Dicembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
SVUOTATI NEL 2014, DA 8 ANNI QUESTI ENTI INTERMEDI VIVACCHIANO
Indietro tutta, tornano le Province. Svuotate nel 2014, ma mai eliminate causa bocciatura del referendum costituzionale del 2016, da 8 anni questi enti intermedi vivacchiano nell’anonimato senza soldi né gloria, ma con molte responsabilità su temi delicati come scuole, strade e sicurezza ambientale. Presto però le cose potrebbero cambiare: tutti i partiti di maggioranza hanno presentato progetti di legge per re-introdurre le Province nel pieno delle loro funzioni e nel 2023 alle intenzioni potrebbero seguire i fatti, complici gli impegni presi da due ministri come Roberto Calderoli e Maria Elisabetta Alberti Casellati.
La proposta di tornare alle Province viene avanzata un po’ da tutto il centrodestra come una battaglia di democrazia. Lo spiega bene una nota della senatrice FdI Domenica Spinelli, segretaria in commissione Affari Costituzionali: “Non ritengo democratico che il presidente e il Consiglio provinciale siano scelti dalle maggioranze dei Comuni più grandi. È l’applicazione perfetta del fallimento della democrazia”. Oggi infatti gli organi provinciali sono scelti dai consiglieri comunali e non dai cittadini, secondo il sistema dell’elezione di secondo livello. E il ritorno al voto popolare è di certo apprezzabile, così come lo è il voler sanare il vuoto amministrativo creato dalla Delrio, ma va da sé che a far gola ai partiti è anche l’enorme struttura politica e tecnica da ricostruire: giunta, Consiglio, uffici, funzionari. Con relativi costi di gestione, gli stessi che fino al 2014 venivano diffusamente contestati.
Per dare un’idea, nel 2019 una bozza di riforma (poi naufragata a causa dello scontro tra i 5 Stelle e la Lega) prevedeva il ritorno di circa 2.500 amministratori, a cui si devono aggiungere i funzionari e gli staff. Il governo però ha preso impegni precisi. A inizio novembre, il ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli ha incontrato il presidente dell’Unione delle Province, Michele De Pascale, assicurando “totale convergenza sulla restituzione dell’identità alle Province”. Poi, una delegazione di FdI ha incontrato la ministra per le Riforme Casellati, ricevendo altrettante rassicurazioni.
Competenze Scuole e strade ma ci vogliono i soldi
Al momento in Parlamento ci sono diversi testi analoghi sull’argomento, ma trovare una sintesi non sarà complicato. Per Forza Italia ne ha presentato uno il capogruppo alla Camera Alessandro Cattaneo, per la Lega ci ha pensato il presidente dei senatori Massimiliano Romeo e per Fratelli d’Italia i primi firmatari sono Marco Silvestroni e Gaetano Nastri. Nel testo del ddl, i meloniani fanno riferimento all’attuale stato di incertezza delle Province: “La necessità del superamento della legge Delrio (quella che le aveva svuotate nel 2014, ndr) deriva dal fatto che essa non può essere attuata poiché le Province sono ancora previste dalla Costituzione e mantengono le competenze sull’edilizia scolastica, sulla tutela e valorizzazione dell’ambiente, sui trasporti e sulle strade provinciali; per esercitare tali funzioni le Province necessitano urgentemente di risorse”. Servono soldi, insomma, all’ente e ai suoi amministratori (che oggi non percepiscono indennità aggiuntive). Ma di che struttura parliamo?
Organi Da 3 a 5 assessori e fino a 20 consiglieri
Calderoli ha già le idee chiare. In Italia ci sono 107 province (anche se le Regioni a Statuto speciale potrebbero mantenere regole diverse); in quelle fino a 450 mila residenti (sono 66) potrebbero essere eletti fino a 16 consiglieri, mentre nelle altre 51 si potrebbe arrivare fino a 20. Il tutto, promette Calderoli, “con giunte snelle, di 3-5 assessori”.§
Sarà il testo definitivo della riforma a chiarire le indennità: quando le Province andarono in letargo, un consigliere poteva percepire (grazie ai gettoni) più di 2 mila euro al mese, circa la metà di un assessore. Più alti i compensi per i presidenti, variabili a seconda della dimensione della Provincia ma in genere compresi tra i 50 e i 100 mila euro lordi l’anno, tenendo conto dei benefit. Tutti ottimi incentivi, per la maggioranza, per fare presto.
(da il Fatto Quotidiano)
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Dicembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
“ANZICHE’ AUMENTARE I SALARI PREMIANO L’EVASIONE FISCALE”… ASSE COMUNE CON CONFINDUSTRIA
“Cosa hanno fatto di male i poveri a Giorgia Meloni?”. La battuta riassume lo stato dei rapporti tra Cgil e governo di centrodestra. Dopo la sua vittoria elettorale, Maurizio Landini aveva assicurato di non avere nessun pregiudizio nei confronti del governo Meloni.
Nessun pregiudizio, ma avete già avviato la mobilitazione?
Infatti giudichiamo la manovra per quello che è concretamente. E il giudizio è negativo. Insieme alla Uil abbiamo promosso ogni giorno della settimana che va dal 12 al 16 dicembre, una serie di iniziative in tutte le regioni, anche con il ricorso allo sciopero: non siamo solo di fronte a una Legge di bilancio sbagliata, ma che contiene idee di riforma molto regressive.
Che intende quando dice regressive?
