mia cooperativa non tornerà indietro. E se qualcuno non è d’accordo, faremo un’assemblea”.
Tesi sostenuta anche da Valerio Giacopinelli, tassista da 39 anni e rappresentante sindacale. Il problema, dicono entrambi, sono le commissioni da pagare alle banche. “Quello in cui si è imbattuto Silvia Salis è solo un cretino, un’eccezione. Faremo di tutto per evitare altri episodi del genere. Però è assurdo dover pagare una trattenuta su di una tariffa amministrata”.
Taxi a parte, come funziona a Genova col Pos? Emanuele Guastavino, presidente ligure dell’Associazione Difesa Orientamento Consumatori, sostiene che in almeno 8 casi su 10 il pagamento elettronico sia sempre garantito. “I negozianti si sono tutti adeguati, ma è vero che questa nuova manovra rischia di creare della confusione: in futuro confidiamo nel buonsenso generale”.
È vero: ormai il Pos ce l’hanno il verduraio sotto casa e il parrucchiere. Lo accetta anche il barista, per un semplice caffè. Con qualche eccezione: chiedete agli universitari che frequentano il bar dell’Albergo dei Poveri. Niente Pos, chissà perché. E il bar-tabacchi vicino? Per le consumazioni al tavolo, va bene il pagamento elettronico. Per le sigarette, no: c’è sempre qualcosa che non va con la linea. Quanti mugugni. Come ieri mattina in un locale di Sestri Ponente: 12 euro per la colazione, mostriamo la carta. Quello che dice? “Va bene caro mio, ma tra poco non saremo più obbligati: dovrà pagare in contanti”.
Inutile offrire mezzo euro in più. “No, non è colpa sua: sono queste maledette commissioni bancarie”. Un’ora dopo, Nervi: il titolare, che fino all’anno scorso rifiutava la carta per gli importi inferiori ai 10 euro, ora lo fa suo malgrado. “Però, se va così, tra un mese dico basta alle bottigliette d’acqua o i caffè pagati con la carta. Avete presente quanto mi costa il canone Pos e la percentuale da dare alla banca?”.
Alessandro Cavo, vicepresidente vicario Confcommercio Genova, scuote la testa: “L’obbligo al Pos resta, però tolgono le sanzioni al disotto di un certo importo”. Conferma: “Il capoluogo ligure è ben disposto, rispetto all’uso del pagamento elettronico. E non credo proprio che dal prossimo anno gli esercenti torneranno sui loro passi: sarebbe comunque controproducente. Però serve un abbattimento omogeneo delle commissioni. Attualmente ci sono alcuni circuiti che lo prevedono per importi inferiori ai 10 euro, vogliamo che il limite salga a 25. Altrimenti si va in perdita”.
(da Repubblica)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
“REPLICARE COLPO SU COLPO” L’IMPUT ALLA CORTE CHE LA CIRCONDA… SIAMO IN DEMOCRAZIA, GIORGIA, IL DISSENSO E’ ANCORA PERMESSO
L’ordine è partito da Giorgia Meloni: scavare trincee, alzare barricate, replicare colpo su colpo. Perché la premier è già “stufa” degli attacchi al suo governo. Quelli di Bankitalia, quelli che potrebbero arrivare dall’Europa, quelli già resi pubblici dalle parti sociali.
Stanca di finire nel mirino, visto che guida il Paese da poche settimane. Questo è il sentimento, il senso dell’assedio permanente. La linea di Giovanbattista Fazzolari, insomma, è la sua: lascia solo che sia il suo sottosegretario a pronunciare quelle parole di fuoco, però, perché farlo in prima persona appiccherebbe un incendio istituzionale devastante.
