Dicembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
I SINDACATI DELLA POLIZIA PENITENZIARIA ACCUSANO: “DENUNCIAMO DA TEMPO I PROBLEMI DEL CARCERE, IL GOVERNO INVECE PENSA SOLO AI TAGLI”
Sette detenuti sono evasi nel pomeriggio del giorno di Natale dal cortile passeggi dell’istituto penale per minorenni Cesare Beccaria di Milano. La notizia è stata diffusa da Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. “Avrebbero approfittato dei lavori in corso, che perdurano da svariato tempo – ha fatto sapere – per aprirsi un varco nella recinzione e poi scavalcare il muro di cinta. Immediate sono scattate le ricerche della polizia penitenziaria e delle altre forze dell’ordine”.
L’allarme per l’evasione di sette giovani detenuti è scattato poco prima delle 16.30 di oggi, anche se inizialmente sembrava si trattasse di una sola persona. I detenuti hanno tutti tra i 17 e i 18 anni, alcuni dei quali di nazionalità italiana. Sono state allertate tutte le forze dell’ordine per la ricerca dei detenuti.
“Un’evasione annunciata” per il Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria, mentre il vicepremier Mattaeo Salvini si è detto “sconcertato” per quanto avvenuto.
“Da qualche tempo – ha spiegato De Fazio – molte delle problematiche che investono le carceri si ritrovano anche negli istituti penali per minorenni. In particolare, sono in aumento i casi d’aggressione agli operatori, di sommosse e, come in questo caso, di evasione. Ciò è evidentemente imputabile a una serie di fattori che vanno dal sostanziale disinteresse della politica prevalente e dei governi alle vicende penitenziarie a scelte poco oculate, quale appunto l’innalzamento del limite d’età che consente la detenzione nelle strutture minorili, sulle quali per di più si abbatterà anche la scure della legge di bilancio in corso di approvazione con ulteriori tagli”.
“Da tempo – ha aggiunto – ripetiamo che il sistema d’esecuzione penale va ripensato e che vanno riorganizzati e potenziati il Dipartimento per la giustizia minorile e di Comunità e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la cui rispettiva autonomia non può essere messa in discussione, ma in una logica di programmazione e coordinamento. Auspichiamo di poterci presto confrontare con il ministro della Giustizia”.
“Ora è prioritario catturare gli evasi – ha affermato Donato Capece, segretario generale del Sappe – ma la grave vicenda porta alla luce le priorità della sicurezza, spesso trascurate, con cui quotidianamente hanno a che fare le donne e gli uomini della polizia penitenziaria del Beccaria”.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
IL TUTTO SENZA LASCIARE, POTENZIALMENTE, ALCUNA TRACCIA DIGITALE… COSA SI PUO’ FARE? MANIPOLARE UN VIDEO PER INCRIMINARE CITTADINI INNOCENTI, PER DIFENDERE QUALCUNO TRA GLI 007 DALLE ACCUSE O PER MOTIVI POLITICI
La start up israeliana «Toka» fornisce ai governi occidentali un software in grado di accedere a tutte le telecamere di sorveglianza, di alterarne la realtà ripresa in tempo reale e persino quella del «passato» pescando le immagini archiviate nella memoria digitale e modificandole come desiderato. Il tutto senza lasciare, potenzialmente, alcuna traccia digitale. È il quotidiano Haaretz a svelare in una lunga inchiesta come funziona questo software — che sarebbe il primo al mondo — creato dalla società fondata dall’ex premier israeliano Ehud Barak e l’ex capo della divisione cibernetica dell’esercito del Paese ebraico Yaron Rosen.
Le funzionalità
Secondo il giornale israeliano la tecnologia fornita da «Toka» consente ai clienti di penetrare il sistema di videosorveglianza — di un edificio governativo, di un hotel, di una casa — e anche le webcam semplicemente selezionando l’area geografica che interessa. Una volta dentro è possibile osservare in diretta cosa succede davanti a queste videocamere, ma anche intervenire per mostrare quello che si vuole a chi quegli obiettivi li usa ufficialmente. Non solo. Stando ai documenti consultati da Haaretz chi usa questo software può anche accedere all’archivio video, individuare alcuni specifici momenti e cambiarli — sia il video che l’audio — per «nascondere attività di intelligence» durante le «operazioni».
I clienti
Il programma della start up israeliana può anche tracciare in tempo reale gli spostamenti di una macchina senza che nessuno se ne accorga. Sul suo sito ufficiale «Toka» spiega che i servizi vengono offerti soltanto alle forze armate, alle organizzazioni per la sicurezza nazionale, all’intelligence e alle forze dell’ordine «degli Stati Uniti e dei suoi più stretti alleati». Per il giornale israeliano i clienti sono — o sono stati — Israele, Usa, Germania, Australia, Singapore. Ma sulla mappa fornita dal pagina web della start up compare anche l’Italia, senza però fornire dettagli ulteriori. Nell’elenco ci sono anche Spagna, Portogallo, Francia, Regno Unito, Grecia, Canada.
