Luglio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
UN VIDEO SPIEGA LA SUB-CULTURA SOVRANISTA ATTRAVERSO LA SEDICENTE FAMIGLIA TRADIZIONALE
Ambientazione anni ‘30. Simbologia gotica. Una coppia con due figli. Tutti bianchi e biondi. E poi il discorso emozionale: “La propaganda femminista minaccia la virilità”. Ecco il video che racconta la visione della destra identitaria
“Ai nostri nemici non basta strapparci dai nostri determinismi geografici, storici o familiari. Ora stanno attaccando l’intimità dei nostri corpi, la nostra identità sessuale. I media alimentati dalla propaganda di alcune attiviste femministe, gridano alla mascolinità tossica. I cortili delle scuole fanno la guerra a tutte le forme di virilità, ora considerate violente e aggressive”.
È l’incipit di un video di cinque minuti, prodotto dall’istituto Iliade di Parigi, diffuso e tradotto in Italia dalla casa editrice vicina al mondo giovanile di Fratelli d’Italia “Passaggio al bosco” nei giorni scorsi, mentre lo scontro politico sui diritti sessuali guadagnava le prime pagine, tra criminalizzazione della fecondazione eterologa e propaganda su famiglia tradizionale e crescita demografica.
Le immagini ci portano direttamente alla simbologia degli anni Trenta del secolo scorso, con una giovane coppia – bianca e decisamente “ariana” – immersa nei simboli dell’Europa medioevale, tra castelli, icone del gotico, montagne, casolari, fuochi accesi e fiaccole che illuminano la notte
Il tema è l’identità sessuale, dove il femminismo e la difesa dei diritti Lgbtq+ vengono descritti come “il declino di una intera parte della nostra civiltà europea”.
Passaggio al bosco è una casa editrice fondata da Marco Scatarzi, donatore del partito Fratelli d’Italia. È nata all’interno del centro culturale Casaggì di Firenze, think tank identitario vicino ad “Azione studentesca”, movimento giovanile del partito di Giorgia Meloni.
L’istituto Iliade – che ha uno stretto rapporto con collaborazione con l’editore Scatarzi – ha sede a Parigi ed è stato fondato nel 2013 come spinoff del Grece, il centro studi creato alla fine degli anni ’60 da Alain de Benoist, promotore dell’ideologia della nuova destra francese ed europea.
(da agenzie)
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Luglio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
NON VENGONO PIU’ PUBBLICATI, NESSUNO DEVE SAPERE
Meno comunicazioni sui voli di Stato. È quando denuncia la Repubblica, spiegando che da qualche mese non vengono comunicati i dati sui voli effettuati dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
Al contrario sono diversi i dati sui voli presi da ministri per tratte interne e spesso anche per partecipare a fiere e conferenze per i quali ci si poteva organizzare con anticipo e usare tratte di linea.
I voli di Stato di Meloni
Partiamo da Meloni: come racconta sempre Repubblica, la presidente del Consiglio ha utilizzato un volo di Stato tornando da Bruxelles che fare una visita in Puglia, in vista del G7, secondo quanto spiegato da Palazzo Chigi. Ma ha anche fatto una “tre giorni in un mega resort”. Ma la pagina sulle missioni di Meloni non viene aggiornata dal 22 febbraio.
A marzo il giornale romano aveva pubblicato dei dati sui primi tre mesi di voli di Stato di Meloni: quasi 200mila euro spesi per undici viaggi, più di quanto fatto dai suoi predecessori (Renzi, Gentiloni, Letta, Conte e Draghi). Con una media di 27 persone presenti a ogni viaggio. Poi la pagina non è più stata aggiornata
I viaggi degli altri ministri
Repubblica lamenta come ci siano ministri, a partire da quello delle Imprese, Adolfo Urso, che ricorrono spesso a voli di Stato per tratte coperte da aerei di linea. Per esempio il 4 aprile il volo da Roma a Foggia per l’inaugurazione di uno stabilimento della Iveco. Poi il volo di tutti i ministri per Cutro dopo la strage di migranti, con un volo di ritorno per Roma e uno per Salvini da Crotone a Milano.
Altri voli per la Fiera di Verona: il 10 aprile di Urso e l’11 del ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Vengono ancora segnalati altri viaggi, come quello di Tajani del 6 marzo per andare da Roma a Venezia, per una conferenza a Padova. O quello del 28 marzo del ministro dello Sport, Andrea Abodi, da Roma a Rimini per un incontro a San Marino. E i voli di linea non vengono presi in considerazione.
(da La Repubblica)
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Luglio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
CI SARÀ UNA FONDAZIONE, CON UN COMITATO SCIENTIFICO FORMATO DA STORICI E AMICI, CHE POTREBBE ESSERE CUSTODITA DA MARTA FASCINA CHE POTRÀ RESTARE A VIVERE LÌ
Storicizzare Berlusconi. Operazione naturale, considerando l’importanza che ha avuto il Cav nella vicenda italiana. E dunque sta maturando l’idea di cui la famiglia e Pier Silvio in particolare hanno già parlato con i vertici, entusiasti, di Forza Italia di creare un parco a tema, una fondazione, un museo, un’istituzione adibita proprio a questo: a tenere viva la memoria di una figura che, al contrario di molti suoi contestatori, nei libri di storia resterà
Come? L’idea, ma la realizzazione ha bisogno di tempo, è di adibire Villa San Martino, ad Arcore, a luogo simbolo visitabile all’inizio per appuntamento e dopo magari con accessi contingentati come un normale museo della storicizzazione di Berlusconi. Ci saranno un comitato scientifico formato da storici: primo nome possibile, quello di Giordano Bruno Guerri e un comitato d’onore, comprendente alcuni membri della famiglia e gli amici più cari, da Gianni Letta a Fedele Confalonieri, e la nuova Fondazione Silvio Berlusconi potrà diventare lo sviluppo, l’ampliamento e il rilancio della Fondazione Luigi Berlusconi, quella in via Senato a Milano, che il Cavaliere volle intitolare a suo padre.
