Dicembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
“COSI’ LA RUSSIA DIMOSTRERA’ LA SUA FORZA”
Alla base della decisione di Vladimir Putin di invadere l’Ucraina ci sarebbe un fitto dialogo con l’oligarca Yuri Kovalchuk, 71 anni, definito il «banchiere personale» del presidente russo dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti.
È «l’uomo dei soldi e dei media», in possesso di banche, società offshore per conto di Putin e dei dieci canali televisivi più seguiti del paese. Fonti di intelligence che hanno parlato con il Wall Street Journal rivelano che sia proprio lui una delle voci più influenti a sostegno dell’invasione di Mosca su Kiev, convinto che «la guerra possa dimostrare la forza della Russia».
Secondo quanto riferiscono le fonti dell’intelligence e un amico della famiglia Kovalchuk, nelle prime fasi della guerra e poi anche in seguito il miliardario a capo della Banca Rossiya e il presidente russo si sono incontrati più volte, e frequenti sono state anche le conversazioni per telefono o in video.
Interviste con ex funzionari statunitensi e analisti del Cremlino, nonché documenti pubblici e informazioni rivelate dai Panama Papers, rivelano anche che l’imprenditore russo abbia costruito una rete di società offshore di cui hanno beneficiato Putin e i suoi amici, investendo in progetti importanti anche per lo Stato.
Risulterebbe anche che il National Media Group di Kovalchuk possiede o detiene quote importanti in decine di società russe di televisione, produzione cinematografica e pubblicità, tra cui Channel One, gestito dallo Stato. Quattro dei canali affiliati al National Media Group sono tra i 10 più seguiti del Paese.
A confermarlo è anche l’economista e consulente del governo russo dal 1991 al 1994, Anders Aslund: «Kovalchuk svolge due dei lavori più importanti per Putin. È l’uomo dei soldi e dei media». Non a caso sono stati proprio i canali televisivi del National Media Group a mandare in onda le accuse di funzionari russi secondo cui l’Ucraina starebbe progettando di far esplodere una «bomba sporca» sul proprio territorio.
(da Open)
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Dicembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
MELONI È NEI GUAI PERCHE’ NON HA ANCORA COMPLETATO LE 55 RIFORME NECESSARIE A OTTENERE ENTRO IL 31 DICEMBRE LA TERZA RATA DA 20 MILIARDI DEL RECOVERY PLAN
Il Piano nazionale delle riforme «è stato scritto in fretta e furia», e per questo occorrerà «rimodulare risorse e tempi. Modificarlo non può essere un tabù». Francesco Lollobrigida è ministro dell’Agricoltura, ma soprattutto fedelissimo di Giorgia Meloni. La premier è in difficoltà, perché non ha ancora completato le 55 riforme necessarie a ottenere entro il 31 dicembre la terza rata da venti miliardi del Recovery Plan. Ha un problema in più: i ritardi nelle opere fin qui progettate dal precedente governo e l’aumento dei costi delle materie prime causato dall’inflazione.
Se i fondi non vengono spesi, si rischia di perderli. Le probabilità di ottenere ragione con Bruxelles sono pari allo zero. Una fonte della Commissione che chiede di non essere citata conferma quel che il commissario Paolo Gentiloni va dicendo da settimane: ottenere una modifica dei tempi entro i quali completare il lavoro – il 2026 – è impossibile.
Occorrerebbe riscrivere il regolamento del piano, e passare dalla ratifica di tutti i parlamenti dei Ventisette. Se il sistema Italia fatica a rispettare i tempi, deve attrezzarsi per colmarli. «Un po’ di flessibilità si può trovare dentro alle regole», dice la fonte europea.
È pur vero che l’attuazione del Piano è più complessa di quel che si possa immaginare, e talvolta le responsabilità non sono tutte in Italia. Il ministro delle Imprese Adolfo Urso ieri ha sollevato ad esempio il caso dei quasi quattro miliardi di fondi rimasti inutilizzati per finanziare i progetti di “Industria 4.0”. Il piano Industria 4.0 è iniziato con il governo Renzi. Permette di accedere a fondi nazionali ed europei per finanziare la trasformazione tecnologica delle imprese: ammortamento di nuovi impianti o investimenti in ricerca, per fare i due esempi più noti.
Ebbene, fra l’anno scorso e quest’ anno il Recovery destinava a questo fine ben 13,2 miliardi. Secondo i dati a disposizione del governo – e di cui La Stampa è venuta in possesso – le cose sono andate piuttosto bene: 120mila domande di crediti d’imposta a fronte di un obiettivo di 111.700. Con un però: la richiesta media è stata più bassa del previsto: circa 60mila euro.
I perché sono molti: le incertezze delle imprese dopo l’inizio della guerra in Ucraina, e la tradizionale struttura del sistema industriale italiano, fatto per oltre il novanta per cento da piccole e piccolissime imprese. Risultato: a oggi di quei 13,2 miliardi ne sono rimasti inutilizzati 3,8. Insomma, chi ha fatto i conti, fra Roma e Bruxelles, ha sovrastimato il necessario. Se le regole del Recovery fossero applicate rigidamente, quei fondi sarebbero persi e con essi, la possibilità di rifinanziare i crediti d’imposta nel 2023. Urso ora spera di recuperarli. «Abbiamo messo il dossier nelle mani di Raffaele Fitto perché negozi una soluzione».