Le criticità
Qualche giurista interpellato da Haaretz lancia l’allarme sul rischio che un video venga manipolato per incriminare cittadini innocenti, per difendere qualcuno tra gli 007 dalle accuse o per motivi politici. Sempre sul suo sito «Toka» spiega che la start up «esamina regolarmente l’elenco selezionato di Paesi, utilizzando valutazioni esterne su una serie di questioni tra cui le libertà civili, lo stato di diritto e la corruzione». «Rispettiamo e siamo regolamentati dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e dall’Agenzia israeliana per il controllo delle esportazioni della difesa», prosegue la società.
Il caso «Pegasus»
Israele — in particolare l’area a nord di Tel Aviv centro di una start up valley della sicurezza — si sta rivelando sempre più il Paese che realizza la tecnologia più avanzata per gli 007 di tutto il mondo. I servizi segreti di diversi Stati cercano ancora di fermare l’impatto di «Pegasus», lo spyware che aggira le difese degli smartphone rubando foto, video, spostamenti, telefonate, password, registri di chiamata, post pubblicati sui social. Il programma può anche attivare telecamera e microfono dello smartphone. Ma allo stesso tempo si tenta di capire l’impatto di un altro software-spia, sempre «made in Israel» e chiamato «Predator».
(da Il Corriere della Sera)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
LO RIBADIAMO, UNA SOLA SOLUZIONE: NON METTERCI PIU’ PIEDE
L’emendamento della giunta comunale di Venezia ha fatto da apripista, nonostante le proteste delle compagnie aeree, degli operatori turistici lagunari e anche dei veneti.
Alla fine il consiglio comunale della città capoluogo ha approvato l’introduzione di una tassa aggiuntiva di 2,5 euro (anche se nella delibera si indica una forbice che va da 1a 3 euro) che verrà pagata dai viaggiatori in arrivo e partenza dall’aeroporto Marco Polo. Manca solo il voto finale al bilancio comunale.
L’incremento dell’addizionale di imbarco porterà a 9 euro la tassa pagata complessivamente allo scalo di Venezia.
Si tratta della “cifra più elevata in Italia, contro i 6,50 euro previsti di norma negli aeroporti italiani, i quali già sono un elemento di costo notevole che incide sulle tariffe ai consumatori oltre che sulla competitività del sistema aeroportuale italiano” ha scritto Matteo Castioni, il presidente di Aiscaf, l’associazione delle compagnie low fares operanti in Italia, in una lettera inviata al sindaco Luigi Brugnaro. In questo modo ha adombrato la minaccia di ridimensionare l’operatività dei vettori a basso costo, come EasyJet, Ryanair e Volotea, che risulterebbero penalizzati da un sovra costo da applicare ai passeggeri.
Michele Zuin, assessore veneziano al Bilancio, ha replicato: “La questione è già passata in Consiglio comunale quindi è stata istituita. Non si può tornare indietro, la decisione è stata presa per far fronte ai consumi energetici che stanno esplodendo. Le città d’arte, così come quelle ad alta attrazione di turismo e la bellezza che queste esprimono, hanno ingenti costi. Siamo stati costretti ad approfittare di questa opzione che deriva da una legge dello Stato”.
Approvata la tassa, il Comune dovrà trattare operativamente le modalità della riscossione con il gestore dell’aeroporto e le compagnie.
Sulla linea delle compagnie si è inserito anche Confturismo Veneto, con il presidente Marco Michielli, in rappresentanza di 17 operatori del settore: “Se fossimo a Firenze si potrebbe pensare all’esilarante scena del pedaggio nel film ‘Non ci resta che piangere’, ma qui di esilarante non c’è proprio nulla. Mentre sulla tassa d’ingresso per i pendolari che arrivano a Venezia non abbiamo posto obiezioni, questo ulteriore balzello andrebbe a colpire prima di tutto i veneti che l’aereo lo usano per lavoro senza neanche affacciarsi alla città storica. Inoltre, i turisti ‘paganti’, questi sì diretti a Venezia centro storico, si troverebbero a sostenere una tripla tassazione: imbarco, ingresso in città e tassa di soggiorno”.
Venezia unica in Italia? “Si troverebbe ad adottare l’iniziativa in piena solitudine, e non mi sembra una bella immagine”.
La questione è rimbalzata anche nella commissione regionale che si occupa di turismo.
La consigliera Elena Ostanel de “Il Veneto che Vogliamo” ha chiesto all’assessore leghista Federico Caner quale sia la posizione della giunta Zaia sul contributo di accesso alla città e sulla nuova tassa aeroportuale. Assieme ai colleghi Erika Baldin (Movimento 5 Stelle), Cristina Guarda (Europa Verde) e Arturo Lorenzoni (Misto) ha auspicato un ruolo di coordinamento dell’assessorato. Caner ha risposto di non avere competenza sulla materia.
