Dicembre 21st, 2022 Riccardo Fucile
QUANDO BOSSI DISSE: “SALVINI? NON CAPISCE UN CAZZO”
Nella fiaba di Andersen è un bambino a squarciare la coltre d’ipocrisia gridando per la strada: “Il Re è nudo!”. Nel serial eroicomico della Lega (che nel simbolo continua inopinatamente a presentarsi “per Salvini premier”) tocca invece al vecchio e malandato sovrano, deposto ormai tanti anni fa, rompere il furbo silenzio dei maggiorenti per dire quello che quasi tutti pensano e quindi che l’attuale re “è un bambino” – accusa tanto più oltraggiosa considerato che di solito sono gli anziani a rischio rimbambinimento.
Pur con tale asimmetrica premessa va da sé che l’affondo di Bossi verso Salvini ha ragioni politiche che investono la linea e l’orizzonte soprattutto geografico del Carroccio; questioni che certo si sono riacutizzate dinanzi all’imminente voto nella terra madre, la Lombardia. Ma come sempre accade, nello scontro confluiscono umori, sentimenti e rancori molto personali, per cui da sempre il Capitano e il Senatùr a malapena si sopportano, con l’aggravante di dover nascondere in pubblico la reciproca avversione.
Per dire, quando lo scorso anno Bossi compì 80 anni, Salvini si guardò bene dal partecipare alle cerimonie e gli fece frettolosi auguri social, dalla macchina. Alle elezioni gli trovò sì un posticino in lista, ma non proprio sicurissimo, tanto che il fondatore fu eletto per miracolo, con i resti.
D’altra parte, per quanto fragile in salute, dal Papeete in poi Bossi non ha mai perso l’occasione per far capire a chiunque di non avere nessuna stima di Salvini. Detto al suo modo, dalla gestione del Quirinale alle figuracce all’estero, da Chaouqui a Capuano passando per gli affari petroliferi: “Non capisce un cazzo”, là dove tale generica affermazione non esprime solo una sprezzante superiorità di ordine patriarcale, ma anche e soprattutto segnala una particolare inadeguatezza che mai come nel caso di ieri si è esplicitata.
Ora, del vecchio e linguacciutissimo Bossi si può pensare tutto il male possibile, così come è vero che gli insuccessi del giovane capo finiscono per alimentare, specie al Nord, la mitologia del vecchio leader della prima gloriosa Lega e addirittura la nostalgia fideistica della grottesca Padania indipendentista con le sue baracconate: vedi la recente proposta dell’architetto Leoni di trasformare la villetta di Gemonio in un Museo, magari con fondi pubblici.
Dopo le ultime disastrose elezioni contro Salvini si è comunque aperto un lungo, lento e in qualche modo ancora incerto processo, di cui il “Comitato del Nord” e le invettive del vegliardo costituiscono per ora delle tappe. I vari Giorgetti, Calderoli, Zaia, Fedriga e compagnia silente stanno appunto a guardare.
Però quando Bossi tocca quel particolare tasto – «Salvini è un bambino, con si comporta come un uomo e io sono abituato a parlare con gli uomini», ecco, al di là del caso di giornata e dalla congiuntura che l’ha determinato, la sintetica notazione lascia il segno per trasmettere, come nella favola, inusitati bagliori di verità.
Forse saranno i social, che dei leader di questo tempo enfatizzano prima di tutto l’espressività, le facce, le smorfie, i gesti, gli accessori e gli oggetti che esibiscono, le fissazioni tipo il Ponte sullo Stretto; forse è la natura tutta esteriore del comando che rende gli odierni capi puri soggetti apparenti, sempre in bilico tra la condizione di eroe e quella della macchietta, fra retorica e capricci.
Certo fa pensare il grido levatosi dalla platea a un recente congresso della Lega: «Togliete il telefonino a Salvini!». Fatto sta che a forza di felpe, uniformi, bacioni, Nutella, maglie da calciatori, e poi cucciolini, palloncini, candeline, mini ruspe, pistole ad acqua, peluche e giocarelli, i dispositivi di infantilizzazione della leadership, generati dal marketing, non sono mai apparsi così evidenti e fruttuosi come nel caso di Salvini.
Si sa, o meglio si è capito come vanno queste cose e a quale esito portano tali percezioni: finché vinci e hai portato il tuo partito dal 10 al 30 per cento, tutti ti dicono: ma che bravo, che fantasia, che modernità, che slancio! Quando invece va male, e ti ripeti, perdi colpi, cerchi di salvarti premiando per paura solo la fedeltà, beh, succede che un’autorità dia voce alla vera e grande debolezza che nessun politico in nessuna fiaba potrà mai perdonarsi: sei un bambino, o peggio, sei rimasto un bambino, non è cosa per te, addio.
