Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
DOPO I CONGRESSI PROVINCIALI, IN CUI I CANDIDATI SALVINIANI SONO USCITI AMMACCATI, IL PRESIDENTE DEL FRIULI-VENEZIA GIULIA NON NASCONDE PIU’ LE CREPE NEL CARROCCIO
Siamo di fronte a una Lega divisa? «Quando ci sono i processi democratici è ovvio che ci sia un confronto, è il bello della democrazia». Il governatore del Friuli Venezia Giulia e presidente delle regioni e delle province autonome, Massimiliano Fedriga, a domanda diretta rispedisce al mittente le insinuazioni su un partito ormai a pezzi.
Lo fa dopo il weekend in cui si è svolta la terza tranche di congressi provinciali lombardi del partito ma soprattutto dopo il primo evento pubblico del “Comitato Nord”, la corrente della Lega fondata da Umberto Bossi dopo i risultati elettorali del 25 settembre, dove il senatur ha detto «È ora di rialzarsi in piedi, negli ultimi anni è stata cancellata l’identità della Lega. E se cancelli l’identità della Lega muori».
Parole commentate questa mattina da Fedriga al primo Festival delle Regioni e delle Province autonome in corso a Milano: «Io vedo positivamente questa dialettica perché rafforza la Lega e i processi democratici interni». E in merito all’esito dei congressi provinciali del partito, Fedriga li giudica positivamente indipendentemente dall’esito: «La decisione presa di andare verso la stagione congressuale credo sia una boccata di salute non soltanto per la Lega ma per tutte le forze politiche».
Secondo il governatore del Friuli Venezia Giulia quella di oggi non è una Lega che ha abbandonato il Nord ma che ha di fronte «un’offerta politica nazionale che deve basarsi, e questo lo rivendico anch’io, su quello che ha sempre offerto come politica, ovvero la valorizzazione dei territori. In questo caso anche i territori del Sud. E sono contento che anche i territori del Sud possano andare verso un percorso autonomista».
Proprio sull’autonomia differenziata, uno dei temi di bandiera del Carroccio, Fedriga precisa che la Lega non l’ha accantonata: “anzi, noi vogliamo valorizzarla, è nel Dna della Lega”, aggiungendo poi che “il Mezzogiorno ha tutte le capacità per riuscire a dare delle risposte importanti al proprio territorio. Personalmente mi sono stufato del fatto che ci sia la tesi che le Regioni del Sud non sarebbero all’altezza dell’autonomia”.
Sul Pnrr Fedriga chiede con forza il coinvolgimento delle Regioni altrimenti sarà un problema per il Paese se le opere non si realizzano: “Il Pnrr è un’opportunità straordinaria per i territori, ma stiamo riscontrando nell’attuazione rilevanti criticità. Riteniamo che l’attuale impostazione manchi del necessario coordinamento istituzionale e che le Regioni abbiano un ruolo marginale, non riuscendo garantire il collegamento e supporto degli enti locali”.
(da agenzie)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
L’HANNO MOLLATO GIUSEPPE VIRGONE, AMMINISTRATORE UNICO DI PAGOPA, IL DIRIGENTE PAOLO DE ROSA, IL DIRETTORE GENERALE DELL’AGENZIA PER L’ITALIA DIGITALE, FRANCESCO PAORICI E ADDIRITTURA LA RESPONSABILE DELL’ATTUAZIONE DEL RECOVERY, DANIELA MAURI
Il primo ad annunciare l’addio è stato Giuseppe Virgone, amministratore unico di PagoPa. E Alessio Butti, sottosegretario meloniano all’Innovazione tecnologica ha spiegato che “aveva già deciso di andarsene, perché nel privato pagano meglio”.
Poi, però, anche Paolo De Rosa, valente dirigente del dipartimento per la Transizione digitale ha lasciato intendere che per lui basta così.
Il mandato di Francesco Paorici, direttore generale dell’Agenzia per l’Italia digitale, scade a marzo: e, ammesso che gli eventi non precipitino anzitempo, Butti ha fatto sapere che “al suo posto arriverà un avvocato”.
Prima di allora, comunque, di certo lasceranno Daniela Mauri, responsabile dell’attuazione del Recovery, e con lei, pare, anche Camilla Sebatiani, il capo della segreteria tecnica che guidava il team Tlc.
