Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
TUTTI I DATI, SETTORE PER SETTORE, CHE DIMOSTRANO COME L’EUROPA UNITA SAREBBE ALL’AVANGUARDIA
Una delle immagini più ricorrenti ed evocate dell’Unione
europea è quella della bicicletta: deve continuare a pedalare per non cadere, nel senso che smettere il processo della progressiva integrazione le sarebbe fatale.
Si può condividere o meno questa visione e argomentare che, anche se dovesse fermarsi, ormai la costruzione europea è una realtà talmente radicata e solida da non dover più temere per il proprio futuro.
Una cosa, tuttavia, è certa: se l’Europa rimanesse ferma, pagherebbe un prezzo. E anche molto alto. Per la precisione: 2.800 miliardi di euro l’anno a partire dal 2032.
Partendo dalla domanda «quanto costa la non Europa?», il Servizio Ricerca del Parlamento europeo ha esaminato e quantificato i benefici potenziali che potrebbero essere conseguiti se l’Ue facesse miglior uso delle risorse esistenti e, soprattutto, se varasse nuove politiche comuni dando quindi risposte unitarie a problemi simili. Secondo lo studio, l’Europa per il prossimo decennio ha davanti a sé tre scenari. Vediamoli.
Status quo
Se le cose rimanessero come sono, se non ci fosse cioè alcun cambiamento delle politiche comuni e tutto proseguisse come oggi, il Pil aggregato dell’Ue passerebbe dai circa 15 mila miliardi di euro del 2022 a circa 17 mila miliardi nel 2032, con un tasso di crescita medio annuo dell’1,3%.
Frammentazione
Se di fronte a una nuova crisi economica – che i venti d’inflazione, gli scricchiolii del sistema bancario e il protrarsi della guerra in Ucraina non fanno certo escludere – i Paesi reagissero in ordine sparso dando risposte nazionali e divergenti, lo studio calcola che tra dieci anni ci sarebbe una perdita netta reale di 2.052 miliardi di euro di Pil.
Rilancio di un’azione comune
Con il varo di nuove politiche comuni in 50 settori strategici il Pil europeo passerebbe dagli attuali 15 mila miliardi odierni a 19.800 miliardi nel 2032, quindi 2.800 miliardi in più rispetto allo scenario dello Status quo, con un tasso medio annuo di crescita del 2,9%.
Naturalmente non tutte le politiche sarebbero a regime allo stesso tempo e, quindi, a quella cifra ci si arriverebbe per approssimazioni successive, ma alla fine della fiera quello sarebbe il vantaggio sostenibile della maggior integrazione. Ben inteso, i benefici futuri non sostituirebbero o metterebbero in discussione quelli derivanti dalle politiche dei singoli Stati membri a livello nazionale, regionale e locale, ma li integrerebbero e li rafforzerebbero.
Cosa bisogna fare per ottenere questo risultato?
Un potenziale immenso è nel settore dei trasporti: oggi non si viaggia alla stessa velocità. Per esempio un treno merci quando un treno passa da uno Stato all’altro trova strozzature e ostacoli spesso insormontabili: i binari possono essere più larghi (come nei Paesi Baltici e in gran parte dei Paesi dell’est) o più stretti (in aree della Spagna) o la rete è vecchia e lenta (come nel Sud Italia).
In tutti questi casi il trasporto deve passare su gomma. In sostanza investire nelle interconnessioni, facendo del Sistema Europeo di Gestione del Traffico Ferroviario (Ertms) l’unico sistema di segnalamento utilizzato sulla rete globale Ten-T e completando il mercato unico di beni e servizi eliminando le barriere residue, porterebbe nel giro di 10 anni a vantaggi pari a 507 miliardi di euro.
Il mercato unico
Nel mercato unico esistono ancora troppe distorsioni. Se le imprese continuano a farsi concorrenza non sulla qualità dei prodotti o servizi, ma in base alle agevolazioni fiscali offerte da questo o quel Paese, non sarà mai efficiente.
Armonizzare le agevolazioni e introdurre l’obbligo di fatturazione elettronica per tutti i Paesi membri genererebbe 94 miliardi di Pil europeo aggiuntivo.
E poi c’è il divario relativo all’imposta sul reddito delle società che operano in più di uno Stato membro (oggi gli utili li collocano dove la tassazione è più bassa): l’Ue dovrebbe creare norme comuni per queste imprese e rafforzare lo scambio di informazioni tra le amministrazioni fiscali. Questo comporterebbe anche una riduzione della burocrazia e dei costi di adempimento.
Unione economica e monetaria
Il completamento dell’Unione economica e bancaria è l’altra grande incompiuta dell’Ue. Si tratta in primo luogo di coordinare in modo più efficace le politiche di bilancio fra i Paesi membri, creando anche una tesoreria europea; dare il via al sistema europeo di assicurazione dei depositi. Inoltre è necessario diversificare le fonti di finanziamento dell’Unione per sostenere rischi e innovazione; sviluppare centri finanziari comuni; rafforzare gli strumenti esistenti o crearne di nuovi per attenuare i rischi della disoccupazione, sul modello Sure; varare norme in grado di garantire maggior trasparenza e controllo della finanza digitale. Queste azioni faciliterebbero fra l’altro la solidarietà fra i Paesi membri, garantendo condizioni di parità che impediscano azioni isolate, politiche di bilancio poco coordinate o comportamenti opportunisti. Potrebbero generare 321 miliardi di euro di Pil aggiuntivo entro il 2032.