Il ministro degli Affari comunitari, a cui Meloni ha affidato tutte le deleghe, sta trattando per recuperare questo ed altro. Poco meno di tre miliardi (per la precisione 2,7) potrebbero essere disponibili grazie alla redistribuzione di altri fondi non spesi (il programma si chiama Repower Eu), ma vorrebbe ottenere di più: destinare ai maggiori costi del piano parte dei fondi di coesione (quelli dedicati alle regioni del Sud) inutilizzati nel periodo 2014-2020. «Stiamo facendo le verifiche con gli enti locali e presenteremo i numeri a breve», promette Fitto. Di qui il martellamento di ministri come Lollobrigida o Salvini, preoccupati per la lentezza con cui procedono i cantieri delle opere pubbliche.
Per avere la meglio e recuperare un po’ di fondi dentro alle regole l’unica strada è accelerare con le riforme e le gare di appalto. Due giorni fa il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti ha stanziato otto miliardi di euro per le opere «indifferibili». L’ordine partito da Roma verso ministeri, Regioni e Comuni è di correre. E qualche segnale positivo arriva.
Nelle ultime 24 ore sono stati firmati due contratti (valore complessivo 68 milioni) per la costruzione di 22 satelliti e l’accordo per 127 autobus a idrogeno da mettere su strada a Bologna entro il 2026. Il comune di Terni ha ottenuto 17 milioni dal ministero dell’Ambiente per finanziare un impianto di trattamento dei rifiuti organici, mentre il progetto di Roma è stato bocciato. Irritatissima la reazione del sindaco Roberto Gualtieri: «Una scelta incomprensibile».
(da La Stampa)
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Dicembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
UNA SFIDA LOCALE MA CON UN VALORE NAZIONALE, PERCHÉ A VARESE IL SENATUR FONDÒ LA LEGA… FINISCE 229 A 217
Al Teatro Sociale c’è una poltrona vuota in prima fila. Sopra c’è una bandiera della Lega con appoggiati sopra un paio di occhiali rossi. Sono quelli di «Bobo» Maroni, appena scomparso. E ovunque ci sono i manifesti con la scritta: «Grazie Roberto. La Lega ti vorrà sempre bene». In tanti si avvicinano, commossi.
Sul palco, con il governatore lombardo Attilio Fontana in veste di militante, è intanto iniziata una partita chiave per la tenuta della leadership. E Matteo Salvini la sfanga per appena 12 voti.
Al Sociale di Busto Arsizio, 638 militanti della Lega sono gli aventi diritto al voto per eleggere il nuovo segretario provinciale di Varese. È un congresso vero, in piena regola. Una testa un voto, nel segreto dell’urna, da cui dipende anche la tenuta del segretario federale Salvini.§Una sfida locale, che ha un valore nazionale. Perché Varese, anche se il congresso si tiene nella vicina Busto, è la Nazareth della Lega. Tutto iniziò da qui, nel 1984, quando Umberto Bossi fondò la Lega lombarda presso lo studio del notaio Bellorini.
Alla fine, dopo quasi 8 anni senza congresso, vince il candidato salviniano: Andrea Cassani, sindaco di Gallarate, in quota Salvini, che batte lo sfidante Giuseppe Longhin, militante delle origini e appoggiato anche dal Comitato Nord guidato da Umberto Bossi: 229 contro 217 voti. Appena 12 di scarto.
A fare da «arbitro» c’è il commissario uscente del partito Stefano Gualandris, fedelissimo del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che nel varesotto ha il suo fortino identitario e politico.
E proprio Giorgetti, vicesegretario nazionale che però ha più di una frizione con il suo leader, stamattina non si è visto.
Ora Salvini può tirare un piccolo sospiro di sollievo, perché se oggi fosse andata diversamente, specie dopo aver perso un congresso identitario come quello di Bergamo, sarebbe aumentato il numero di militanti e dirigenti che gli avrebbero chiesto un passo indietro dopo il crollo elettorale del 25 settembre.
Ma la battaglia politica, specie dopo la sfida lanciata a Salvini da Bossi con il Comitato del Nord, è solo agli inizi.
(da Il Corriere della Sera)
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Dicembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
NORDIO HA DOVUTO DARE CONTO AI SENATORI E AI CITTADINI DEL CARTEGGIO TRA PROCURA DI FIRENZE E COPASIR CHE SPIEGAre IL COMPORTAMENTO DEL PM TURCO, DEFINITO IN AULA DA RENZI “O EVERSIVO, O ANARCHICO” O ADDIRITTURA “CIALTRONE”
Nella scenetta già di per sé poco edificante avvenuta in Senato il primo dicembre scorso tra Renzi e Nordio c’è un retroscena ancora più imbarazzante per le istituzioni. Il ministro della Giustizia come è noto ha deciso di chiedere agli ispettori del Ministero di verificare quello che hanno combinato i pm di Firenze inviando al Comitato parlamentare di controllo dei Servizi Segreti, il Copasir, le carte sequestrate a Marco Carrai, amico dell’ex premier, indagato con lui nell’inchiesta sulla Fondazione Open.
Di fronte al senatore-imputato-interrogante Renzi, Nordio ha fatto riferimento a una sua conoscenza parziale e non ufficiale di quanto successo a Firenze. Di qui la necessità di fare ricorso all’Ispettorato per chiarire e prendere poi provvedimenti.
Il 1° dicembre in Senato Renzi ricostruiva i fatti a modo suo, citando la decisione della Cassazione di annullare il sequestro e ordinare la restituzione dei documenti e dei contenuti del pc e dei telefonini e si rivolgeva così a Nordio: “Il pm (…) ha scelto di prendere il materiale e di mandarlo al Copasir. La domanda è (…) se lei sia a conoscenza di questo fatto e che provvedimenti intenda prendere nel caso lo ritenga un atto sbagliato”.
Il ministro aveva tutti gli elementi per rispondere in aula.
Il giorno prima, nella serata del 30 novembre, era arrivata ai suoi uffici una mail con posta pec dalla Procura di Firenze, con allegate tra l’altro la richiesta degli atti da parte del Copasir e la risposta del pm Luca Turco, in risposta a una richiesta partita dalla stessa via Arenula.