Il team Tech, invece, coordinato da Luca De Angelis, verrà verosimilmente smantellato per essere trasferito nell’organigramma del ministero dell’Industria. E insomma Butti, prima ancora d’iniziare davvero a operare, si ritrova con una truppa sbrindellata, segnata da ammutinamenti e dimissioni in blocco.
Una mezza esautorazione che il sottosegretario ha subito non senza delusione, al punto che ha subito preteso dai suoi uffici un aggiornamento del sito governativo a lui dedicato, con un aggiornamento del suo curriculum e un’indicazione dettagliata delle deleghe che gli competono. Tra le quali, peraltro, restano quelle sul Pnrr. Di obiettivi da raggiungere entro dicembre, nel complesso, Butti ne ha 11.
La gran parte risultavano già conseguiti quando Vittorio Colao gli ha consegnato il dossier per il passaggio di consegne che poi Butti ha scientificamente ignorato. Ma sul cloud per il Polo strategico nazionale della Pa, resta ancora da fare. E poi ci saranno le scadenze del 2023. Con una squadra dimezzata, non sarà facile
(da la Stampa)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
LE BOCCIATURE DI BANKITALIA, CNEL E CORTE DEI CONTI ALLA FINANZIARIA VERTONO SU QUATTRO PUNTI (POS E CONTANTE, FISCO, REDDITO DI CITTADINANZA E RIDUZIONE DEL DEBITO), TRE DEI QUALI HANNO LE IMPRONTE DIGITALI DI SALVINI (E GIORGIA NON SI SMARCA)
La finanziaria messa in campo dal governo Meloni ha preso schiaffi da tutti: Bankitalia, Cnel, Corte dei Conti. Un rilievo dopo l’altro per dire a brutto muso al centrodestra: Ci dispiace, così non va.
Ma cosa non è andato giù ai tanti critici della manovra? I punti controversi sono quattro: i pagamenti con il pos e il tetto al contante, le modifiche alla flat tax e le criticità sul fisco, il taglio al reddito di cittadinanza e la riduzione del rapporto debito-Pil (obiettivo che va centrato nel triennio).
Tre delle quattro “criticità” sono state partorite dalla testolina creativa di Matteo Salvini. Se questa è l’accoglienza delle istituzioni italiane (con cui Giorgia Meloni dimostra di non avere alcuna “consuetudine”, a differenza di Draghi) figuriamoci cosa puo’ accadere quando la manovra arriverà a Bruxelles. Al tiro di fionda visto in patria seguiranno colpi di cannone.
Il nervosismo a palazzo Chigi, non a caso, sta lievitando come l’impasto per la pizza. Persino il fido Fazzolari, considerato tra i più lucidi consiglieri di “Io sono Giorgia”, ha fatto una figura da cioccolataio portando un attacco scomposto a Bankitalia (“Le critiche? Non mi sorprendono, Bankitalia è partecipata da banche private”) per poi essere redarguito da una nota di palazzo Chigi, che ha corretto il pensiero audace del sottosegretario: “Fazzolari non ha mai messo in discussione l’autonomia di Bankitalia. Anzi, ribadisce il pieno apprezzamento per l’operato di via Nazionale”. Frittata fatta.
Lo scontro frontale con palazzo Koch che, secondo “Repubblica”, la Meloni avrebbe autorizzato sguinzagliando Fazzolari, in realtà è solo l’ennesimo intralcio che rende ancora più difficoltosa la trattativa che il governo sta conducendo con Bruxelles per non vedersi bocciare la manovra. La Ducetta sarebbe disposta ad abbassare da 60 a 30 il limite per pagare con il pos. Ma visto che in ballo ci sono i soldi del Pnrr sarebbe anche disposta a far saltare tutto e amen.
Come nota “Repubblica”: “Meloni non puo’ bruciare miliardi solo per difendere una misura bandiera”. Sembra essere tornati alla confusione pasticciona dei primi mesi da segretario del Pd di Enrico Letta. Sbarcato al Nazareno, coto-Letta pensò bene di fissare le priorità nazionali nel voto ai 16enni, nel ddl Zan, nella patrimoniale per dare la dote ai 18enni. Si è visto che fine ha fatto. Nello stesso furore identitario è cascata la Meloni.