Non si arriva alla fine del mese e invece di combattere la precarietà si reintroducono i voucher. Vuol dire che si pensa di aumentare forme di sfruttamento e incentivare gli imprenditori a investire su questo e non su qualità e innovazione. Anziché aumentare i salari è regressivo premiare gli evasori, innalzare il contante, tornare indietro rispetto ai pagamenti digitali. È regressivo rinunciare ad alzare ed estendere in tutti i settori la tassazione sugli extraprofitti. È regressivo prevedere tagli e riduzioni all’istruzione, al trasporto e alla sanità pubblica che aprono la strada alla privatizzazione. È regressivo, dopo 10 anni che non si rivalutano le pensioni, prevedere dei tagli e non mettere fine alla legge Fornero. Tutto questo lo vedo molto preoccupante. Il voto in Parlamento contro il salario minimo, proponendo al contrario i contratti di prossimità anziché dare valore di legge ai contratti nazionali, corrisponde a una logica pericolosa e regressiva.
Meloni le risponderebbe che su questo ha vinto le elezioni.
Ho molto chiaro che c’è una maggioranza che intende governare per 5 anni, ma i primi indirizzi mostrano una visione preoccupante. Cosa gli han fatto di male al governo quelli che per vivere hanno bisogno di lavorare o coloro che si sono impoveriti?
Anche Confindustria avanza critiche molto dure, vede una convergenza?
Sì, anche Confindustria riconosce che c’è un problema salariale e che la gente non arriva a fine mese. Noi pensiamo che la riduzione del cuneo fiscale debba andare tutto al lavoro dipendente e che gli incentivi pubblici alle aziende debbano essere selettivi, finalizzati a chi investe, innova e crea occupazione stabile. Pensiamo poi che servirebbe una vera politica industriale, una vera sovranità energetica fondata sulle fonti rinnovabili e una battaglia delle imprese sulla legalità contro gli appalti al massimo ribasso e contro le finte cooperative.
Sarebbe possibile un incontro su questo o una iniziativa comune?
Sì è un incontro da realizzare. La situazione è grave, nessuno è in grado di venirne fuori solo. Occorre investire sul mondo del lavoro e coinvolgerlo nel ridisegno di un nuovo modello sociale ed economico.
Perché è critico sulla tassazione degli extraprofitti?
Gli extraprofitti sono decine di miliardi e il provvedimento del governo ha cambiato la base imponibile e ridotto il numero di imprese a cui chiedere il contributo. Si punta a 2,5 miliardi di gettito, che è un quarto di quello che aveva fissato Draghi. È il momento di fissare un contributo straordinario di solidarietà per tutte le attività che in questi mesi e anni hanno aumentato i loro profitti.
Sul reddito il governo parla di occupabilità e di lavoro disponibili. È così?
Si fa una grande confusione. Innanzitutto il reddito è familiare e non individuale. Quando si parla di 660 mila occupabili si parla di persone che in gran parte hanno la licenza media oppure non lavorano da anni, quindi con seri problemi di qualificazione. Le occasioni di lavoro sono magari concentrate al nord con gran parte dei possibili destinatari che vive al sud. Spesso siamo di fronte a proposte di lavoro precario o sottopagato. Quindi si sta facendo una campagna sbagliata per coprire il fatto che non si vanno a prendere i soldi dove sono.
Il sindaco di Bologna ha proposto di cambiare nome al Pd aggiungendo “del lavoro”. Sarebbe utile?
Io vedo un tema più profondo che non è nominale. C’è stata una rottura tra politica e mondo del lavoro. È passata l’idea della svalorizzazione del lavoro e provvedimenti sbagliati sono stati presi da governi di destra, di sinistra e di vari colori. Il problema è come tutta la politica torni a mettere al centro il lavoro
E come può farlo?
Tutto il Parlamento dovrebbe occuparsi di un nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori in cui a prescindere dal rapporto di lavoro le persone abbiano gli stessi diritti. C’è bisogno di una legge sulla rappresentanza e sul valore generale dei contratti collettivi nazionali sancendo così un salario minimo e tutele per tutti. Non può più essere accettato che le persone per lavorare debbano competere tra di loro. Non riguarda solo la sinistra, ma tutta la politica.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Dicembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
PER IL SINDACO DI BORGONE DI SUSA SAREBBE “UNA MANCANZA DI RISPETTO PER LA NOSTRA STORIA”
Mai più via «IV Novembre». Sono troppo complicati i numeri romani. Da adesso in avanti bisognerà scriverla semplicemente così: via «Quattro Novembre».
La comunicazione ufficiale dell’Istat è arrivata via posta certificata alla fine della scorsa settimana. «La mia fortuna è essere il sindaco di un piccolo Comune di 2.500 abitanti con 12 dipendenti. Guardo tutte le mail in entrata e così ho visto anche quella. E subito, immediatamente, ho bloccato la pratica».
Ecco la questione: per effetto di un decreto ministeriale datato 12 maggio 2016 con cui si disciplinavano «i contenuti dell’Archivio nazionale dei nomi e dei numeri delle strade urbane», l’Istat sta adesso provvedendo al riordino della toponomastica seguendo un principio di «semplificazione». Per esempio: una via che indica una località dovrà essere sempre preceduta dal suffisso «dei». Via degli Alberoni. Via dei Vernetti.
Per esempio: le parole accentate non potranno avere al posto dell’accento, per errore, un apostrofo. Per esempio, ancora, i numeri romani: devono uscire di scena.
«Per me è una totale mancanza di rispetto della nostra storia e della nostra cultura, è una cosa assurda, una roba da cancel culture», dice il sindaco di Borgone di Susa Diego Mele. Ha deciso di opporsi. Non risponde alla mail autorizzando la modifica. Non vuole vedere le due vie del suo paese nella bassa Val di Susa, già chiamate via IV Novembre e via XXV Aprile, cambiare forma.
Venerdì 2 dicembre. La battaglia del sindaco si è arricchita di due telefonate importanti. Prima telefonata: «Ho parlato con una dipendente dell’ufficio Istat di Torino e ho chiesto spiegazioni. Mi ha risposto che la decisione riguarda tutta Italia. Ed è stata presa per andare incontro ai cittadini stranieri e a quelli di bassa scolarizzazione, ha detto esattamente così. “Ma come?”, ho detto io. “La cultura è un elemento di integrazione”. Mi è stato risposto che sono l’unico sindaco ad aver sollevato delle perplessità, che a Torino stanno procedendo e che in tutta la provincia ormai il cambiamento è quasi ultimato».