In quella nota che dunque Nordio avrebbe dovuto conoscere c’era la spiegazione del perché il pm di Firenze, pur essendo consapevole dell’annullamento del sequestro delle carte di Carrai senza rinvio, con restituzione degli atti e con l’invito esplicito a non trattenerne copia, avesse scelto di inviarli al Copasir per il suo ruolo istituzionale di tutela della sicurezza nazionale.
Vista la delicatezza della questione, gli uffici del ministero hanno certamente redatto per Nordio una nota approfondita che difficilmente può trascurare le motivazioni alla base della scelta così argomentata nella nota stringata scritta da Turco inviando le carte a marzo al Copasir.
Invece ecco cosa risponde Nordio a Renzi e al Senato il 1° dicembre: “Dico subito che la conoscenza ufficiale di questi atti è parziale e quindi dico anche quello che risulta ufficialmente: che in data 18 febbraio 2022 la Cassazione ha, come esposto in interrogazione, annullato senza rinvio il decreto di perquisizione e di sequestro emesso in data 20 novembre 2019 nei confronti di Marco Carrai disponendo la restituzione all’avente diritto di quanto in sequestro senza trattenimento di copia degli atti. Gli ulteriori fatti che sono stati enunciati nell’interrogazione saranno oggetto di immediato e rigoroso, sottolineo rigoroso, accertamento conoscitivo attraverso l’ispettorato generale”.
In pratica Nordio sembra tracciare una netta divisione tra i fatti che conosce ufficialmente e quelli che invece ha appena ascoltato dalla voce di Renzi. Ma le cose non stanno così. O almeno non dovrebbero stare così, se gli uffici del ministero hanno fatto il loro dovere. Il ministro Nordio avrebbe più correttamente dovuto dare conto ai senatori e ai cittadini del carteggio tra Procura di Firenze e Copasir che spiega il comportamento del pm Turco, definito in aula da Renzi “o eversivo, o anarchico” o addirittura “cialtrone”.
Anche perché quella stessa spiegazione è stata addotta dai pm di Genova per chiedere l’archiviazione – il 2 dicembre, cioè all’indomani del question time – delle accuse penali di Renzi e Carrai al pm Luca Turco. Il quale aveva così risposto alle richieste di informazioni del Copasir l’8 marzo scorso: “Rappresento che l’annotazione gdf 17/2/22 prot. 54737 contiene, tra l’altro, l’esito delle analisi dei reperti informatici sequestrati all’imputato Carrai Marco.
Sennonché, in data 18/2/22, la Suprema Corte ha annullato tale sequestro, con la conseguenza che le informazioni contenute in tale annotazione sono processualmente inutilizzabili. A fronte di tale annullamento, considerate le finalità istituzionali del Comitato, non condizionato da regole processuali, ritengo comunque doveroso trasmettere anche le sopra indicate annotazioni unitamente alla copia forense del materiale sequestrato al predetto Carrai”.
Nordio, invece, ha premesso di non avere conoscenza ufficiale dei fatto raccontati da Renzi e così ha potuto proseguire scandendo parole che sembravano pietre scagliate sulla Procura di Firenze: “Questo dicastero procederà a un’approfondita, e sottolineo approfondita, valutazione di tutti gli elementi acquisiti al fine di assumere le necessarie iniziative. L’indagine conoscitiva avrà assoluta priorità nell’attività ispettiva e le determinazioni che ne deriveranno saranno adottate con la consequenziale rapidità”.
Abbiamo chiesto al ministro se gli uffici gli avessero trasmesso anche i contenuti della mail della Procura di Firenze con i documenti allegati e, in questo caso, perché non ne abbia parlato in Senato. Non ci ha risposto. Anche i suoi uffici al Ministero sul punto non rispondono, mentre sull’ispezione in Procura precisano: “Non sono stati inviati gli ispettori: a fronte di denunce, come avviene anche per quelle giornalistiche, il ministro – attraverso l’ispettorato – può chiedere informazioni, per verificare – a tutela di tutti – il rispetto delle regole. Come ha detto il ministro in aula, si tratta di ‘accertamenti conoscitivi'”.
La nota del ministero al Fatto vorrebbe essere rassicurante, ma lo è ben poco il riferimento all’articolo 56. Che si apre così: “Per l’esercizio dell’azione disciplinare, per l’organizzazione del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, nonché per l’esercizio di ogni altra attribuzione riservatagli dalla legge, il ministro esercita la sorveglianza su tutti gli uffici giudiziari e può chiedere ai capi di Corte informazioni sul conto di singoli magistrati”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
L’IRPEF PESA SEMPRE PIU’ SULLE SPALLE DEI DIPENDENTI E DEI PENSIONATI
Chi paga l’Irpef? Chi versa nelle casse dello Stato quasi 200 miliardi, cioè quasi il 10% del Pil, ultimo dato 2021?
Nessun mistero, i dati parlano chiaro: il 55% viene dai lavoratori dipendenti, il 30% dai pensionati e il 12% dagli autonomi.
Se nei primi due casi, siamo al “volente o nolente” per via del prelievo alla fonte e il gettito è salito negli ultimi vent’anni, per i lavoratori indipendenti vale il contrario: calato di 6-7 punti dal 18-19 per cento. Cos’è successo? La pandemia certo, ma ha travolto tutti. Piuttosto la flat tax al 15% che ha eroso almeno 2 miliardi all’anno di Irpef. E che rischia di portarne via altri pezzi ora che il governo Meloni ha alzato la soglia dai 65 mila agli 85 mila euro di reddito.