Tetto al contante, pagamento con il pos, flat tax: sono queste le necessità di un paese alle prese con una crisi energetica e inflazionistica senza precedenti, con bollette alle stelle e supermercati costosi come una boutique di lusso? Ovviamente no. E’ piccolo cabotaggio politico, irrilevante rispetto ai nodi, enormi, che dovrebbe affrontare il governo. La guerra in Ucraina mette a repentaglio l’economia mondiale e gli approvvigionamenti e in Italia riusciamo a impantanarci su un tetto al contante da 5 mila euro. Che poi: chi ce l’ha ‘sti pacchi di soldi da portare a spasso? Follie.
Una necessità politica è la revisione del codice degli appalti, in chiave Pnrr. Draghi aveva chiesto al Consiglio di Stato, cioè a Franco Frattini, di immaginare una semplificazione dei testi di legge per agevolare la messa a terra delle opere previste dal Piano concordato con l’Europa. Al lavoro certosino dei giuristi di palazzo Spada quel buontempone di Salvini ha opposto il suo “metodo”: “Sto presidiando il terreno sia della manovra di Bilancio, perché ci sono parecchi quattrini alla voce infrastrutture, sia sul tema codice degli appalti. Entro dieci giorni dobbiamo arrivare in Consiglio dei ministri, e questi 230 articoli li voglio assolutamente tagliare con l’accetta affinché diventi un codice a favore delle imprese, non contro le imprese”. Come hanno reagito al Consiglio di Stato? Bene, fatevelo da soli
A palazzo Chigi il sottosegretario Mantovano e il segretario generale Deodato sono i vasi di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro: devono barcamenarsi, come equilibristi, per far dialogare poteri e istituzioni evitando rotture clamorose e strappi dolorosi.
Il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, ha l’ingrato compito di comunicare a Bruxelles che i 55 punti previsti dal Pnrr non saranno portati a conclusione nei termini previsti, cioè entro il 31 dicembre 2022 data di scadenza imposta dall’Unione. A rischio c’è la seconda rata del Piano, con conseguente perdita di liquidità e di credibilità con l’Europa.
I dolori del giovane Fitto, preoccupato per la messa a terra del Pnrr, tradiscono un’incontenibile irritazione nei confronti del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini. L’ultimo incontro tra i due risale al 24 novembre 2022, un’era geologica nella clessidra europea delle scadenze.
La Commissione nominata da Salvini per tagliare del 50% il testo degli appalti (grimaldello fondamentale per agevolare la realizzazione dei progetti) avrebbe dovuto concludere il lavoro entro fine novembre per poi condividere il testo con gli alleati prima di presentarlo a Palazzo Chigi. Nessuno ha dato credito alla sparata del “Salvini falegname” quando, alla fine del mese scorso, dichiarava di voler “tagliare con l’accetta” i 230 articoli del Codice degli appalti. Nessuno poteva credere che una Commissione di “tecnici” potesse essere così dipendente dalle ubbie di Salvini da assecondarne le sparate pur non condividendole.
Risultato finale: il plico con le modifiche è stato rimesso da Fitto e Meloni nelle mani esperte del sottosegretario Alfredo Mantovano costretto, con la destra, a difendere la Manovra di Bilancio e con la sinistra ad intervenire contemporaneamente sulla versione originale del Codice degli appalti.
“L’encomiabile” lavoro svolto dalla “Commissione Salvini” non sarebbe riuscito a superare le verifiche supplementari dei giudici amministrativi mettendo a rischio il raggiungimento dell’intero obiettivo. Se Draghi aveva messo nelle mani del Ministero dell’Economia e della Ragioneria generale dello Stato le chiavi del Pnrr, il governo di centrodestra ha solo il povero Fitto a fare da punching ball di tutte le rogne e i problemi.
Giorgia Meloni, dal canto suo, vede e subisce le difficoltà dell’esecutivo ma, nella sua ossessione di dare l’immagine di un governo coeso, preferisce tenere i conflitti (l’ultimo è Fitto vs Salvini) sotto il livello di guardia. Anche perché la Regina della Garbatella si sta rendendo conto che vincere le elezioni e andare a palazzo Chigi non equivale alla presa della Bastiglia. Non c’è una stanza dei bottoni dietro la sua scrivania. Il vero potere è altrove, disseminato nei ministeri e nelle istituzioni, in Bankitalia e al Consiglio di Stato, ben incarnato da quel “deep state” che puo’ mettere i bastoni tra le ruote come e quando vuole.