(da la Repubblica)
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Dicembre 21st, 2022 Riccardo Fucile
FRANCESCO BORGONOVO, VICEDIRETTORE DE “LA VERITÀ”; L’ATTORE EDOARDO SYLOS LABINI; FRANCESCO GIUBILEI, CONSIGLIERE DEL MINISTRO SANGIULIANO; L’EX SHOWGIRL LAURA TECCE; IL GIORNALISTA ANTONIO RAPISARDA, IL SOCIOLOGO GUERINO NUCCIO BOVALINO – IL GIORNALISTA MARCO ANTONELLIS, L’EX DIRETTORE DEL TG2 MAURO MAZZA, IL DIRETTORE DE “IL TEMPO” DAVIDE VECCHI, IL PROF DI FILOSOFIA BENEDETTO IPPOLITO – CI SAREBBE ANCHE MARCO GERVASONI FINITO PERO’ IN DISGRAZIA DOPO GLI INSULTI A MATTARELLA
La lista di Giorgia. Tutti ne parlano in Rai. Nomi e cognomi di giornalisti e opinionisti graditi alla premier e agli uomini di Fratelli d’Italia. Nuovo vento, nuovo corso. In realtà non è una novità delle ultime settimane, perché di queste liste, vergate e supervisionate da Meloni, e poi inviate ai direttori, e quindi girate ad autori e conduttori, si sapeva già dalla primavera, quando FdI era ancora un partito di opposizione, ma in crescita.
Ora, però, è al governo, e Meloni guida la regia dei programmi Rai direttamente da Palazzo Chigi. Questa sera, per dire, alla presidente del Consiglio sarà dedicato uno spazio speciale, dopo il Tg1 delle 20, con un’intervista di Bruno Vespa, a cui potrebbe andare la striscia quotidiana che fu di Enzo Biagi. Appena tre anni fa, come ricorda l’ex segretario della Vigilanza Rai Michele Anzaldi, il partito della premier si scagliò contro «la scandalosa intervista» di Giuseppe Conte andata in onda nello stesso orario, e per la quale furono stravolti i palinsesti: «E oggi l’amministratore delegato Carlo Fuortes fa lo stesso con Meloni».
Il manager è accerchiato. In generale, La pressione di FdI si è fatta maggiore, così come la disponibilità dei dirigenti e l’imbarazzo di chi nei talk show riceve l’elenco degli ospiti. C’è un precedente, noto a chiunque lavori in tv. Anche Matteo Renzi, quando guidava il Pd e, insieme, il governo, faceva preparare liste con giornalisti di area perché, dicevano nel suo staff, «servono a riequilibrare le trasmissioni», non solo in Rai, ma anche a La7 e a Mediaset. Argomenti identici a quelli usati dai collaboratori di Meloni.
Corsi e ricorsi della politica italiana e dei partiti che, a turno, sono ansiosi di mettere le mani sulla televisione pubblica. L’elenco caro alla premier è stato aggiornato nel passaggio dall’opposizione al governo.
La short list piovuta in primavera riporta nomi più o meno noti e volti ormai incastonati nei talk: Francesco Borgonovo, vicedirettore de La Verità; Edoardo Sylos Labini, attore e presidente dell’Associazione Cultura e Identità; il pupillo della destra sovranista Francesco Giubilei, consigliere del ministro della Cultura, ed ex direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano; Laura Tecce, promossa a conduttrice; il giornalista Antonio Rapisarda, il sociologo Guerino Nuccio Bovalino, e Marco Gervasoni, professore e polemista su La Voce del patriota, cantore dei conservatori contro «l’ingannocrazia delle sinistre».
Qualcuno è un po’ finito in ombra, anche per qualche esagerazione di troppo, che ha persuaso i meloniani a prenderne le distanze. Gervasoni, per esempio, è stato indagato per gli insulti rivolti al presidente Sergio Mattarella.
Dunque, meglio tenerlo lontano dal piccolo schermo. Anche se lui, come altri, erano stati utili ai tempi più duri della pandemia per veicolare le posizioni di FdI contro l’obbligo dei vaccini. Nella lista aggiornata dopo la vittoria elettorale, ci sono figure che appaiono meno abrasive. C’è il giornalista Marco Antonellis, l’ex direttore del Tg2 Mauro Mazza, il direttore del quotidiano Il Tempo Davide Vecchi, il professore di filosofia Benedetto Ippolito, grande frequentatore dei salotti tv. Si mescolano nomi che un tempo sarebbero stati considerati in quota Lega o Forza Italia. Ma così è, quando passa il carro del vincitore
Bastava comunque dare un’occhiata a chi c’era sopra o intorno al palco della festa per i dieci anni di FdI a Piazza del Popolo, a Roma, per capire la voglia di Rai che c’è nel partito di Meloni. Sylos Labini che chiedeva di portare La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio a Sanremo 2023 e che ieri ha rincarato la dose contro «la trap un po’ fluid».