Transizione energetica
L’Unione si è data come obiettivo il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050. Per ridurre i consumi energetici bisogna fare tutti le stesse cose: graduale abbandono dei combustibili fossili, miglioramento dell’efficienza energetica e semplificazione delle procedure per l’ampliamento della produzione di energie rinnovabili. Investimenti tecnologici comuni porterebbero, nel decennio, benefici sull’ambiente e nella creazione di nuovi posti di lavoro quantificabili in 420 miliardi. Altre misure suggerite sono la creazione di un sistema che impedisca l’immissione sul mercato Ue di prodotti e materie prima derivanti da territori disboscati e la fissazione del prezzo del carbonio, i cui proventi potrebbero essere redistribuiti ai più vulnerabili, attenuando l’impatto sociale negativo della transizione verde.
Sviluppo digitale
La digitalizzazione delle piccole e medie imprese, norme comuni sui lavoratori delle piattaforme digitali (riders e autisti di Uber, per esempio, che oggi non hanno nessuna tutela) e una robusta protezione dei dati e della riservatezza delle comunicazioni significherebbero un valore aggiunto pari a 327 miliardi di euro.
Politica sanitaria
Gli anni del Covid hanno mostrato tutta la necessità di una politica comune della sanità, che oggi invece è di competenza degli Stati membri. La creazione di un Fondo Ue destinato a migliorare le strutture ospedaliere, per fare acquisti congiunti di attrezzature e medicinali, e nuove norme per più trasparenza nella fissazione dei prezzi porterebbero un maggior guadagno di almeno 34 miliardi.
Difesa comune
Quanto alla difesa europea, la guerra di aggressione russa in Ucraina ha riportato d’attualità il tema della sua assenza. «Eppure – ricorda il capo dell’Unità Analisi valore aggiunto del Servizio Ricerca del Parlamento Europeo Lauro Panella Panella – se sommassimo l’attuale spesa militare dei 27 Paesi, sarebbe quasi pari a quella cinese, seconda solo a quella degli Stati Uniti».
Ma la spesa dell’Ue per la difesa è frazionata, coordinata poco e male, con cooperazioni sporadiche, segnata da duplicazioni, incapace di economie di scala. Un esempio per tutti, i 14 diversi modelli di carri armati prodotti in Europa. Una maggiore integrazione del bilancio per la difesa porterebbe invece non solo a risparmi e guadagni di efficienza, in termini di minori costi amministrativi e minori sovrapposizioni, ma anche a una forte spinta nel campo della ricerca e sviluppo, che fa poi da volano (come avviene negli Usa) ad applicazioni civili. I guadagni potrebbero essere compresi tra 24 e 75 miliardi l’anno, solo in questo settore.
Corruzione
Investire in un Paese dove la giustizia non funziona bene ha costi enormi. Rafforzare la lotta alla corruzione potenziando il quadro legislativo europeo, rendere più severi i requisiti di trasparenza per gli appalti pubblici dell’Ue genererebbe quasi 140 miliardi di euro. Occorre anche rendere più intensa la cooperazione di polizia e quella giudiziaria e migliorare le misure europee per il sequestro di proventi e beni di individui e organizzazioni criminali.
Salario minimo e immigrazione legale
Uno dei grandi successi dell’Unione europea sono stati i fondi strutturali, che hanno fatto da volano alla crescita di Spagna e Portogallo e in seguito di Paesi come Polonia, Ungheria e Baltici. Aumentarne la dotazione per favorire le aree meno sviluppate, combattere povertà e disuguaglianze armonizzando verso l’alto il salario minimo e creando percorsi comuni per l’immigrazione legale, si tradurrebbe in un plus valore di 356 miliardi.
«I benefici – spiega lo studio – deriverebbero dall’aumento dell’occupazione, dal miglioramento del salari e delle condizioni di lavoro, che si traducono in una base imponibile più ampia, una più efficiente allocazione del capitale umano e una migliore integrazione dei lavoratori mobili e dei cittadini di Paesi terzi». Inoltre, occorre facilitare ulteriormente la libera circolazione dei lavoratori, per esempio riconoscendo le qualifiche professionali o avvicinando i sistemi di sicurezza sociale.
Cooperazione internazionale
In realtà, sul fronte dell’azione esterna c’è molto di più. Promuovendo il commercio sostenibile, rafforzando la rappresentanza diplomatica comune e la protezione consolare dei cittadini dell’Ue, non ultimo coordinando la politica di sviluppo verso un partenariato più efficace evitando sovrapposizioni e duplicazioni nell’azione dei singoli Stati membri, si potrebbero generare benefici pari a 145 miliardi euro l’anno entro il 2032.
Sviluppo della conoscenza
«Se potessi tornare indietro, ricomincerei dalla cultura» disse una volta Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Europa. Lo studio propone l’ampliamento del programma Erasmus+, che consente per esempio agli studenti europei di frequentare per un semestre (valido per il corso di laurea) un ateneo dell’Ue, estendendolo a persone di età e contesti diversi. Inoltre, un più forte programma di ricerca finanziato dall’Ue nei settori dell’energia e dell’ambiente, più risorse per il settore culturale, un pacchetto di misure per sostenere la libertà e il pluralismo dei media. Da sole, queste azioni potrebbero produrre benefici per quasi 70 miliardi di euro l’anno, generando reddito e posti di lavoro, diffusione delle conoscenze, maggior coesione sociale e creatività culturale.
Il modello per il futuro
La forza dell’Unione europea si è vista durante la crisi pandemica, quando l’azione comune ha assicurato vaccini a prezzi ragionevoli per tutti i suoi Stati. Per la prima volta è stato fatto un fondo (Sure) con debito europeo da 100 miliardi a bassissimo interesse da prestare agli Stati membri per pagare la cassa integrazione. E infine grazie al Next Generation EU ha avviato la transizione verde rimettendo l’Europa sulla strada della crescita e dello sviluppo sostenibile. L’estensione di questo modello porterebbe a una Europa più efficiente, forte e prospera.
