Aprile 11th, 2023 Riccardo Fucile
RENZI CONVOCA I SUOI IN SERATA PER UNA RISPOSTA URGENTE
Se la malattia di Silvio Berlusconi e il futuro incerto di Forza Italia,
in un primo momento, avevano fatto pensare al Terzo polo come naturale approdo per molti azzurri, le tensioni tra calendiani e renziani agiscono da deterrente per eventuali transfughi liberali.
Il progetto di costruire un soggetto unico di centro, coagulando le risorse di Azione e Italia Viva, partiti oggi federati, rischia di partire già azzoppato. L’appuntamento del 10 giugno, data scelta per dare avvio al congresso, è evocato dagli esponenti più vicini a Matteo Renzi, che replicano ai dubbi dei dirigenti di Azione, fatti trapelare in anonimato sugli organi di stampa. «Facciamo il congresso e in quella sede discutiamo di tutto. Nei partiti democratici si fa così. Chi ha paura della democrazia?», afferma l’ex ministra Teresa Bellanova, dirigente di Italia Viva.
Il casus belli sembrerebbe essere la sostituzione di Ettore Rosato alla guida di Italia Viva. Posto che si sarebbe intestato Renzi in prima persona. All’Ansa, un alto dirigente di Azione spiega così la manovra: «L’unico problema dirimente oggi per la costruzione del partito unico dei liberal-democratici è che Renzi non vuole prendere l’impegno a sciogliere Italia Viva e a finanziare il nuovo soggetto e le campagne elettorali».
Seguendo la ricostruzione della persona vicina a Carlo Calenda, «Renzi ha sostituito a sorpresa Rosato alla guida del partito, per controllarne direttamente i soldi e la struttura. In questo modo ha delegittimato anche il comitato politico della federazione del Terzo polo, dove oggi non siede nessun rappresentante di Italia Viva in grado di prendere impegni. Calenda ritiene inaccettabile questo atteggiamento in quanto contrario agli impegni presi con gli elettori. Dopo mesi di tatticismi da parte di Renzi sul partito unico e le sue assenze dalle attività del Terzo polo per occuparsi di affari privati, a cui da ultimo si è aggiunto Il Riformista, la pazienza del gruppo dirigente di Azione si è esaurita». Sempre la stessa fonte sentenzia: «La pazienza del gruppo dirigente di Azione si è esaurita. In settimana si capirà se questo nodo si potrà sciogliere. Se così non sarà il partito unico non potrà nascere». Non si è insinuato un semplice dubbio nelle schiere calendiane: i rapporti tra gli esponenti dei due partiti sembrano ormai tutti basati sul sospetto. Il capogruppo del Terzo polo alla Camera, Matteo Richetti, esce allo scoperto: «Renzi deve decidere se nella vita fa politica o informazione. Quando telefona Renzi mi parla del partito o mi intervista per il Riformista?».
Il deputato iscritto ad Azione appare certo che la guida del nuovo partito, benché si tratti di un ruolo politico contentidibile, sarà di Calenda: «Una leadership l’abbiamo messa in campo. L’abbiamo scritta anche nel simbolo e la sosteniamo con ancora più forza. È giusto che quando si fanno i partiti, i partiti siano aperti, contendibili. Chi vuole sfidare Calenda lo sfiderà. Che Renzi faccia il direttore de il Riformista è una notizia per i lettori de il Riformista, non per gli elettori del Terzo polo». Questa serie di dichiarazioni da parte del gruppo dirigente di Azione innesca la batteria di risposte dei vertici di Italia Viva. Il deputato Davide Faraone, in una nota, accusa direttamente il leader di Azione: «Stiamo aspettando che Calenda convochi il tavolo di lavoro delle regole, stiamo aspettando che Calenda convochi il comitato politico, stiamo aspettando che Calenda spieghi come candidarsi al congresso. I tatticismi sono tutti di Calenda, non di Renzi. Meno male che dal 10 giugno si vota in modo democratico». Il senatore Ivan Scalfarotto, invece, si rivolge a Richetti: «Leggiamo che ha dubbi sulle scelte di Renzi. Prima gli chiedono il passo indietro, poi non sono convinti. Fortunatamente con il 10 giugno parte il congresso del partito unico e tutti i dubbi saranno sciolti nel fisiologico gioco democratico». «Il problema non è se si scioglie Italia Viva, l’impressione è che si stia sciogliendo Azione per le proprie divisioni interne. Meno male che arriva il 10 giugno parte il congresso» attacca Luciano Nobili, Consigliere regionale in Regione Lazio e dirigente di Italia Viva.
Infine, i due portavoce nazionali del partito, Alessia Cappello e Ciro Buonajuto, diramano un comunicato contro le affermazioni dei dirigenti di Azione e i presunti malumori tra i calendiani. «Non c’è nessun tatticismo di Italia Viva. Abbiamo deciso di fare un congresso democratico in cui ci si confronti a viso aperto e non con le veline anonime. Ci sono le date già fissate, ci sono le regole decise da Calenda comprese quelle sul tesseramento, ci sono i gruppi di lavoro con i nomi già decisi, c’è il comitato politico. Noi siamo pronti al congresso che Calenda ha chiesto di fare. E ci mettiamo nome e cognome. C’è qualcuno che cambia idea una volta al giorno, ma quel qualcuno non siamo noi. Quanto a Renzi: gli è stato chiesto di fare un passo indietro, lo ha fatto. Adesso possiamo fare il congresso democratico anziché inviare veline anonime?». I nervi, ormai, sono scoperti. Verso ora di pranzo di oggi, 11 aprile, Renzi convoca una riunione al Senato per i suoi parlamentari e consiglieri regionali. L’Ansa riporta qual è il ragionamento che ripeterebbe ai suoi, in queste ore, Renzi: «Abbiamo accettato tutte le richieste di Azione. Tesseramento, tempi del congresso, mio passo indietro, nome di Calenda sul simbolo, soldi. Adesso andiamo avanti e si faccia il partito unico e il congresso. Se Calenda ha cambiato idea, lo dica. Secondo me è un errore politico ma chi vuol far saltare il partito unico si assumerà la responsabilità».