La domenica si andrà in visita al memoriale di Villa San Martino, per guardare tra l’altro gli oltre 20mila dipinti non tutti di valore della Quadreria di Arcore, come la chiamava il Cavaliere? Sì, se il progetto (a cui il mondo berlusconiano tiene moltissimo e nel quale ci sarebbe un ruolo anche per Marta Fascina) va in porto. Ma si andrà al Museo Berlusconi anche per sentire nelle sale la voce del Cavaliere registrata nei suoi discorsi più celebri.
Il pezzo forte dovrebbe essere la ricostruzione del set in cui fu girato nella Villa Belvedere a Macherio, […] il video della discesa in campo nel 94. Ci potrà essere, si tratta solo di recuperarla, la telecamera originale che immortalò uno slogan epocale: «L’Italia è il Paese che amo».
Non mancherà la copia originale del Contratto con gli italiani del 2001, che Berlusconi raccontava di tenere in casa (c’è chi dice al bagno). Per non dire delle librerie in cui vedere i classici a lui carissimi e sfogliare i volumi con i discorsi parlamentari, gli interventi internazionali, le orazioni nelle convention di partito.
Da Azzurra Libertà a Menomalechesilvio c’è, testo e musica del Cav, ma occhio alla chicca: si potranno finalmente ascoltare le canzoni di Trenet e di altri francesi reinterpretati da Berlusconi, compresa Dans mon ile di Henri Salvador che secondo lui era una di quelle che gli riuscivano meglio
E ancora: video, spot, foto,poster elettorali. Non una monumentalizzazione del Cav ma un luogo della memoria dinamico e, nei limiti, accessibile.
(da il Messaggero)
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Luglio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
AVER VERSATO DUE MILIARDI A UN ESERCITO PRIVATO VIOLA LA CONVENZIONE DI GINEVRA
Ora a Mosca volano gli stracci ma è altrettanto vero che fino a un mese fa a Mosca la situazione della Wagner non andava bene ma benissimo.
I recenti commenti del presidente russo Vladimir Putin sui pagamenti al gruppo Wagner erano “come una prova diretta” che i mercenari di Wagner erano un braccio illegale dell’esercito russo durante la guerra, ha detto ail principale procuratore ucraino.
Putin ha dichiarato la scorsa settimana che Wagner e il suo fondatore, Yevgeny Prigozhin, hanno ricevuto quasi 1,84 miliardi di euro) dalla Russia nell’ultimo anno.
Il procuratore generale ucraino Andriy Kostin ha parlato all’Aia, dove lunedì ha partecipato all’inaugurazione del Centro internazionale per il perseguimento del crimine di aggressione.
Ha aggiunto che i commenti di Putin sulla spesa statale per Wagner erano “come una prova diretta che non solo facevano parte de facto, ma probabilmente, illegalmente, fancevano anche parte dell’esercito russo”.
L’uso di mercenari da parte degli Stati nei conflitti armati è vietato dalle Convenzioni di Ginevra.
Tra gli oltre 93.000 incidenti di potenziali crimini di guerra su cui l’ufficio di Kostin stava indagando c’erano molte atrocità commesse dalle forze di Wagner, ha detto Kostin. Sono “tra i crimini più gravi contro i nostri civili e i nostri prigionieri di guerra”, ha aggiunto.
Kostin ha fatto appello agli alleati, inclusi Stati Uniti e Gran Bretagna, affinché classifichino Wagner come organizzazione terroristica in modo che possa essere perseguita e i suoi beni congelati. “Prigozhin è già sospettato in un procedimento penale in Ucraina, ma l’importante è fermare l’attività di tali gruppi”, ha detto.
(da Globalist)
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Luglio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“PER LE CASSE PUBBLICHE NE DERIVEREBBE UN MAGGIOR GETTITO E MENO NECESSITA’ DI SUSSIDI”
«Finalmente si parla di salario minimo. È una riforma necessaria: l’occupazione aumenterebbe e lo Stato avrebbe solo da guadagnare. Tra maggior gettito e minori sussidi parliamo di 1,5 miliardi l’anno». Poi le pensioni, che «possono aumentare per molti lavoratori del 10%». Secondo Pasquale Tridico, economista dell’Università Roma Tre, fino allo scorso 15 giugno presidente dell’Inps, il momento per affrontare il tema non potrebbe essere più propizio.
«La questione salariale – spiega – negli ultimi due anni si è fatta ancora più urgente, alla luce dell’inflazione che l’anno passato ha sfiorato il 12% e quest’anno viaggia al 7,6%. La crisi pandemica ha inasprito disuguaglianze e povertà. E questo dopo trent’anni in cui, come testimonia un recente rapporto dell’Ocse, i salari reali medi dal 1990 al 2020 sono diminuiti del 2,9% a fronte di un aumento della produttività, rapporto tra fatturato e orario di lavoro, cresciuta del 12%».
Il salario minimo è davvero necessario?
«Sì, anche alla luce del fatto che la contrattazione nel frattempo si è indebolita, ha in parte perso la sua funzione anticoncorrenziale».
In che senso, professore?