La curva delle tasse non può mentire, non solo perché viene tracciata dal ministero dell’Economia a partire dalle dichiarazioni dei redditi degli italiani. Ma perché in fondo conferma il buon senso dell’economia domestica: sostituire pezzi di progressività fiscale con prelievi piatti fa calare il gettito e non è detto che aumenti la base imponibile.
Per dirla in altro modo, una (piccola) parte dei contribuenti paga meno senza per questo allargare il club ad altri amici. È quello che succede dal 2019 con la flat tax per gli autonomi, la tassa piatta al 15% che assorbe Irpef, addizionali locali, Irap e Iva.
L’economista Bruno Anastasia ha elaborato i dati fiscali degli ultimi vent’anni – dal 2000 al 2020 – per capire come si forma il gettito Irpef e cos’è cambiato nel tempo.
Le sue conclusioni, pubblicate su lavoce.info, sono spiazzanti. Se si esclude una quota molto piccola – sotto al 4% – di Irpef generata da fonti minori come capitali o fabbricati, tutta l’imposta sul reddito delle persone fisiche proviene da tre tipologie di reddito ben precise: il lavoro dipendente, le pensioni e il lavoro indipendente.
I pesi, come detto, sono diversi. Cresciuti nel tempo per le prime due tipologie, tranne che nelle crisi del 2008 e 2020, decresciuti per la terza. Colpisce l’espansione del gettito dei pensionati: dal 20% dei primi anni Duemila al 30% attuale. Da un quinto a quasi un terzo.
Cosa succede tra gli autonomi
Di sicuro interesse dunque capire cosa accade tra i lavoratori indipendenti, come mai contribuiscono sempre meno a foraggiare la cassa comune dell’Irpef che poi serve a coprire una parte della spesa assistenziale e sanitaria italiana.
Il declino del lavoro autonomo non va dimenticato, visto che è in contrazione da vent’anni ormai, come registra Istat: gli indipendenti erano 6 milioni all’inizio del 2005 e ora a stento arrivano a 5. Ma questo non spiega tutto.
Se infatti si prendono i dati fiscali – che a differenza di Istat identificano come lavoratori autonomi solo quelli che traggono dal lavoro indipendente il loro reddito prevalente (per il fisco co.co.co e amministratori di srl sono lavoratori dipendenti, per l’Istat autonomi) -, si vede che le partite Iva sono scese da 3,2 a 2,4 milioni tra 2018 e 2020. E così l’Irpef da loro generata: da quasi 24 miliardi a 19,5 miliardi, oltre 4 miliardi in meno. Ma l’Irpef media pagata da ciascuno è salita da 7.400 a 8.000 euro. “Questo significa che la platea si è fortemente selezionata: meno contribuenti con maggior reddito medio e maggiore imposta media”, osserva Anastasia.
Non è stato dunque il Covid ad operare questa cernita darwiniana. Piuttosto le sirene della flat tax.
L’introduzione dei regimi fiscali agevolati ha portato un progressivo scivolamento dei redditi autonomi fino a 65 mila euro verso la flat tax. Quasi 600 mila lavoratori autonomi tra 2018 e 2020 hanno abbandonato l’Irpef per il regime forfettario al 15% – passando da 978 mila a 1,5 milioni – portando in quel canale un gettito pari a 2,3 miliardi, la metà delle perdite registrate dall’Irpef negli stessi anni.
Il salto verso la flat tax è confermato anche dalla “Relazione sull’economia non osservata” che accompagna la Nadef di fine settembre: nel 2019 vi ha aderito il 74% della platea dal 36% del 2018. Non tutti sono transitati e la percentuale può ancora crescere.
Anche perché, si legge nella Relazione, “si conferma per il 2019 un effetto di autoselezione dei contribuenti con ricavi e compensi al di sotto della soglia massima dei 65 mila euro”.
Tradotto: pur di pagare il 15% di tasse molte partite Iva, professionisti, imprese tendono a sotto-dichiarare i ricavi, a sotto-fatturare. Motivo per cui – così spiega il viceministro all’Economia Maurizio Leo – la soglia è stata alzata dal governo Meloni a 85 mila euro.
La discrasia con i dipendenti
Non sfugge però lo sbilanciamento fiscale che la flat tax ha introdotto in Italia. Non solo lo Stato perde gettito, ma dipendenti e pensionati – a parità di reddito imponibile – pagano più tasse. Non a caso, nell’ultimo Osservatorio sulla spesa pubblica e le entrate, il presidente di Itinerari previdenziali Alberto Brambilla calcola che se la flat tax fosse estesa a tutti i redditi non autonomi sopra i 35 mila euro l’Italia perderebbe un gettito Irpef pari a 100 miliardi.
Un altro studio, firmato da Silvia Giannini e Simone Pellegrino su lavoce.info, sostiene che “la flat tax, oltre che iniqua perché erode la base imponibile Irpef e aumenta la complessità e l’erraticità del sistema, per le partite Iva è un bel risparmio”. Fino a 25 mila euro di reddito, i dipendenti pagano meno tasse degli autonomi visto che l’aliquota media è sotto il 15% e quindi anche l’imposta netta è più bassa.
Nei calcoli di Alberto Brambilla il 74% dei contribuenti italiani si trova in questa fascia e paga meno della flat tax. Ma sopra quel livello, quindi tra il ceto medio che di fatto alimenta il grosso dell’Irpef, le differenze tra dipendenti e autonomi si fanno abissali.
“Elevate e poco giustificabili”, le definiscono Giannini e Pellegrino. “Sopra i 28 mila euro e fino a quasi 40 o 50 mila, l’aliquota marginale effettiva – cioè quanto si paga in più per ogni incremento di reddito – dei dipendenti è quasi tre volte, anche più di tre volte se si considerano le addizionali locali, di quella degli autonomi. Dopo si riduce un po’, ma il divario resta ed è molto alto”. Di sicuro le distorsioni ora aumenteranno con la flat tax ampliata e l’introduzione di quella incrementale.