(da agenzie)
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Aprile 11th, 2023 Riccardo Fucile
LA MELONI PUNTA A FARE L’EN PLEIN SULLE NOMINE, E FA INDISPETTIRE ANCHE I MEMBRI DI FRATELLI D’ITALIA. IN PRIMIS IL MINISTRO DELLA DIFESA, GUIDO CROSETTO, CHE HA LOTTATO PER AFFIDARE A LORENZO MARIANI LA POLTRONA DI AD DI LEONARDO, DOVE INVECE LA MELONI VUOLE PIAZZARE CINGOLANI. MA ANCHE IL COGNATO LOLLOBRIGIDA RIMANE A BOCCA ASCIUTTA
La grande partita delle nomine al vertice di Eni, Enel, Poste, Leonardo e Terna si sta per chiudere e non senza tensioni. Giorgia Meloni è al suo primo test al grande tavolo del potere e la prova di forza della leader sta mettendo sotto pressione i partiti. Pasquetta nervosa, senza tavoli né vertici, ma con colloqui telefonici in vista degli incontri di oggi a Palazzo Chigi.
Giorgetti e Salvini, che temono di restare con le briciole nel piatto, si sono parlati dal vivo e puntano a ottenere almeno la presidenza dell’Eni. Il ministro dell’Economia deve partire in tarda serata per una missione al Fmi e vuole salire sul volo di Stato per gli Usa con l’accordo in tasca, magari dopo aver firmato la lista.
In cima c’è Claudio Descalzi, inamovibile come ad di Eni. Il secondo nome è ancora un punto interrogativo e l’unica certezza è che il presidente del cane a sei zampe «proverà a indicarlo Salvini». Purché, avvertono ai piani alti del governo, «sia un profilo di assoluto standing».
Gli alleati sono in sofferenza, prova ne siano i colloqui tra Salvini e Gianni Letta. Meloni invoca «competenza», ha preteso l’ultima parola su tutti i profili dei manager e punta a fare il pieno, cinque ad su cinque, a dispetto dei desiderata della Lega. Fonti di governo confermano che «Giorgia è irremovibile, non ascolta nemmeno i ministri di Fratelli d’Italia».
Ne sa qualcosa Francesco Lollobrigida, che non è riuscito a imporre Maurizio Ferrante alle Poste. E ne sa più di qualcosa Guido Crosetto. Il co-fondatore di FdI pensava di aver convinto la leader ad affidare la poltrona più importante di Leonardo a Lorenzo Mariani, ceo di Mbda Italia.
Invece sembra proprio che il ministro della Difesa abbia dovuto arrendersi e che non sia affatto contento. Dopo aver promesso a Crosetto che sarà ricompensato con «cose altrettanto importanti», Meloni ha scelto per sostituire l’ad Alessandro Profumo l’ex ministro del governo Draghi, Roberto Cingolani, consulente di Palazzo Chigi per l’emergenza energetica.
In tempi di guerra Leonardo è cruciale e anche il presidente deve essere gradito a Meloni, al Quirinale e ai Servizi. In pole c’è il generale Giuseppe Zafarana, che lascia il comando della Guardia di finanza. La battaglia per la successione già infuria e vede al duello finale Andrea de Gennaro e Fabrizio Carrarini.
Enel è un caso. Al posto di Francesco Starace, Meloni è determinata a promuovere come ad Stefano Donnarumma, ora in Terna, nonostante la contrarietà iniziale di Salvini e Giorgetti.
La seconda ragione per cui i riflettori sono puntati su Enel è l’opportunità di affidare il ruolo di presidente a Paolo Scaroni , [per il quale Silvio Berlusconi, prima del ricovero, si è speso con forza attraverso Gianni Letta e Antonio Tajani. Ma Meloni starebbe valutando per la presidenza anche Luciano Carta, ora in Leonardo. La premier è tra coloro che rimproverano a Scaroni l’accordo con Gazprom e i rapporti passati con Putin e potrebbe proporre al presidente del Milan un incarico di minore visibilità.
(da agenzie)
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Aprile 11th, 2023 Riccardo Fucile
LA SUA PRIORITA’? METTERE IN SICUREZZA LE AZIENDE, TAGLIANDO I RAMI SECCHI: PRIMA LA CESSIONE DE “IL GIORNALE”, POI FORZA ITALIA PORTATA IN DONO ALLA MELONI E IN FUTURO LA VENDITA DI MEDIASET AI FRANCESI DI VIVENDI
Della discesa in politica di Marina si parla ogni volta che per Silvio
Berlusconi sembra finita, per ragioni giudiziarie o di salute. L’ineluttabilità del passaggio di testimone dal padre alla figlia è diventato ormai un luogo comune della politica […] Sulla carta sembrerebbe la soluzione giusta per una epopea politica che ha fatto del culto della personalità il suo tratto distintivo: secondo le leggende di Arcore, la primogenita è quella che somiglia di più al padre, per piglio leaderistico più che per carattere. Per un partito personale che funziona quasi come una corte medievale, la successione dinastica sarebbe tutt’altro che fuori luogo.
Lei, Marina, ha pubblicamente sempre smentito. L’ultima volta, seccamente, nel 2017 con un comunicato stampa. Anche allora si immaginava che il Cavaliere rinunciasse all’ennesimo giro di valzer in campagna elettorale. «Non è mai stata presa in considerazione né da me né da mio padre e la smentisco ancora una volta nel modo più categorico», ha scritto lei, aggiungendo che «proprio per il grande rispetto e la concezione stessa che ho della politica ritengo che la leadership in questo campo non si possa trasmettere per investitura o per successione dinastica».
Sei anni dopo la saga dell’erede di Arcore continua ad essere più viva che mai. La prima vera occasione in cui il nome di Marina è sembrato la soluzione inevitabile è stata alla vigilia della prima e unica sentenza di condanna che ha colpito il Cavaliere.
L’ultimo governo Berlusconi si era drammaticamente concluso, nel 2011, Alle elezioni del 2013, il Cavaliere si era presentato sull’onda del suo ultimo colpo di teatro: prima il sì e poi il no alle primarie dell’allora Popolo delle Libertà. Poi la svolta del predellino, con l’annuncio della rifondazione di Forza Italia.