«Lo scopo della contrattazione è quello di evitare una concorrenza tra imprese sulla pelle dei lavoratori. Troppo spesso oggi assistiamo a un sorta di bazar dei contratti (ne abbiamo ben 1.011 tipi!): si sceglie questo o quell’altro a seconda della convenienza, scatenando un dumping salariale, una corsa al ribasso dei compensi della parte più debole del lavoro».
Molti imprenditori sostengono che proprio il salario minimo potrebbe distruggere quel che resta della contrattazione. Non è così?
«È un falso problema. Laddove c’è il salario minimo la contrattazione ha, al contrario, continuato a essere forte e i salari tendono ad aumentare, anche ai livelli più bassi».
Un esempio?
«In Germania il salario minimo esiste dal 2015, inizialmente fissato a 9 euro. Il cancelliere Olaf Scholz l’anno scorso lo ha portato a 12 euro e, alla luce dell’inflazione, sta pensando a incrementarlo a 14 euro. La dinamica è positiva per i lavoratori. Il salario minimo poi non esclude, ma incoraggia anche una contrattazione per un trattamento economico maggiore anche sul fronte di mensilità aggiuntive, del welfare, della formazione, dei permessi, della sicurezza. Di tutto quello che va oltre il salario di base».
Ma una volta che è fissato il minimo, non c’è il rischio di un livellamento al ribasso?
«Non è così. Dove i contratti sono buoni è perché esiste una contrattazione che funziona e i sindacati hanno una piena rappresentatività. L’esempio dei metalmeccanici è illuminante. Altro discorso va fatto per i contratti che possiamo definire cattivi».
Allude agli accordi “pirata”?
«Con il salario minimo i contratti pirata verrebbero fortemente indeboliti, non c’è dubbio. Il loro obiettivo è da sempre quello di abbassare i salari. Se non si può scendere sotto i 9 euro il loro obiettivo è perso in partenza. Per debellarli, in ogni caso, servirebbe una legge sulla rappresentanza che aspettiamo da decenni. Ma ci sono anche contratti cattivi senza essere pirata».
Ossia?
«Penso alla logistica, al turismo, alla ristorazione. A mala pena nel contratto si arriva all’equivalente del salario minimo, figuriamoci se possono trovare spazio voci aggiuntive migliorative. Spesso i sindacati, per loro stessa ammissione, per evitare di perdere rappresentatività sono costretti a rincorrere i contratti pirata. Abbiamo il caso eclatante della guardiania, dove il compenso è di 5 euro l’ora, con il sì delle sigle principali che non vogliono perdere il settore».
Poi c’è la terra di nessuno.
«Questo è un altro problema. Si tratta di settori poco sindacalizzati, spesso nuovi, dove sovente i lavoratori sono in maggioranza stranieri. Una delle argomentazioni contro i migranti si concentra proprio sulla loro ricattabilità dal punto di vista dei salari: accettano paghe da fame e fanno concorrenza agli italiani. Ecco, con il salario minimo il ricatto verrebbe meno».
Resta la piaga del lavoro nero, non trova?
«Ma quello è un fenomeno di illegalità e va perseguito. Abbiamo un paese imperfetto in politica come in economia. Già il reddito di cittadinanza aveva evidenziato che esisteva una questione salariale: ricorda quanti hanno rinunciato al lavoro perché la paga era più bassa del sussidio?».
Il salario minimo può sostituire il reddito di cittadinanza nella lotta alle disuguaglianze?
«Sono platee diverse. Ma in assenza di salario minimo il reddito funzionava da quello che gli economisti chiamano “salario di riserva”: la soglia psicologica sotto cui non si può andare. Con il salario minimo però succede qualcosa di diverso. Equivale a dire a bagnini, camerieri, operatori di servizi sanitari, vigilantes che i salari sono cresciuti. Così si agevola l’incontro tra domanda e offerta, e si dà un colpo di acceleratore all’occupazione».
Diminuirebbero anche le disuguaglianze?
«Secondo i nostri calcoli l’indice di Gini, che misura appunto le disuguaglianze, calerebbe di 1,5 punti. Questa riforma non rappresenta neppure un costo per Stato. Anzi, comporta maggiore gettito e minori sussidi. Un vantaggio da 1,5 miliardi l’anno. Pensi poi alle pensioni: negli ultimi mesi in cui ero all’Inps abbiamo fatto delle simulazioni».
E cosa ne è venuto fuori?
«Se dessimo un salario minimo di 9 euro l’ora, un livello compatibile con la direttiva dell’Ue, a tutti quelli che stanno sotto questa soglia le pensioni aumenterebbero del 10%. Con maggiori vantaggi per le donne e per i lavoratori nati dopo il 1980, che hanno iniziato a lavorare più tardi. I dati ci dicono che sotto i 9 euro sono per il 38% gli under 35 e il 16% tra quelli più anziani. Tra le donne il lavoro povero è al 26%, contro il 21% degli uomini».
La premier Meloni dice che l’occupazione va a gonfie vele, dunque è tutto a posto. Le quadra?
«Ragionerei piuttosto in termini assoluti, secondo cui ad avere un impiego sono 23,4 milioni, più o meno gli stessi del 2019. L’occupazione è il rapporto tra occupati e forza lavoro. Dal 2019 abbiamo perso 800 mila persone tra i 15 e i 65 anni per via del calo demografico. In termini percentuali abbiamo una crescita, ma è solo un effetto ottico e statistico. La verità che in molti settori in questi anni sono saliti i prezzi, i salari no. E di conseguenza nemmeno l’occupazione. Abbiamo l’occasione, almeno in parte, per recuperare».