Un approccio più diplomatico avrebbe aiutato “Io sono Giorgia” a trovare le chiavi per arrivare a quei super boiardi che possono fare e disfare l’azione dell’esecutivo. Ma la leader di Fratelli d’Italia sembra voler seguire, se non addirittura intestarsi, le sparate di Salvini. Il Capitone smania, freme, è impaziente: la sconfitta del suo candidato al congresso della Lega a Brescia, dopo la batosta alle elezioni, lo ha reso furioso.
Sta perdendo la presa sul partito (ormai anche il governatore del Friuli, Fedriga, non nega più le crepe interne), i “nordisti” di Umberto Bossi gli fanno aperta opposizione e i consensi languono. Di qui la decisione di spostare il suo baricentro d’azione al Sud, con il tormentone del ponte sullo Stretto di Messina, magari per riacchiappare quei voti meridionali che avevano ingrassato il suo consenso alle politiche del 2018 e alle europee del 2019.
(da Dagoreport)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
EJEI, CAPO DELLA MAGISTRATURA DEL REGIME, ANNUNCIA CHE 28 DETENUTI, TRA CUI TRE MINORENNI, SARANNO IMPICCATI PER AVER PARTECIPATO ALLE MANIFESTAZIONI
«Il pentimento del lupo è la sua morte», dice un proverbio persiano. Lo scetticismo degli attivisti verso la propaganda di un regime tirannico, corrotto e che esercita una giustizia arbitraria, e verso i suoi proclami lasciati transitare alla vigilia della nuova mobilitazione nazionale in corso, si è rivelato ben riposto. Tanto che ieri il capo della magistratura iraniana Gholamhossein Ejei ha annunciato la prossima esecuzione per impiccagione di un gruppo di rivoltosi.
L’agenzia di stampa statale Irna ha riportato le sue dichiarazioni a proposito del destino di un gruppo di persone arrestate durante le settimane di proteste. Secondo Amnesty International, si tratta di almeno 28 detenuti, tra cui tre minorenni. «I rivoltosi saranno impiccati presto», ha detto Ejei, specificando che i due capi di accusa della legge islamica iraniana per la sentenza di morte sono «muharebeh» (guerra contro Dio) e «fesad fel arz» (corruzione sulla terra).
Subito dopo, la Guardia rivoluzionaria ha rilasciato una dichiarazione all’agenzia di stampa semi-ufficiale Tasnim per elogiare la decisione della magistratura. Non è chiaro se i detenuti, che sono stati condannati formalmente, abbiano ancora il diritto di presentare ricorso.
L’ammonimento è evidentemente rivolto a chi provoca e partecipa alla rivolta popolare, a chi incoraggia altri ad aderire agli scioperi e alle mobilitazioni, e mira anche a intimorire chi osserva la situazione senza scendere in piazza. Uno dei più influenti riformisti iraniani, Abbas Abdi, ha messo l’accento, in un’intervista citata dalla testata indipendente britannica Iran International, proprio su questa «maggioranza silenziosa, importante ma trascurata».
Molti sondaggi che il governo non ha permesso di pubblicare, secondo quanto sostiene l’analista, indicano che il 60-80% della popolazione sostiene il movimento dei giovani, anche se non esplicitamente.
Constatato che le dichiarazioni sull’abolizione «momentanea» della polizia morale (questo significa l’aggettivo utilizzato, «tatil» in farsi, come osserva in un tweet la scrittrice Farian Sabahi) e su una prossima revisione della legge che impone il velo obbligatorio alle donne non hanno sortito l’effetto di placare l’ondata rivoluzionaria, le autorità mettono in chiaro che la revisione, casomai, andrà nella direzione di una maggiore severità.
«Il prezzo da pagare per chi non porterà il velo si alzerà», ha avvertito Hossein Jalali, un membro della commissione cultura del parlamento iraniano, in un video pubblicato dal quotidiano riformista Shargh durante un’assemblea di donne nella città di Qom. Allo stesso quotidiano, il capo del centro informazioni della polizia di Teheran, Ali Sabahi, ha precisato che «non è il momento di parlare di hijab», prendendo le distanze dal procuratore generale. «Con o senza hijab, stiamo andando verso la rivoluzione», hanno risposto ieri le studentesse riunite in un cortile di una scuola a Qods, nella periferia di Teheran.