Poco dopo, però, sul Cavaliere cala la scure giudiziaria: il 1 agosto del 2013 il leader era senatore da pochi mesi e arrivò la condanna in via definitiva per frode fiscale, nell’ambito del cosiddetto processo Mediaset. Doveva essere il colpo di grazia: una condanna penale con affidamento in prova ai servizi sociali e la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Ma soprattutto l’onta della decadenza da senatore per colpa di quella legge Severino approvata dal governo dei professori
.È allora che le voci su Marina si fanno più insistenti che mai. In un agosto infuocato iniziano i retroscena sulla stampa, con il racconto di un tavolo di guerra tenuto ad Arcore con tutti i vertici aziendali proprio come nel 1994 e il casting per selezionare una nuova generazione politica, e le dichiarazioni dei generali del PdL. Marina, dopo 14 giorni di silenzio ricorre a una nota: «Dal momento che ogni mia dichiarazione non è servita finora a fermare le voci su una possibile candidatura, devo ribadire ancora una volta, e nel modo più categorico, che non ho mai preso in considerazione l’ipotesi di impegnarmi in politica».
La suggestione, però, rimane sempre lì. Anche perché lei è sempre un passo dietro al padre . Chi frequenta Arcore, poi, sa che è Marina ad essere il baricentro della vita del Cavaliere e lo è diventata nella data spartiacque del 2008, anno della scomparsa della madre Rosa. Con la sua morte Marina ne ha preso il posto. Da allora è stata lei a gestire l’alternarsi delle fedelissime ad Arcore, da Maria Rosaria Rossi a Licia Ronzulli, ma anche a dare il placet alle fidanzate, da Francesca Pascale fino a Marta Fascina.
Anche se pubblico il profilo di Marina rimane avvolto nel mistero. Di lei si conosce una biografia cesellata dagli uffici stampa e una manciata di interviste attente a non dire una parola di troppo. Maria Elvira detta da sempre Marina, primogenita di Berlusconi e della sua prima moglie, la spezzina Carla Elvira dall’Oglio, è nata a Milano nel 1966.
Chi la conosce sostiene che del padre abbia ereditato soprattutto il carattere fumantino e il decisionismo, dalla madre invece l’estrema riservatezza. Poco si conosce nel dettaglio anche della giovinezza di Marina. Si sa che non è mai arrivata alla laurea, dopo due cicli di studi – in giurisprudenza e scienze politiche – abbandonati al primo anno e mai portati a termine.
La sua è stata un’istruzione domestica: destinata alla vita nell’azienda di famiglia, il padre le affiancò come mentore Fedele Confalonieri. Il destino è quello di cominciare presto la gavetta nelle aziende di famiglia, ma che parte subito dall’alto. A 22 anni consigliere d’amministrazione della Standa. Nemmeno trentenne, poco dopo la trionfale discesa in campo di Berlusconi nel 1994, Marina assume la carica di vicepresidente di Fininvest (di cui oggi è presidente) e poi, nel 2003, della Mondadori.
Due figli nati dal matrimonio con il primo ballerino della Scala, Maurizio Vanadia. Dal lunedì al venerdì nel suo studio all’ultimo piano del palazzo di Segrate – dove si dice che arrivi molto presto la mattina ma in pochi ammettono di averla davvero incontrata – il fine settimana dedicato alla vita domestica e al suo buen retiro in Provenza. Marina ha attentamente costruito la sua immagine pubblica di manager con una precisa campagna di stampa. Dai primi anni, la sua ombra è stata l’ex giornalista di Panorama Franco Currò, oggi a capo della comunicazione di Fininvest.
Proprio lui sarebbe il suggeritore, come ghostwriter, delle sue interviste. Tutte rigorosamente scritte e nessuna televisiva. Il segreto peggio custodito di Arcore – e forse la prima ragione per cui una discesa in campo di Marina è difficilmente immaginabile – è infatti la terribile timidezza di Marina. Un limite, questo, che le impedisce di parlare in pubblico e che le renderebbe impossibile replicare quella che è stata la cifra comunicativa del padre. Nessuno, infatti, ne conosce la voce.
Proprio questo difetto sarebbe stato vissuto come un dramma privato da Marina, così legata al mito del padre, ma anche ragione di scontri e invidie con la sorellastra Barbara.
Proprio con lei, figlia di secondo letto di vent’anni più giovane, Marina ha avvertito più forte la rivalità, sia per ragioni ereditarie che personali. La disputa tra le due ha fatto tremare i muri di Arcore nel 2009 – era il periodo dello scandalo Ruby e della separazione di Silvio dalla seconda moglie Veronica Lario – quando Barbara tentò di strapparle la poltrona al vertice di Mondadori, a cui aspirava anche nell’ottica di riequilibrare i rapporti tra fratelli, e che Marina ha difeso strenuamente. Silvio, per calmare gli animi senza umiliare la primogenita, dirottò Barbara verso il consiglio d’amministrazione del Milan.
Ad acuire la tensione c’è stato però anche il fatto che Barbara è l’unica tra i Berlusconi di cui qualcuno si è azzardato a ipotizzare l’attitudine per la successione politica. Le due hanno poco in comune. Timida e introversa Marina, esuberante e solare Barbara, cinque figli con due compagni diversi e flirt da copertina con vip, come quello con il calciatore del Milan Alexandre Pato . Chi l’ha vista crescere ne ricorda anche le frequentazioni giovanili coi figli di Ignazio La Russa e Giulio Tremonti, il suo padrino di battesimo fu l’ex leader socialista Bettino Craxi.
In quel 2013 della condanna definitiva di Berlusconi, anche di Barbara si iniziò a fare il nome come erede. Al netto dei diversi tratti caratteriali e all’attitudine alla leadership, però, il vero timore di tutti i figli e in particolare di Marina sarebbe uno: «La persecuzione giudiziaria del padre l’ha segnata profondamente: ha visto cosa gli hanno fatto i tanti processi dal 1994 ad oggi», dice un ex parlamentare azzurro. La convinzione di Marina, infatti, sarebbe che una nuova discesa in campo significherebbe rimettere le aziende di famiglia nel mirino della “magistratura rossa”. Da manager quale è, lei ragiona in termini di utili e perdite.