(da Il Corriere della Sera)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
SIAMO ARRIVATI AD APPALTARE PURE I PRONTO SOCCORSO
Qualche giorno fa l’assessore comunale veneziano Renato Boraso, dopo tre ore di inutile attesa al pronto soccorso dell’ospedale all’Angelo di Mestre assieme al padre ottantenne invalido al 100 per cento, se n’è andato denunciando l’inaccettabile trattamento e annunciando: “Scriverò a Zaia, raccoglierò firme…”.
A parte la replica dell’Ulss 3 “Serenissima”, che ha accusato l’amministratore di aver preteso un trattamento di favore, il problema delle lungaggini nei pronto soccorso del Veneto è reale.
Non per colpa di medici o personale sanitario, ma per un carico di incombenze cresciuto negli anni, che ha finito per scaricare interventi sanitari di tipo ordinario sul servizio di emergenza.
La Cgil veneziana ha svolto un monitoraggio sui pronto soccorso dell’Ulss 3 “Serenissima” dimostrando che molti dei problemi derivano dal fatto che si presentano cittadini che non trovano risposta ai propri bisogni di salute nelle 24 ore. È per questo che si creano affollamenti e code, la cui origine è svelata dall’analisi dei gradi di urgenza assegnati dal triage. Come tutti sanno, il “codice rosso” significa emergenza con pericolo di vita e accesso immediato; il “codice arancio” un’urgenza con accesso entro 15 minuti; il “codice giallo” un’urgenza differibile, con accesso entro 45 minuti; il “codice verde” indica un’urgenza minore con accesso entro 60 minuti. Il punto dolente è costituito dal “codice bianco”, l’ultima fascia, che qualifica una “non urgenza”, con visita entro 90 minuti.
“L’analisi fa emergere una media altissima, pari al 47 per cento, di prestazioni potenzialmente improprie nei nostri pronto soccorso”, dichiarano Daniele Giordano segretario generale della Cgil veneziana, Daniele Tronco segretario generale del Sindacato pensionati Spi-Cgil e Marco Busato segretario generale Funzione pubblica Cgil.
Innanzitutto sono cresciuti di un terzo gli accessi nei cinque pronto soccorso veneziani dal 2020 al 2022: Mestre ne ha avuti 65.994 nel 2020, 75.700 nel 2021 e 84.685 nel 2022; Venezia 25.870, 29.679 e 35.639; Dolo 26.777, 30.078 e 39.267; Mirano 33.230, 36.926 e 40.260; Chioggia 19.848, 23.167 e 28.162.
In totale si è passati da 171.719 accessi nel 2020, a 195.550 nel 2021, a 228.013 nel 2022. In termini assoluti la crescita è di 56.294 unità in tre anni, pari al 32,78 per cento.
Ovvio che le percentuali siano più alte quanto minore è la gravità dei casi. Colpisce comunque che nel 2021 gli accessi in “codice bianco” siano stati il 53 per cento a Mestre, il 51 per cento a Venezia, il 44,5 per cento a Dolo, il 46,8 per cento a Mirano e il 42,5 per cento a Chioggia. Aggiungendo i “codici verdi” si verifica come le due fasce meno gravi assorbano una forbice che va dal 71 per cento di Mestre al 78,4 per cento di Chioggia.
“La stessa Regione Veneto ha previsto, presso i pronto soccorso, l’attivazione degli ambulatori dei codici bianchi anche attraverso l’acquisto di prestazioni sia dei medici che degli infermieri, per cercare di dare risposte ai cittadini che nel territorio non le trovano. – commenta la Cgil – Anche l’istituzione del triage infermieristico che ha determinato ulteriore carico di lavoro con personale dedicato dimostra che il problema non è la classificazione nei diversi codici, ma la possibilità di rispondere al numero altissimo di persone che si recano presso le strutture”. In una parola, si va in ospedale perché non ci sono alternative. In particolare è la popolazione anziana, più di altre fasce d’età, a risultare costretta ad utilizzare le strutture d’emergenza per i bisogni di salute.
Dall’elaborazione dei dati dell’Ulss riferiti ai periodi di maggior afflusso dei pazienti emergono tempi di attesa sconcertanti, dal momento della presa in carico a quello d’uscita. Nel presidio di Mestre 7 ore e 47 minuti, a Venezia 5 ore e 27 minuti, a Dolo 5 ore e 31 minuti, a Mirano 6 ore e 53 minuti, a Chioggia 5 ore e 19 minuti.
Le soluzioni? “Potenziare un’offerta capillare, decentrare e prevedere nelle sedi territoriali (Distretti) l’attivazione di ambulatori per la continuità assistenziale dopo le ore 20 e nei giorni prefestivi e festivi. – propone la Cgil – Oppure attivare Poliambulatori nel territorio a disposizione dei cittadini, per cercare di non intasare i pronto soccorso”.
Secondo i sindacati questo utilizzo improprio determina un aumento dei costi. “Abbiamo denunciato l’uso degli appalti proprio nei pronto soccorso con seri disservizi ai cittadini che hanno determinato da parte dell’Ulss la rescissione dei contratti. – dichiarano Giordano, Tronco e Busato – Il sistema delle cooperative è fallimentare e la Direzione dell’Ulss 3 veneziana farebbe bene a prenderne atto. La Regione dovrebbe avviare una campagna di sensibilizzazione, e procedere senza più scuse all’attivazione delle strutture nel territorio. La carenza di personale è evidente e riguarda tutto ciò che ruota intorno al Pronto Soccorso a partire da medici, infermieri, operatori socio-sanitari, tecnici radiologi e di laboratorio”.