“L’amministrazione regionale ha già dato i propri consigli agli amministratori veneziani. Il presidente Luca Zaia ha già espresso la propria contrarietà ai tornelli e invitato il comune di Venezia a distinguere tra contributo di accesso e accesso fisico alla città. Ha inoltre chiesto di esentare tutti i cittadini veneti dalla tassa, perché Venezia è capoluogo di regione. Ma allo stato attuale non sappiamo come sarà applicata”.
(da Il Fatto Quotidiano)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
“MA QUALE FESTA, NON ABBIAMO PIU’ NULLA. TRA UN ANNO SAREMO IN MEZZO A UNA STRADA”
Tre anni e mezzo di lotta in difesa del posto di lavoro per poi tornare al punto di partenza. La vertenza Whirlpool di Napoli si è ufficialmente conclusa lo scorso anno con la conferma della chiusura della fabbrica e le prime lettere di licenziamento.
Oggi fuori lo stabilimento di via Argine le insegne della multinazionale americana non ci sono più ma aggrappate ai cancelli restano le speranze dei 317 ex operai che adesso hanno un anno di tempo prima di perdere anche la fruizione della Naspi, l’indennità mensile di disoccupazione che ammonta a 800 euro e già dai prossimi mesi diminuirà gradualmente. Abbiamo incontrato i lavoratori dell’ex polo industriale partenopeo in occasione dell’assemblea indetta per spiegare i risultati dell’ultimo tavolo che si è tenuto a Roma lo scorso 14 dicembre con governo e sindacati.
Ci hanno raccontato come vivono questo periodo di festa tra le residue speranze e le mille incertezze sul futuro. “Fino a qualche anno fa il Natale era un periodo di festa – ci dice una ex lavoratrice – organizzavamo eventi natalizi aziendali, facevamo tanta solidarietà ma oggi non c’è più nulla”.
“A me a Natale mi piaceva portare i miei figli al centro commerciale per comprare anche solo dei vestiti – ci racconta un altro ex lavoratore – ma oggi con 800 euro al mese che piano piano saranno ancora meno non ce lo possiamo più permettere, noi siamo quel ceto medio che in questo Paese sta scomparendo”.
“Ci è stato detto che entro il 31 dicembre lo stabilimento sarà acquisito nella Zes (Zona economica speciale) – ci spiega Vincenzo Accurso, rsu Uilm – questo significa che la proprietà della fabbrica dalla Whirlpool passa alla Regione Campania, successivamente, a gennaio 2023, dovrebbe essere formalizzato l’avviso pubblico per la ricerca di potenziali investitori. Ad oggi – conclude Accurso – dopo tre governi, centinaia di incontri e mille promesse, l’unica certezza è che più di 300 famiglie, per lo più monoreddito, tra un anno si troveranno in mezzo a una strada”.
Il governo Meloni è il quarto esecutivo con cui gli ex operai Whirlpool di Napoli dovranno interloquire per tornare a lavoro. A produrre cosa e per conto di chi non si sa, perché mentre è cambiato il governo, il ministro e pure il nome del ministero di riferimento (oggi il Mise si chiama Mimit), l’unica cosa immutata è l’assenza di una cordata di imprenditori pronti a rilanciare l’area industriale di Napoli facendosi carico di queste 317 persone.
“Se ci fossero state leggi e interventi seri a tutela del lavoro, Whirlpool non sarebbe andata via dall’Italia – ci dice Francesco Petricciuolo, ex responsabile produzione Whirlpool Napoli – quindi il lavoro io l’ho perso perché chi doveva fare politica non l’ha fatto correttamente, quello che io rivendico non è un sussidio ma la possibilità di tornare a lavorare a 54 anni, ma è un’età in cui sei troppo vecchio per lavorare e troppo giovane per smettere”.
La pensione è un miraggio per quasi tutti gli ex lavoratori partenopei. “Qui siamo stati assunti che eravamo ventenni o trentenni – ci dice un operaio – quasi nessuno di noi è prossimo alla pensione, ci mancano dai 15 ai 20 anni di contributi, ma come facciamo?”.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
POCHI FESTEGGIAMENTI E MASSIMA ATTENZIONE PER EMERGENZE IN MARE: “PER NOI E’ UN GIORNO COME UN ALTRO”
C’è un piccolo albero di Natale su Ocean Viking. Sulla cima c’è una lucina che brilla a intermittenza. Arriva da una “banana”, uno dei gonfiabili usati nelle operazioni di salvataggio più complicate, quando c’è tanta gente già in acqua, o la carretta su cui viaggiano è tanto malmessa da rischiare di andare a faccia in giù in un attimo e allora tocca stabilizzarla.
Le feste arrivano mentre la nave di soccorso di Sos Mediterranee fa rotta verso il Mediterraneo, con la Sardegna ormai alle spalle e la zona Sar che si avvicina. Non è cosa che si riesca a dimenticare o mettere da parte. E non soltanto perché l’ultimo training riguarda le violenze sessuali che subisce chi attraversa il mare e quello ancora prima, le procedure da adottare in caso di naufragi con grande numero di vittime.