Oggi Forza Italia è considerato un asset improduttivo e piuttosto costoso, visto l’indebitamento per 90 milioni garantito da due fideiussioni personali di Silvio. Ma soprattutto, secondo i figli, sarebbe una sorta di veleno per il padre, ancora ammalato di politica . Per questo, l’obiettivo della figlia è quello di rendere produttiva la politica, trattando Forza Italia come le altre società del gruppo, ma senza che possa più nuocere alla sua famiglia.
A questo sarebbe servita la svolta governista del mese scorso, orchestrata con il placet del vicepremier Antonio Tajani e l’aiuto del braccio in parlamento della compagna Marta Fascina. La primogenita ha così allacciato un contatto diretto e personale con la premier Giorgia Meloni, con cui le telefonate sono diventate più frequenti, e ha riportato al tavolo delle trattative coperte Gianni Letta. Ma soprattutto ha negoziato anche il passo successivo, che non avverrà in tempi brevi ma che è già pronto e nasce dalla valutazione dell’attuale scenario interno a Forza Italia.
Il partito è diviso in tre: alcuni singoli, il blocco capitanato da Ronzulli che guarda verso la Lega; la compagine di maggioranza guidata dal duo Tajani-Fascina, che invece è orientato verso Fratelli d’Italia.
Tutti e tre i gruppi, tuttavia, hanno un problema: nessuno è portatore di consenso elettorale. «Questo li rende radioattivi: in qualsiasi partito vadano saranno malvisti, perché occuperanno posti senza portare voti», è l’analisi di un ex azzurro. Secondo fonti interne a FI, la via d’uscita contrattata da Marina sarebbe quella di una aggregazione almeno della compagine di maggioranza dentro il partito di Meloni, in cambio dello stop alla belligeranza dentro al centrodestra.
Il futuro di Forza Italia, tuttavia, è solo uno dei pensieri di Marina, il passaggio e la sopravvivenza dalla prima alla seconda generazione, con figli cresciuti all’ombra dell’ego ingombrante dei genitori e a cui il testimone viene passato tardi. Se la famiglia Agnelli ha sempre avuto come regola non scritta che la guida sarebbe stata mantenuta da un solo erede designato dal patriarca, per il clan Berlusconi un argomento tabù tanto quanto la leadership di Forza Italia è la futura divisione ereditaria degli asset .
«La chiave per capire il futuro è la vendita del Giornale», questo stesso futuro toccherà a breve anche per Mediaset – ora MediaforEurope con sede in Olanda – per cui sarebbe già pronto come acquirente il francese Vincent Bollorè. Proprio sullo smembramento di Mediaset si gioca quell’eredità di cui Marina rappresenta solo un quinto. La televisione di famiglia, che è progressivamente sempre più debole sul piano industriale, era un asset fondamentale e inscindibile dalla stessa Forza Italia, di cui è stata strumento di propaganda.
È invece presente e attuale il problema della futura spartizione tra i cinque figli di un colosso in difficoltà e ormai sempre più minoritario rispetto al core business della holding. Mantenendo la proprietà di Mediaset e dividendone le quote alla pari, i due figli di primo letto sarebbero in minoranza rispetto agli altri tre, è il grande non detto. Anche per questo ha iniziato a farsi strada in modo sempre più forte l’ipotesi della vendita e conseguente liquidazione pro quota, così che ognuno possa finanziare le proprie singole ambizioni imprenditoriali all’interno del gruppo, senza aprire lotte fratricide.
(da Domani)
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Aprile 11th, 2023 Riccardo Fucile
ABBIAMO OTTENUTO GRAZIE A CONTE DUE 208 MILIARDI DI RECOVERY FUND, ORA TRA RICHIESTE DI DILAZIONI E RINVII CI PRENDONO TUTTI PER IL CULO… MACRON FA AFFARI MILIONARI CON LA CINA, A VANTAGGIO DELLA FRANCIA, E NOI PENSIAMO AL PONTE SULLO STRETTO
Stiamo riuscendo a fare una figura di palta, cosa che peraltro non ci è mai stata difficile, in Europa e davanti all’intera Europa.
A luglio del 2020 l’Italia era riuscita a ottenere per il Recovery Fund – grazie al dileggiatissimo governo Conte (due), con l’aiuto determinante di Angela Merkel, che aveva messo a sedere i cosiddetti Paesi “frugali” che, non senza qualche buona ragione, diffidavano – circa 209 miliardi di cui 81,4 a fondo perduto e i restanti 127,4 in prestiti agevolati, più di qualsiasi altro Paese europeo.
Le cose si sono messe male fin dall’inizio. Probabilmente Draghi non aveva fatto bene i conti, che dovrebbe essere il suo mestiere, non conoscendo che ne abbia mai fatto un altro. Siamo stati quasi subito costretti a chiedere a Bruxelles dilazioni per i progetti che avevamo presentato e che dovevano essere eseguiti e completati entro il 2026, e anche una maggiore flessibilità perché risultava che alcuni progetti erano del tutto inattuabili e dovevano essere quindi riconvertiti.
La Commissione europea si era messa sul chi va là quando aveva visto che parte dei quattrini del Recovery era destinata alla riqualificazione o al rifacimento degli stadi di calcio di Firenze e Venezia. Sulla necessità di questi lavori una domanda avremmo dovuto forse porcela noi prima degli altri, ma in Italia c’è un certo fanatismo, soprattutto da parte delle cosiddette destre, per le “grandi opere”, vedi il ponte sullo Stretto di Messina che non è compreso nel Recovery ma che Salvini ritiene inderogabile (ma che cosa abbiamo fatto di male per avere costui?), nonostante le centinaia di milioni spese per progetti sul ponte che si sono già rivelati impossibili, e urgentissimo, come se in Calabria e soprattutto in Sicilia non ci fosse la necessità di adeguare il sistema ferroviario e stradale prima di tutto il resto. Ma questi sono lavori minori, meno appetibili dalle mafie locali, in stretto legame con l’intero sistema mafioso nazionale (la Mafia propriamente detta e gli imprenditori “collusi”), mentre sulle “grandi opere” il ricavo può essere molto succulento.