Gennaro Sangiuliano, costipato e collegato da casa, che evocava un’egemonia nazionale identitaria non esterofila e contro il politicamente corretto. Lo stesso Sangiuliano che, a detta di due fonti interne al Tg2, nelle settimane subito successive alla nomina a ministro, nella vacatio che ha preceduto l’indicazione di Nicola Rao alla direzione, ha continuato a chiamare i suoi vecchi collaboratori e a interessarsi dei servizi del telegiornale.
Sul palco di FdI c’era anche Paolo Petrecca, l’uomo che, nel giro della lottizzazione gestita da Palazzo Chigi ai tempi di Mario Draghi, è stato piazzato da Meloni alla testa di Rainews24. Interrogato sul futuro dell’istruzione, il direttore della testata all news (della quale spiega di aver «stravolto una prerogativa culturale moderatamente di sinistra») chiede a gran voce «un nuovo progetto culturale», per evitare quello che è capitato a suo figlio «che alle scuole medie veniva educato all’antifascismo, alla cultura che nel dopoguerra parla solo dei partigiani e non di foibe». Un direttore della tv di una Repubblica fondata su una Costituzione antifascista che ne stigmatizza la radici educative e culturali? Applausi scroscianti dal pubblico.
L’intervento si chiude con un appello ai suoi ospiti: «Noi dobbiamo fare una rivoluzione culturale e spero che voi al governo la facciate presto». Parole che hanno scatenato la reazione giornalisti, al punto che la sua redazione e l’Usigrai, il sindacato interno della Rai, hanno rivolto una domanda a Fuortes e al Cda: «Tutto questo è accettabile da parte di un direttore del servizio pubblico?».
Fuortes non si è espresso pubblicamente. L’ad continua a nicchiare e mandare segnali al nuovo governo. Il suo mandato scade nel 2024. Meloni non si fida. È noto che vorrebbe affiancargli Giampaolo Rossi, l’uomo Rai per conto di FdI, già consigliere di amministrazione, estromesso all’ultimo cambio del Cda. La questione investe anche il Parlamento.
A oltre due mesi dall’inizio della legislatura, i membri della Vigilanza Rai ancora non sono stati nominati. Per prassi, la presidenza andrebbe all’opposizione, e il candidato più probabile resta l’ex ministro Stefano Patuanelli del M5S. FdI, però, blocca tutto. La logica del partito di Meloni è questa: finché il Cda resta di fatto in mano alla sinistra, viene meno il principio di dare alle opposizioni una commissione di garanzia. Detto in altre maniere: finché Fuortes resta al suo posto, o comunque non accetta di essere commissariato, difficilmente si sbloccherà la questione.
(da la Stampa)
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Dicembre 21st, 2022 Riccardo Fucile
NON PROPRIO UN INDIZIO DI FIDUCIA NEI CONFRONTI DELL’UOMO DEI CONTI DI “FRATELLI D’ITALIA”
Fratelli d’Italia contro Forza Italia. Parlamento contro governo. Ministri contro viceministri. La prima Finanziaria dell’era Meloni sarà approvata prima dello spumante di mezzanotte del 31 dicembre ma lascerà una scia di veleni nella maggioranza.
Il ritardo accumulato in commissione Bilancio era tale da far paventare il voto dell’aula della Camera fino a sabato, giorno della Vigilia. Per molti parlamentari, soprattutto quelli che vivono lontano da Roma, significherebbe non essere a casa per la cena di Natale.
Per evitare fughe incontrollate prima della fine delle votazioni, i capigruppo di maggioranza sono corsi ai ripari. E così, all’ora di cena si è deciso di mettere in calendario il voto di fiducia a partire dalle undici di venerdì mattina.
La premier sapeva sin dall’inizio che approvare la legge di Bilancio in pochissime settimane dall’insediamento a Palazzo Chigi sarebbe stato complicato, ma non fino al punto di costringere pezzi della maggioranza allo scaricabarile. L’ultimo in ordine di tempo è di ieri pomeriggio sulla depenalizzazione dei reati fiscali.
Il capogruppo di Fratelli d’Italia Tommaso Foti esce dalla sala del Mappamondo e attacca: «Si tratta della proposta di un singolo, non condivisa. L’emendamento non è mai stato depositato». Il «singolo» a cui allude Foti è il viceministro forzista alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Ma la verità è un’altra: l’ipotesi di un colpo di spugna penale che accompagnasse la «tregua fiscale» per gli evasori era stata studiata in via XX settembre già un mese fa da Maurizio Leo, viceministro alle Finanze del partito di Meloni.