Il pensiero che anche a Natale tra le onde ci potrebbe essere qualcuno
Si muore nel Mediterraneo, spesso, troppo spesso. Le cifre ufficiali parlano di più di 1.300 persone mangiate dal mare, ma sono numeri approssimativi. Di molte partenze non c’è traccia.
Chi oggi è a bordo della Ocean Viking lo sa, così come sa che nel giro di ventiquattro ore o poco più potrebbe avere la possibilità di evitare almeno qualcuno di quei lutti. Quindi anche se per qualche ora si stacca, c’è una cena speciale, si brinda con una bibita – niente alcol sulle navi, tocca stare in allerta – e al mattino un regalino aspetta ciascuno dei membri dell’equipaggio, il pensiero che lì fra le onde ci potrebbe essere qualcuno che chiede aiuto non sparisce mai.
“È servito e serve un momento così – spiega Hector, uno dei driver con anni di esperienza alle spalle anche su altre navi di soccorso – ma sei troppo concentrato su quello che sai che ti aspetta per apprezzarlo fino in fondo. Sai che nel giro di ventiquattro ore potrai trovarti davanti situazioni terribili, in cui da ogni tua decisione, da ogni tua azione, potrebbe dipendere la vita di un altro essere umano”.
È sensazione comune a tutti i membri dell’equipaggio. “Quando sei qui – aggiunge – sai che ti troverai in prima linea, in uno scenario che è quasi di guerra. La gente a terra non lo sa, o forse non vuole sapere che qui spesso ci ritroviamo a raccogliere cadaveri”.
Anche oggi a bordo c’è grande concentrazione
La tensione, o meglio la concentrazione, è palpabile. Il Natale sembra quasi far irruzione in uno spazio in cui non è previsto. L’arrivo a bordo dei ritmi che dettano legge a terra è quasi anomalo perché anche il tempo sulla nave scorre con ritmi diversi. Sparisce il senso dei giorni della settimana, che sia mercoledì o domenica poco importa. La settimana, senza i turni di lavoro a scandirla, diventa convenzione. Lo stesso le feste.
Pesa il rapporto fra luce e buio perché la notte nasconde fra le onde le minuscole imbarcazioni usate per le traversate, le ore valgono solo in rapporto alle miglia che hai da percorrere o il cambio che devi dare secondo i turni prestabiliti. I minuti sono quelli funzionali a mettere su le tute necessarie per salire sui gommoni o preparare il ponte o la clinica mobile per l’accoglienza successiva al salvataggio. La vita a terra e i suoi rituali rimangono lontani.
“Mi pesa non vedere mio fratello in queste feste”
Risalgono di tanto in tanto come risacca, insieme ai messaggi che arrivano con il fuso orario dettato dal wifi di bordo che boccheggia, o alle foto mandate da case lontane, sia fisicamente sia mentalmente. “L’unica cosa che mi pesa – dice Sara, a bordo per la Croce Rossa – è sapere che quest’anno non rivedrò mio fratello. Vive in Libano, torna solo per le feste e quest’anno non ci incroceremo. Ma è giusto stare qui”. Lucia, alla sua prima missione, è anche al suo primo Natale lontana da casa dopo anni. “Ma non mi importa – dice – non ho mai dato tanto peso alle feste. In questo momento, non vorrei stare in un posto diverso da questo”
Per Luisa, la Sar Coordinator, e altri della crew è invece l’ennesimo Natale a bordo. L’anno scorso il 25 dicembre erano in Sicilia, dove la Ocean Viking aveva attraccato ventiquattro ore prima per far sbarcare chi stato salvato dalle onde. Quel giorno l’equipaggio finalmente respirava dopo giorni e giorni di missione, allungata da uno stand-off – l’inutile attesa necessaria prima di ricevere indicazione di porto sicuro – arrivato dopo giorni finiti a sfilacciarsi uno dopo l’altro prima dell’approdo. Il tempo sembrava non passare mai. Oggi ha solo il sapore di un’incognita. “Quando arriverà la prima richiesta di soccorso?”.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
CONFERMATO CHE IL RAZZISMO E’ IL MOVENTE DEI TRE OMICIDI
“Voleva uccidere degli stranieri”. Il procuratore di Parigi, Laure BeccuauIl, ha precisato che il francese William Mallet, un macchinista di 69 anni nato a Montreuil, fermato con l’accusa di aver aperto il fuoco il 23 dicembre scorso contro il centro culturale curdo Ahmet Kaya Center e ucciso tre persone, ha confessato un odio “patologico” per gli stranieri dopo aver subito una rapina in casa nel 2016.
Il 69enne, ha aggiunto il procuratore, ha anche espresso sentimenti di “depressione” e “suicidi”. Confermato dunque che il movente della strage sarebbe il razzismo.