(da La Stampa)
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Luglio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
MA CHE VITTORIA, IN REALTA’ LA RICHIESTA DELL’ITALIA E’ STATA BOCCIATA MENTRE E’ PASSATA QUELLA TEDESCA
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, intervenuta oggi al raduno di Assolombarda, ha rivendicato la posizione influente dell’Italia – e quindi del suo governo – nell’Unione europea. “Penso al regolamento sui veicoli leggeri”, ha detto, riferendosi a quella che in gergo giornalistico è diventata nota come la norma sulle auto green. “Se dopo il 2035 sarà ancora possibile immatricolare veicoli con motore endotermico, alimentati con combustibili neutri in termini di emissioni di CO2 sarà soprattutto grazie al coraggio assunto dall’Italia in questi mesi”, ha dichiarato Meloni.
In realtà, però, le cose non stanno proprio così. Il regolamento in questione prevede che dal 2035 non si possano più produrre auto che usino benzina e diesel, e più in generale auto con motore endotermico, con alcune eccezioni. A marzo, quando il dibattito si è scaldato, a opporsi erano soprattutto due Paesi. L’Italia, come ha sottolineato Meloni, e la Germania. Berlino, però, non è stata menzionata nel discorso della presidente del Consiglio.
Cosa chiedevano la Germania e l’Italia sulle auto green
Le loro posizioni non erano identiche. La Germania chiedeva di includere nel regolamento anche l’uso degli e-fuels, o carburanti sintetici, mentre l’Italia puntava sui biocarburanti. Alla fine, solo uno dei due Stati ha ottenuto il risultato desiderato: la Germania, dopo settimane di tensioni diplomatiche, ha raggiunto un accordo con la Commissione europea.
A questo accordo l’Italia si è opposta, votando contro nella riunione dei Rappresentati permanenti (il cosiddetto Coreper I), ma non è servito. “È necessario che l’Europa apra anche ai biofuels”, ha commentato il ministro dei Trasporti Matteo Salvini, ma così non è stato. Fortunatamente per il governo Meloni, però, sia gli e-fuels che i biocarburanti servono ad alimentare quelli che si definiscono motori endotermici. Così oggi la presidente del Consiglio ha potuto sottolineare che “sarà ancora possibile immatricolare veicoli con motore endotermico”, tenendosi sul vago
Il cambio di linea del governo italian
Già poco dopo l’accordo di marzo, il governo italiano ha cambiato posizione e assunto la linea che oggi Meloni ha ribadito. Da una parte, si diceva che “la partita sui biocarburanti non è affatto persa”. E infatti anche oggi la presidente del Consiglio ha aggiunto in fretta: “C’è ancora da lavorare, per far riconoscere i biocarburanti e non solamente i carburanti sintetici, sulla base di dati tecnici e scientifici che devono essere evidenti”. Dall’altra parte, l’esecutivo di Roma è rapidamente salito sul carro tedesco, prendendosi il merito di aver “dato una sveglia all’Europa”, nelle parole del ministro del Madre in Italy Adolfo Urso.
Il punto è diventato che l’Italia ha contribuito a “imporre il principio della neutralità tecnologica”, come ha affermato oggi Meloni. Cioè, l’idea che “l’Europa stabilisca gli obiettivi della transizione ecologica, ma la scelta della tecnologia con cui ogni nazione vuole raggiungerli venga lasciata ai singoli Paesi”. Il capitolo biocarburanti, peraltro, non è necessariamente chiuso: a metà aprile un incontro del G7 ha messo sullo stesso piano e-fuels e biofuels, affermando che entrambi possono “contribuire ad una forte decarbonizzazione del settore auto”. Non è detto, quindi, che prima dell’entrata in vigore del regolamento la trattativa non possa riaprirsi. Nel frattempo, però, resta il fatto che è stata la richiesta della Germania, e non quella dell’Italia, ad essere accolta dall’Unione europea.
(da Fanpage)
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Luglio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“FRUSTRAZIONE RAZZIALE E SOCIALE DIETRO GLI SCONTRI”
“Non so dire se si tratta di una calma relativa. Sicuramente la rabbia e la frustrazione continuano ad esserci e inevitabilmente finiranno per uscire, anche con altre forme e altri tempi. L’elemento importante e nuovo della vicenda di Nahel è la presenza del video che ha confermato che la versione della polizia non corrispondeva alla realtà”.
Così Giovanna Botteri, giornalista e storica inviata Rai, dal 2021 corrispondente da Parigi, ha spiegato a Fanpage.it cosa sta succedendo in Francia, dove dopo 5 notti di violenze scoppiate a seguito dell’uccisione da parte di un agente di polizia del 17enne Nahel a Nanterre, alla periferia della Capitale, sembra essere tornata sotto controllo, complici anche l’intervento dell’Eliseo e una serie di appelli al ripristino dell’ordine, tra cui quello della nonna del ragazzo.
La situazione in tutto il Paese sembra essere tornata alla calma. Che aria si respira a Parigi?
“Credo sia stato determinante per la calma in primis l’appello della nonna di Nahel. Ha detto di smetterla con la violenza, che non serve a niente. Ha detto cose forti, che pensa tutta la banlieue francese dai 30 anni in su, e cioè che non si possono distruggere gli autobus che si usano per andare a lavoro, che non si possono bruciare le case dove vivono i propri genitori, perché è una follia autodistruttiva. E, soprattutto, non si può approfittare della morte di un ragazzino di 17 anni per sfogare la propria rabbia e frustrazione.