Chi vede nella gestione delle emergenze uno scivolamento verso la privatizzazione della sanità è Erika Baldin, consigliera regionale dei Cinquestelle: “Se 21 pronto soccorso su 26 in Veneto sono operativi grazie a cooperative private, vuol dire che un problema esiste. Se il privato convenzionato è arrivato al 21 per cento tra ospedali e centri riabilitativi, non si può far finta di niente. Non a caso la giunta Zaia paga ai privati 10 milioni di euro su 41 per smaltire le liste d’attesa, pari al 25 per cento della spesa”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
IL DOCUMENTO DEI TECNICI: “DIVERSE CRITICITA’ E COSTI IN SALITA”
Il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina è in Gazzetta Ufficiale. Il decreto legge 31 marzo n. 35 ha certificato la composizione della compagine societaria che, nelle intenzioni del governo Meloni, dovrà edificare la grande opera. Sette anni di tempo e dieci miliardi di euro di costi è quanto preventivato dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini.
Il progetto porta la firma del consorzio Eurolink. Come quello di una decina di anni fa. All’epoca alla guida c’era Impregilo (oggi Webuild) che nel 2005 vinse la gara.
Rispetto al 2012 però i costi di quest’opera sono aumentati di un buon 50%. E risultano più che raddoppiati rispetto alla delibera del Cipe che attribuì al ponte di Messina il carattere di «rilevanza nazionale». Ma ci sono perplessità anche sulla realizzabilità del progetto stesso. Che prevede una campata unica. Che fu bocciata nel 2011 proprio dal ministero delle Infrastrutture.
Il progetto
Secondo il progetto l’attraversamento stabile sullo Stretto andrà a realizzarsi lo schema del ponte sospeso. I documenti tecnici oggi disponibili in circa 8.000 elaborati prevedono una lunghezza della campata centrale tra i 3.200 e i 3.300 metri a fronte di 3.666 metri di lunghezza complessiva. E comprensiva delle campate laterali: 60,4 metri di larghezza dell’impalcato, 399 metri di altezza delle torri, 2 coppie di cavi per il sistema di sospensione, 5.320 metri di lunghezza complessiva dei cavi, 1,26 metri come diametro dei cavi di sospensione, 44.323 fili d’acciaio per ogni cavo di sospensione, 65 metri di altezza di canale navigabile centrale per il transito di grandi navi, con volume dei blocchi d’ancoraggio pari a 533 mila metri cubi. L’opera consta di 6 corsie stradali, 3 per ciascun senso di marcia (2 +1 di emergenza) e 2 binari ferroviari, per una capacità dell’infrastruttura pari a 6.000 veicoli/ora e 200 treni/giorno. Il progetto prevede inoltre l’utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria per dare vita ad un servizio di trasporto pubblico locale tra le due città di Messina e Reggio Calabria. E una resistenza al sisma pari a 7,1 magnitudo della scala Richter, con un impalcato aerodinamico di terza generazione stabile fino a velocità del vento di 270 km/h.
Chi lo fa
La struttura societaria che sovraintenderà all’edificazione prevede che la società Stretto di Messina, in liquidazione, torni in bonis e si trasformi in una società in house. L’assetto societario prevede la partecipazione di Rfi, Anas, delle Regioni Sicilia e Calabria e per una quota non inferiore al 51% di Mef e Mit. Il ministero delle Infrastrutture avrà funzioni di indirizzo, controllo e vigilanza tecnica e operativa sulla società in ordine alle attività oggetto di concessione, circostanza che garantirà l’esercizio di una decisiva attività di indirizzo sugli obiettivi strategici e sulle decisioni della società. Si prevede la costituzione di un Comitato scientifico di consulenza tecnica, supervisione e indirizzo delle attività tecniche progettuali. Rivivono i contratti già stipulati, previo l’azzeramento del contenzioso.
Tirare a campate
Ma la campata unica è l’unica soluzione adottabile? La Stampa spiega oggi che un documento del ministero delle Infrastrutture che risale al 2021 dice di no. I tecnici hanno consegnato al ministero uno studio sulle soluzioni alternative per il sistema di attraversamento stabile. Il gruppo di lavoro ha scartato in partenza l’ipotesi di costruire un tunnel in alveo o sotto l’alveo. E ha scelto la soluzione a tre campate. A giudizio dei tecnici, infatti, il primo progetto presenta diverse criticità. «Un aspetto sfavorevole di questa soluzione è sicuramente il vincolo della sua ubicazione nel punto di minima distanza fra Sicilia e Calabria (circa 3 km), che allontana l’attraversamento dai baricentri delle aree metropolitane di Messina e Reggio Calabria. Ma che al tempo stesso comporta comunque la necessità di realizzare un ponte sospeso con una luce maggiore del 50% di quella del ponte più lungo ad oggi realizzato al mondo».
Gli altri problemi
Non solo. Sempre secondo i tecnici nel progetto va segnalato il «notevole impatto visivo (anche in ragione dell’altezza necessaria per le torri)» e «la vicinanza di zone sensibili sotto il profilo naturalistico». A favore della soluzione del Mit invece la ridotta sensibilità sismica dell’impalcato e nessun impatto sulla navigazione. La pagella dei tecnici del Mit è impietosa. Con il sistema a più campate, «ipotizzabile, ad esempio, a tre campate con due pile in mare», invece si avrebbe «una soluzione tecnicamente fattibile. Anche grazie agli avanzamenti delle tecnologie di indagine e realizzazione per fondazioni di opere civili marittime a notevoli profondità». E «rispetto al ponte a campata unica, potrebbe avere una maggiore estensione complessiva e mantenere al tempo stesso la lunghezza della campata massima simile a quelle già realizzate altrove. E quindi di usufruire di esperienze consolidate, anche dal punto di vista di tempi e costi di realizzazione».