Il nodo evasione
Se a pagare sono sempre gli stessi e l’evasione viaggia ancora attorno ai 100 miliardi all’anno, la flat tax non sembra dare una mano. Bisogna senz’altro evitare l’equazione tra autonomi ed evasori. Ma è un fatto, come conferma la Relazione sull’economia sommersa, che il tax gap del lavoro autonomo (la differenza tra imposte dovute e incassate) è stellare: 32 miliardi nel 2019, contro 4,6 miliardi del lavoro dipendente irregolare. E dunque il 68% contro il 2,8%. Percentuali non dissimili anche nel 2020. In altre parole, sette autonomi su dieci hanno una propensione a non pagare tasse. Un danno per tutti. E l’Irpef resta ai soliti noti.
(da La Repubblica)
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Dicembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
NEL 2011 A TORINO NASCE LA FAI, LA “FEDERAZIONE ANARCHICA INFORMALE” CHE SI RICONOSCE IN UN PROGETTO IDEOLOGICO NEL QUALE LE DIVERSE CELLULE MANTENGONO UN’AUTONOMIA D’AZIONE…GLI ITALIANI VEDONO NEI COMPAGNI GRECI UN SIMBOLO DA SEGUIRE
«Nei diversi angoli del pianeta siamo in grado di aggregare gruppi e individui». «Attacchi contro uomini e strutture del potere». «La violenza rivoluzionaria è un mezzo essenziale per la lotta contro il dominio». Il verbo anarchico si nutre di parole, volontà e aspira all’azione. In questi scritti, tratti da pubblicazioni tradizionali e proclami digitali, c’è l’essenza di un patto siglato anni fa tra le anime della contestazione mondiale, tra italiani, greci, sudamericani. Lotta al potere, alla politica, alla tecnologia. Bombe, attentati, buste incendiare, messaggi online per infiammare gli animi dormienti e rivendicare con orgoglio le azioni di rivolta.
L’intesa
Il movimento anarchico non è un’entità unitaria, ci sono galassie e ognuna sceglie intenti e modus operandi. C’è l’anarcoinsurrezionalismo italiano e quello ellenico. Un legame che nasce nel 2011 e che si rinsalda in questi giorni sotto lo slogan di «Cospito libero».
Qui andrebbe cercato il presunto movente dell’attentato a Susanna Schlein, diplomatica italiana ad Atene. Dove nasce questo legame? Perché?
Bisogna riavvolgere il filo della storia e tornare al 2011. In quell’anno, a conclusione di un percorso di dibattito interno e di attentati in varie città italiane, prima tra tutte Torino, nasce la Fai, Federazione Anarchica Informale aderisce al Fri, Fronte Rivoluzionario Internazionale, rete attiva in diversi Paesi con cellule di matrice terroristica. La fusione, nel lessico anarchico, serve a «collettivizzare le diverse espressioni di opposizione al potere». Cos’ è la Fai? A spiegarlo sono gli atti di indagine e le relazioni degli apparati di intelligence che hanno scandagliato il fenomeno per anni: «È un’associazione internazionale con finalità di eversione e terrorismo» che si riconosce in un progetto ideologico nel quale le diverse cellule mantengono un’autonomia d’azione.
Gli italiani vedono nei compagni greci un simbolo da seguire, in particolare il gruppo «Cospirazione delle cellule di fuoco», considerato «motore propulsore dell’esplosione di vitalità rivoluzionaria». Lo scrivono nero su bianco, in un patto. Il testo chiave è questo: «Non siamo così pochi». Tre i punti cardine dell’accordo: «Azione diretta distruttiva come elemento indispensabile e imprescindibile, dal lancio di molotov all’assassinio». Secondo: «Perenne rivolta contro l’esistente». Terzo: «Solidarietà rivoluzionaria internazionale».
È la Torino del 1997 dove le idee del rivoluzionario-filosofo Alfredo Maria Bonanno, punto di riferimento nel panorama nazionale, prendono vita e alimentano menti. Il 20 giugno, in una casa, le forze dell’ordine, durante una perquisizione, trovano un documento. Il testo-base della Fai: «Prospettive operative comuni contro la repressione dei compagni». In quella Torino muove i suoi primi passi Alfredo Cospito, all’epoca trentenne, originario di Pescara. Scrive e infiamma il dibattito cittadino. Proietta scenari «lottarmatisti», predica violenza, parla di azione «diretta e distruttiva». Con lui c’è Anna Beniamino, all’epoca 27enne, considerata dagli apparati investigativi, Ros e Digos, altra teorica del gruppo.
La sigla Fai compare nel 2003. Da quell’anno vengono inviati pacchi bomba all’allora presidente della commissione europea Romano Prodi, agli ex sindaci di Torino e Bologna, Sergio Chiamparino e Sergio Cofferati. Il 5 marzo 2007 nel quartiere della Crocetta, tra ville storiche e appartamenti di lusso, esplodono tre ordigni temporizzati, nascosti nei cassonetti della spazzatura. Il 24 maggio 2005 scoppia un pacco bomba in un ufficio territoriale della polizia municipale nel quartiere di San Salvario. E ancora: il 2 giugno 2006 davanti all’ex scuola allievi carabinieri di Fossano esplodono altre bombe. La Fai rivendica le azioni. Il salto di qualità arriva il 7 maggio 2012, subito dopo il patto: nel centro di Genova viene gambizzato l’ex amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Gli sparano con una Tokarev calibro 7,62.
Per quell’attentato finiscono in carcere, ora con sentenza definitiva, Alfredo Cospito e Nicola Gai, figlio di un imprenditore torinese.