Il giorno prima sempre a Nanterre c’erano stati i funerali di Nahel e l’Imam ha rivolto un appello molto forte e simile. Un primo risultato è stato portare la protesta fuori dalla banlieue, verso il centro di Parigi e delle altre grandi città, dove però c’è stato anche un grande dispiegamento di polizia per cui non si sono verificati grossi incidenti. Politicamente, l’elemento importante è stato l’assalto alla casa del sindaco del comune di Haÿ-les-Roses, nel Val-de-Marne, perché ha segnato il raggiungimento di un livello superiore di violenza”.
Secondo lei questa calma durerà?
“Io non so dire cosa potrà succedere, se si tratta di una calma relativa o meno. Sicuramente la rabbia e la frustrazione continuano ad esserci e inevitabilmente finiranno per uscire fuori, anche con altre forme e altri tempi”.
Oltre alla nonna oggi è arrivato un appello da un altro parente di Nahel il quale ha però aggiunto che serve cambiare la legge sull’uso della forza da parte della polizia…
“Da una parte ci sono state queste 5 notti di violenza e saccheggi quasi ciechi, anche vista l’età dei ragazzi scesi in piazza, molto giovani e non organizzati, quindi quasi senza una vera rivendicazione. Tutto questo però si deve tradurre necessariamente in qualcosa di politico. È stato fatto lo stesso negli Usa dopo l’uccisione di George Floyd, e cioè capire il meccanismo della polizia come e quanto penalizza le minoranze etniche. Per altro, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo ha attaccato il razzismo della polizia francese, rilevando una base razzista nel comportamento delle forze dell’ordine. In questo senso, cambiare la legge potrebbe essere una strada politica di riflessione dopo quello che è successo e un tentativo di intervento per cambiare la situazione”.
Lo scorso marzo sempre in Francia c’erano state altre dure proteste, ma contro la riforma del sistema pensionistico. Perché la violenza è esplosa in maniera così estrema negli ultimi mesi?
“Non credo che si possa definire estrema, perché non ci sono stati morti. È una violenza urbana e penso che alla base ci siano 2 tipi di frustrazioni che in questi due mesi sono convogliate: una di tipo sociale, che è alla base della protesta per le pensioni, e l’altra razziale. Ma vorrei sottolineare una cosa: in qualche modo nella protesta per le pensioni io trovo che si sia verificato un fatto importante: la lotta che è stata condotta per tanti mesi si è conclusa con una sconfitta, non si è ottenuto niente e questo ha messo inevitabilmente in moto una serie di meccanismi di rabbia e caos che hanno continuato a esserci e covare in attesa di una nuova occasione, che è stata l’uccisone di un ragazzino di 17 anni”.
Quale è stato l’elemento distintivo delle proteste dopo la morte di Nahel?
“L’elemento importante di quanto successo a Nahel è il video, che mostra che la versione della polizia (“non si è fermato allo stop e ha cercato di travolgerli con la macchina quindi loro hanno risposto”) non corrisponde alla realtà. Il ragazzo si è fermato, i poliziotti non erano in pericolo e uno di loro ha puntato la pistola alla testa dicendo: “Ora ti sparo”. È come se improvvisamente si avessero le prove che era così. Questo dettaglio ha aperto tutto un dibattito sui social media, con il presidente Macron che ha accusato le piattaforme di diffondere la violenza attraverso filmati che la incitano. In realtà, i social media sono uno strumento che si può usare per avere giustizia e trovare la verità”.
(da Fanpage)
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Luglio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“NON HO CAPITO LE SCELTE DEI MIEI GENITORI, MA NON MI SONO MAI VERGOGNATA DI LORO”… LE PERQUSIZIONI IN CASA, I BANCHI COPERTI DI SPUTI A SCUOLA, I PROBLEMI DI PESO, LA “PESANTE MOLESTIA” SUBITA A 11 ANNI, IL CASO MORO
Come un lungo diario che si snoda nel tempo così prende vita il confronto tra una figlia e un padre. A tratti la densa e impietosa “confessione” sembra una lettera. E le lettere — la loro urgenza a volte differita — lasciano immaginare la disparità di vedute, gli equivoci, le frasi non dette, l’amore non dichiarato, la rabbia contenuta fino poi a esplodere, la confessione ilare e drammatica.
Anna Negri è una donna compiuta e realizzata, grazie al suo impegno nel cinema, una professione che le piace. Anna è madre di un figlio e figlia di Toni Negri. Un padre così non si dimentica, non si rimuove.
Tutto lo sforzo nel corso del libro ( Con un piede impigliato nella Storia, ed. Derive e Approdi) servirà per delinearne i contorni, afferrarne i dettagli, provare a chiarire che rapporto è stato. Felice o infelice, appagante o misero, bello o brutto. O, come accade in quasi tutte le vicende umane, ricco di sfumature, di cieli tristi e di inferni tiepidi. Provo un certo stupore nel constatare che la linea delle persone somiglia, molto più di quanto si creda, alle linee della mano. Non per qualche malintesa chiromanzia che ne azzardi il futuro, quanto per l’ironica disposizione a leggervi il passato.
Non mi chiede se sia lei che mi sta parlando, ma se lo ha fatto il libro. E allora immagino quell’oggetto separato dall’autrice. Distante. Non estraneo, ma un po’ come è appunto Anna che conversa e ricorda sul confine incerto tra ideologia e vita.
Hai provato a rifarti un’esistenza?
«Sono stata per 15 lunghi anni fuori dall’Italia, prima in Olanda e poi in Inghilterra. Per cercare una calma che non avevo, una serenità che non conoscevo. Non volevo più essere riconosciuta come la figlia di Toni Negri. Sono andata via e poi sono tornata. I problemi restano, le ferite non si rimarginano. Ma non voglio darti l’impressione patetica della figlia sofferente e piena di risentimento. Ho amato i miei genitori. Non ho capito fino in fondo le loro scelte, ma non mi sono mai vergognata di loro».