E l’ipotesi aveva una ratio molto precisa: senza quelle norme, i grandi evasori non avrebbero aderito al meccanismo grazie al quale restituire le tasse non pagate a prezzo di sconto. In quei giorni a impedire che le norme entrassero in Finanziaria è il Quirinale, mentre Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti sono a Bali per il vertice G20.
Fino ad allora Giorgetti – poco esperto di fisco – aveva lasciato piena autonomia a Leo. Da qualche giorno il ministro leghista ha voluto come consulente al ministero l’ex sottosegretario di Scelta Civica, il tributarista Enrico Zanetti, un indizio di scarsa fiducia nei confronti del collega meloniano.
Giorgetti non ha nessuna voglia di fare da parafulmine dei problemi della maggioranza. Nella notte di domenica, appena avuta notizia della richiesta degli uffici di Montecitorio di spacchettare gli emendamenti governativi per materia, ha sbottato: «È la prima volta che accade, prendiamo atto di tanto zelo».
Il plurale comprende Meloni, lo zelo è riferito al compagno di partito, il presidente della Camera Lorenzo Fontana, reo di non aver fatto nulla per aiutarlo. Ieri, il ministro ha rincarato la dose, stavolta contro le intemperanze di Forza Italia che insisteva per ulteriori modifiche.
A metà pomeriggio, di fronte all’ennesimo stallo, una fonte del ministero del Tesoro rilascia una dichiarazione eloquente: «Le Camere ritengono di non modificare la legge di Bilancio? Può essere approvato il testo originale del governo».
Se l’opposizione volesse cavalcare fino in fondo le difficoltà della maggioranza potrebbe fare ostruzionismo. Non sta accadendo per almeno due ragioni: non dare alibi al governo, e perché ammansita con alcune concessioni.
Il Pd si è intestato il rifinanziamento del bonus psicologico, i Cinque Stelle molti altri emendamenti, uno dei quali dedicato alla lotta al dissesto idrogeologico. Per il Terzo polo è stata l’occasione di distinguersi: per protestare contro i pasticci della maggioranza i parlamentari centristi hanno lasciato i lavori della commissione e rinunciato ai 15 milioni di euro stanziati per accogliere le loro proposte di modifica.
Se tutto andrà come previsto, il Senato si riunirà il 27 dicembre per votare un testo inemendabile, con buona pace del bicameralismo perfetto e il sollievo della premier, che ha fissato per il 29 la consueta conferenza stampa di fine anno.
(da La Stampa)
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Dicembre 21st, 2022 Riccardo Fucile
DOPO IL VOTO, IL “CHURCILL DEI PARIOLI” FARÀ VALERE LE SUE RAGIONI SU DUE ASPETTI: L’ATTIVITÀ BEN RETRIBUITA DA CONFERENZIERE E I FLIRT ECCESSIVI CON BERLUSCONI
Ricordate quando Carlo Calenda e Matteo Renzi misero insieme le loro ambizioni, i loro ego smisurati e i loro partitini striminziti per lanciarsi alla conquista del voto degli italiani? Renzi, all’epoca, era solito obbedir tacendo: parlava poco, si esponeva meno, lasciava microfoni e telecamere al “Churchill dei Parioli”, che aveva, anche percentualmente, il peso maggiore all’interno del cartello elettorale.
Tornato a poggiare le terga sulle morbide poltrone di Palazzo Madama, Matteuccio ha riacceso il motore: ogni giorno monita, rilascia interviste, elargisce dichiarazioni, oscurando completamente il suo “senior partner” Carletto.
Quest’ultimo, ovviamente, l’ha presa malissimo. Non accetta che l’accordo iniziale, che regolava i rapporti, venga via via stravolto. Nonostante mastichi amaro, Calenda per ora tace, evita di creare fratture, soprattutto per non agitare le acque prima delle elezioni regionali. Solo a urne chiuse avrà un chiarimento con il suo alleato. È da comprendere il povero Carlo: si è dovuto dare una calmata, si è autosedato, soprattutto per il delicato scenario politico in cui si è andato a infilare.
Nel Lazio, ha deciso di allearsi con il PD per sostenere Alessio D’Amato. In Lombardia, si è schierato contro il Partito democratico per sostenere Letizia Moratti. In questa fase, quindi, ogni parola che proferisce può essere usata contro di lui per scombussolare il faticoso equilibrio raggiunto.
Solo quando il nodo elettorale sarà sciolto, Calenda potrà tornare a dar fiato alle trombe, e far valere le sue ragioni. In particolare, con Renzi, dovrà chiarire due aspetti: il primo è legato alla ben remunerata attività di conferenziere intrapresa dall’ex premier in giro per il mondo. Come ha ricordato Giuseppe Conte in una velenosa intervista rilasciata a “Repubblica” ieri, lo stesso Calenda prima di allearsi con Renzi si scagliava contro il senatore semplice di Riad: “È inaccettabile che un senatore della Repubblica, pagato dai cittadini, vada in giro per il mondo a fare il testimonial di regimi autocratici dietro pagamento di lauti compensi”.