I costi
Infine, sempre secondo i tecnici, la maggiore lunghezza consentirebbe di realizzare il collegamento in una posizione più prossima ai centri abitati. E quindi di tagliare i lavori sui raccordi stradali e ferroviari. Oltre ad avere un minore sensibilità al vento e costi più contenuti. Oltre a effetti meno impattanti sulle aree naturalistiche della zona.
Invece, secondo il ministero, con il completamento dell’alta velocità in Calabria e Sicilia e la messa in esercizio del Ponte, si stima un dimezzamento dei tempi di percorrenza da Roma a Palermo «oggi pari a 12 ore, di cui un’ora e mezza per il solo traghettamento dei vagoni». E si inserisce nel tracciato del Corridoio multimodale Scandinavo-Mediterraneo.
(da Open)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“COLPITI AGLI OCCHI E ALLA TESTA”,,, LA SOLITA FECCIA RAZZISTA
Una specie di tiro a segno avente come bersaglio i cittadini immigrati che stazionano nelle panchine della città. È la denuncia contro ignoti su cui stanno indagando i carabinieri di Verona.
Il fatto, riportato da L’Arena, sarebbe avvenuto nelle ultime settimane nel quartiere Indipendenza nella zona sud della città. Le vittime sarebbero state colpite diverse volte con pallini di gomma sparati da una pistola ad aria compressa.
In un caso, uno dei cittadini sarebbe stato colpito a un occhio ed è dovuta ricorrere alle cure del 118. A testimoniare sui fatti alcuni residenti che hanno raccontato di episodi accaduti da due settimane a questa parte. Lo scorso fine settimana alcune persone sarebbero stare raggiunte da pallini alla gola e alla testa.
Lo scorso giugno le panchine erano state cosparse di grasso con l’obiettivo di impedire alle persone di sedersi. «Una volta ci hanno tirato addosso delle uova transitando in auto», racconta a L’Arena Edward, uno dei cittadini di origine africana che si ritrova nell’area verde della città presa di mira.
«D’estate il gruppo si ritrova spesso a chiacchierare verso sera. Parlano a voce alta ma non litigano né creano tensioni, anzi si tratta di persone socievoli», testimonia una residente. «Il caos, piuttosto, arriva da un locale dove spesso gruppi di persone alzano il gomito e urlano fino a tardi».
A commentare la denuncia il presidente della quarta Circoscrizione veronese, Alberto Padovani: «Non possiamo lasciare che il quartiere diventi un Bronx in cui la gente pensi di potersi fare giustizia da sola. In questi mesi le forze dell’ordine si sono attivate. Spero che si possa arrivare a soluzioni definitive per ripristinare l’ordine e garantire una via sicura ai residenti».
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“AL GOVERNO PERDONO TEMPO CON IL FASCISMO, MI VIENE IL DUBBIO CHE NON ABBIANO ALTRO DA DIRE E DA FARE”… L’IMPRENDITORE: “A UN CERTO PUNTO L’UOMO DEL FARE SI ROMPE I COGLIONI”
Flavio Briatore all’attacco del governo Meloni. L’opposizione
che non t’aspetti arriva in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano. Nel colloquio con Antonello Caporale l’imprenditore e socio della ministra Daniela Santanché dice che «un uomo del fare – come lui, ndr – non perde tempo con lumache, carne sintetica, eccetera». Ovvero con gli insetti e con la carne coltivata, pare di capire nel riferimento.
Sui quali l’esecutivo ha ampiamente legiferato anche in assenza di urgenze. Ma la posizione di Briatore sul punto è assolutamente laica: «Caro amico, tu mangia come vuoi e io come voglio».
Mentre sugli altri argomenti d’attualità il proprietario (o meglio: azionista di maggioranza) del Twiga è ancora più caustico: «Ti metti a perdere tempo con il fascismo, via Rasella eccetera. Allora a me viene un dubbio. Che tu non abbia null’altro da fare e da dire». O, peggio: che si tratti di parolai che la sparano per coprire i problemi.
Il dubbio e le certezze
In un’intervista rilasciata a metà marzo l’imprenditore diceva persino che i balneari avrebbero dovuto pagare di più per l’acquisto delle spiagge. Qui Briatore è ancora più caustico: «Mi deludono questi tanti parolai perché danno l’impressione di non azzeccarne una!». E parla delle priorità: «Sa che mio figlio Falco non conosce Patty Pravo? Falco nemmeno sa di Patty Pravo, che è una grandissima nella storia della canzone, figurarsi che ne sa e gliene frega dell’eccidio. Non per nulla, non è proprio interessato. Questi politici aprono bocca così, per levarsi di torno i problemi veri. Per esempio dare casa a chi non ne ha».
Ce l’ha in particolar modo con Ignazio La Russa: «Guarda che ti dico: penso che i politici non sappiano cosa sia il lavoro e non per colpa loro ma perché non hanno mai lavorato. Questa è la pura verità. Tutti: destra, sinistra eccetera. Dunque parlano di cose che non interessano per buttare la palla in tribuna». Mentre sul Pnrr «stiamo per fare una ciclopica figura di merda se, come leggo, rimandiamo indietro i soldi».
«…che a un certo punto si rompe i coglioni»
Purtroppo anche sul reddito di cittadinanza, per l’imprenditore, nulla è cambiato nonostante le riforme: «Macché, questi ragazzi hanno uno stile di vita strano, distante, diverso. Accettano di campare con poco (onestamente campano di merda, diciamocelo) ma non di fare lavori impegnativi, molte ore al giorno e avere un gruzzoletto rispettabile. Vogliono altro».
Al governo non c’è nessuno che conosca, dice, a parte Maurizio Leo: «Lì siamo al top, poi stop. Daniela Santanchè? S’è messa a lavorare e ha smesso di fare la prezzemolina in tv».