In Europa non ci caga più nessuno, pur essendo l’Italia, insieme alla Germania e alla Francia, uno dei Paesi fondatori della stessa idea di Unione europea. Nella considerazione collettiva siamo stati superati anche dalla Spagna, che con il governo socialista di Sanchez ha introdotto una seppur limitata patrimoniale e ha preso importanti provvedimenti per limitare l’utero in affitto che, secondo la ministra dell’Uguaglianza Irene Montero, è un cinico sfruttamento del corpo della donna (“una violenza contro la donna” per usare le sue parole).
Nel febbraio scorso Macron e Scholz si sono incontrati a cena a Parigi con Zelensky per convincerlo ad arrivare a un accordo con la Russia. Italia non pervenuta. Recentemente in Cina, dopo Sanchez, c’è andato Macron, con una cinquantina di imprenditori al seguito, per concludere ottimi affari, attraverso il governo di Xi, in quella enorme area geografica che è diventata attraente anche per gli occidentali perché anche in Cina è arrivato il capitalismo, sia pure un capitalismo di Stato.
E questa è un’occasione che abbiamo perso, perché era stato proprio il governo Conte attraverso il bistrattatissimo ministro degli Esteri Luigi Di Maio ad aprire l’Italia alla “via della seta”. Naturalmente poi non se ne è fatto nulla per il niet degli Stati Uniti a cui Draghi è stato sempre appecoronato (questo è il suo vero lavoro). E ora pare che Meloni &C. vogliano addirittura disdettare gli accordi ddi Conte e Di Maio.
Però lo sforzo di “Giuseppi” e “Giggino” non è stato del tutto infruttuoso, visto che i giornali cinesi affermano che tra i Paesi occidentali l’Italia è quello che va meno criticato perché ha sottoscritto “la nuova via della seta” (Belt and Road Initiative). Insomma, svillaneggiati in Europa, potremmo trovare un qualche rifugio à côté della Grande Muraglia.
Massimo Fini
(da il Fatto Quotidiano)
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Aprile 11th, 2023 Riccardo Fucile
DOPODICHÉ È STATA NEGOZIATA LA LETTERA AL “CORRIERE DELLA SERA”. DA CHI? DALLA STESSA SILVESTRI O DA LIVELLI PIÙ ALTI DEL PARTITO, O ADDIRITTURA DEL GOVERNO?… “IL FATTO”: “IL TEST DI PATERNITÀ ORA APPARE UNA SCELTA IMPOSTA E NON DECISA AUTONOMAMENTE. È COSÌ?
Con la circospezione per quel quid che lo sta trasformando da
pettegolezzo a pasticcio politico, compare nella scena obliqua di una gravidanza sospetta anche Giorgia Meloni.
Secondo Dagospia, che riporta la notizia con un sintetico ma eloquente flash, la premier un mese fa avrebbe convocato la deputata Rachele Silvestri, protagonista sua malgrado, del più sapido e immortale dei pettegolezzi di Palazzo: love story con uomo influente e politico di FdI in ascesa, con figliolanza concepita alla vigilia della più impegnativa e vittoriosa campagna elettorale della destra, tanto da richiamare test del Dna annunciato in prima pagina sul Corriere
Dunque, riferisce Dagospia, la convocazione urgente a palazzo Chigi per appurare esattamente l’itinerario sentimentale della neomamma. “Le ho detto e ripetuto che erano tutte calunnie”, riferisce sempre Dagospia affidando alla voce della Silvestri quel che è la verità.
Nessun coinvolgimento di nessuno, men che meno di colui che è stato chiamato, secondo i boatos, fin dall’inizio sul palcoscenico: Francesco Lollobrigida, nome forte di Fratelli d’Italia. Il ministro cognato, il marito di Arianna, la sorella plenipotenziaria della presidente del Consiglio.
Giorgia, Ary e Lollo sono il trittico che è insieme radice e destino del partito, forma organica della virtù e della via della destra nazionale oggi formazione di maggioranza relativa. Loro tre decidono governo e sottogoverno. Un partito-famiglia che ora, con le elezioni vinte, sviluppa i crismi del cosiddetto partito-Stato, come ai tempi della Dc.
§Il Fatto naturalmente ha chiesto a Palazzo Chigi di commentare, confermare oppure smentire la notizia resa pubblica dal sito web: purtroppo nessun cenno di riscontro.
La verità provvisoria dunque condurrebbe a una seconda ghiotta indiscrezione: la scelta di scrivere la lettera al Corriere della Sera con la quale la deputata ha ritenuto di chiudere la vicenda annunciando di essersi sottoposta all’esame del Dna a smentita di ogni altro padre oltre al suo amato e legittimo compagno Fabio, sarebbe frutto di un negoziato ai più alti livelli.
Il condizionale è d’obbligo come tutto in questa vicenda
Dunque tutto il resto solo polvere soffiata dalle malelingue al punto da far vergare a Rachele, neomamma, deputata e donna disperata, l’estrema difesa contro i facitori di questo fango: il test di paternità. Che ora appare però una scelta imposta e non decisa autonomamente, subìta e non accettata, a cui la donna si è piegata acconsentendo per disciplina. È così?
Intervistato alcune settimane fa dal Corriere, il ministro Lollobrigida ebbe la fortuna di non dover rispondere a nessuna domanda relativa all’affaire. E oggi il mondadoriano Chi ripropone ai lettori sempre la figura del ministro nel racconto gentile e generoso di un uomo del fare, che organizza il pranzo agli italiani con una fatica bestiale: resistere alla carne sintetica. Come va in famiglia? “Con le mie figlie faccio campeggio nei boschi”. L’intervista finisce. Al prossimo picnic.
(da Il FattoQuotidiano)
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Aprile 11th, 2023 Riccardo Fucile
NEGLI USA PER ACCEDERE AI BENEFICI L’IMPUTATO DEVE DICHIARARSI COLPEVOLE, DA NOI CHI PATTEGGIA PUO’ CANDIDARSI COME NULLA FOSSE
Quando fu varato il Codice di procedura penale del 1988 (entrato in vigore nel 1989) suscitò molte perplessità perché, all’evidenza, avrebbe quantomeno triplicato la durata dei processi.