Con la pioggia, con la luce o con il buio, i video di ieri sui social media mostravano strade vuote, saracinesche abbassate, negozi chiusi. È apparsa massiccia l’adesione alla prima giornata di sciopero nazionale nell’ambito delle proteste anti-governative in corso da settembre, dalla capitale alle periferie del Paese, a Sanandaj, Isfahan, Bushehr, Shiraz, Kerman, Ardebil, Mahabad, Orumiyeh, Kermanshah, Bojnurd, Karaj, Kangavar, Tabriz, Rasht.
Gli scioperi hanno coinvolto anche autotrasportatori e lavoratori degli impianti petrolchimici di Mahshahr e delle acciaierie di Isfahan.Dimostrazioni e boicottaggio delle lezioni si sono visti in vari atenei dove domani, 7 dicembre, si festeggia la «giornata nazionale dello studente», a cui il presidente Ebrahim Raisi ha in programma di partecipare tenendo un discorso in una delle università del Paese. In serata i raduni hanno riempito di nuovo le strade e le piazze.
Lo slogan «Morte a Khameini» è stato il filo che li legava gli uni agli altri. Altre riprese hanno mostrato una folla riunita alla stazione Sadeghiyeh della metropolitana di Teheran urlare «Morte al dittatore». Gli agenti della polizia, intervenuti a disperdere l’assembramento, hanno arrestato una donna ma sono stati assaliti dai manifestanti che hanno cercato di liberarla.
Il ribaltamento tra aggrediti e aggressori è cavalcato dal clero iraniano nei sermoni del venerdì. L’imam di Teheran Ahmad Khatami, alto religioso sciita e membro del Consiglio dei Guardiani e membro anziano dell’Assemblea degli Esperti, va ripetendo che, secondo i principi religiosi, qualsiasi tentativo di indebolire il regime è «haram», proibito. Khatami ha sostenuto che una protesta è accettabile fino a quando la gente parla o scrive lettere e articoli e ha bollato i manifestanti come «assassini» che, pertanto, devono essere soggetti alla pena di morte.
Niente quindi indica che la situazione delle donne in Iran possa migliorare. L’ha osservato un portavoce del Dipartimento di Stato di Washington, rifiutandosi di «commentare affermazioni ambigue o vaghe» del potere iraniano. La Repubblica islamica, dal canto suo, ha criticato la richiesta di espellere l’Iran dalla Commissione Onu sullo status delle donne. «Teheran utilizzerà tutti i mezzi a sua disposizione per impedire questa misura illegale da parte degli Usa e degli europei che mira ad esercitare una pressione politica contro l’Iran», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Nasser Kanani.
(da la Stampa)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
I FAN DELLA QUERELA NON SONO SOLAMENTE I POLITICI, ANCHE I MAGISTRATI
Ogni anno di querele per diffamazione a mezzo stampa ne vengono sporte fra le sei e le settemila, cioè più o meno diciassette o diciotto al giorno. Il novanta per cento finisce in polvere, ma forse l’intento intimidatorio è raggiunto, e poi restano le altre sei-settecento.§
Altro dettaglio diffusamente ignoto: quando si stilano le classifiche della libertà di stampa, in cui siamo regolarmente sotto l’Angola o il Nicaragua, la nostra posizione dipende soprattutto dalla pena al carcere, prevista appunto soltanto qui e in qualche paese di colonnelli. Dunque male i politici che querelano, e a raffica, peggio i politici che non depenalizzano.
Ma – terzo particolare malamente trascurato – i fan della querela non sono solamente i politici, anche i magistrati. Io sono fra i massimi collezionisti europei di querele di magistrati – fin qui, toccando ferro, cento per cento di assoluzioni. Se querela un politico, talvolta si alza il coro greco. Se querela un magistrato, mai.
E proprio di pochi giorni fa è la notizia della condanna inflitta a Maurizio Costanzo – un anno di reclusione, pena sospesa purché risarcisca il diffamato con 40 mila euro – colpevole di critica, anzi diffamazione, del giudice che rigettò la richiesta di arresto per l’uomo che poi deturpò con l’acido Gessica Notaro. Complimenti a questo giudice, disse Costanzo invocando l’intervento del Csm. Ecco: un anno di reclusione. A proposito, come va in Angola?
Mattia Feltri
(da “la Stampa”)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
UN ALTRO COMPLOTTISTA CHE DEFINISCE I VACCINI “TERAPIE SPERIMENTALI”
I no vax, con il passaggio alla XIX legislatura, non si sono estinti dal parlamento. Tutt’altro: con le dichiarazioni fatte sulla sentenza della Corte costituzionale, Emanuele Pozzolo si candida a ereditare lo scettro dello scetticismo scientifico che fu di Sara Cunial.