E gli altri? «Non conosco, non sono miei amici. Devono cambiare strada, parlare di meno. Lavorare, inventare, creare, semplificare. No burocrazia, no ostacoli, no parole vuote». Anche l’uomo del fare, conclude, «a un certo punto si rompe i coglioni. Buonasera».
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
ANCHE ELLY SCHLEIN AL SIT.IN DAVANTI AL TRIBUNALE: “IL PROCESSO DEVE ANDARE AVANTI”,,, OVVIEMENTE ASSENTI I SEDICENTI “PATRIOTI” A CUI L’ASSASSINIO DI UN GIOVANE ITALIANO ALL’ESTERO NON FREGA UN CAZZO
C’è anche la segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, al sit-in fuori dal tribunale di Roma, dove oggi è in programma la nuova udienza del Gup nel procedimento per la morte di Giulio Regeni.
“Siamo qui per dare un segnale di vicinanza alla famiglia di Giulio Regeni e alle tante persone che in questi anni non hanno mai smesso di chiedere verità e giustizia”, ha detto Schlein, abbracciando Paola e Claudio, i genitori del ricercatore assassinato a Il Cairo nel 2016. “Crediamo fortemente che questo processo debba andare avanti, debba essere fatto, e siamo qui con questa speranza”, ha aggiunto la segretaria dem.
Il processo vede imputati quattro 007 egiziani. Nell’ultimo anniversario del sequestro di Giulio Regeni, Schlein aveva accusato il governo di credere alla versione egiziana, nonostante le autorità de Il Cairo non abbiano mai aiutato a scoprire la verità. “Vogliamo verità e giustizia – aveva scritto la deputata del Pd in un post sui social – Assurdo che il governo creda alle false rassicurazioni egiziane. Non hanno mai collaborato né fornito gli indirizzi dei torturatori”.
Perché il processo Regeni è in stallo
Il processo è in stallo nonostante la Procura di Roma sia a conoscenza dei nomi dei quattro indagati, cioè degli esponenti dei servizi segreti egiziani accusati di aver rapito, torturato e ucciso Regeni. Le autorità de Il Cairo infatti non hanno mai fornito i loro indirizzi, necessari per poter notificare gli atti. Un passaggio fondamentale perché il procedimento prosegua. Se chi viene accusato, non sa di esserlo, non può infatti difendersi: proseguire con il processo senza che gli imputati abbiano la possibilità di difendersi, quindi, sarebbe una violazione dei loro diritti.
“Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abedal Sharif: siete a conoscenza del processo, presentatevi il 3 Aprile, alle ore 11, in udienza al Tribunale di Roma”, ha scritto sui social l’avvocata della famiglia Regeni, condividendo le foto degli accusati.
Da quando il cadavere di Giulio Regeni venne ritrovato, nella periferia della capitale egiziana, le autorità italiane e i familiari del ricercatore ucciso hanno sempre fatto molta fatica a ricostruire la dinamica di quanto accaduto, a causa dei continui insabbiamenti e depistaggi messi in atto dai servizi segreti egiziani.
Le accuse alle autorità egiziane
Le autorità de Il Cairo prima parlarono di un incidente stradale (nonostante il corpo del ricercatore mostrasse segni evidenti di tortura, tra bruciature di sigarette e coltellate) e poi di un omicidio per ragioni passionali e infine di un regolamento di conti nel traffico di droga. Le autorità egiziane, poco dopo l’assassinio di Regeni, affermarono di aver ucciso i responsabili durante una sparatoria. Dichiararono che si trattava di criminali specializzati nei sequestri di stranieri e dissero di aver ritrovato anche una borsa appartenuta al ricercatore nel luogo dello scontro armato con la banda.
Per gli inquirenti italiani, però, non si trattò che di un tentativo di depistare il corso delle indagini. Del resto, quella versione fu smentita qualche tempo dopo dalla stessa Procura de Il Cairo. Che però si rifiutò sempre di collaborare con quella di Roma.
Come stanno adesso le cose
Le indagini per l’omicidio di Giulio Regeni si sono concluse nel 2020 e l’anno seguente sono stati rinviati a giudizio quattro 007 egiziani: appunto il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Usham Helmi, e il maggiore Magdi Ibrahim Abedal Sharif. Sono accusati di sequestro di persona, lesioni personali gravissime (il reato di tortura, tanto discusso oggi, è stato introdotto nel codice penale solo in seguito a questo caso) e omicidio.
Senza poter notificare gli atti agli indagati, cosa che al momento risulta impossibile senza i loro indirizzi, però il processo è di fatto fermo. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi durante una visita a Il Cairo. E aveva raccontato di aver discusso con lui del processo: “Sia il presidente sia il ministro degli Esteri mi hanno assicurato la volontà dell’Egitto di rimuovere gli ostacoli che possono creare problemi. Non c’è stata, devo dirlo agli italiani, nessuna reticenza da parte egiziana”, aveva detto.
In merito a questi ostacoli e alla volontà egiziana, Tajani sarebbe dovuto comparire insieme alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni davanti al Gup. L’Avvocatura dello Stato, però, si è poi opposta alla decisione affermando che non si potessero divulgare i contenuti di quei colloqui bilaterali senza chiedere la disponibilità dell’altra parte coinvolta. Cioè dell’Egitto.
(da Fanpage)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“DOVEVA SOLO CONSEGNARE QUELLA STATUETTA, NON SAPEVA DELL’ESPLOSIVO”
Il marito della donna accusata dell’attentato che ha ucciso a
San Pietroburgo il giornalista militare russo Vladlen Tatarsky si è detto convinto che sia stata “incastrata”.
Dmitry Rylov, che non è in Russia, lo ha detto in un’intervista alla testata indipendente russa The Insider, ripresa da Cnn.