La risposta dei fautori di quel codice fu che la maggior durata sarebbe stata compensata dal fatto che riti alternativi come patteggiamento (che in Italia si chiama applicazione di pena) e giudizio abbreviato (che funzionava sostanzialmente come il processo del codice precedente), comportando una riduzione di pena (fino a un terzo il patteggiamento, di un terzo il giudizio abbreviato), avrebbero ridotto di molto il numero di processi da celebrare con il rito ordinario, certamente più lento. Si indicava come esempio quanto avveniva negli Stati Uniti d’America, dove solo il 4 % dei processi venivano svolti con il “trial jury” (quello che si vede nei film). Insomma, il nuovo processo poteva funzionare solo se pochi imputati lo sceglievano.
In un Paese come il nostro dove nei cinquant’anni precedenti vi erano stati 35 provvedimenti di amnistia e indulto (uno ogni anno e mezzo circa), l’ipotesi era illusoria: se bastava aspettare un anno e mezzo per ottenere un provvedimento di clemenza, perché patteggiare o chiedere il giudizio abbreviato? Ovviamente, è meglio nessuna pena che una pena ridotta.
Per questo fu cambiata la Costituzione, introducendo una maggioranza di due terzi dei voti in Parlamento per varare provvedimenti di clemenza. A parte il fatto che, comunque, alcune amnistie e indulti furono comunque approvati, tali provvedimenti furono sostituiti dalla prescrizione dimezzata, vanificando la speranza di far funzionare i riti alternativi.
Infatti, in tutti i casi di esercizio dell’azione penale, nell’udienza preliminare si è fatto ricorso all’abbreviato solo nel 15% dei casi e al patteggiamento nel 12%, mentre nel dibattimento l’utilizzo di ambedue i riti è stato registrato nel solo 6% dei casi; la percentuale di riti abbreviati rispetto al numero dei processi celebrati con quello ordinario fu del 4,9% nel 2016 ed il 3,8% nel 2017. Ovviamente il sistema processuale penale è imploso e la durata dei procedimenti è divenuta insostenibile.
Nella speranza di far funzionare il patteggiamento, in tale scelta non era (e non è) previsto che l’imputato si dichiari colpevole del reato per cui la pena gli viene applicata. Si tratta di un’autentica stravaganza, dal momento che la libertà non è un diritto disponibile. Se uno potesse chiedere o accettare una pena detentiva senza essere colpevole, potrebbe anche vendersi come schiavo. Ma i nostri sedicenti garantisti non si accorgono di questa enormità. La ragione infatti è quella di consentire a chi patteggia di evitare le conseguenze della colpevolezza.
Così, anche per successive modifiche (e da ultimo quelle contenute nel Decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 155, la “riforma Cartabia”), nell’art. 445 comma 1-bis del Codice di procedura penale si legge questa perla: “La sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.
Per chiarire: uno può patteggiare una pena detentiva, ma ciò non significa che abbia ammesso alcuna responsabilità, per cui il tempo che si risparmia nel procedimento penale, si perderà (moltiplicato) nei procedimenti “civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile”.
Negli Stati da cui crediamo di aver copiato il rito accusatorio, l’imputato deve dichiarare se è colpevole o non colpevole. Solo se si dichiara non colpevole si fa il processo, con giuria, salvo che rinunzi alla stessa. Negli Usa il 90% degli imputati si dichiara colpevole.
Il Ministero dell’Interno, Direzione Centrale per i Servizi Elettorali, ha richiesto all’Avvocatura dello Stato un parere in ordine al fatto se l’inciso: “Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna” incidesse sulla ineleggibilità di chi avesse patteggiato.
La Direzione Centrale citata ha condiviso il parere dell’Avvocatura dello Stato e ha ritenuto che “la disposizione di cui al decreto di attuazione della Legge cd. Severino (art. 15, comma 1) in materia di incandidabilità, che equipara la sentenza prevista dall’art.444, comma 2, c.p.p. alle sentenze di condanna, stante appunto la natura non penale della predetta legge, non produce più effetti: si tratta, evidentemente, di un caso di abrogazione tacita operata dal d.l. n. 162/2022, convertito in legge, che dispone l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2022”.
Peraltro, con la riforma Cartabia, anche le pene accessorie sono divenute negoziabili e quindi non verranno applicate.
Così, in questo nostro straordinario Paese, uno può patteggiare una pena detentiva ed essere candidato ed eletto a cariche pubbliche.
Ovviamente, nel caso in cui la pena non sia condizionalmente sospesa (come accade per chi ha già riportato precedenti condanne) e colui che patteggia non ottenga benefici penitenziari, come l’affidamento al servizio sociale, se eletto potrà chiedere permessi per uscire dal carcere per svolgere tali pubbliche funzioni. Fantastico!
Se qualcuno pensa che, almeno così, molti patteggeranno si illude, queste cose riguardano i colletti bianchi e – in Europa – l’Italia ha il più basso numero di processi e quindi di condanne (comprese applicazioni di pena) per appartenenti alla classe dirigente.
Evidentemente i nostri legislatori non hanno il senso del ridicolo o, forse, non sanno quello che fanno. Oppure lo sanno, ma non si vergognano.
Piercamillo Davigo
(da il Fatto Quotidiano)
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Aprile 11th, 2023 Riccardo Fucile
UNO SPECCHIETTO PER LE ALLODOLE, IL REATO E LE PENE CI SONO GIA’ E SONO ANCORA PIU’ SEVERE… I SOVRANISTI PENSINO A DIFENDERE L’AMBIENTE INVECE CHE MANGANELLARE CHI LO DIFENDE
L’agenda talk-show della maggioranza e dell’opposizione dopo la
pausa pasquale si arricchisce di nuovi capitoli. Per la maggioranza una nuova norma contro gli eco-vandali e gli imbrattatori di monumenti, per l’opposizione la riedizione della proposta di matrimonio egalitario sotto l’egida del nuovo responsabile Pd dei diritti Alessandro Zan.