Insomma, a Calenda non va giù né l’attivismo di Renzi tra le tavole rotonde, né il suo rapporto privilegiato con il principe saudita Mohammed Bin Salman. Il segretario di Azione è inoltre convinto che, alla lunga, gli speech dell’alleato penalizzino elettoralmente il suo partito.
Il secondo aspetto che verrà al pettine dopo il voto delle amministrative riguarda la linea politica del Terzo Polo. A Calenda, costretto a barcamenarsi tra situazioni complesse nel suo rapporto con il Pd, non piace l’abilità manovriera di Renzi che strizza l’occhio a Berlusconi, ricevendo in cambio parole di miele: “Ho sempre stimato Renzi e ho sempre pensato che giochi in una metà campo che non è la sua” – ha detto il “Banana” in un’intervista rilasciata al “Corriere” oggi – “Certamente, se lo volesse, potremmo lavorare in sintonia su diversi temi ma gli italiani hanno scelto alle elezioni da chi vogliono essere governati”.
(da Dagonews)
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Dicembre 21st, 2022 Riccardo Fucile
LA 61ENNE DANIELA SANTANCHÈ VA IN VACANZA A CORTINA D’AMPEZZO DOVE SI E’ LANCIATA SULLE PISTE CON UN COMPLETINO DA GHEPARDA DELLE NEVI
Da quando Daniela Santanchè è diventata ministro del Turismo del governo di Giorgia Meloni, a Cortina d’Ampezzo non stanno nella pelle. La “Santa”, infatti, possiede da anni una casa nella “perla delle Dolomiti” e ha già dichiarato di essere convinta del grande rilancio della cittadina ampezzana sia in vista delle Olimpiadi invernali del 2026 sia per il ritorno massiccio del turismo.
Eccola al braccio del fidanzato Dimitri Kunz d’Asburgo in passeggiata sul lago Ghedina nel suo look superfashion firmato Moncler.
Per addentrarsi nel parco del ristorante Saliola il ministro ha scelto un completo giallo e nero con borsetta, cappello di pelliccia e doposci. I
l suo fidanzato, invece, ha preferito il grigio di velluto e lana grossa con dolcevita ruggine, molto chic. Con loro c’è la cagnolina Kelly, che ha subito fatto amicizia con uno splendido cane lupo di un altro ospite del ristorante.
(da “Chi”)
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Dicembre 21st, 2022 Riccardo Fucile
LE RIFLESSIONI DI BOB DYLAN SULLA MUSICA MODERNA: “È TROPPO FACILE DA ASCOLTARE. UN TEMPO LE MUSICHE ERANO SEMPLICI, MA TI LASCIAVANO VEDERE IL FUTURO”
Tra le molte vite di Bob Dylan, cantautore, pittore, vincitore di dieci Grammy, un Oscar e il Nobel per la Letteratura, non c’è quella in streaming. In una lunga intervista al Wall Street Journal, a ottantuno anni l’artista americano parla delle nuove tecnologie e le rigetta quasi tutte. Boccia la musica contemporanea, «fatta per l’establishment », «troppo facile da ascoltare »
«Le musiche erano semplici – racconta – facili da capire. Ti entravano direttamente, ti lasciavano vedere il futuro […] Ai giorni nostri ascoltiamo la musica con i cd, le radio satellitari e in streaming. Io amo il suono del vecchio vinile, specialmente su un giradischi. Ne comprai tre – ricorda – in un negozio in Oregon trent’ anni fa. La qualità è potente e miracolosa, mi riporta indietro ai giorni in cui la vita era differente e imprevedibile».
Riflessioni dell’autore di Blowin’in the wind e Hurricane sono contenute nel libro Filosofia della canzone moderna , uscito a novembre, il primo dopo aver vinto il Nobel e diciotto anni dopo Chronicles , che diventò bestseller.
Per essere creativi, spiega, bisogna essere «poco socievoli » e un po’ «repressi», ma non violenti. Solo «poco amichevoli e distratti». Lui scrive canzoni solo «quando lo stato d’animo» è forte e lo colpisce al cuore, non con la routine del mestierante. «Il mio metodo è trasportabile – confessa – Posso scrivere canzoni ovunque e in qualsiasi momento».
Le leggi del tempo non si applicano a Dylan. La tecnologia è routine, creatività senza battito, non lo aiuta. «Rilassa – aggiunge – e io sono troppo rilassato. La maggior parte del tempo mi sento come una ruota a terra, senza motivazioni, ho bisogno di tempo per essere stimolato».