La seconda telefonata è stata quella con gli uffici della Regione Piemonte: «Volevo capire. E nessuno, davvero nessuno, sapeva niente di questa decisione».
Ora, diciamolo subito, il sindaco Diego Mele, 32 anni, di mestiere consulente informatico, ha fatto tutta la sua carriera politica a destra, ed è stato eletto con Fratelli d’Italia nel 2019.
A nessuno sfugge che fu proprio Benito Mussollini, da cui discende la storia di questa destra italiana, a volere l’uso dei numeri romani accanto a quelli del calendario tradizionale, a partire dalla Marcia su Roma: «Anno I dell’era fascista».
«Ma cosa c’entra?», dice il sindaco Mele. «Io sono di destra, va bene, ma credo che questa dovrebbe essere una battaglia bipartisan, una battaglia che dovrebbe stare a cuore a tutti quelli che tengono alla storia italiana e alle nostre radici. Non si cancellano i numeri romani per ragioni di semplificazione, noi discendiamo da quella cultura. Faccio un esempio: anche il professor Alessandro Barbero, che sicuramente è di sinistra, sostiene l’importanza della memoria. Che senso ha cancellare il nostro passato?».
Nel caso del piccolo comune di Borgone di Susa sarebbero due strade. Due strade che cambierebbero nome prima nei registri digitali, poi anche fisicamente. Nuove targhe agli incroci. E nuove carte d’identità per i residenti: «Mario Rossi, nato a Borgone di Susa il 31 marzo 1971, residente a Borgone di Susa in via Venticinque Aprile trentuno».
Il sindaco Diego Mele è convinto che agli altri sindaci non sia sfuggita l’importanza di questo cambiamento. «Secondo me molti di loro semplicemente non hanno letto quella mail. Ma non è una cosa piccola, come potrebbe sembrare. Lo ripeto, è una cosa grande: non ha senso rinunciare alla nostra storia nel nome di una presunta semplificazione o per andare incontro alle persone che non conoscono bene l’italiano. Che qualcuno possa aver accettato una cosa del genere senza battere ciglio mi lascia sbigottito».
Ci sarebbe poi la ragione riconducibile all’archiviazione digitale. Cioè fare ordine nel gigantesco e variegato stradario italiano, cercare di renderlo più uniforme e coerente. «Ma se vi riferite alla codificazione digitale, quindi alla difficoltà di inserire i numeri romani nel sistema, anche questo non ha senso e lo dico perché è il mio mestiere. Possono tranquillamente essere ordinati e riconosciuti». La cosa buffa è questa: se uno cerca via IV Novembre su Google Maps, in qualunque modo la scriva, la trova. «A loro non importa. Mi hanno detto che verrò richiamato. Mi hanno detto che alla fine, volente o nolente, faranno quello che è stato deciso».
(da La Stampa)
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Dicembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
LE OFFERTE DI LAVORO NON ESISTONO
Fa impressione e svilisce profondamente l’immagine di una Presidente del Consiglio che inveisce e contesta con spropositata veemenza l’unica misura “anti povertà e di dignità sociale” esistente oggi in Italia, quella del reddito di cittadinanza, additandola quasi fosse il male peggiore del Paese.
E’ paradossale, se non surreale, ascoltarla etichettarlo come “immorale”, quando invece di profondamente “immorale” c’è solo il cinismo e il livore a tratti imbarazzante anche per gli astanti con cui la stessa si scaglia contro una misura che ad oggi, per il periodo “record” di quasi quattro anni (2019-2022), ha ridato finalmente dignità a milioni di Italiani indigenti, rei – a suo dire e a detta della propaganda elettorale di partito (vedi FdI-Lega) – di essere dei furbetti, poltronisti e per giunta occupabili; sebbene in molti però, stranamente, non riescano ad essere occupati, e non perché rifiutino le offerte, ma perché in realtà di offerte congrue (leggi “serie e dignitose”) neanche l’ombra, per esperienza personale mia e di altri sventurati come me.
Incuriosisce ai più e al sottoscritto in particolare il significato di “occupabile” che la Premier espressamente sottende a supporto della sua propaganda anti RdC, che presumibilmente fa riferimento alla capacità di questi “fortunati” di poter deambulare, d’intendere e di volere ed esprimersi in un italiano mediamente accettabile, il che li renderebbe, a quanto pare, adatti a qualsiasi tipo di reinserimento lavorativo, prescindendo di fatto dalle loro esperienze lavorative pregresse, dalle loro reali attitudini e dalle loro qualifiche professionali/titoli di studio; poco importa poi se l’”occupabile”, magari con tanto di laurea e con trascorsi da impiegato di concetto, venga occupato in qualità di operatore ecologico o lavapiatti, senza nulla togliere naturalmente alla dignità e alla utilità sociale di quest’ultime categorie professionali.
Sfuggono probabilmente a Meloni le dinamiche molto più complesse e articolate dell’attuale mercato del lavoro in Italia, dove i requisiti richiesti sono ben altri, non certamente quelli che presumibilmente lei considera per la definizione di “occupabile”, dove di fatto, per talune categorie e per alcune fasce d’età (vedi over 40 e 50), anche il possesso di una laurea rende all’atto pratico difficile, se non impossibile, il reinserimento in un mondo del lavoro sempre più esigente e competitivo, talvolta anche per le mansioni meno ambiziose.