Sono argomenti entrambi ottimi per perimetrare le rispettive identità e per litigare in televisione. Consegneranno un palinsesto perfetto all’infotainment delle prossime settimane che certo non può fare ascolti con cose noiose come il Def, il Piano nazionale di ripresa e resilienza o le nuove regole europee che impongono ai datori di lavoro di indicare il salario che offrono negli annunci di ricerca di personale.
Nessuno, per carità, vuole sminuire il valore o l’urgenza delle battaglie che da sei mesi marcano la differenza tra destra e sinistra, ma forse è lecito dire che dal decantato ritorno della politica, dopo la lunga parentesi tecnica, ci si aspettava di più e di meglio dello scontro di margine avviato con il primo provvedimento post-elettorale, il famoso e incasinatissimo decreto contro i rave.
L’ultima proposta-bandiera firmata da Fratelli d’Italia è un ddl che intercetta la pubblica indignazione per le azioni degli ultras ambientalisti contro la Primavera di Botticelli (due attivisti si incollarono le mani al vetro che la protegge), la facciata di Palazzo Vecchio (vernice spruzzata sulle mura) o la Barcaccia di Piazza di Spagna (colorante nero versato nella fontana).
La legge c’è già, è nel codice penale dal 2022, è severissima, punisce chi “distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali o paesaggistici” con la galera da due a cinque anni. Ma non importa, quel che conta è intestarsi un giro di vite contro gli eco-vandali, e possibilmente spingere gli avversari a ripetere le dichiarazioni di indulgenza e comprensione già ascoltate da Matteo Orfini e Chiara Appendino (“Non esageriamo, è solo vernice lavabile, vanno ascoltati”).
L’agenda talk-show, d’altra parte, è fondata su questo tipo di riflesso pavloviano. Io annuncio il giro di vite su questo e quello, tu gridi alla deriva autoritaria. O al contrario, io propongo una estensione dei diritti e tu gridi alla distruzione dei valori (a proposito: lo stesso Zan ammette che “sarà difficile vedere approvata” la sua nuova proposta sul matrimonio gay).
Lo abbiamo visto succedere su tutto, forestierismi, carne in vitro, fluidità, figli di coppie omogenitoriali, maestre che regalano rosari o scrivono circolari antifasciste, con un quotidiano misurarsi negli angoli del dibattito pubblico dove è più facile dividere con la spada la destra e la sinistra ed evitare le grandi questioni della modernità, quelle che rendono inutilizzabili i vecchi riferimenti novecenteschi.
E’ uno scambio di colpi perfetto per i dibattiti televisivi, e forse anche per il bi-partitismo Fdi-Pd che si sta sostituendo al vecchio bipolarismo, ma per il resto: sicuri che serva a qualcosa, sicuri che fare politica sia questo?
(da La Stampa)
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Aprile 11th, 2023 Riccardo Fucile
NIENTE COMMISSIONE D’INCHIESTA: QUALCUNO HA QUALCOSA DA NASCONDERE?
Il voto era previsto martedì scorso. Ma poi è stato rimandato di un’altra settimana, a domani, per ragioni tecniche: “Non c’era tempo di rientrare in aula”, è la versione ufficiale.
Ma dietro la decisione di far slittare l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sul covid-19 c’è uno scontro politico interno alla destra e con l’opposizione, dicono due esponenti di governo. Riguarda i poteri d’inchiesta della commissione che, in quanto d’inchiesta, ha poteri equiparabili all’autorità giudiziaria.
A mettere un veto sul testo finale è stata la Lega: in primis, il partito di Matteo Salvini chiede che la commissione d’inchiesta non indaghi sull’operato delle Regioni durante la fase più critica del covid-19 (e in particolare sulla decisione di non istituire le Regioni rosse); inoltre non vuole che la commissione indaghi sulle modalità di acquisto e sull’efficacia dei vaccini anti-covid.
Anche sulla presidenza della commissione non c’è accordo: Italia Viva la vorrebbe per sé per mettere sotto accusa il governo Conte-2 (Matteo Renzi lo ha annunciato più volte), ma anche Fratelli d’Italia non sembra intenzionata a rinunciare alla presidenza.
La discussione è iniziata a marzo in commissione Affari Sociali della Camera dove erano state depositate tre proposte di legge per istituire la commissione d’inchiesta: due della destra firmate da Galeazzo Bignami (FdI) e Riccardo Molinari (Lega) e una di Davide Faraone (Italia Viva/Azione). Dopo le audizioni con diversi esperti, l’obiettivo era quello di approvare un testo di legge unificato da votare in maniera trasversale tra maggioranza e opposizione, almeno prevedendo un accordo con Renzi e Calenda.
È a questo punto che sono iniziati i problemi. Perché l’accordo al momento è chiuso sulla composizione della commissione (15 deputati e 15 senatori) e sulla decisione di indagare sul mancato aggiornamento del piano pandemico, sull’acquisto di mascherine e ventilatori del governo Conte-2 e sull’operato dell’allora commissario straordinario Domenico Arcuri. Lo scontro politico però riguarda i poteri delle commissioni, individuati 3 della bozza finale.
La Lega vuole evitare qualunque riferimento agli enti locali – Regioni e comuni – coinvolti nella gestione dell’emergenza covid. In una prima versione del testo, infatti, la commissione d’inchiesta avrebbe potuto indagare non solo sulle misure adottate dal governo centrale ma anche sulle Regioni, nello specifico sulla decisione di non istituire in tempo la zona rossa in alcune aree della bergamasca particolarmente colpite dal covid.
La questione è oggetto anche di un’inchiesta giudiziaria della procura di Bergamo che vede indagate 19 persone tra cui l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e i vertici dell’Istituto Superiore di Sanità.
La richiesta di indagare sull’operato dei governatori veniva soprattutto da Italia Viva/Azione, d’accordo con Fratelli d’Italia, ma il Carroccio si è opposto. Così è stato partorito un testo di mediazione che sembrava andar bene a tutti: la commissione, si legge nella bozza, ha il compito “di svolgere indagini e valutare l’efficacia, la tempestività e i risultati delle misure adottate dal governo e dalle strutture ed enti di supporto al fine di contrastare, prevenire, ridurre la diffusione e l’impatto del Covid”. Eppure, nonostante sia sparito il riferimento alle Regioni, la Lega si è messa di traverso, e quindi anche Italia Viva.