Il 69enne era giò noto alle forze dell’ordine per due tentati omicidi, uno dei quali sempre contro migranti. A dicembre aveva squarciato infatti con una sciabola le tende di un gruppo di sudanesi a Parigi, ferendone due, ed era tornato in libertà soltanto 11 giorni prima l’attentato ai danni della comunità curda.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
L’ACCORDO EMARGINA IL RAMO UCRAINO DEGLI ORTODOSSI RUSSI CHE POTREBBERO ESSERE PROIBITI PER LEGGE
Con un accordo firmato nel pomeriggio del 24 dicembre, il metropolita Epifanio capo della Chiesa ortodossa ucraina, e il metropolita Svyatoslav, capo della chiesa cattolica greca dell’Ucraina, hanno sigillato l’intenzione di modificare ed armonizzare definitivamente i propri calendari.
Si tratta di una formalizzazione definitiva e necessaria che apre il processo per spostare il Natale al 25 dicembre, distanziandosi da Mosca ed allineandosi con il mondo occidentale.
Il complesso mosaico del Natale in Ucraina in tempi di guerra con la Russia si poteva osservare questa mattina nel Monastero di San Michele e nella chiesa ortodossa adiacente. In via eccezionale nel cortile era allestito un mercato con prodotti artigianali e dolci natalizi. I fedeli accendevano le candele all’interno del monastero e si fermavano a pregare. Un coro di boyscout intonava canti natalizi. Ma lo stesso prete a guardia del monastero non sapeva dire se si trattasse di una partecipazione eccezionale, “in fin dei conti è domenica”. Certamente straordinaria è stata la celebrazione delle due messe di “Natale” nella chiesa, la sera del 24 e la mattina di oggi, con un’affluenza “sicuramente maggiore di un normale finesettimana”
Fino a tempi recenti, infatti, tanto la chiesa ortodossa ucraina come quella greca cattolica ucraina seguivano il calendario giuliano e festeggiavano il Natale il 7 gennaio insieme alla Chiesa ortodossa russa. Mentre la Chiesa cattolica romana segue il calendario gregoriano.
Con un provvedimento emanato lo scorso mese di ottobre, la chiesa ortodossa di Kiev ha consentito le celebrazioni natalizie il 25 dicembre, pur mantenendo anche quelle del 7 gennaio, nell’ambito di un’operazione più ampia per distanziarsi dalla Chiesa di Mosca in tempi di guerra.
Lo scorso 2 di dicembre, infine, il presidente ucraino Volodymir Zelensky ha firmato un decreto molto controverso che proibisce la Chiesa di Mosca. La legge deve ancora superare l’approvazione della Verkhovna Rada (il parlamento di Kiev). Nella stessa occasione, ha annunciato che il paese avrebbe festeggiato il Natale in due date: il 25 dicembre e il 7 gennaio. E questa è la situazione di fatto. Anche se i sondaggi indicano che sono solo l’11% degli ortodossi di Ucraina che quest’anno hanno modificato le loro abitudini (secondo dati dell’istituto Rating)
E’ chiaro che il doppio Natale non può essere la soluzione definitiva. E il patto firmato ieri tra le due Chiese ucraine è importante in questo senso. “I vertici delle Chiese hanno prestato particolare attenzione al coordinamento delle posizioni in merito alla riforma del calendario ecclesiale”, si legge nel comunicato congiunto emanato ieri sera, “ciò diventa sempre più urgente prima delle festività natalizie e pasquali. Dopo la discussione, è stato proposto di creare un gruppo di lavoro congiunto, che dovrebbe studiare a fondo questo problema”. Si va dunque verso un cambiamento definitivo, che non riguarda solo il 25 dicembre ma anche le altre festività
Da questo mosaico rimane però fuori il ramo ucraino della Chiesa ortodossa di Mosca, che rappresenta ancora decine di migliaia di fedeli e che però rischia di essere proibito per legge dal Parlamento di Kiev.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
LAVORANO TUTTO IL GIORNO, RICEVONO UN’INTEGRAZIONE AL SALARIO PERCHE’ GUADAGNANO TROPPO POCO, ORA IL GOVERNO SOVRANISTA LI HA ESCLUSI DAL SUSSIDIO
«Potevo restare con mio marito e non avere problemi, però volevo la mia libertà. Mi sono separata, ho trovato lavoro in un’azienda farmaceutica, ma guadagno 400 euro al mese. Ho deciso di fare domanda per il reddito di cittadinanza. Il fatto che vogliano toglierlo è un peccato per me e per le tante persone che stanno respirando con questo sostegno».
Simona ha 52 anni e vive da sola con due figlie 20enni. Sei anni fa ha deciso di lasciare il marito, «un vero salto nel vuoto», perché non aveva abbastanza strumenti per essere autonoma senza l’aiuto del coniuge, che per tutta la vita aveva provveduto alle esigenze economiche della famiglia.