A questo riguardo, sommessamente mi permetto di avanzare l’ipotesi per cui probabilmente questa sua carenza sia imputabile alla scarsa familiarità che la Premier ha coi centri per l’impiego, e in generale con tutto ciò che attiene la ricerca concreta del lavoro al di fuori del mondo “ovattato” della politica, se si considera che la stessa vanta una “precoce” carriera politica sin dal lontano 1996, quando all’età di soli 19 anni iniziò la sua militanza politica in Alleanza Nazionale.
Senza nulla togliere ai suoi meriti carrieristici, probabilmente questo suo brillante e precoce percorso politico le ha permesso di vivere per così dire “al riparo”, lontana cioè dalle insidie e dalla precarietà del mercato del lavoro dell’altro mondo parallelo, quello “reale” dei comuni mortali, dove il lavoro, quello stabile e a lungo termine, possibilmente non sottopagato e non precario, in Italia non te lo garantisce nessuno, a meno che non si abbia qualche santo in paradiso.
Ergo nel mondo reale la definizione di “occupabile” coniata dalla Premier diventa una mera astrazione, un requisito che in un mercato del lavoro come quello attuale, usando un eufemismo, è sostanzialmente un “nonsense”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Dicembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
LA CRONISTORIA DEL PROGETTO
Quanto è costato fino ad ora il ponte sullo Stretto di Messina? Per capirlo dobbiamo prima ricostruirne la storia in una biografia validata da documenti e numeri. La risposta serve a capire se è vero, come ha detto il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, che costerebbe ormai più non costruirlo che costruirlo.
La storia
Il primo a studiare la possibilità di un collegamento fu il ministro dei Lavori pubblici del governo La Marmora, Stefano Jacini, nel 1866. Un secolo dopo, nel 1965, il ponte divenne una copertina della Domenica del Corriere.
Ma il vero conto, e dunque costo del Ponte, inizia nel 1968 quando l’Anas indice un concorso di idee internazionale denominato Progetto 80. Tra i vincitori c’è l’ingegnere Sergio Musmeci che pensa a un ponte a una campata con due piloni alti 600 metri sulla terraferma per evitare di dover lavorare sul disastroso fondo marino dello stretto: instabile e a forma di V. Lo stesso Musmeci però non lo considera fattibile perché non esistono ancora materiali adatti a garantire la sicurezza per sostenere quei 3 km. Troppe vibrazioni legate al vento.
Nonostante questo, la Legge 17 dicembre 1971 n. 1158 promulgata con il governo democristiano Colombo (presidente Saragat) istituisce la nascita di un progetto dell’Iri. Nel testo legislativo si legge che si sarebbe dovuto tenere conto del concorso di idee effettuato dall’Anas con legge 28 marzo 1968 n. 384. È questo l’atto fondativo del ponte, anche se bisognerà aspettare l’11 giugno del 1981 per vedere nascere la società «Stretto di Messina Spa». E nascerà in un vuoto di potere: il governo Forlani era caduto in maggio e il governo Spadolini si instaurerà solo il 28 giugno.
Il bilancio vero dei costi
Inizia a partire da qui il tassametro dei costi per lo Stato. Tra il 1981 e il 1997 vengono spesi 135 miliardi di lire per vari studi più o meno di fattibilità. Ma è il governo Berlusconi che passa ai fatti. Su progetto a campata unica con Pietro Lunardi ministro delle Infrastrutture, nel 2003, viene aperto un primo cantiere a Cannitello per spostare la rete ferroviaria che passa proprio dove viene fatto un buco grande come un campo da calcio e profondo 60 metri per l’ancoraggio dei cavi. Il conto totale in euro, al 2003, è già salito a oltre 130 milioni (fonte Corte dei Conti). Nel frattempo erano già morte sia l’Iri che la Democrazia Cristina che avevano avviato l’idea. La società Stretto di Messina finisce dunque dopo vari cambi per essere controllata nel 2007 all’81,84% da Anas (oggi parte di Ferrovie dello Stato) e partecipata da Rete ferroviaria italiana (Rfi), Regione Calabria e Sicilia. Con il ritorno a Palazzo Chigi di Prodi il progetto frena, per ripartire due anni dopo con il Berlusconi IV. Di pari passo c’è il braccio di ferro fra i sostenitori: porterà sviluppo al Mezzogiorno e sarà una grande attrazione turistica. E i detrattori: bisogna prima modernizzare i trasporti della Sicilia e Calabria. Sopra le parti una nutrita schiera di ingegneri pone l’annosa questione legata alla sicurezza dell’infrastruttura.
La «Stretto di Messina» va in liquidazione
Arriviamo al 2013, quando il premier Mario Monti (siamo in piena austerity e pulizia dei conti) chiude la partita e la Società Stretto di Messina viene messa in liquidazione e affidata a Vincenzo Fortunato, avvocato e già capo di gabinetto del ministro Giulio Tremonti nel secondo governo Berlusconi, ma anche di Lunardi e Di Pietro. Lavora anche per lo stesso governo Monti e conosce molto bene la storia del Ponte, dunque sembra essere la persona giusta per chiudere la faccenda velocemente: per lui è previsto un compenso da 120 mila euro l’anno come parte fissa, più 40 mila di parte variabile. Ma proprio i bilanci della società in liquidazione sono una fonte certa per i veri costi del ponte.
All’atto della messa in liquidazione la società aveva terreni per 3.739 euro, 127 mila euro di macchinari e 312,3 milioni di valore della concessione Ponte sullo Stretto, 78 milioni di depositi bancari e postali e 6.241 euro in cassa. Il costo più alto è quello per il personale: 2 milioni tra salari, stipendi e oneri sociali. Si legge sempre nel bilancio 2013: SdM ha promosso un’azione di risarcimento del danno nei confronti del contraente generale a motivo dell’illegittimo recesso esercitato. Si tratta dell’attivo patrimoniale: 312 milioni più un incremento del 10% per danni subiti. Dunque 342,7 milioni tra buchi fatti nel terreno e continui studi di fattibilità che diventano 325,7 milioni perché 17 milioni erano già stati versati. Possiamo dire che al 2013 il costo effettivo del ponte è di 342 milioni. Soldi che devono essere pagati nonostante la messa in liquidazione e nonostante non valgano più nulla perché il commissario è tenuto a recuperare tutto ciò che può per risarcire i creditori (lo Stato stesso). Il governo Monti aveva previsto 300 milioni di euro per coprire le pretese della società sperando che venisse chiuso tutto in 12 mesi. Nove anni dopo la Stretto di Messina è ancora in piedi. Durante il Governo Conte II la legge di bilancio ne aveva previsto la chiusura forzosa ma l’articolo era stato stralciato.