L’altro oggetto di scontro nella maggioranza riguarda i vaccini. In particolare, FdI considera dirimente che tra i poteri della commissione d’inchiesta ci sia l’acquisto “delle dosi di vaccino destinate all’Italia” nonché “l’efficacia del piano vaccinale predisposto”.
Ma Lega e Forza Italia si oppongono: i berlusconiani temono che la commissione d’inchiesta si trasformi in uno strumento di propaganda no-vax, mentre il Carroccio non vuole finire sulla graticola per la sua partecipazione al governo Draghi che ha avuto un ruolo fondamentale nel piano vaccinale e nelle misure anti-covid.
FdI, invece, era all’opposizione e può tranquillamente attaccare il governo dell’ex Bce e i propri alleati. Così la Lega ha bloccato tutto: il capogruppo Molinari ha trasmesso ai colleghi di maggioranza un testo depurato dai due punti più critici per il Carroccio. Via ogni riferimento agli enti locali e ai vaccini. Ma non è detto che gli alleati lo accettino. Domani intanto si vota e potrebbe esserci un nuovo rinvio.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 11th, 2023 Riccardo Fucile
“ASSISTIAMO ALLA SOSTITUZIONE DI UNA COMUNITA’ CON UNA INVASIONE TURISTICA CHE NON E’ COMUNITA'”
“Visto che siamo a Pasqua e si dice che c’è redenzione solo dopo
l’espiazione, penso che per le Cinque Terre questo dovrebbe significare la rinuncia ad una parte dell’arricchimento smodato accumulato in questi anni”
A Maurizio Maggiani, scrittore sensibile e appassionato, le Cinque Terre creano ogni volta che le si nomina uno sconvolgimento emotivo.
Perché il destino di questi borghi, oggi soffocati da un turismo sempre più invadente e bisognoso di cornici per selfie più che di “immersioni emozionali”, lui lo aveva previsto venti anni fa, quando i suoi allarmi sull’aggressione ambientale e sociale al territorio gli avevano inimicato le autorità regionali, quella dell’allora presidente del Parco Franco Bonanini poi finito condannato per una gestione di malaffare dell’ente, e addirittura di Legambiente, all’epoca schiacciata sulle posizioni di Bonanini.
Maggiani, dopo cinque anni di vita a Monterosso, nei primi anni duemila aveva deciso di abbandonare per sempre le Cinque Terre. Dieci giorni fa con Repubblica , lo scrittore aveva ribadito le sue convinzioni, che poi riguardano tutte quelle località in cui, per dirla con il professor Corrado Del Bò docente di etica del turismo, “va in scena la turistificazione, ovvero la sostituzione di una comunità con una non comunità come quella turistica”.
Buongiorno Maggiani, lei oggi se ne sta tranquillo in Emilia ma ha visto le foto delle masse turistiche di nuovo accalcate a Pasqua nelle stazioncine delle Cinque Terre?
“Credo fossero ampiamente attese e non vedo come potrebbe non essere diversamente visto che in passato, e per anni, non si è fatto che cercare di vendere le Cinque Terre in tutto il mondo, senza pensare alle conseguenze per un territorio dall’equilibrio ambientale e sociale così fragile. Hanno voluto farne una Disneyland ed è stata un’idea da criminali. Venti anni fa la Regione (il presidente era Claudio Burlando, ndr )e Bonanini fecero un gemellaggio con la Grande Muraglia cinese per attirare milioni di turisti da Pechino. Con quelle premesse oggi parlo di una giusta nemesi rispetto ad una scelta che fu coordinata dall’alto ma collettiva, appoggiata da buona parte della comunità con poche eccezioni”.
Le Cinque Terre sono unpatrimonio dell’umanità, è un marchio che attrae.
“Appunto. Il grande boom, il salto c’è stato con il marchio Unesco. Patrimonio dell’Umanità, ma i dividendi sono andati all’Umanità o sono rimasti lì? Per questo oggi che siamo a Pasqua, e non possiamo non dirci cristiani, vorrei ricordare che il sacrificio di Cristo sulla croce ci insegna che possiamo essere redenti, ma prima bisogna espiare. Magari iniziando a pagare tutte le tasse”.
Alcuni sindaci come Fabrizia Pecunia ed Emanuele Moggia, di Riomaggiore e Monterosso, condividono la sua lettura e oggi chiedono una legge nazionale per frenare i flussi, ma c’è chi come Franco Villa primo cittadino di Vernazza trova offensive le accuse ai suoi concittadini, è contrario al numero chiuso ma vorrebbe limitare il numero di treni nella sua stazione: 95 al giorno in alta stagione.
“Sono felice che sia in atto un dibattito alle Cinque Terre: credo possa essere allargato anche ad altre realtà italiane che soffrono lo stesso problema. Però c’è un grosso ostacolo, e non è burocratico.Quando hai imparato a fare soldi in quel modo, affittando camere oppure con una ristorazione a ritmo frenetico che conta su un ricambio giornaliero della clientela, è molto difficile smettere. Insomma, ci sono anche piccoli episodi che raccontano bene un luogo”.
Racconti.
“Due anni fa i carabinieri fermarono un ragazzo di Monterosso di 23 anni e gli sequestrarono una McLaren perché troppo potente per la sua patente appena presa. Una McLaren alle Cinque Terre. Gliel’aveva regalata sua nonna. Il fatto è che in questi luoghi dalle origini povere ma dignitose, fatte di un durissimo lavoro per coltivare e mantenere il territorio, il denaro facile ha trasformato le persone”
E ora le sue estati dove le passa?
“Ho scoperto che esiste un modo di fare turismo senza sacrificare territorio e comunità. L’ho trovato a Bonassola, poco distante e molto simile alle Cinque Terre. Paese e mare bellissimi, una popolazione radicata, prezzi non alle stelle.Il piacere di circolare nella piazzetta senza essere schiacciati dalla folla. E un segreto: non hanno allungato il moletto per evitare l’arrivo di traghetti pieni di turisti”
(da La Repubblica)
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