In questa dicotomia tra presente e passato non potevano mancare i social. «Portano felicità a molte persone – dice – alcuni scoprono persino l’amore, è fantastico se sei una persona socievole, puoi cancellare ricordi e cambiare la storia». Ma aggiunge, tornando al suo blues esistenziale, «i social possono anche dividerci e separarci».
(da la Repubblica)
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Dicembre 21st, 2022 Riccardo Fucile
LO STOP ALLE IMPEGNATIVE VIA MAIL O SMS PER ORA NON CI SARA’
Lo stop alle ricette dei farmaci via mail e per messaggio sarebbe dovuto arrivare a fine 2022, ora la notizia del dietrofront con la proroga di un anno contenuta nel prossimo decreto Milleproroghe sul tavolo in queste ore del Consiglio dei ministri. La misura era stata introdotta con ordinanza della Protezione civile durante l’emergenza sanitaria Covid-19, quando le uscite di casa per andare dal medico rappresentavano un forte pericolo di contagio. Sulla scadenza prevista a fine anno il governo sembra ora fare dietrofront, favorendo un meccanismo che ha velocizzato non poco le comunicazioni tra medico e paziente. Fino a pochi giorni fa erano stati gli stessi dottori a chiedere un passo indietro sul termine della norma: «Chiediamo la proroga, oltre la scadenza del 31 dicembre 2022, dell’utilizzo della ricetta dematerializzata almeno per un anno e un provvedimento che renda il suo utilizzo strutturale, così da liberare i medici da impropri carichi burocratici», aveva detto la segretaria Generale del Sindacato Medici italiani (Smi), Pina Onotri. «Il ritorno alla ricetta cartacea rappresenterebbe un salto indietro, causando lunghe attese negli studi medici. Liberare i medici curanti da carichi burocratici permette di valorizzare la professione, contrastare l’esodo dalla categoria, e dare la possibilità di utilizzare più tempo alla cura e all’assistenza dei pazienti». La denuncia rivolta direttamente al ministro della Salute Orazio Schillaci ora sembra essere stata accolta.
Il segnale verso un maggiore digitalizzazione del sistema sanitario potrebbe rappresentare un passo ulteriore verso l’obiettivo definitivo ribadito dallo stesso presidente della Federazione degli ordine dei medici, Filippo Anelli: «Credo sia necessario ora avviare il confronto con le regioni per migliorare sempre di più l’attivazione del fascicolo sanitario elettronico, che sarebbe la vera soluzione del problema». Anche secondo Anelli, già con l’introduzione delle ricette digitali «il sistema ha risparmiato milioni di tonnellate di carte e i servizi sono migliorati nettamente». Una norma che è stata capace di sgravare moltissimo i medici «da quel tipo di pressione che avveniva durante lo svolgimento del suo lavoro in ambulatorio, perché si poteva dedicare finalmente alle visite e le ricette le poteva fare in un secondo momento». Ma si può andare oltre. A dirlo anche i pediatri, nelle ultime settimane impegnati ad arginare la grande ondata di influenze che ha colpito i più piccoli. «Per evitare di affollare ulteriormente gli studi dei pediatri di famiglia in questo periodo di alta circolazione di infezioni virali è necessario, nell’immediato, trovare il modo di prorogare il promemoria o ricetta dematerializzata», aveva dichiarato sulla questione delle ricette digitali Luigi Greco, consigliere consigliere nazionale della Società Italiana di Pediatria (Sip) e pediatra di famiglia a Bergamo. Poi anche in questo caso l’appello sull’urgenza del fascicolo elettronico: «Per trasferire in modo sicuro le informazioni dal prescrivente al paziente bisogna puntare sul fascicolo sanitario elettronico, come avviene oggi in Veneto». Greco parla quindi di una condizione alla proroga sulle ricette dematerializzate: «Dovrebbe essere vincolata all’impegno, da parte delle regioni, a una effettiva implementazione del fascicolo sanitario elettronico, attraverso la tessera sanitaria o specifiche App».
(da agenzie)
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Dicembre 21st, 2022 Riccardo Fucile
GLI SPECIALISTI DELL’ECONOMIA DIGITALE HANNO LASCIATO IL PAESE, IN DISSENSO CON LE SCELTE DEL CREMLINO
Non è mai stato un segreto che tra i più sentiti effetti “collaterali” in Russia dell’offensiva in Ucraina ci fosse la fuga degli specialisti dell’economia digitale, perché contrari all’operazione o spaventati da legge marziale a marzo e dalla mobilitazione parziale a settembre oppure colpiti dall’uscita delle maggiori società del settore dal Paese.
Tuttavia il dibattito innescato nelle ultime settimane dalla differenza di vedute tra il Parlamento e il ministero dello Sviluppo digitale sul destino professionale degli specialisti dell’high tech ha imposto una presa di coscienza sull’esistenza di un problema concreto: nel corso dell’ultimo anno, hanno lasciato il Paese senza farvi ritorno circa 100mila ajtishniki (termine gergale russo per i “lavoratori dell’It”), ossia circa il dieci per cento del totale. È quanto denunciato dal ministro dello Sviluppo digitale della Federazione russa Maksut Shadaev nel corso di un’audizione alla Camera bassa del Parlamento, la Duma.