Lo scontro
Eppure, c’è strategia anche in questo sentimento. Attaccare Bankitalia, per prepararsi al compromesso. Rivendicare una posizione storica, per dare la colpa ad altri dell’eventuale marcia indietro. Popolo contro palazzi, commercianti contro banchieri. E così, Meloni permette che si apra uno scontro istituzionale con Palazzo Koch. Sottotraccia, però, l’esecutivo tratta con Bruxelles. Prova a chiudere un accordo per abbassare da sessanta a trenta euro il limite per pagare con il pos. Tenterà di esplorarla fino alla fine. Ma siccome non intende mettere a rischio i fondi del Pnrr per una leggina sui bancomat, è disposto a un dietrofront completo: la cancellazione totale della norma. Meloni non può bruciare miliardi solo per difendere una misura bandiera. Non è questa la regina di tutte le battaglie. Semmai, il governo tirerà un po’ di più la corda sull’innalzamento del tetto massimo per il contante, che al momento ha fissato a 5 mila euro.
Il rischio slavina
Non è soltanto una questione di pos, o comunque: c’è molto altro dietro questo scontro con Bankitalia. Lo si capisce poco dopo l’affondo del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, quando parole ruvide arrivano anche dal vicepremier Antonio Tajani. In questa escalation c’è anche la paura che i conti sfuggano di mano. La premier sa che la manovra è nel mirino. Di Bankitalia, appunto, ma anche dell’Europa e delle parti sociali. Sa che l’inverno potrebbe diventare caldo, di piazza, dando sfogo alle proteste per l’abolizione del reddito di cittadinanza. E conosce il rischio peggiore: la slavina.
Un conflitto aperto con la Commissione europea sul bancomat può mettere a rischio gli obiettivi del Pnrr, che prevedono di non tornare indietro su tracciabilità e denaro elettronico. L’alternativa è vedersi decurtati i miliardi – quaranta solo nel 2023 – che il Recovery mette a disposizione dell’Italia. L’effetto ricadrebbe sul Pil, dunque sui conti pubblici. E, di conseguenza, sulla capacità del Paese di finanziarsi con i titoli di Stato. Ecco perché Palazzo Chigi reagisce con l’ormai consueto doppio registro: alza il tiro, ma sottotraccia si mette nella posizione di siglare una tregua. È successo sui migranti, potrebbe accadere sulla manovra.
E d’altra parte, Meloni deve evitare che il suo governo si bruci alla prima curva. I ritardi del Pnrr emergeranno in tutta la loro potenza dirompente già a inizio 2023, perché molti cantieri non sono stati neanche pensati. Raffaele Fitto, alle prese con un lavoro ciclopico, si prepara a un’operazione trasparenza per provare a mettere al riparo l’esecutivo dagli effetti di questa dinamica. E poi ci sono le stime sulla crescita: anche in quel caso, la premier si gioca molto. Se infatti le previsioni al ribasso del Fondo monetario internazionale (-0,2%) dovessero risultare più accurate di quelle dell’esecutivo (+0,6%), si avvicinerebbe ancora quell’effetto a catena temuto da Palazzo Chigi.
Il Quirinale
E poi c’è il Quirinale. È prassi che per atti di questa importanza Bankitalia tenga informato il Colle. L’attacco scomposto di Fazzolari non è naturalmente passato inosservato al Quirinale. Un tuffo nell’archivio può aiutare a decifrare il pensiero di Sergio Mattarella. Cinque anni fa, il 17 ottobre 2017, quando l’allora segretario del Pd Matteo Renzi annunciò una mozione contro il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, il Presidente della Repubblica fece infatti sapere che “le prese di posizione riguardanti Bankitalia debbano essere ispirate a esclusivi criteri di salvaguardia dell’autonomia e indipendenza dell’Istituto e nell’interesse della situazione economica dell’Italia e della tutela del risparmio degli italiani”. A tali principi “deve attenersi l’azione di tutti gli organi della Repubblica, ciascuno nel rispetto del proprio ruolo”. E dunque va registrata la quasi immediata rettifica di Fazzolari, dopo l’affondo.