Tornata single, con un diploma di scuola superiore e quasi nessuna esperienza lavorativa, non ha trovato un lavoro che le permettesse di mantenere gli standard della vita precedente. Così ha fatto domanda per il reddito di cittadinanza. «A spingermi è stata la fame», racconta a TPI. Dai 400 euro che percepisce per il lavoro di informatrice scientifica all’interno della sua azienda, deve infatti sottrarre ogni mese almeno 150 di spese per le trasferte, per le quali non è previsto rimborso. Poi ci sono i bolli auto, le bollette, la spesa. «Ora con il reddito sto pagando i debiti che avevo accumulato e il condominio con cui avevo un anno di arretrati. E alle mie figlie dovrò pur comprare qualcosa», continua.
Ma questo sollievo tra sette mesi cesserà. Simona è uno dei circa 800mila percettori di reddito di cittadinanza che, a partire da luglio prossimo, potrebbe dire addio alla tessera gialla con cui almeno 2 milioni di persone sono riuscite ad arrivare alla fine del mese in Italia negli ultimi tre anni. Non ha figli minori o disabili a carico, ha meno di 59 anni ed ha sottoscritto il cosiddetto “patto per il lavoro” che obbliga i beneficiari a intraprendere un percorso di inserimento lavorativo.
È considerata cioè “occupabile” secondo i criteri stabiliti dall’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, che all’interno della legge di Bilancio ha previsto un graduale restringimento della platea di beneficiari della misura bandiera del M5S, fino alla definitiva abolizione del sussidio nel 2024.
Gli ultimi emendamenti alla manovra prevedono anche che ai beneficiari non spetti più il sussidio qualora rifiutino la prima offerta di lavoro, a prescindere dalla congruità di essa o dalla vicinanza dal luogo di residenza, e che il contributo decada per gli under 30 che non hanno completato la scuola dell’obbligo.
In questi mesi, anche se ritenuta “abile al lavoro”, Simona non ha ricevuto chiamate per svolgere colloqui o iniziare corsi di formazione dal centro per l’impiego con cui ha sottoscritto il patto.
Ha provveduto da sola a sbarcare il lunario con la sua partita Iva e un lavoro che però, a conti fatti, svolge quasi gratis. «Provate voi a vivere con 800 euro al mese e due figlie grandi con le loro esigenze, mettetevi le scarpe di chi cammina dalla mattina alla sera per portarsi a casa 400 euro e vediamo un po’», vorrebbe dire al governo.
Un aiuto per i giovani
Anche Giacomo, 30 anni e una laurea in geografia, rientra nei criteri di “occupabilità” definiti dall’esecutivo. Ha fatto domanda per il reddito di cittadinanza due anni fa, quando ha superato il concorso ordinario per la scuola pubblica, in attesa di diventare docente. Ora rischia di perderlo. «Prevedevo che il periodo di entrata a scuola fosse più breve, ma in realtà la tempistica per problemi burocratici è stata lunga, molti di noi non sono riusciti ad accedere all’anno di prova in cattedra, probabilmente da settembre avranno accesso, ma non è detto», spiega a TPI.
Ricevere un reddito di cittadinanza di 750 euro al mese gli ha permesso di pagare una stanza da 350 a Roma e di non sentirsi obbligato ad accettare lavoretti in nero, come gli era successo prima che la sua domanda fosse accolta.
Una situazione che si riproporrà se nei prossimi sette mesi non troverà un impiego dignitoso. «Si ritornerà come prima a mettersi nel mercato del lavoro tramite soluzioni di mera sopravvivenza più che di pianificazione della carriera, molto legate al contesto universitario in cui uno ha studiato. Qualora tardasse la questione insegnamento si prospetta uno scenario di quel tipo, che prima del reddito era ancora più diffuso di oggi».
Si tratta di piccoli impieghi estivi nel settore del turismo o collaborazioni editoriali non riconosciute o pagate poco. Compromessi che nell’ultimo anno e mezzo si è concesso il lusso di rifiutare. Oggi ritiene che la manovra decisa dall’esecutivo di centrodestra per fare cassa (un risparmio di circa 800 milioni di euro per lo Stato), sottraendo il reddito di cittadinanza agli individui ritenuti “occupabili”, sia una «misura brutale», messa in campo senza pianificare soluzioni alternative in grado di preservare l’equilibrio che lo strumento di contrasto alla povertà introdotto nel 2019, pur con tanti limiti, ha garantito.
Secondo i dati Istat le misure di sostegno economico erogate nel 2020 hanno evitato a un milione di persone, circa 500mila famiglie, di trovarsi in condizione di povertà assoluta.
Non solo: il reddito di cittadinanza ha permesso a migliaia di giovani istruiti ma disoccupati di guardarsi intorno senza affanno e di non trovarsi costretti a entrare in una spirale di precarietà da cui è difficile uscire quando non si hanno risparmi o il sostegno della famiglia per pagare l’affitto e vivere una vita dignitosa.
In difesa del reddito
Ma Giacomo non si perde d’animo. Insieme ad altri percettori ha deciso di aderire alla costruzione dei “Comitati in difesa del Reddito”, avviati a metà novembre dalle Camere del Lavoro Autonomo e Precario (CLAP), un sindacato che dal 2014 si occupa di lavoro precario attraverso sportelli di assistenza legale e sindacale e l’organizzazione di vertenze e scioperi, e che già prima dell’approvazione della legge da parte del governo giallo-verde è stato attivo nella promozione del reddito di base, guardando alle esperienze portate avanti nel resto d’Europa.