Perché avresti dovuto?
«Perché hanno dipinto mio padre come un mostro. E ovviamente non lo era. Non eravamo una famiglia normale, certo. Ma una famiglia non la scegli».
Quando hai avuto la sensazione di questa diversità?
«Avevo 12 anni, da Padova c’eravamo trasferiti a Milano. Una mattina la polizia irruppe in casa. Cercavano documenti, agende, prove che compromettessero mio padre. Suonarono alla porta, mezzo addormentata andai ad aprire. Erano armati. Mi misi davanti a loro e uno mi spostò spingendomi con la canna della mitraglietta sulla pancia. Arrivarono i miei. Frastornati. Ero spaventata. Poi con mio fratello Checco cominciammo a ridere. Una ridarella nervosa. Credo che in passato ci fossero state altre perquisizioni. Ma quella fu la prima che ricordo».
Cosa ricordi di altro?
«Una delle mattine successive a scuola un ragazzo della classe accanto chiese quale fosse il mio banco. Lo trovai coperto di sputi».
Che cosa sapevi di tuo padre?
«Tutto quello che faceva mi era noto. La casa era spesso piena di amici e compagni che discutevano. Certe sere le riunioni andavano avanti fino a tardi, dalla camera da letto con mio fratello sentivamo a volte urlare».
Che cosa pensavi?
«Ho sempre pensato che i miei volessero fare la rivoluzione convinti che avrebbe messo fine alle ingiustizie sociali».
Come ti vivevi?
«Di fatto ero coinvolta. Credo non immaginassero che io e mio fratello avessimo bisogno anche di un’attenzione diversa».
Intendi dire come gli altri e le altre della tua età?
«Vivevo dentro il loro mondo più che nel mio».
In quel mondo, mi pare di capire, ci stavi con un certo disagio.
«Mi incuriosiva e mi spaventava. Amavo i miei, ammiravo mio padre, al tempo stesso provavo un senso di fatica e di smarrimento».
Racconti di aver cominciato ad avere problemi con il cibo.
«Ero alle medie quando ho cominciato a ingozzarmi, crescevo di peso a vista d’occhio».
Parlavi del disagio che provavi.
«Non credo che c’entrassero le scelte politiche dei miei. La verità è che a 11 anni avevo subito un abuso da parte di una persona che i miei conoscevano».
Intendi violenza fisica?
«Non fino in fondo, diciamo una pesante molestia».
I tuoi come hanno reagito?
«Non dissi nulla. Ma quell’evento così traumatico ha un po’ cambiato la mia vita. Però, ti prego, non ho voglia di parlarne ancora».
Con un piede impigliato nella Storia è un “memoir” crudo e sofferente. Perché hai sentito il bisogno di scriverlo
«Intanto risale a diversi anni fa e scriverlo è stato in qualche modo terapeutico. È come se avessi preso la distanza da tutto quello che mi era accaduto e potessi finalmente parlarne».
Un atto liberatorio?
«Non c’è dubbio, ma più mi immergevo in quel fiume di ricordi e più sentivo che stavo dando voce a qualcosa di collettivo, alla generazione venuta dopo quella degli anni Settanta che aveva sperato, lottato, sbagliato, su cui inesorabilmente era sceso il sipario».
Che eredità hanno lasciato quegli anni?
«Sono stati definiti anni di “piombo” e penso che in parte fu così. Ma non furono solo questo».
Che cosa aggiungeresti?
«Penso ai diritti civili: divorzio e aborto oggi rimesso in discussione, alla chiusura dei manicomi, al femminismo con la rivendicazione che il privato fosse anche politico, penso alla cultura gioiosa che circolava allora. I giovani che leggevano, che viaggiavano. Purtroppo il terrorismo ha preso le nostre vite in ostaggio. E ha innescato quella repressione che ha fatto di ogni erba un fascio. Ma non si può cancellare la vitalità di quegli anni».
Hai detto che il terrorismo prese in ostaggio le vostre vite. Cosa intendevi?
«Ha condizionato tutto il resto. Non ha permesso di vedere e giudicare altro che quella violenza estrema, terribile, ingiusta».
I tuoi come lo vissero?
«A casa non si parlava d’altro e vedevo i miei persi, smarriti, impotenti».
Tuo padre fu arrestato nell’ambito dell’inchiesta denominata “sette aprile”. Da quel momento cambia la tua vita e quella della famiglia. Qual è il ricordo più acuto che hai conservato?
«Fammi dire che quell’inchiesta si basava su di un teorema che si è dimostrato infondato e cioè che il movimento dell’autonomia e le Brigate Rosse fossero le due facce della stessa medaglia. Fu il giudice Calogero a costruire l’impianto di accusa. Molti furono gli arresti. Mio padre subì la stessa sorte. Fu messo in isolamento e l’accusa nei suoi riguardi passò da “banda armata” a “insurrezione armata contro lo Stato”. Era nato il mostro da gettare in pasto all’opinione pubblica».
In che senso?
«Così veniva dipinto dai giornali e non solo di destra. Accusato di 18 omicidi, accusato del rapimento di Aldo Moro. Non c’era misfatto politico che non fosse ricondotto a lui. Quasi tutte le accuse nel tempo furono smontate. Il pentito Patrizio Peci scagionò mio padre dal rapimento di Moro».
Ma come reagì a quel rapimento?
«Con sconcerto, dicendo che erano dei pazzi, e anche con dolore».
Dolore?
«Sì, gli era grato per l’aiuto che Moro disinteressatamente gli diede per fargli ottenere una cattedra universitaria. Però chiedevi del ricordo più acuto. Sono due, curiosamente opposti».