I risarcimenti da pagare
Nel bilancio sempre del 2013 emerge anche un contributo in conto impianti pari a 1,3 miliardi. In realtà di questa cifra lo Stato paga solo circa 20 milioni perché successivamente il Cipe li sopprime, ma questa voce rimane una indicazione di quanto possa costare sul serio il Ponte: 1,3 miliardi solo di impianti. La società dal 1 gennaio 2014 non ha più dipendenti (ma sono stati spostati in Anas dunque sempre a carico dello Stato) e anche gli uffici sono stati ridimensionati. La stazione meteorologica di Torre Faro a Messina è stata ceduta all’Università di Messina. Quello che sappiamo dunque è che la società Stretto di Messina che si doveva occupare della costruzione del ponte è stata messa in liquidazione nell’aprile del 2013 con un costo fra penali e indennizzi per 342 milioni. A cui vanno aggiunti gli oltre 130 milioni fra studi e gestione degli anni Ottanta e Novanta. Ci sono poi gli indennizzi di parti terze sempre a carico dello Stato poiché non sono stati fatti accantonamenti a garanzia in quanto – si legge – si ritiene che le cause «debbano trovare tutte copertura nelle risorse pubbliche». Infatti il consorzio che aveva vinto l’appalto Eurolink, capitanato da Salini Impregilo e che oggi si chiama WeBuild ed è partecipata anche da Cdp (dunque sempre dallo Stato), ha in sospeso un appello con una richiesta di 657 milioni di euro. Nell’ultima semestrale chiusa di Webuild si ricorda che oltre al processo la società ha sollecitato il pagamento di altri 60 milioni per la copertura di costi già sostenuti. Un’altra causa da 90 milioni era stata intentata da Parsons, colosso dell’ingegneria civile Usa.
Eurolink durante le fasi processuali ha ripetuto che sarebbe disposta a rinunciare alle pretese in caso di riapertura del progetto. Ma resuscitare una gara fatta 15 anni, peraltro con una società (WeBuild) che nel frattempo è diventata partecipata da Cdp, senza indirne una nuova, sarà problematico per almeno due ragioni:
1) sono cambiati tutti i parametri economici, ed è altamente probabile che gli altri concorrenti impugneranno,
2) di mezzo ci sono dei finanziamenti europei.
La «Stretto di Messina» riesumata
Tirando le somme: se tutto andrà male (per i processi bisogna attendere il 2023) il conto del ponte che non si è fatto sarà di circa 1,2 miliardi. Il costo del ponte che oggi si vorrebbe fare, secondo il Ministro Salvini, è di 6-7 miliardi. Da dove arrivi questa stima non si capisce poiché di concreto ancora non si è mosso nulla. C’è invece un rimpallo di 50 milioni. Sono i soldi messi a disposizione dalla ministra De Micheli nel 2020 al gruppo di lavoro per valutare soluzioni alternative al ponte a campata unica. Lo scorso giugno l’allora ministro Enrico Giovannini aveva mandato l’esito del gruppo di lavoro a Rfi, chiedendo di fare un nuovo studio di fattibilità e trasferendo a loro i 50 milioni.
Ora nella nuova legge di legge di bilancio, all’art 82, si legge che il ponte è un’opera prioritaria ed «entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge la Società Stretto di Messina rinuncia a tutte le pretese nei confronti della pubblica amministrazione, e viene revocato lo stato di liquidazione in deroga a quanto previsto dal codice civile, mentre Rfi e Anas (in quanto soci della Stretto di Messina) sono autorizzate a fare un aumento di capitale di 50 milioni per riorganizzare la società». In altre parole: si riparte da dove eravamo rimasti, e i 50 milioni che dovevano servire al nuovo studio di fattibilità vanno a resuscitare la Stretto di Messina che, ricordiamo, sta subendo le cause di Eurolink. Anche i problemi però sono rimasti ancora quelli di Musmeci: 3 km esposti a venti e correnti molto forti, fondale e V e su una faglia ad alto rischio sismico: fino a 7.3 gradi Richter, come nel terremoto del 1908, quello che ha distrutto Messina. La buona notizia è che nel frattempo con il Pnrr sono stati pianificati 500 milioni nella rete di treni e traghetti per collegare più velocemente Calabria e Sicilia.
Milena Gabanelli e Massimo Sideri
(da Il Corriere della Sera)
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Dicembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
LA FRONDA DEI FALCHI CHE VOGLIONO SCARICARE LA COLPA SU DRAGHI PER I RITARDI DEL PNRR CRESCE DI GIORNO IN GIORNO
Un governo nel governo. Trasversale. Conquista posizioni, guadagna voce. Sono i “falchi” del Pnrr, quelli decisi ad attaccare Mario Draghi e il suo lavoro sul Recovery. Negli ultimi giorni questo gruppone si è allargato. Ha messo all’angolo le “colombe”.
E ha iniziato a pressare Giorgia Meloni, finora sempre attenta ad evitare il frontale con il suo predecessore. Questi falchi, adesso, puntano al bersaglio grosso: vogliono una presa di distanza netta dall’ex banchiere, necessaria per provare a difendersi da eventuali mancanze certificate dall’Europa.