Shadaev ha però in mente soluzioni radicalmente differenti rispetto alla Duma per porre un argine alla falla. “Proponiamo di non introdurre dure restrizioni alla possibilità di lavoro a distanza, perché ovviamente questo li incoraggerebbe a trovare lavoro in aziende straniere e ridurrebbe le probabilità che tornino nel nostro Paese”, ha spiegato il ministro precisando che, se è vero che la maggior parte di quanti hanno lasciato la Russia nelle due ondate non è intenzionato a farvi ritorno, come ammesso dalle autorità russe, molti però continuano a collaborare a vario titolo con le società nazionali pur di fatto risiedendo in Paesi vicini.
Alla fine del mese scorso il partito al governo, Russia Unita, aveva invece annunciato la possibilità di introdurre limitazioni all’uscita dal Paese dei lavoratori dell’high tech. L’idea è stata poi trasformata in un disegno di legge che vieta alle aziende di stipulare contratti che prevedano il lavoro a distanza con gli informatici che non risultino residenti nella Federazione.
Stando a quanto chiarito dal vicepresidente del raggruppamento di Russia Unita alla Duma, Andrej Isaev, il provvedimento interesserebbe soltanto gli specialisti che lavorano con dati finanziari e bancari, che hanno accesso alla posta aziendale o che operano per conto di istituti pubblici. “Se l’accesso avviene dall’estero, in Paesi ostili, allora comprendiamo che può comportare grossi costi per i nostri cittadini”, ha chiarito il deputato
Ma il ministero dello Sviluppo digitale, ferme restando le considerazioni sulla sicurezza, insiste sul rischio che gli specialisti informatici che hanno lasciato la Russia decidano di tagliare definitivamente il cordone ombelicale con la madre patria. Il dicastero teme, in definitiva, che un divieto totale di lavorare dall’estero possa portare a un fatale rallentamento nello sviluppo digitale. L’80 per cento degli specialisti esiliati, ha provato a rassicurare il ministro, “continua a lavorare per aziende russe, trovandosi in Paesi amici”.
Per Konstantin Sonin, economista di origini russe della Harris School of Public Policy dell’Università di Chicago, il recente esodo rappresenta un’inversione di tendenza nell’industria tecnologica russa, storicamente capace di formare capaci specialisti high tech, e potrebbe riportare indietro lo sviluppo di oltre un decennio. Allo stato attuale la tecnologia rappresenta una fetta limitata dell’economia russa, se confrontata con le industrie estrattive, ma ha mostrato una rapida crescita. La perdita di molte persone giovani e istruite non potrà non avere conseguenze sulla diversificazione economica per gli anni a venire.
Dei centomila specialisti fuggiti all’estero, fino a due terzi lo ha fatto nell’immediatezza del lancio dell’operazione militare speciale e sulla scia del progressivo abbandono del mercato da parte delle società internazionali, secondo le stime presentate in Parlamento già in primavera dall’Associazione russa per le comunicazioni elettroniche. Al momento dell’intervento militare, molti di loro lavoravano utilizzando software straniero o avevano visto congelati i loro stipendi in seguito al blocco dei sistemi internazionali di pagamento. La campagna di coscrizione lanciata a fine settembre ha dato nuovo impulso alla fuga degli specialisti. Nelle due settimane successive all’annuncio della mobilitazione, circa 700mila persone, tra le quali un numero non definito di specialisti It, hanno lasciato la Russia.
L’età e la formazione personale dei giovani specialisti sembrerebbe aver avuto un peso sulla loro decisione di fuggire, non solo per motivi di carriera o per la paura di finire al fronte, ma anche per dissenso rispetto alle scelte del Cremlino. Sondaggi del centro indipendente Levada hanno mostrato come i dissapori per l’operazione militare si annidino proprio nelle fasce della popolazione più giovani, istruite e aperte al mondo esterno: se tra i pensionati il sostegno è al 90 per cento, tra i giovani scende al 62.
(da La Repubblica)
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Dicembre 21st, 2022 Riccardo Fucile
“MAD VLAD” STA IMPLORANDO IL DITTATORE BIELORUSSODI INTERVENIRE NELLA GUERRA IN UCRAINA, MANDANDO AL FRONTE 30MILA SOLDATI A SOSTEGNO DELL’ARMATA ROSSA… LUKASHENKO TEME UNA RIVOLTA POPOLARE IN CASO DI CHIAMATA ALLE ARMI, MA SA BENE CHE LA SUA SOPRAVVIVENZA DIPENDE ANCORA DA MOSCA
«Noi, io e Putin, siamo i più cattivi, i personaggi più tossici di questo pianeta. Siamo coaggressori, abbiamo un solo diverbio: chi dei due è più cattivo?». Non si capisce se questa frase di Aleksandr Lukashenko sia ironica, o se sia stata uno strano scatto di sincerità, ma sicuramente non è piaciuta molto a Vladimir Putin.