Oggi le Clap – insieme ad altre associazioni vicine ai bisogni dei percettori di reddito sul territorio – non solo si battono per difendere la misura, ma hanno in mente di proporre soluzioni per migliorarla, anche sulla base delle osservazioni del Comitato Scientifico sulla valutazione del Reddito di Cittadinanza presieduto dalla professoressa Chiara Saraceno: rendere i requisiti di ingresso meno rigidi, estendere il limite di 10 anni di residenza in Italia per gli stranieri, non legare il beneficio all’accettazione obbligatoria della prima offerta di lavoro e all’Isee del nucleo familiare, guardare al contesto e alla situazione del singolo richiedente per favorire la sua autonomia.
«Se non si riflette sul fatto che gli occupabili già lavorano e che se integrano il salario con il reddito vuol dire che guadagnano troppo poco, così poco da avere i requisiti per accedere a quella misura, si fa un danno enorme. Per questo leghiamo la nostra battaglia a quella del salario minimo legale», spiega a TPI Tiziano Trobia, coordinatore della Clap. Nell’attività all’interno degli sportelli sindacali, racconta, entra in contatto ogni settimana con persone che non rientrano nella narrazione classica che distingue “persone fragili che non possono lavorare” da “fannulloni che preferiscono stare sul divano”, su cui il governo ha insistito separando chi è occupabile e di conseguenza considerato senza diritto di ricevere un sostegno economico da chi invece può continuare a essere aiutato dallo Stato.
«Il reddito di cittadinanza non è arrivato solo ai poveri, ma anche a diverse studentesse o studenti che hanno avuto la possibilità di concentrarsi sul percorso anche svolgendo un lavoretto, ma continuando a campare e studiare. È arrivato a tantissime persone che fanno part time involontari, che hanno contratti di 5 ore e ne lavorano quaranta», continua.
Le liste di percettori
Persone che fanno parte di un mercato del lavoro distante dalle maglie tradizionali della rappresentanza, che non rientrano nei contratti collettivi nazionali, che lavorano in grigio o in nero e compongono un sottobosco di invisibili, che hanno difficoltà a riconoscersi ed emergere proprio per lo stigma che pende sui percettori di reddito di cittadinanza, interiorizzato negli anni di propaganda contro la misura.
Precari che non sono riusciti a indirizzare il malcontento verso i vertici politici perché non hanno una voce comune, dopo anni in cui si è cercato il responsabile della propria condizione nel simile che sottrae risorse e possibilità piuttosto che negli organismi che prendono decisioni dall’alto. «Sono persone che già lavorano e prendono il reddito, e a loro non si può dire “andate a lavorare”», continua Tiziano. Tutte loro dovrebbero rientrare nelle liste di percettori che le Clap pianificano di compilare nei prossimi mesi proprio con l’intento di mettere insieme beneficiari, richiedenti o persone che contavano sul reddito di cittadinanza per sopravvivere in futuro.
«Quella degli occupabili è una platea dove le problematiche spesso sono un po’ più complicate del solo lavoro. Prima di accedere ai corsi di formazione sono necessari altri passaggi, di un sostegno che riguarda la casa o difficoltà sociali di altro tipo. C’è una tensione generata da altri problemi», spiega a TPI Marco Filippetti, sindacalista di Clap che lavora per un’agenzia tecnica del ministero del Lavoro all’interno dei centri per l’impiego. Da quando il reddito di cittadinanza è stato varato nel 2019, osserva, c’è stato un investimento per rafforzare il sistema pubblico dei servizi.
«Come operatori abbiamo visto che, anche se la misura non ha funzionato in termini di incontro tra domanda e offerta, ha garantito a molte persone che non avevano mai avuto contatto con una struttura pubblica di avvicinarsi ai servizi. Gli ultimi assunti nella Regione Lazio sono professionisti che hanno reso i centri per l’impiego un punto di accesso al servizio pubblico».
Il rischio è che con lo smantellamento dell’impianto che la legge varata dal primo governo Conte ha cercato di mettere in piedi molti beneficiari tornino a essere esclusi dall’accesso ai servizi. «Una parte di platea sarà allontanata, isolata e senza un punto di riferimento. Migliaia di persone che in questi anni hanno visto come si cerca un corso di formazione o ci si prepara a un colloquio torneranno a isolarsi», osserva
L’appello ai politici
Fa parte delle associazioni che hanno aderito ai comitati di difesa del reddito di cittadinanza anche Nonna Roma, il banco di mutuo soccorso che dal 2017 organizza distribuzioni di pacchi alimentari gratuiti in diverse zone di Roma e che sopperisce ai bisogni alimentari di 2.500 famiglie in tutta la capitale: si tratta di circa 9mila persone che ricevono un pacco alimentare ogni settimana, e che spesso usufruiscono della rete di mutualismo solidale anche per accedere ad altri servizi di base, dallo sportello legale all’assistenza per l’inclusione lavorativa. Una rete che allargherà le sue maglie in vista del 2024, quando il reddito di cittadinanza dovrebbe essere definitivamente sostituito da un sistema alternativo di sostegno ai fragili “inoccupabili”, di cui però il governo non ha ancora annunciato i dettagli.