Un segnale importante, in questo senso, è stato registrato poche ore fa. Francesco Lollobrigida, il ministro più vicino alla premier, ha attaccato con toni inediti: «Il Pnrr era un piano fatto in fretta e furia per spendere e a volte non per farlo bene – ha detto il titolare dell’Agricoltura – In ogni ministero riscontriamo che ci sono misure fatte per utilizzare i fondi, ma non in maniera adeguata».
È un passaggio chiave. Che non cancella il rapporto tra Meloni e Draghi, ma certo non lo semplifica. I due continuano a sentirsi, di tanto in tanto. O meglio: raccontano che Meloni continui a contattare l’ex banchiere. Lo aggiorna, ragiona di alcuni dossier. Riferiscono anche che Draghi, pur considerando esaurito il compito di assicurare una transizione ordinata, non risparmi ascolto. Adesso, però, il continuo flusso di accuse dei ministri inizia a pesare. E potrebbe lasciare il segno, congelare un confronto.
Nel frattempo, Meloni sente Draghi. «Presidente – è il senso dei suoi ragionamenti – ho chiesto a tutti di evitare queste uscite». Ma il peso dei falchi continua a crescere.
A Repubblica, ieri, la premier dice: «Non criticherò mai chi ha ricoperto la carica fino a poche settimane fa. Ma è un dato incontrovertibile che dei 55 obiettivi da centrare entro fine anno a noi ne sono stati lasciati trenta». E ancora: «Fitto bene ha fatto a suonare la sveglia a tutti i centri di spesa. Detto questo, se qualcosa mancasse all’appello non sarebbe colpa nostra».
Proprio Fitto, che ha la responsabilità del Piano, è in allarme. Più per i cantieri da aprire nel 2023 che per gli impegni 2022. Evita accuse pubbliche. Parla con la Commissione Ue. Nei prossimi giorni, se necessario, varerà decreti con la “quota” di riforme pretese dal Pnrr che il governo non è riuscito ad approvare. Non significa che non difenderà il suo lavoro. Anzi, prepara un’operazione trasparenza. Tabelle con numeri e lavoro svolto. La partita del Pnrr è appena cominciata.
(da La Repubblica)
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Dicembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
SOCCORSI OLTRE 200 DALLE ONG: “IL CENTRO DI COORDINAMENTO SOCCORSI TANTO CITATO DALL’ITALIA NON HA RISPOSTO ALLA NOTIFICA”
Continuano gli sbarchi sulle coste italiane dove si susseguono soccorsi e avvistamenti da parte delle Ong che operano nel Mediterraneo. A partire dall’alba di oggi lunedì 5 dicembre si sono registrati quattro sbarchi sull’isola di Lampedusa, per un totale di 144 persone salvate.
Sui diversi barchini, intercettati di fronte alle isole Pelagie, c’erano gruppi di 33, 35, 33 e 43 migranti, fra cui 22 minori. I migranti, tutti originari di Guinea, Mali, Burkina Faso, Camerun, Costa d’Avorio e Senegal, come riporta ANSA hanno dichiarato di essere partiti dalla costa tunisina.
I 144 migranti si vanno così ad aggiungere alle 202 persone sbarcate ieri, domenica 4 dicembre, sempre sulle coste dell’isola di Lampedusa. Tra loro, 32 sopravvissuti sono stati salvati dalla motovedetta Cp327 della Guardia Costiera dopo che il barchino di ferro di 6 metri sul quale viaggiavano è affondato. Quattro di loro sono stati portati, dopo l’approdo a molo Favarolo, al Poliambulatorio dove stati ricoverati per ipotermia.
Nella conta dei sopravvissuti, però, altre 4 persone risultano disperse, fra cui due bambini di 6 mesi e 6 anni i cui genitori sono riusciti ad arrivare a Lampedusa. Oltre a loro, non si hanno più notizie di due uomini che hanno intrapreso il viaggio per raggiungere le coste siciliane. Tutti i migranti sono stati portati all’hotspot di contrada Imbriacola, dove al suo interno ci sarebbero 400 ospiti.
I salvataggi in mare
Questa mattina, lunedì 5 dicembre, la nave Geo Barents di Medici senza Frontiere ha effettuato un secondo salvataggio in mare. Il team di Msf ha fatto sapere su Twitter di aver salvato 90 persone a bordo di un’imbarcazione al largo della Libia. «Secondo soccorso della Geo Barents questa mattina nelle acque del Mediterraneo. 90 persone (tra cui 35 minori e 5 donne) sono state salvate da un’imbarcazione in difficoltà in acque internazionale di fronte alla Libia».
I 90 sopravvissuti si aggiungono, così, ai 74 salvati ieri – domenica, 4 dicembre – sempre dalla nave di Msf, partiti dalla Libia a bordo di un gommone «sovraffollato e instabile».
Dopo lo scontro di inizio novembre con il governo Meloni sulla possibilità di far scendere tutti i 572 migranti al porto di Catania in seguito a un’operazione di salvataggio, la Geo Barents aveva fatto nei giorni scorsi di essere tornata nel Mediterraneo, pronta a riprendere le sue missioni di ricerca e salvataggio. Un soccorritrice di Msf ha sottolineato – in un video, postato sul social network – che al momento sono 164 i sopravvissuti a bordo della Geo Barents. Tra questi, ci sono 14 donne e circa 50 minori non accompagnati. Il più piccolo di loro ha soli 10 anni.
Un’altra operazione di soccorso è stata condotta sempre questa mattina dalla Humanity One e dalla Louise Michel in acque internazionali al largo della Libia. Le navi delle Ong hanno, infatti, salvato 103 persone – tra cui bambini piccoli e a una donna incinta – che ora si troverebbero a bordo dell’imbarcazione Humanity. Durante l’intervento, informano le ong, le navi umanitarie sono state «assaltate verbalmente» dall’equipaggio – armato con una mitragliatrice – di una motovedetta libica arrivata sul posto.«La cosiddetta Guardia Costiera Libica, armata di mitra, ha aggredito verbalmente gli equipaggi della Louise Michel & Humanity 1. Poi, a luci spente, ha rimorchiato il gommone vuoto verso la costa libica», si legge nel post su Twitter.