Il deputato di Fratelli d’Italia, membro della commissione Esteri, critica fortemente la decisione della Consulta che, il primo dicembre, aveva definito «non irragionevoli né sproporzionate le scelte del legislatore sull’obbligo vaccinale del personale sanitario».
Per Pozzolo «la sentenza attiene più alla politica che al diritto». L’esponente del partito di Giorgia Meloni ritiene persino inutile attendere il deposito delle motivazioni perché «siamo innanzi ad una sentenza di natura politica, rivolta a tutelare ex post, in modo quasi sindacale, le scelte sciagurate e autoritarie dei governi Conte e Draghi in tema di gestione della cosiddetta pandemia». Il suo scetticismo non è solo scientifico, ma anche lessicale: oltre alla «cosiddetta pandemia», Pozzolo preferisce definire i vaccini come «terapie geniche sperimentali».
Le invettive su Facebook
L’esponente meloniano di Vercelli tuona: «Stupisce che la Corte costituzionale reputi che, in condizioni di eccezionalità, il diritto alla salute possa prevalere su altri diritti, fino ad annullarli – e ancora – La posizione assunta dalla Corte costituzionale rappresenta un elemento di stupefacente bizantinismo leguleio, che nega la realtà dei fatti in nome di quella ideologia scientista che ha pervaso, con preoccupante intolleranza, il dibattito pubblico sulla gestione del Covid-19». Pozzolo, nel post pubblicato sulla sua pagina Facebook, sottolinea che «sono ancora molte le questioni da chiarire e le responsabilità da verificare in merito agli ultimi anni: perché la menzogna non può reggere in eterno e la verità sarà, di giorno in giorno, più evidente. Pensiamo alla follia dei lockdown di massa, al protocollo tecnicamente criminale della “tachipirina e vigile attesa”, alla vergogna del green pass, ai gravi effetti avversi a seguito della “vaccinazione”, alla violenta discriminazione sociale attuata su base sanitaria: su tutto questo qualcuno dovrà rispondere delle proprie azioni».
I precendenti
E conclude: «Non sarà sufficiente cercare di nascondere la testa sotto la sabbia per evitare l’emergere della verità dei fatti. Come ha dichiarato il professor Paolo Bellavite quella della Corte costituzionale è purtroppo una “decisione irragionevole, che pesa come un macigno sulla stessa Corte che l’ha presa. E peserà sempre di più con il crescere delle vittime”».
Dichiarazioni di questo tipo non sono un inedito per Pozzolo. Tra i deliri no vax, un anno fa, il già assessore alle Politiche giovanili e al decoro urbano del Comune di Vercelli disse: «Cosa autorizza l’arroganza pseudo-scientifica di chi mette all’indice esseri umani che non intendono sottoporsi ad un trattamento sanitario, peraltro di natura sperimentale e che purtroppo fa registrare casi di gravi reazioni avverse, quando non addirittura il decesso fisico, che dovrebbe immunizzare da un virus ma che, nella realtà delle cose, è al massimo equiparabile ad una più o meno efficace cura preventiva?». E ancora, la sua personale definizione di green pass: «Aberrante normativa sul lasciapassare verde».
(da agenzie)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
VIA ANCHE I “PERICOLI PER L’ORDINE PUBBLICO”
Via i riferimenti all’ordine pubblico, al codice antimafia e alle misure di prevenzione. Via pure il numero massimo di cinquanta partecipanti e la sanzione prevista per chi prendeva semplicemente parte al raduno. Resta in piedi “soltanto” la pena fino a 6 anni per gli organizzatori e i promotori, limitata per giunta ai soli raduni musicali.
Il decreto rave, il primo atto con cui il 31 ottobre il governo Meloni si era presentato per rivendicare con forza la stretta sull’illegalità (“L’Italia non è la Repubblica delle banane”, aveva detto la premier), ha perso pezzi. E ora il testo decapitato e riformulato dagli uffici del ministero della Giustizia guidato da Carlo Nordio, con un emendamento che ne riscrive i confini e pure il reato di riferimento, ha incassato a maggioranza il via libera in Commissione Giustizia al Senato.
Un passo indietro necessario, arrivato dopo più di un mese di dibattito con i dubbi sollevati non solo dai partiti dell’opposizione contro quello che il Pd aveva definito “un obbrobrio giuridico che va cancellato perché rimette in discussione la libertà dai cittadini”, ma anche all’interno della stessa maggioranza.