“Daria ha detto di essere stata incastrata, e io sono completamente d’accordo: nessuno se lo aspettava. Per quanto ne so, era necessario consegnare questa statuetta, in cui c’era qualcosa… Ne abbiamo parlato almeno due volte. Daria, in linea di principio, non è il tipo di persona che potrebbe uccidere qualcuno”, ha aggiunto Rylov.
Dmitry Rylov ha dichiarato che sua moglie è stata trattenuta nell’appartamento di un amico, anch’egli arrestato. “C’è un punto molto importante che mi ha ripetuto più volte: era sicura che questa cosa le avrebbe permesso l’accesso a una persona. Cioè, non era una cosa che sarebbe dovuta esplodere”, ha detto.
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
MA C’È ANCHE CHI EVOCA UN PIANO INTERNO PER ISOLARE LA BRIGATA WAGNER, CHE STA DIVENTANDO UNA SPINA NEL FIANCO DI PUTIN… IL RITRATTO: L’INFANZIA IN UCRAINA, L’ARRUOLAMENTO NELLA GUERRA DEL DONBASS, POI LA TRASFORMAZIONE IN PROPAGANDISTA PUTINIANO
Nato ucraino, cresciuto minatore, fattosi bandito, Maksim Fomin nella sua quarta vita è stato uno dei più accesi nazionalisti russi.
Come a voler cancellare la colpa di essere venuto al mondo a Makiivka, nella regione di Donetsk, al momento dell’invasione su larga scala è andato a combattere nel Donbass e, contemporaneamente, faceva il corrispondente di guerra per la Russia: 41 anni, blogger militare tra i più seguiti, ha animato con dibattiti al limite del delirio storico frequentatissimi canali su Telegram. Il primo, da mezzo milione di follower, è il suo personale.
Per più di un anno lo ha aggiornato con messaggi quotidiani firmati con lo pseudonimo Vladlen Tatarsky. Non un nome qualunque. Vladlen Tatarsky è il protagonista del libro culto “Generazione P” del visionario russo Viktor Pelevin, che racconta della fine dell’Unione Sovietica, dell’ingresso della società russa nel consumismo, di droghe e di mitologia mesopotamica.
Come l’alter ego letterario, anche il Tatarsky blogger considerava la Russia l’unico orizzonte possibile e plausibile. Di questa monolitica convinzione ha intriso i suoi diari di guerra. Gli ucraini lo consideravano tra i più influenti propagandisti di Mosca. E non tutti i russi lo apprezzavano. «È un ucraino che critica Putin, non dovrebbe avere questo successo », dicevano i detrattori.
Da giovane fatica in una miniera di carbone a Donetsk. Poco più che trentenne per una rapina in banca finisce in carcere a Gorlovka, da cui riesce a evadere grazie allo scoppio del conflitto nel Donbass.
È il 2014. Da latitante imbraccia il fucile e si unisce ai separatisti, per lui unica garanzia di impunità. Per due anni è in prima linea, in seguito entra in un’unità di intelligence. Accumula esperienza militare, come si capisce leggendo uno dei suoi canale Telegram, Rsotm (acronimo per Reverse side of the moon), dove a 354 mila follower fino a ieri spiegava tattiche di assalto e di difesa.
Nel 2019 si trasferisce a Mosca. Entra in contatto e posta foto con Darja Dugina, figlia del filosofo estremista Aleksandr Dugin, uccisa il 20 agosto scorso in un attentato.
Lo scorso settembre Putin lo invita alla cerimonia di annessione delle quattro regioni ucraine occupate. In quell’occasione registra un video, poi diffuso sui social, in cui dice: «Sconfiggeremo chiunque, uccideremo tutti, ruberemo tutti coloro a cui dobbiamo rubare. Tutto sarà come vogliamo noi. Andiamo, Dio ci assiste».
Fomin, alias Tatarsky, gravita nell’orbita di Evgeny Prigozhin e della Brigata mercenaria Wagner. Come il fondatore, si lamenta spesso del ministro della Difesa, delle operazioni militari condotte dallo Stato maggiore e dell’efficienza dell’arsenale russo. Inneggia al genocidio ucraino e invoca lo sterminio degli inermi. «Bisogna colpire le infrastrutture civili, in particolare le centrali elettriche».
L’ultimo messaggio è delle 15 di ieri. Fomin pubblica la foto di un enorme manifesto a Mosca che invita ad arruolarsi nella Brigata Wagner. Poco dopo, a San Pietroburgo il busto scolpito a sua immagine consegnatagli come regalo da una donna è esploso, uccidendolo al numero 25 di Universitetskaja naberezhnaja, dove nel weekend si riuniscono i cyber-guerrieri russi. Quel bar una volta era di Prigozhin.
Gli ucraini consideravano Tatarsky un bersaglio di alto profilo perché era un blogger da mezzo milione di follower che appoggiava una linea genocida, predicava che il massacro di Bucha era stato una scelta giusta perché aveva intimidito l’Occidente e che i soldati russi impegnati nell’invasione avevano il diritto di uccidere e saccheggiare.
In questi mesi di conflitto ci sono già state operazioni spettacolari compiute a sorpresa e molto in profondità nel territorio controllato dai russi – con un movente simbolico. Il 20 agosto una bomba ha ucciso vicino a Mosca Daria Dugina, figlia del propagandista russo Alexander Dugin
In quell’occasione, tra i possibili responsabili era stato fatto anche il nome di Kyrylo Budanov, il generale trentasettenne che dirige la Gur, l’intelligence militare dell’Ucraina. Il governo di Kiev aveva respinto l’accusa. Il 5 ottobre però il New York Times aveva pubblicato uno scoop che sosteneva, grazie a fonti dell’intelligence americana, che l’omicidio della Dugina fosse il risultato di un’operazione pianificata da un non meglio specificato settore del governo ucraino.