Terminato il salvataggio in mare, però, Sos Humanity ha sottolineato come le autorità competenti – una volta informate dell’imbarcazione in difficoltà nelle acque internazionali – non abbiano adempiuto al loro lavoro di coordinamento.
«I centri di coordinamento dei soccorsi competenti, compresi quelli di Malta e dell’Italia – spiega Sos Humanity – sono stati informati dell’imbarcazione in difficoltà, dell’avvio delle operazioni di soccorso e delle ragioni della necessità di prendersi cura dei sopravvissuti a bordo di Humanity 1, e sono stati invitati al coordinamento da telefono e posta elettronica. Tuttavia, le autorità competenti non hanno adempiuto al loro dovere di coordinamento».
(da agenzie)
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Dicembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
AUMENTA LA PRODUTTIVITA’, SCENDE L’ASSENTEISMO
La Gran Bretagna fa i conti con la settimana lavorativa corta, quella di quattro intensi giorni di lavoro, introdotta da 70 aziende inglesi, e che al momento sembra riscuotere un grande successo. I ricercatori dell’università di Cambridge, del Boston College e dell’università di Oxford misureranno l’impatto di una settimana più breve sulla produttività e sul benessere in uno studio che sarà pubblicato a febbraio. Intanto un rapporto di 4 Day Week Global – citato dal Financial Times – ha già riscontrato che la salute fisica e mentale, l’equilibrio tra lavoro e vita privata e la soddisfazione sono aumentati. E insieme alla soddisfazione dei dipendenti, anche i ricavi delle aziende che hanno aderito al progetto sono saliti in media dell’8%, mentre l’assenteismo è stato ridotto e le dimissioni sono leggermente diminuite.
Gli esperimenti, anche Intesa e Lavazza
La pratica della settimana di 4 giorni lavorativi, oltre che in Uk, sta dilagando un po’ ovunque. Alcune divisione di Unilever in Nuova Zelanda sono passate a quattro giorni, estendendo di recente la settimana corta anche all’Australia. In Belgio, i lavoratori hanno ottenuto il diritto di comprimere cinque giorni in quattro. Nel Regno Unito, Atom Bank lo scorso anno ha introdotto una settimana di 34 ore e in Italia anche Intesa Sanpaolo ha studiato l’iniziativa e Lavazza l’ha introdotta nel nuovo contratto di lavoro.
“Prima della pandemia, l’idea della settima di 4 giorni era ancora un concetto marginale- spiega Joe O’Connor, amministratore delegato di 4 Day Week Global al FT- L’impatto della pandemia ha messo il turbo al movimento dei quattro giorni”. Peccato che nel frattempo l’economia è peggiorata e ora molti si chiedono se i datori di lavoro rinunceranno alle politiche di lavoro flessibile attuate durante la pandemia. Snap, che all’inizio di quest’anno ha annunciato i licenziamenti, ha recentemente chiesto ai dipendenti di venire in ufficio quattro giorni alla settimana.
“Lavoratori esausti dopo la pandemia”
“Uscendo dalla pandemia, le persone sono piuttosto esauste -racconto all’Ft Shaun Rutland, amministratore delegato del game designer Hutch – in questo periodo abbiamo perso un bel po’ di persone”. Per Rutland, la settimana di quattro giorni è arrivata come un’epifania e ha permesso al gruppo di attrarre nuovi talenti. “Una delle cose più dannose per la salute mentale delle persone nelle organizzazioni aziendali – spiega Brendan Burchell, professore di scienze sociali all’università di Cambridge e uno dei promotori di questo processo di analisi e raccolta dati- è la costante pressione del tempo, per chi deve sempre lavorare con scadenze ravvicinate o ad alta velocità”. Simili casi virtuosi si sono ripetuti allo Stellar Asset Management, una società di servizi finanziari con sede a Londra, che ha lanciato la sfida al suo programma di sviluppo della leadership, che comprende un gruppo di dipendenti junior per gestire meglio la organizzazione della settimana corta. Ma anche da Platten’s, catena di ristorazione di fish and chips, i 4 giorni hanno funzionato meglio delle attese dando ai dipendenti una scaletta delle priorità e chiedendo ai lavoratori di tenere un diario giornaliero delle cose fatte.
La produttività cresce
“La prova del fuoco è aumentare la produttività – spiega all’Ft Jon Boys, economista del lavoro presso il Chartered Institute of Personnel and Development – del 25% nei 4 giorni di lavoro: un obiettivo enorme”. Da Platten’s (che ha 3.300 dipendenti) è stato registrato un aumento del 74% della fidelizzazione del personale e dei lavoratori stagionali che vogliono tornare, e la partecipazione alla formazione volontaria è passata dal 76% al 94%. Stellar Asset Management, si è concentrato sui risultati, riscontrando che sono stati raggiunti gli obiettivi in meno ore. Infine Hutch ha rilevato che il 43% ha lavorato oltre l’orario contrattuale, sebbene il 71% abbia aggiunto solo altre due ore.
Lo studio completo su pregi e difetti della settimana di 4 giorni non sarà pubblicato prima di febbraio. Ma tre delle quattro società intervistate dal Ft hanno già detto che intendono mantenere il programma in futuro, la quarta ha detto che riproporrà il modello quando l’economia migliorerà. I progetti pilota paralleli in corso in Irlanda e negli Stati Uniti, che comprendono 33 aziende e 903 dipendenti, secondo il Financial Times mostrano segnali promettenti.