Da Forza Italia in particolare era arrivata una proposta di legge che eliminava del tutto il carcere sostituendolo con una maxi multa da 200 mila euro.
E costituzionalisti e giuristi avevano bocciato la norma criticando anzitutto la terminologia estremamente generica del provvedimento che rischiava di estendere la sua applicazione non soltanto ai rave, ma anche ad altri tipi di raduni, dalle manifestazioni di piazza agli scioperi dei lavoratori fino alle occupazioni studentesche.
Meloni aveva aperto a modifiche, Salvini ne aveva fatto una bandiera: “Indietro non si torna”. Ora invece il testo depotenziato prevede la reclusione da 3 a 6 anni e la multa da mille a 10mila euro per “chiunque organizza o promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento, quando dall’invasione deriva un concreto pericolo per la salute pubblica o per l’incolumità pubblica a causa della inosservanza delle norme in materia di sostanze stupefacenti ovvero in materia di sicurezza o di igiene degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento, anche in ragione del numero dei partecipanti ovvero dello Stato dei luoghi”. La norma prescrive inoltre la confisca “delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato” e “delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.
Cambia pure il reato di riferimento: non più il 434 del codice penale, ossia quello che punisce il “crollo di costruzioni o altri disastri dolosi”, ma il più blando articolo 633 che riguarda “l’invasione di terreni o edifici”.
Spariti invece tutti i riferimenti relativi a eventuali “pericoli per l’ordine pubblico”, al “numero di persone superiore a cinquanta”, per far scattare il raduno stesso da mettere sotto accusa e alla “pena diminuita per il solo fatto di partecipare all’invasione”: ora i semplici partecipanti non risponderanno più dell’illecito punito dal decreto rave. Così come ad essere soppressi sono i commi che facevano entrare il nuovo articolo nel codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione.
(da agenzie)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
IN CAMPO CI SONO SOLO IO, IO, IO E IL GOVERNO MIO. CON IL CIPIGLIO CON CUI WANNA MARCHI DECANTAVA LE SUE “OFFERTE”. “D’ACCORDO?!?!!”
Tra interviste su Corriere e Repubblica e post su Facebook, Giorgia Meloni ha voluto ribadire che il nomignolo di Ducetta se l’è proprio meritato. In campo ci sono solo Io, Io, Io e il governo mio. Tutte le sparate di Salvini (mai citato nelle interviste, al pari di Berlusconi) se le è intestate (dal no-Pos fino a 60 euro al tetto al contante) per ribadire che il suo governo è unito, nessuno è contro l’altro. Insomma, Lei deve essere il Capo. Punto.
Ma anche la Ducetta ha commesso un errore: l’incontro faccia a faccia con Ciccio Calenda. Dopo l’incontro tra i due, il Churchill dei Parioli ha usato parole al miele verso “Io so’ Giorgia”: “Abbiamo trovato una controparte molto preparata. La Meloni è molto preparata”.
Poi ancora: “Se facessimo, una volta nella vita, una roba normale, se i partiti di governo, leggi FI, invece di sabotare Meloni, contribuissero a fare la manovra, e l’opposizione invece di andare in piazza presentasse provvedimenti migliorativi, forse sarebbe un Paese normale. Invece continuiamo a essere un Paese machiavellico di cui non ci capisce niente”.
Del resto Ignazio La Russa è stato eletto presidente del Senato grazie ai misteriosi voti pervenuti da una parte dell’opposizione: vista l’astensione da parte di Forza Italia, tutto farebbe pensare che questo aiutino a Fratelli d’Italia sia arrivato dai lidi del terzo polo, specie quelli renziani.
Fuori Forza Italia, dentro Azione? E qui i Berluscones si sono incazzati a morte. “Non accettiamo lezioni di chi ha perso le elezioni ed è destinato all’irrilevanza», ha detto la capogruppo di FI al Senato Licia Ronzulli, spiegando che il suo partito non intende sabotare la maggioranza, ma intende “dare contributo in più”.
Anche il capogruppo alla Camera, il ronzulliano Alessandro Cattaneo, ha risposto a Calenda, dicendo che “è ossessionato da Forza Italia perché alle elezioni aveva detto che sarebbe arrivato davanti”.
Fatti imbufalire i forzuti di Berlusconi, Meloni è passata a invadere i canali di comunicazione di Salvini.