«Continueremo a rafforzare il nostro sostegno alle famiglie nel momento in cui il reddito di cittadinanza sarà solo un ricordo», dichiara a TPI il presidente dell’associazione Alberto Campailla, che ha organizzato – nella settimana in cui l’esecutivo ha disegnato la manovra di bilancio – tre giorni di riflessione insieme ad Arci e alle altre realtà che si preparano a dare battaglia, invitando anche le forze politiche del campo progressista. «In questa mobilitazione in difesa del reddito chiediamo che i partiti di opposizione che dicono di essere contrari alla cancellazione della misura siano con noi a sostenere i milioni di percettori che rischiano di tornare a vivere sotto la soglia di povertà. La nostra azione, essenziale per molte famiglie, non può essere risolutiva. Se pensassimo di sostituire lo Stato non ci appelleremmo alla politica», conclude.
Tra i beneficiari di Nonna Roma che percepiscono il reddito di cittadinanza c’è anche Sia, 27 anni, di origini magrebine e con la cittadinanza italiana. Grazie ai 600 euro che riceve ogni mese riesce ad acquistare i medicinali per il padre, che soffre del morbo Parkinson, a badare alla madre e a provvedere alla manutenzione dell’alloggio popolare in cui ha iniziato ad abitare dopo essere stata sgomberata da un palazzo occupato. Per assistere la famiglia ha rinunciato ai suoi sogni: finire l’università, partire per Londra. Da quando ha sottoscritto il “patto per il lavoro”, pur essendosi presentata a ogni appuntamento nel centro per l’impiego, non ha ricevuto proposte di colloqui o formazione. Intanto continua a recarsi all’emporio di Nonna Roma, a cui si affida da sempre per avere assistenza e soccorso. «Se toglieranno il reddito di cittadinanza con cui in questi mesi ho potuto fare la spesa anche con i prezzi così alti, so che continueranno ad aiutarmi. Per qualsiasi cosa mi rivolgo a loro», confida a TPI. Ma sarà solo un quietivo.
(da TPI)
argomento: Politica | Commenta »
Dicembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
“HO TROVATO LA GENTE UMANA, E’ STATO BELLO”
68 anni, capelli grigi e barba lunga. Quando indossa il vestito rosso, Silvano Borca è un vero Babbo Natale. Tutti i giorni si siede su una panchina di piazza Castello, a Torino, e lì aspetta grandi e piccoli che vogliono farsi fotografare con lui e lasciargli un’offerta.
Ha iniziato a travestirsi da Santa Claus quasi per caso, circa vent’anni fa.
“Ho iniziato per ridere, per scherzo, facendo il Babbo Natale per gli amici”, spiega. Poi la barba è cresciuta e i bambini hanno iniziato a fermarlo per strada e a scambiarlo per Babbo Natale, anche fuori dalle festività. Da allora ne ha fatto un lavoro, che l’ha sostenuto anche nei momenti di difficoltà. Infatti dietro ai suoi sorrisi e alle battute con i passanti c’è un passato difficile come senza fissa dimora: “Ho dormito in stazione, ho dormito in garage e ora faccio questo per arrotondare i soldi della pensione”, racconta.
Dopo aver vissuto in un garage senza acqua e corrente, oggi abita in una casa a Chivasso, in provincia di Torino e vive con una pensione minima di 500 euro, integrata con 266 euro del reddito di cittadinanza.
Quando non si traveste da Babbo Natale, veste i panni del brigante in un gruppo storico svizzero, con cui gira tutto il nord Italia. “Il lato umano di questo lavoro è molto bello”, dice Borca. Nel momento in cui mi sono trovato in difficoltà in quel garage, oppure su quella panchina in stazione, triste e al freddo, mi è arrivata una letterina, che ho tenuto, perché le letterine che ricevo come Babbo Natale, anche degli anni precedenti, le tengo tutte. Quando ne leggi una, ti porta un sorriso”.
Quando non era una lettera, a dargli conforto era l’altruismo di qualche passante: “Ho trovato, a parte questo vestito da Babbo Natale, la gente umana. Era un sabato sera, a febbraio dell’anno scorso. Ero in stazione e faceva veramente freddo. Erano le dieci, dieci e mezza di sera ed ero seduto su questa panchina, semi addormentato. Sono arrivati dei ragazzi che andavano a fare il loro sabato sera. Si è avvicinata una ragazza e altri due o tre, che mi hanno preso una cioccolata calda e mi hanno detto: “Non possiamo fare di più. Questo è per te”. È stato bello”.
(da Fanpage)
argomento: Politica | Commenta »