In effetti, non è stata un’accoglienza particolarmente calorosa, considerato che per la prima volta in tre anni il presidente russo si è scomodato per venire a Minsk, invece di convocare Lukashenko al Cremlino o a Sochi. Ma non è un caso se il dittatore belarusso ripete spesso in pubblico di essere «l’unico alleato della Russia»: per quanto sia il leader traballante di un Paese povero e isolato, Putin ha un bisogno disperato di lui, tale da sopportare le disquisizioni di Lukashenko su chi è il più cattivo dei due: «Vladimir Vladimirovic dice che sono io, ma comincio a pensare che sia lui», ha commentato con una risatina.
Lukashenko e Putin sono una strana coppia di dittatori che si odiano, ma che sono costretti a navigare insieme in un naufragio. Ufficialmente a Minsk non si è parlato di guerra, ma l’intenso scambio di visite dei ministri della Difesa nelle settimane precedenti lascia al comando di Kyiv pochi dubbi: Putin è volato in Belarus per convincere Lukashenko a entrare in guerra.
Il comandante delle truppe ucraine Valeriy Zaluzhny è convinto che il Cremlino vuole lanciare un nuovo attacco contro Kyiv, che partirebbe dal territorio belarusso, come era successo già nel febbraio scorso. Ma stavolta i russi vorrebbero che Lukashenko non si limitasse a concedere il proprio territorio, mandando a fianco dei soldati russi anche i suoi, almeno 30 mila militari che dovrebbero non solo colmare le lacune nei ranghi dell’esercito di Putin, ma anche vincolare definitivamente il leader belarusso a Putin nella «coppia più tossica del pianeta».
Una richiesta che Lukashenko però respinge da febbraio scorso, e che secondo il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba è stata respinta anche stavolta: «Il solito balletto tra Lukashenko e Putin», ha commentato il vertice a Minsk. Anche l’Institute for the Study of War sostiene che il presidente russo sia stato respinto con perdite: Lukashenko si sarebbe rifiutato di concedergli il suo esercito per una nuova offensiva su Kyiv.
Per un motivo molto banale: una chiamata alle armi rischia di provocare una nuova rivolta popolare, che rischierebbe di essere fatale per un dittatore già in bilico dopo la rivoluzione in piazza dell’estate del 2020. Allora, si salvò grazie ai soldi e al sostegno della Russia, che però oggi non avrebbe la forza per invadere un altro Paese.
Motivo per il quale il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale Usa John Kirby sostiene che l’America «non hanno prove di un diretto coinvolgimento» delle truppe belarusse sul terreno. Questo però non significa che non possa accadere in futuro: la dipendenza del regime di Lukashenko dal Cremlino è totale, e ha appena ottenuto da Putin forniture di gas a prezzi di favore.
La Belarus è comunque diventata di fatto un’enorme base militare russa: i neomobilitati si stanno addestrando nei suoi poligoni, i bombardieri decollano per i loro raid contro l’Ucraina dalle sue basi, e secondo l’Isw l’esercito di Lukashenko non ha più nemmeno il controllo su una serie di strutture strategiche. I suoi militari però non combattono a fianco dei russi, e senza di loro i piani di una nuova offensiva da Nord verso Kyiv, o a Ovest per spezzare le linee di approvvigionamento in direzione di Leopoli, appaiono fragili.
Resta da vedere quanto durerà ancora la mirabile capacità di sopravvivenza politica del dittatore belarusso. Putin l’ha sempre considerato un partner «tossico» e poco affidabile, ma non può eliminarlo: il rischio è di un collasso del regime, e di una Belarus che si ribella e fugge verso l’Europa seguendo le orme dell’Ucraina. Infatti, un’altra indiscrezione che circola a Mosca è quella che vorrebbe Putin ansioso di annettere la Belarus, concludendo infine quel processo di «unione» tra due Stati che Lukashenko promette di compiere ormai da più di vent’ anni
La speranza sarebbe quella di regalare ai russi una acquisizione territoriale al posto dell’Ucraina, di soddisfare gli appetiti imperiali a spese dei belarussi, distraendo l’opinione pubblica dalla sconfitta in guerra. Ma anche questo è un piano difficilmente realizzabile senza il consenso di Lukashenko, che non ha nessuna voglia di trasformarsi da presidente – per quanto non riconosciuto internazionalmente – in un governatore di una regione russa.
(da La Stampa)
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