L’attacco a Bankitalia s’inserisce inoltre nella partita per la successione dello stesso Visco, che scade a fine ottobre del 2023. E che spetta a questo governo. Il Capo dello Stato svolge tuttavia un ruolo sostanziale nella procedura, visto che firma il decreto di nomina su proposta del consiglio dei ministri. Già nell’ottobre del 2015 Mattarella aveva definito “preziosa e fondamentale” l’azione di vigilanza di Bankitalia. Disse testualmente: “Un sistema bancario efficiente, stabile, inclusivo – su cui, nel nostro Paese, si esercita la preziosa e fondamentale azione di vigilanza della Banca d’Italia – rappresenta una componente essenziale per lo sviluppo sostenibile dei nostri Paesi e dell’Unione”.
(da agenzie)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
LA BLOGGER PARLA DELLA MAMMA DI TRE BAMBINI E ALLENATRICE DI PALLAVOLO, CONDANNATA A MORTE DAL REGIME IRANIANO PER AVER DATO UN CALCIO A UN PASDARAN
Alessia Piperno, la travel blogger romana rimasta in carcere in Iran per 45
giorni, torna a scrivere sul suo profilo Instagram raccontando alcuni particolari della prigionia che l’ha provata a tal punto da non avere ancora la forza per parlarne pubblicamente.
Stavolta il post, corredato da due foto, è dedicato alla sua compagna di cella per 34 giorni, Fahimeh Karimi. Mamma di tre bambini e allenatrice di pallavolo, condannata a morte per avere dato un calcio a un pasdaran. Lei le cantava “Bella ciao” nei momenti in cui era disperata.
Il dolore di Alessia è ancora vivo e emerge ancora una volta la sua voglia di impegnarsi per le donne iraniane.
“Un giorno è uscita dalla cella per andare in infermeria, e non è più tornata. Tra di noi non ci sono state grandi conversazioni, dal momento che io non parlavo farsi e lei non parlava inglese. Ma eravamo unite dallo stesso dolore e dalle stesse paure – scrive la giovane sul suo profilo – Ho cercato il suo nome ogni giorno da quando sono tornata, per controllare se avessero liberato anche lei. Invece mi sono trovata davanti a un articolo con il suo volto con scritto ‘condannata a morte’. Cosa serve per fermare tutto questo? Cosa c… serve?”, si chiede la romana che sta seguendo, di certo, le evoluzioni della lotta per i diritti delle donne in Iran.
Piperno ripercorre la convivenza tra le due donne in cella. L’altra foto è quella di un cielo stellato. “Sei bianca come quel muro, sarà che a forza di guardarlo, ha mangiato i tuoi respiri. Siamo nascoste in un punto cieco qui, le tue urla sono come il silenzio, fai a pugni con la porta e calpesti le tue stesse lacrime. “AZADI! AZADI! (Libertà. Libertà, ndr)”. Ti canto Bella ciao, e tu ti metti a piangere, altre volte mi batti le mani. Vorrei dirti di più, ma che ti dico?”, è un passaggio del lungo post.
La travel blogger, ritornata a Roma il 10 novembre dopo essere stata scarcerata, scrive che Fahimeh gridava i nomi dei suoi tre figli e aggiunge una frase che fa pensare a possibili ritorsioni nel carcere di Evin: “Aprono quella porta perché fai troppo rumore, ma siamo carne senza vita noi, e ci schiacciano come foglie secche, ascolta, loro non hanno cuore. Ti butti a terra con la testa tra le mani, premi con le dita contro le tue tempie, vuoi strappare i tuoi pensieri, farli uscire dalle tue orecchie, sono sabbie mobili, lo so bene”.
Una descrizione di giorni tormentati dentro alla cella. Conclude così il suo secondo post a una settimana dal primo: “Domani è un giorno nuovo, magari saremo libere, anche se si, hai ragione, te l’ho detto anche ieri. Arriva la pasticca che ci canterà la ninna nonna, ti prendo la mano, è quel poco che posso fare, metti la testa sotto la coperta, almeno lì le luci sono spente, guarda il cielo, le vedi anche tu le stelle? Buona notte Fahimeh”.
(da La Repubblica)
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