Utilizza Facebook per una quasi conferenza stampa (senza interlocutori). Diretta e super pragmatica la premier presenta la manovra dal suo diario – “Gli appunti di Giorgia” – ‘’per raccontare il lavoro che abbiamo fatto durante la settimana e magari per dare anche qualche risposta sui temi che sono più caldi, più interessanti’’. E lo fa con il cipiglio con cui Wanna Marchi decantava le sue “offerte”. “D’accordo?!?!!”.
Certo la premier è preparata ma il suo centrato pragmatismo ogni tanto rischia di sbrodolare nel mercato della Garbatella come quando liquida la tragedia di Ischia via social, a una settimana dalla frana, senza essere mai andata di persona a testimoniare, con la sua presenza, la vicinanza del governo nella prima calamità che il suo mandato si trova a gestire.
Salvini la ringrazia dal profondo del cuore perché alla sola idea della Meloni in elicottero a Casamicciola il Capitone avrebbe dovuto rispondere con un treno Hyperloop da Milano a Reggio Calabria con il modellino del Ponte sullo Stretto sotto il braccio.
(da Dagoreport)
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Dicembre 6th, 2022 Riccardo Fucile
IL BOCCONE PIÙ GROSSO È PAOLO BARELLI, EX CAPOGRUPPO ALLA CAMERA, FATTO FUORI DALLA RONZULLI
Carlo Calenda ha buttato lì una frase, come suo solito e, inevitabilmente, ha gettato ben più del semplice scompiglio. Perché l’ha detta ieri mattina in tv, all’Aria che Tira , su La 7. E perché lo ha fatto ripetendo, assertivo, la domanda che gli era stata posta: «Svuotare Forza Italia? La stiamo già svuotando».
Il leader di Azione ha parlato con convinzione, ma subito dopo ha anche voluto specificare: «Il fatto che Azione stia svuotando Forza Italia non vuol dire che abbiamo intenzione di andare al governo con la Meloni».Inevitabile, come già detto, la reazione degli azzurri. Ha cominciato Licia Ronzulli, presidente dei senatori di Forza Italia. Un sarcasmo pungente inviato via Twitter: «Non so se a Calenda faccia più male la pioggia in motorino o la foglia d’alloro in testa.
Di certo, vaneggia come un novello Nerone». Poi Ronzulli ha affondato: «Calenda perde pezzi con le dimissioni in massa della classe dirigente romana del suo partitino e parla di svuotare i partiti di altri».
Il leader di Azione ha continuato a spiegare le intenzioni del suo partito: non andare dalla parte del governo, ma creare un centro attrattivo. Ha detto infatti: «Svuotare Forza Italia vuol dire una cosa molto diversa, vuol dire cercare per la prima volta un centro riformista in Italia per far ritrovare insieme persone divise da un bipolarismo sempre più estremo».
Giorgio Mulé, deputato di Forza Italia, ha risposto a Calenda a stretto giro, dai microfoni di Un giorno da pecora su Radio 1 Rai.
Anche Mulé è stato sarcastico e diretto: «Alla mattina dice una cosa, al pomeriggio un’altra e alla sera un’altra ancora, è uno instabile politicamente ecco, per questo dovrebbe farsi delle enormi iniezioni di tranquillanti».
Dai microfoni della radio Mulé ha anche svelato un retroscena: «Calenda mi ha bloccato su Twitter anche se io non gli ho mai scritto nulla di offensivo o sconveniente. L’ho scoperto per caso quest’ estate, senza che fosse successo niente. So che gli sto sulle scatole, non a caso ho saputo che in certe trasmissioni tv se sa che ci sono io lui non viene».
Intanto è il sondaggista Renato Mannheimer che fa i conti sul futuro della federazione del Terzo polo e anche lui insiste su una questione caratteriale. Ha spiegato infatti il sondaggista: «Il futuro del Terzo polo dipende da Renzi e Calenda, innanzitutto dal loro carattere, perché sicuramente uno spazio c’è. Molto dipenderà però anche da cosa succederà al Pd». Per questo l’esito delle prossime elezioni, le Europee del 2024, è impossibile da calcolare: «Abbiamo visto succedere di tutto in questi mesi, difficile fare previsioni da qui ad allora. Basta guardare il Movimento Cinque Stelle che davamo per finito, invece Conte è riuscito a tirarlo su fortemente».
(da agenzie)
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