Hai scritto che le colpe dei padri ricadono sui figli. Cosa rimproveri a tuo padre?
«Non ho risentimenti e alla fine ho cercato di prendermi cura di me. Anche amandolo. Oggi sto preparando un documentario su mio padre».
C’è una domanda in particolare che gli vorresti fare?
«Forse gli chiederei di spiegarmi perché nel conflitto tra la vita e l’ideologia, abbia scelto soprattutto quest’ultima. Ricordavi il tema della colpa».
Vuoi dire qualcosa.
«Ci sono ferite che non si rimarginano perché è morta tanta gente in quegli anni. Le vittime del terrorismo, i poliziotti, gli operai sul lavoro, i giovani alle manifestazioni. E ognuno di loro a casa aveva figli, mogli, padri e madri che li hanno pianti. E allora si capisce il senso di ingiustizia che pervade quelle morti, perché ogni morto è importante da qualunque parte provenga. E ho scoperto la cosa crudele che i figli portano su di sé le colpe dei genitori. E con esse devono confrontarsi. Non puoi sfuggire. Non puoi far finta di niente».
(da La Repubblica)
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Luglio 3rd, 2023 Riccardo Fucile
IL RITRATTO DELLA PITONESSA FATTO DAL “FOGLIO”: “IL SUO DIVORZIO DAL CHIRURGO PAOLO SANTANCHÈ È RIMASTO NEGLI ANNALI. IN AULA DANIELONA SI PRESENTÒ CON UN VISTOSO PANCIONE, E CHIESE AL GIUDICE DI POTER RIMANERE NELLA CASA CONIUGALE (DEL MARITO CHIRURGO) IN QUANTO INCINTA. SOLO CHE IL FIGLIO ERA DEL NUOVO COMPAGNO CANIO MAZZARO”
Insomma mercoledì si saprà se Daniela Santanchè è degna o no di rimanere ministra, dopo la puntata di Report che l’accusa d’essersi intascata i contributi Covid, di aver fatto fallire la sua società di prodotti biologici Ki Group, di non pagare i collaboratori della sua Visibilia…
Mercoledì il Parlamento la interrogherà. Ma che importa, dopo c’è il weekend, e le ferie sono vicine. Se c’è un personaggio che incarna l’Italia vacanziera di questi anni è lei, Danielona. Fotografata quasi esclusivamente su battigie, con cappelloni texani e occhialoni, va detto che ha anticipato qualunque influencer, lei era già coatta e in posa sulla spiaggia quando Chiara Ferragni era ancora all’asilo.
E’ resiliente, Danielona. Il papà era Ottavio Garnero, camionista che fece fortuna col matrimonio sposando la abbiente Delfina, poi mise su un’azienda trasporti, fu asso del biliardo, poi presidente del Cuneo Calcio Chissà se a Capri alloggiava sul “Force Blue”, avvistato in rada a Marina Piccola, lo yacht dell’ex sodale Flavio Briatore e ora sequestrato, chissà adesso che bandiera batte, in che acque navigano, lei e la barca.
“Non appassionata di politica ma di potere”, ha detto Pomicino a Report. “E’ il mio fallimento. Uno può anche non sapere niente, ma studiare. Lei non studia”. Lui tra le tante cose l’ha introdotta a Berlusconi, ovviamente in Sardegna. “A villa Certosa, le ho fatto una presentazione di qualità” Ma in Sardegna Danielona allignava già da tempo, socia del “Billionaire” di Briatore e prima a bordo del “Bisturi”, yacht dell’ex marito eponimo, ed evidentemente spiritoso, Paolo Santanchè, di cui lei si è tenuta il cognome.
Il dottor Paolo Santanchè si autodefinisce appunto “un bisturi al servizio della bellezza”, “Ci siamo conosciuti quando lei venne da me per rifarsi il naso” ha detto. “Aveva 21 anni. Continuare a portare il mio nome è stata una concessione fatta in sede di divorzio”. Divorzio rimasto negli annali.
Difesa dall’amica Annamaria Bernardini De Pace, al Foglio raccontano che in aula Danielona superò pure la leggendaria avvocatessa, con una arringa che ha fatto scuola. Si presentò con un vistoso pancione, e chiese al giudice di poter rimanere nella casa coniugale (del marito chirurgo) in quanto incinta.
Solo che il figlio, che stava per nascere, era quello che avrebbe poi avuto dal nuovo compagno Canio Mazzaro (accento sulla prima a). “Ma non è mio!”, disse il povero chirurgo. E lei, tipo Joan Collins in Dynasty: “E come fai a saperlo?”. Altro che utero in affitto. Qui siamo alla multiproprietà. Il giudice le diede ragione, e per la prima volta nella giurisprudenza una divorzianda ottenne l’abitazione per un figlio di un marito prossimo.
Canio Mazzaro, da cui poi ha avuto Lorenzo, [è l’imprenditore che con lei ha rilevato a un certo punto il “Ki Group”, azienda di distribuzione di prodotti biologici, ai tempi florida, che loro – è l’accusa – spolparono, elargendosi stipendi bestiali, sperperando milioni in auto e appartamenti, installando pure Cirino Pomicino nel cda . Ma il vero great italian novel è quello delle famigliole di sinistra che vanno a comprare il farro e lo zenzero organico pensando di contribuire alla salvezza loro e del pianeta, e invece senza saperlo stanno mantenendo Danielona pitonata in giro per le spiagge.