La Grecia
Tra il 2010 e il 2011 compaiono numerosi appelli rivolti a costituire una rete più ampia, internazionale. Ed proprio la ramificazione greca a diffondere una serie di testi destinati a promuovere l’esportazione del progetto eversivo. In solidarietà, ad esempio, di Gerasimos Tsakalos e Panagiotis Argyrou, due attivisti ellenici arrestati nel 2009, e ad altri anarchici imprigionati in vari paesi. In quel periodo vengono inviati 14 plichi incendiari a personalità e istituzioni. Nel mirino soprattutto le ambasciate di Grecia, Cile, Svizzera in Italia.
Oggi la solidarietà è rivolta a Cospito, recluso in regime di carcere duro. Da oltre un mese ha iniziato lo sciopero della fame. La rete anarchica internazionale da giorni si sta mobilitando per lui. Iniziative in Italia, in Europa, e persino in Oregon. Oltre alla condanna per la gambizzazione, negli anni scorsi Cospito è stato ritenuto colpevole con altri anarchici di associazione con finalità terroristiche, attentati eversivi, strage, istigazione a delinquere. In questi giorni attende una pronuncia definitiva della Cassazione, su uno dei filoni di accuse.
Il legale di Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini, invita ad evitare «affermazioni condotte da pregiudizio o ipotesi non verificate. La quasi totalità delle iniziative di solidarietà sono state legittime e legali». L’attenzione, però, resta alta. Blitz in tutta Italia. E nei giorni scorsi il neo procuratore antimafia Giovanni Melillo è stato in visita a Torino per confrontarsi con gli investigatori in vista dell’udienza, sull’onda delle manifestazioni di protesta. Lui stesso, a Sassari, è stato oggetto di un attacco, con volantini.
(da agenzie)
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Dicembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
NEL 2021 SI CONTAVANO 1,2 MILIONI DI COPPIE DELLO STESSO SESSO IN TUTTO IL PAESE, RISPETTO AI 540.000 DEL 2008. NON SOLO: DI QUESTE QUASI IL 60% HA VOLUTO CORONARE IL LORO AMORE CON IL MATRIMONIO
Il numero di famiglie composte da coppie dello stesso sesso negli Stati Uniti ha superato per la prima volta il milione.
Nel 2021 c’erano più di 1,2 milioni di famiglie di coppie dello stesso sesso in tutto il Paese, rispetto ai 540.000 del 2008, con un aumento del 120%, secondo i dati dell’American Community Survey annuale del Census Bureau.
Circa 710.000 (59,2%) delle famiglie di coppie dello stesso sesso erano sposate e circa 500.000 (41,7%) non erano sposate.
Il numero di famiglie omosessuali sposate ha iniziato a superare quello delle famiglie omosessuali non sposate nel 2016, dopo la storica sentenza della Corte Suprema del 2015 Obergefell vs. Hodges, che ha di fatto legalizzato il matrimonio gay in tutti gli Stati Uniti.
La pubblicazione di questi nuovi dati coincide con l’avanzamento di una legge storica che codifica la protezione federale per i matrimoni delle coppie dello stesso sesso. Il Respect for Marriage Act è stato approvato dal Senato e ora torna alla Camera per il voto finale prima di passare al Presidente Joe Biden, che ha dichiarato di essere impaziente di promulgarlo.
Le Hawaii hanno la più alta percentuale di famiglie di coppie dello stesso sesso di tutti gli Stati, con l’1,4%, seguite dall’Oregon e dal Delaware, entrambi all’1,3%, secondo i dati del Census Bureau. Il Distretto di Columbia, tuttavia, li supera tutti con il 2,5%.
Il South Dakota ha la più bassa percentuale di coppie omosessuali di tutti gli Stati, con lo 0,4%, seguito da Kansas, Mississippi, Idaho, North Dakota e Montana, tutti allo 0,5%.
Sono state riscontrate alcune differenze notevoli tra le famiglie dello stesso sesso e quelle di sesso opposto.
Le famiglie dello stesso sesso, ad esempio, hanno una probabilità significativamente maggiore rispetto a quelle di sesso opposto di essere interrazziali.
Nel 2021, il 31,6% delle coppie dello stesso sesso sposate era interrazziale, rispetto al 18,4% delle coppie sposate di sesso opposto.
Le famiglie di sesso opposto, tuttavia, avevano una probabilità molto maggiore di avere figli sotto i 18 anni. Nel 2021, il 38,2% delle coppie sposate di sesso opposto e il 18% delle coppie sposate dello stesso sesso avevano figli minori nella loro famiglia.
Ci sono state anche alcune differenze notevoli tra le famiglie composte da donne e uomini, che comprendevano rispettivamente il 52% e il 48% del totale delle famiglie omosessuali.
Ad esempio, il reddito familiare medio delle coppie omosessuali maschili (116.800 dollari) era del 26% superiore a quello delle coppie omosessuali femminili (92.470 dollari).
(da agenzie)
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Dicembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
CENTINAIA DI MIGRANTI PRONTI A VENIRE IN ITALIA CON REGOLARE CONTRATTO DI LAVORO SONO RIMASTI IN AFRICA PERCHE’ LE PREFETTURE NON RIESCONO A SMALTIRE LE PRATICHE
Il governo – dice il ministro degli Esteri Antonio Tajani – sta studiando la strategia per il nuovo decreto flussi. “Vorremmo avere lavoratori che arrivano nel nostro Paese già formati”. Peccato che il problema, vista l’assoluta inadeguatezza degli uffici italiani a cui sono demandate le pratiche, non è formarli a casa loro ma, molto più banalmente, evadere la burocrazia che serve per farli arrivare a casa nostra.