(da La Repubblica)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
POCO FA UN VIDEO DOVE L’ACCUSATA AMMETTEREBBE DI ESSERE L’ATTENTATRICE
Darya Trepova, 26 anni, è stata arrestata per l’esplosione che
ha ucciso il blogger militare Maksim Fomin, meglio noto con lo pseudonimo di Vladlen Tatarsky, a San Pietroburgo. La giovane è accusata di aver portato nel bar la scatola con il busto di Tatarsky in cui si nascondeva l’esplosivo. Secondo alcuni media Darya Trepova era stata precedentemente arrestata il 24 febbraio durante una manifestazione contro la guerra.
L’esplosione si è verificata al “Patriot Bar”, luogo di ritrovo del Kiberfront-Z, un’organizzazione patriottica, tra la Neva e l’università. Il locale sarebbe di proprietà di Yevgeny Prigozhin, capo del gruppo Wagner. Il gruppo Cyber Front Z, che sui social si autodefinisce «i soldati dell’informazione russa», ha rivelato di aver affittato il caffè per una serata dibattito dove lo stesso blogger avrebbe dovuto prendere la parola. «Agenti del Comitato investigativo, in collaborazione con i servizi operativi, hanno fermato Darya Trepova, sospettata di essere coinvolta nell’esplosione al caffè di San Pietroburgo», fa sapere sul suo canale Telegram il Comitato investigativo, citato dall’agenzia Ria Novosti.
Chi era Maksim Fomin
«C’è stato un attacco terroristico. Abbiamo preso alcune misure di sicurezza ma purtroppo non sono bastate», ha riferito il gruppo su Telegram. Secondo le prime informazioni nella statuetta si trovavano duecento grammi di Tnt. L’ufficio del procuratore del distretto Vasileostrovsky della città ha ordinato l’apertura di un’inchiesta. Vladlen Tatarsky (il vero nome è Maxim Fomin), 40 anni, era diventato noto all’inizio dell’invasione russa in Ucraina.
Pubblicava video quotidiani intitolati Vecherny Vladlen (Evening Vladlen) in cui analizzava l’andamento della cosiddetta operazione speciale, dando anche consigli tecnici alle truppe mobilitate. Tatarsky, seguitissimo sui social con oltre mezzo milione di follower su Telegram, aveva girato e postato un video della cerimonia al Cremlino dove il presidente russo Vladimir Putin ha pronunciato il discorso dell’annessione delle regioni ucraine di Lugansk, Donetsk, Cherson e Zaporizhzhia. In passato non aveva risparmiato critiche ai vertici militari russi dopo alcune disfatte subite e per l’inefficienza delle stesse truppe di Mosca.
La statuetta con l’esplosivo
«Probabilmente è stata una ragazza a portare nel locale l’ordigno che ha ucciso il blogger», ha riferito una fonte citata dall’agenzia russa Ria Novosti. Precisando che «c’era una statuetta nella scatola: un regalo destinato al signor Tatarsky». Il ministero degli Esteri russo ha reso omaggio al blogger. Kiev ha evocato la pista del terrorismo interno. Che sarebbe diventato «uno strumento di lotta politica», ha affermato il consigliere presidenziale Mykhailo Podolyak. E l’esplosione lascia aperti molti interrogativi.
In particolare sul ruolo assunto dallo stesso Tatarsky e da Prigozhin sullo sfondo del conflitto in Ucraina. E sulla guerra di potere che si combatte nella cerchia del Cremlino. Secondo il vice maresciallo dell’aeronautica britannica in pensione Sean Bell non ci sarebbero abbastanza dettagli per suggerire un mandante dietro l’esplosione. Quello di Tatarsky sarebbe il secondo assassinio programmato ed eseguito in Russia per la guerra in Ucraina dopo quello di Darya Dugina, figlia di Aleksandr Dugin.
Più utile da morto che da vivo
Il comitato investigativo russo ha aperto un procedimento per «omicidio commesso in modo generalmente pericoloso con l’accusa di reato ai sensi della parte 2 dell’articolo 105 del Codice penale russo». Anna Zafesova su La Stampa scrive oggi che Tatarsky era un militante del Donbass trasformatosi in blogger. In questo senso, secondo Zafesova, era «più utile da morto che da vivo». E nel canali Telegram si comincia a parlare anche di faide interne tra estremisti di destra russi per spiegare l’omicidio. Tatarsky doveva parlare ieri in un appuntamento a lui dedicato e pubblicizzato anche su Vk. Il locale veniva chiamato StreetFood Prigogine con indirizzo University Embankment 25. Il gruppo che aveva organizzato l’intervento si definisce anche Cyber Front Z e tiene ogni sabato dibattiti in quel bar.
La situazione tra Russia, Usa e Ucraina
L’attentato arriva in un momento in cui le forze di Mosca registrano difficoltà in Donbass, e la Russia è sempre più isolata sul piano internazionale. Tuttavia Washington mantiene un canale aperto con Mosca con il preciso obiettivo di liberare il giornalista del Wall Street Journal, Evan Gershkovich, accusato di spionaggio. Il segretario di Stato Usa Anthony Blinken, al telefono con il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, ne ha chiesto l’immediato rilascio. La risposta non poteva essere più secca: «Tocca a un tribunale decidere della sua sorte». A conferma del gelo persistente la portavoce di Lavrov Maria Zakharova si è scagliata contro l’Occidente per la sua mancata reazione alla morte di Tatarsky: è una cosa che «parla da sola, nonostante le loro preoccupazioni per il benessere dei giornalisti e della stampa libera».
(da Open)
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