Già, le spiagge. Danielona è uscita dal Twiga, una delle sue imprese più celebri. Prima di diventare ministra ha venduto la sua quota al compagno, e qui altra commedia, il Ridge de noantri Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena più altri 11 cognomi . A Report si scopre che il padre si chiamava solo Kunz e di professione faceva l’agricoltore, ma decise chissà per quale oscuro disegno di dare quella sfilza di nomi e cognomi al rampollo: Dimitri Miesko Leopoldo Kunz D’Asburgo-Lorena Piast Bielitz Bielice Belluno Spalla Rasponi Spinelli Romano (!). Pare che a San Marino, dove il principe ha avuto i natali, nessuno controlla, e ognuno può chiamarsi come vuole.
Il rampollo, già che c’è negli anni si aggiunge anche “principe” sulla carta di identità, e all’anagrafe italiana glieli convalidano pure. Twiga è il principato della imperial coppia Santanchè d’Asburgo. Tatuaggi ovunque, polpaccioni istoriati, un tempo al Forte c’erano gli Agnelli, oggi ha vinto la Santanchè. Vestivamo alla pitonessa. […] Tutto è pitonizzato. Al Gilda ecco gran coscioni tatuati, borsette da uomo, profumi di quelli che ti frizzano le sinapsi, uomini tutti uguali a Fedez, donne-kardashian di Busto Arsizio; discorsi da Citylife, “ho chiuso il mio fondo a Dubai”.
Baby sitter in tre lingue, accenti della deep provincia, accanto, un signore di mezza età a cui tutti vanno a chiedere di farsi un video. Mi informo. E’ un influencer anziano, famoso per recitare le frasi “Vai a letto! Vai a letto!”, a un ragazzo che sarà il figlio. Milioni di visualizzazioni su TikTok. Ora sta girando un video con un tamarro mostruoso in cui si tirano in testa a vicenda cestelli d’acqua ghiacciata.
Gli astanti sono deliziati. Insomma, dai, hanno vinto loro, quelli col cappello da cowboy. Danielona è molto, molto vicina a Meloni. La first bambina Ginevra la chiama “zia Daniela”, scrivono Paolo Madron e Luigi Bisignani in “I potenti ai tempi di Giorgia” (edizioni ChiareLettere).
Tramite Danielona, anche “il dottor Giambruno”, il compagno di Giorgia, giornalista Mediaset, va spesso al Forte. “Dimitri e Andrea fanno coppia fissa, viaggiando in Porsche Carrera alla ricerca di pulloverini di cachemire”. Insomma, ditemi voi se non è l’immagine dell’estate 2023. Il principe-sòla col first gentleman alla ricerca di cachemerini sull’Aurelia. Al Twiga un piatto di spaghetti alle vongole viene 30 euro Le spiaggie sono la sua ossessione identitaria. Mai libere. Mai prive di tendaggi. Quelle libere “sono piene di tossicodipendenti, rifiuti. Nessuno pensa a tenerle in ordine”.
Nel 1983, quando i Righeira cantano “Vamos a la playa” lei comincia a lavorare. Fonda la Dani Comunicazione e poi una serie di società sempre un po’ sgangherate tra cui la Visibilia, che stampa riviste anche “igonighe”, da Novella Duemila a Ville e Giardini, a Ciak. I collaboratori non vengono quasi mai pagati, raccontano al Foglio, ma in fondo “la carta stampata è finita”, come dice il principe Kunz. E poi va detto che se dovessero processare tutti i giornali che non pagano le fatture, sarebbe una nuova Mani Pulite.
Qui si è consumata la storia della doppia coppia: lei era fidanzata con Alessandro Sallusti, e la sua amica Patrizia Groppelli sposata col bel (finto) principe. A un certo punto, non si sa che è successo, le coppie sono scoppiate. E poi si sono ricomposte: Sallusti ha sposato Groppelli e Danielona ha il suo principe. L’estate di Danielona passa anche per le copertine di Fausto Papetti, vi ricordate quegli Lp su sfondi di spiagge tropicali col sax malandrino… e vi sovviene la nuova assessora alla Cultura lombarda, avvocatessa Francesca Caruso? Mai sentita nominare se non per la notevole dichiarazione: “nella mia famiglia si respira cultura da sempre. Il fratello di mia nonna era Fausto Papetti”.
Dietro alla nomina di Caruso pare ci sia sempre lei, Danielona. Una specie di cerchio che si chiude, dai dischi di Papetti che i camionisti tenevano in cabina alla spiaggia del potere. nello stupore generale salta fuori la bionda avvocatessa dello studio La Russa (con la cui dinastia Danielona è da sempre intima). Le voci dicono che Santanchè, responsabile per Forza Italia delle nomine degli assessori lombardi, dovesse sdebitarsi con l’avvocatessa prestatale da La Russa per risolvere qualche piccolo problema relativo alla candidatura alle Politiche.
Poiché la sua concessionaria Visibilia doveva un milione e mezzo al fisco, ed era stata avviata un’istanza di fallimento con fascicolo d’indagine aperto per bancarotta e falso in bilancio, urgeva risolvere la questione. Altrimenti la nostra neo-ministra al Turismo non avrebbe potuto candidarsi. Ma l’abile avvocata Francesca Caruso avrebbe risolto il problema trovando un finanziatore che avrebbe versato 2 milioni e mezzo nelle disastrate società…
Intanto dicono che aprirà presto un Twiga a Roma. Anche se non c’è la spiaggia. Dovrebbe installarsi su a via Veneto, quella che Ennio Flaiano del resto considerava una strada balneare. Non lontano da “Crazy pizza”, dove i pizzaioli-stuntmen di Briatore roteano come tourneur-dervisci le pizze per la gioia dei turisti
(da il Foglio)
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