Ne stanno facendo le spese alcune centinaia di lavoratori che, nei mesi scorsi, sono stati formati (con fondi del governo italiano e della Ue) nei loro Paesi d’origine, in Africa, seguendo corsi vidimati e registrati dalle ambasciate, sapendo di essere stati individuati come destinatari di un contratto stagionale previsto dal decreto flussi 2021, ma in Italia non sono mai arrivati.
Semplicemente perché dal Viminale non è mai arrivato il nullaosta, primo passo per il datore di lavoro per poi chiedere il visto per l’ingresso legale del lavoratore prescelto. Avrebbero dovuto essere impiegati per la stagione estiva nella riviera romagnola o in aziende agricole per la raccolta di frutta e ortaggi, ma passato invano il tempo utile, il datore di lavoro ha rinunciato.
“Sono persone che avevano intenzione di venire a cercare lavoro in Europa e avevano accettato di seguire questa via legale – spiega Marina Mazzoni che per Arcs segue il progetto Before you go finanziato con il fondo Fami per l’asilo e la migrazione – hanno seguito corsi di italiano ottenendo la certificazione A1, hanno portato a termine la formazione prevista nei diversi settori per cui erano arrivate le richieste di manodopera, agricoltura, edilizia, mediazione culturale, cura della casa e della persona, tutto vidimato dalle ambasciate italiane, e poi si sono ritrovati con niente in mano. Tanta frustrazione così come anche i datori di lavoro. E questo nonostante il decreto semplificazione che a giugno scorso aveva previsto che in 50 giorni sarebbero stati pronti nullaosta e relativo visto”.
Ormai alla fine dell’anno, la percentuale di pratiche lavorate del decreto flussi 2021 è intorno al 99 %, ma i lavoratori stranieri effettivamente impiegati, su 69.000 previsti, sono stati poco più di 50.000, 4.200 i pareri negativi, 2.000 le rinunce.
Le prefetture sono da molto tempo a corto di persone tanto che dopo più di due anni non sono ancora riusciti ad evadere le 200.000 pratiche per far emergere dal lavoro nero gli stranieri già presenti in Italia, molti dei quali ( con l’associazione Ero straniero) stanno dando vita ad una class action. E gli uffici dell’impiego, che nel giro di poche settimane dovrebbero censire i percettori di reddito di cittadinanza italiani o stranieri da impiegare nelle filiere produttive in modo da poter stabilire il numero delle quote da offrire ai Paesi stranieri, non stanno messi meglio.
Per tappare la falla nel 2023 il Viminale conta sugli 800 contratti a termine previsti dalla nuova legge di bilancio: 300 assunzioni nelle prefetture e 500 al Dipartimento di pubblica sicurezza per rafforzare gli uffici immigrazione, la Direzione centrale immigrazione e la polizia di frontiera. Basterà?
“Un decreto flussi come quello annunciato – dice Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci – non è altro che un’operazione ideologica che mette insieme i due nemici della destra, gli immigrati e i percettori di reddito di cittadinanza, a loro dire i fannulloni. Non è certo un progetto che va nella direzione di creare vie di ingresso legali nel nostro Paese”.
(da La Repubblica)
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Dicembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
I GENITORI NON RIESCONO PIU’ A TRATTENERE I FIGLI CHE ASPIRANO A UN FUTURO MIGLIORE
Gli ultimi barconi, carichi di migranti, sono partiti la sera prima. Stamani sulla spiaggia di Hessi Jarbi restano solo bottiglie di plastica vuote: hanno bevuto acqua nell’attesa di salpare, aspettando il momento migliore.
Giovani dell’Africa subsahariana ma ormai sempre più di questa Tunisia in crisi, senza futuro apparente. La sabbia candida di Hessi Jarbi brilla sulla costa a nord di Zarzis, città tunisina di 75mila abitanti, a un’ottantina di km dalla Libia, tra una serie di albergoni: tanti sono relitti abbandonati, perché il turismo all inclusive non funziona più e il Covid è stato l’ultima mazzata.
A pochi chilometri, in campagna, iniziano i campi d’olivi, l’altra ricchezza di Zarzis, dai tempi degli antichi romani. Ma la siccità imperversa da quattro anni e i rendimenti sono in caduta libera.
Pure le risorse ittiche calano, come in tutto il Mediterraneo: la vita del pescatore è sempre più dura. Ieri sera sono fuggiti da tutto questo. In una zona un tempo prospera, oggi in decadenza, gli emigranti non sono più anime di passaggio ma i ragazzi del posto. Alcuni incidono con la punta del coltello il proprio nome sugli scogli. Karim e Nour sono passati da qui.
Nel centro della città, un gruppo di famiglie presidia la piazza del Municipio. Anche i loro figli se ne sono andati una sera, il 21 settembre scorso. Ma a Lampedusa, a 260 km da qui, non sono mai arrivati. “Io non sapevo neppure che Louay fosse partito”, racconta il padre, Karim Ben Abdelkelim, pescatore. Non sa dove abbia trovato i 7mila dinari (2200 euro), necessari per pagarsi un posto su un barcone, spesso scassato e sovraffollato: la tariffa dei “passeur” lievita perché la domanda cresce. Louay, 15 anni, studiava e faceva dei lavori stagionali. Quando non è rientrato a dormire, Karim ha capito.
Con gli altri genitori (erano 17 su quel barcone), ha chiesto alla guardia costiera di andarli a cercare, ma loro non si sono mossi. Dopo pochi giorni, hanno ritrovato un cadavere in mare, verso l’isola di Gerba. Altri sei corpi di quei naufraghi sono stati ripescati e identificati. Ma tre erano stati sotterrati in fretta al Jardin d’Afrique, tripudio di maioliche colorate, un cimitero voluto dall’artista algerino Rachid Koraichi, per accogliere i cadaveri dei migranti stranieri senza nome, sbattuti dalle onde sulle spiagge di Zarzis. Prima finivano alla discarica comunale.