Bollette e inflazione minacciano le aziende
Tuttavia anche tra coloro che sono entusiasti dei risultati, c’è il timore che quando il modello dei 4 giorni diventerà uno standard, alcune delle efficienze ottenute fin qui andranno perse. Sia i datori di lavoro che i dipendenti sono poi alle prese con l’inflazione elevata e le bollette energetiche, per cui adesso la priorità è conservare il posto di lavoro piuttosto che discutere dei vantaggi di un contratto che offre un buon bilanciamento tra lavoro e tempo libero. “Le persone spesso parlano della settimana di cinque giorni come se fosse qualcosa che era nel libro della Genesi- ricorda il professore Burchell di Cambridge che sta elaborando e raccogliendo i dati del progetti pilota – Questo è molto lontano dalla verità. Alcuni argomenti contro la settimana di quattro giorni si dimostreranno spuri. Se c’è la volontà di andare in quella direzione, le persone possono farlo accadere”.
(da agenzie)
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Dicembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
SENTENZA RINVIATA, LA PAROLA PASSA ALLA CORTE COSTITUZIONALE… PROTESTE DEGLI ANARCHICI IN AULA
Slogan, striscioni, scritte contro sulle vetrine delle banche a Torino. Il corteo anarchico in solidarietà con Alfredo Cospito e Anna Beniamino, partito da palazzo di Giustizia dove si teneva il processo a loro carico, ha raggiunto via Principi d’Acaja e quindi via Rossini, nel centro della città.
Poco dopo è arrivata la decisione dei giudici: oggi niente sentenza che slitta al 19 dicembre, la parola passa alla Consulta.
E’ stata infatti accolta la questione di legittimità costituzionale sull’attenuante rispetto al reato di strage politica: un reato per il quale il procuratore generale Francesco Saluzzo ha chiesto la condanna all’ergastolo per Cospito, inclusi 12 mesi di isolamento diurno, e 27 anni e un mese per Anna Beniamino.
“Tutti liberi, Alfredo libero”, si legge sulle scritte lasciate sulle vetrine. I manifestanti erano circa 150, giunti anche da fuori Torino.
Collegati dalle carceri di Sassari e di Rebibbia Alfredo Cospito e Anna Beniamino hanno preso la parola per leggere due comunicati di protesta contro il regime del 41 bis a cui l’uomo è sottoposto. “Non ho dubbi che mi condannerete all’ergastolo” ha detto Cospito in videocollegamento.
E’ considerato ideologo del Fai, “parlo prima di tacere per sempre” aggiunge, spiegando che i due attentati per i quali è sotto accusa furono “due atti dimostrativi in piena notte che non potevano ferire nessuno”.
Il suo discorso è anche di solidarietà agli altri detenuti sottoposti al carcere duro: “Siamo in 750 in questo regime”, “Mi sento condannato in un limbo senza fine in attesa della morte”.
“Non mi arrendo – ha aggiunto Cospito – ma continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro per far conoscere al mondo questi due abomini repressivi di questo paese”.
Anna Beniamino, la compagna, anche lei sotto processo con il rischio di una sentenza pesantissima, parla di un “processo politico alla nostra identità di anarchici” teso “a una pena esemplare”, e definisce lo sciopero della fame di Cospito come extrema ratio: “Opporsi è necessario” ma intanto, ha affermato, “non riuscirete mai a spegnere l’anarchia”.
Parole che hanno infiammato un gruppo di anarchici, una decina, che sedevano tra il pubblico: “Libertà, libertà” hanno iniziato a urlare, così come “Vergogna”.
La presidente della corte d’Assise d’Appello a quel punto ha chiesto di liberare l’aula e i carabinieri hanno fatto uscire tutti. E’ iniziata la requistoria del procuratore generale Francesco Saluzzo che alla vigilia del processo si era premurato di mandare in esecuzione la precedente sentenza di condanna per Alfredo Cospito, evitando così in ogni modo che potesse uscire dal carcere.
Cospito dunque, nonostante il rinvio degli atti alla Corte Costituzionale, rimarrà comunque in carcere: ha iniziato a scontare i 20 anni già inflitti per l’attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano, proprio quello per cui rischia l’ergastolo per “strage politica”.
La corte d’Assise d’appello dovrà pronunciarsi ma solo per rideterminare la pena così come indicato dalla Cassazione, per lui e per la compagna Anna Beniamino, considerati ideologi del Fai (Federazione anarchica informale). I tempi per la sentenza però sono rimasti incerti fino all’ultimo.
E dunque, per evitare che l’anarchico detenuto a Sassari nel regime del 41 bis potesse uscire per scadenza dei termini, il procuratore generale Francesco Saluzzo ha agito d’anticipo, mandando in esecuzione la parte di condanna considerata sicura per questo procedimento. Cospito stava già scontando i 10 anni per l’attentato all’amministratore delegato di Ansaldo Roberto Adinolfi
Sollevando davanti alla Corte le questioni di legittimità costituzionale gli avvocati dei due anarchici chiedono ai giudici della Consulta di esprimersi sulla “pena fissa” dell’ergastolo ostativo per la strage politica in considerazione del fatto che l’attentato non ha provocato vittime.
Il procuratore generale è stato accompagnato in aula dal pm Paolo Scafi per la requisitoria. I magistrati hanno messo l’accento sulla pericolosità di quell’attentato che, anche se non provocò feriti, fu di “altissima potenzialità lesiva” e nel quale, soprattutto, venne utilizzata la tecnica del “richiamo”: il primo ordigno doveva servire ad attirare le vittime da colpire con la seconda esplosione.
L’ondata di solidarietà della rete anarchica per Cospito ha varcato i confini internazionali, anche in Grecia, dove nel giorno in cui si doveva discutere l’udienza del tribunale di sorveglianza c’è stato l’attentato fallito contro la diplomatica Susanna Schlein. L’attenzione della Digos è altissima.
(da agenzie)
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