Le famiglie dei 17 migranti di Zarzis, morti dopo il naufragio del loro barcone nella notte del 21 settembre, presidiano questa piazza con un sit-in e chiedono la verità allo Stato tunisino: perché i soccorsi non partirono subito? Dove sono finiti i corpi dei loro cari?
Si trova in pieno nella “zona turistica”, la costa che si allunga verso nord, con le sue spiagge e i grandi alberghi. Ma da Hessi Jerbi la notte partono i barconi dei migranti diretti a Lampedusa. Dietro si trova lo scheletro di un hotel abbandonato e vicino un villaggio di pescatori
A due km dal centro, qui si concentrano i pescherecci della città. Nel 2014, i pescatori di Zarzis hanno creato un’associazione per difendere la loro attività, sempre più a rischio, e per organizzare i soccorsi ai migranti in difficoltà in mare e recuperare i cadaveri di chi non ce l’ha fatta
Secondo le stime dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per i migranti (Oim), dal 2014 in 25mila sono scomparsi nel Mediterraneo. “I servizi comunali hanno portato i tre corpi al Jardin d’Afrique, senza neanche contattarci o fare il test del Dna”, ricorda Karim. Solo su insistenza dei genitori, si è scoperto l’errore. Il 7 novembre, alcuni familiari hanno fatto irruzione nel cimitero. Hanno scavato e tirato fuori cadaveri appena inumati, per controllare (ma invano) se fossero i loro figli: scene feroci e disperate. Da allora il Jardin d’Afrique è chiuso, mentre il Governo ha aperto un’inchiesta sul naufragio.
“Vogliamo la verità – dice Karim -. Perché la guardia costiera non è partita subito? Cos’è successo alla barca? Il mare era calmo e noi sospettiamo che alcune unità già al largo per controllare abbiano voluto fermarli e li abbiano fatti rovesciare. E poi, dove sono finiti gli altri corpi? Sono stati ritrovati e sotterrati chissà dove?”. Souad Rjili l’ascolta. Lei è la mamma di Walid: coetaneo di Louay, erano come fratelli. Amavano il mare. “Erano sicuri di farcela”, dice la donna. “Walid era timido, un ragazzo carino – racconta -. Sapevo che voleva partire, ma non ero d’accordo. E lui rispondeva: mamma, se ne vanno tutti, che ci farò qui da solo?”. “Io ce l’ho con il mio Paese – aggiunge -, non con l’Italia, i nostri figli non vanno via: fuggono e noi non riusciamo a fermarli”.
È uno dei simboli del crollo del turismo di Zarzis: questo hotel, immerso nel verde, è chiuso da due anni. È lo stesso destino di altri “albergoni” della costa nord. Il turismo di massa, una scelta di tutta la Tunisia, è in crisi da dieci anni e il Covid l’ha definitivamente affossato
Chammakh
Intorno a questa località, si trova la maggiore concentrazione di olivi di Zarzis. Era già un’importante zona di produzione di olio d’oliva per gli antichi romani. Attualmente sono un milione e 300mila le piante presenti nel suo comune, ma la siccità che imperversa da quattro anni rappreenta una grossa ipoteca sull’attività
Ogni giorno a rincuorare i familiari dei naufraghi viene Chamseddine Bourassine, 49 anni, pescatore. Lo sguardo duro, “ma lui sa trovare le parole giuste”, dice Souad. È il piccolo-grande eroe di Zarzis; da una ventina d’anni in mare col suo peschereccio salva migranti di ogni colore e provenienza. Dal 2014 ha riunito i colleghi in un’associazione.
“Con Medici senza frontiere – spiega – abbiamo organizzato stage per spiegare ai pescatori come fornire il primo soccorso. Poi formiamo i giovani alla pesca, perché restino qui a lavorare e non emigrino. Io vado nelle scuole, spiego quello che vedo in mare, mostro foto terribili, ma non c’è molto da fare: se un giovane ha deciso di partire, lo farà”. Vorrebbe un’”immigrazione intelligente”: “L’Europa – aggiunge – ha bisogno di manodopera, dovrebbe dare visti alle persone qualificate, invece di spingere i giovani tunisini e gli altri verso questa corsa disperata attraverso il mare. Il blocco navale voluto da Meloni, comunque, è impossibile da realizzare e provocherebbe solo morti, ancora più morti”.
Pure Zeinab Mcharek, alla guida di Addci (l’Associazione per lo sviluppo sostenibile e la cooperazione internazionale) parla d’“immigrazione selettiva”, “come quella della Germania, che organizza anche corsi di formazione professionale in Tunisia per i lavoratori che qui hanno individuato. La Francia e l’Italia non lo fanno”.
Addci distribuisce fondi pubblici destinati dalla Francia ai progetti produttivi dei clandestini che decidono di rientrare a casa. Come Mohamed Ali Boussif, 47 anni, imbianchino di Zarzis.
Nel settembre 2020 si era imbarcato per Lampedusa. “Poi riuscii ad arrivare a Parigi – racconta -. Ero illegale e così certe volte mi pagavano e altre no, ne approfittavano. Non avevo diritto a niente. Facevo una brutta vita”. Si rivolse all’Ofii (l’Ufficio francese dell’immigrazione e dell’integrazione), che gli ha pagato il viaggio di ritorno, ma soprattutto finanziato la costituzione di una piccola società, con nuovi ponteggi e materiale. “Adesso posso lavorare più di prima, le cose vanno bene”. Potrebbe raccontare ai giovani della sua città che l’Europa non è sempre un paradiso. “Ma tanto non mi ascolterebbero”.
(da La Repubblica)
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