Luglio 9th, 2023 Riccardo Fucile
L’INVOLUZIONE DI UNA CHIMERA CHE NON SCALDA I CUORI PADAGNI
Che cosa è rimasto dell’indipendenza della Padania, del federalismo anzi della secessione, dell’autodeterminazione dei popoli, dello staccarsi a Roma per guardare a Monaco di Baviera, addirittura del minacciato scisma dalla Chiesa cattolica per confluire nelle chiese protestanti del Nord? Tutto questo era, è stato, fu la Lega: questi erano gli ideali del suo popolo, e solo fino a un certo punto si trattò di folclore.
Bene: di tutto questo è rimasta una discussione (non so quanto seguita dagli stessi elettori leghisti) sull’“autonomia differenziata”, termine gelido e perfino orribile che richiama alla mente i sacchetti dell’umido e le campane per il vetro, e che certo non scalda il cuore di quello che fu il popolo di Pontida.
Cerco di spiegare la materia con poche e sintetiche parole, perché ci si muove in un terreno freddo, burocratico, complesso, pieno di norme codici codicilli e commi.
L’autonomia differenziata è il riconoscimento, da parte dello Stato, dell’attribuzione a una regione a statuto ordinario di autonomia legislativa sulle materie di competenza concorrente e, in tre casi, di materie di competenza esclusiva. In base all’attribuzione a sé di queste competenze, le regioni possono trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive. Cerchiamo di semplificare ancora di più: ogni Regione tiene per sé una buona parte delle tasse che prima mandava a Roma per essere ridistribuite fra tutte le Regioni, e se le spende a seconda delle proprie, interne, necessità.
Tutto questo sarebbe permesso per ventitré capitoli di spesa, fra cui il commercio con l’estero, la tutela e la sicurezza del lavoro, l’istruzione, le professioni, la ricerca scientifica e tecnologica, la tutela della salute, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, la protezione civile, il governo del territorio, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e navigazione, la comunicazione, l’energia, la previdenza complementare e integrativa, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, la cultura e l’ambiente, le casse di risparmio e gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Tutte queste “forme e condizioni particolari di autonomia” alle regioni sono previste dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. Il quale, tuttavia, non è mai stato attuato perché si è tenuto conto del fatto che le regioni italiane non sono tutte ricche allo stesso modo, anzi: e concedere a quelle più ricche la possibilità di tenere per sé più entrate fiscali è considerato pericoloso. C’è il rischio di aumentare le diseguaglianze fra i cittadini.
Roberto Calderoli, che è un leghista della prima ora, ha presentato un disegno di legge per attuare questa autonomia differenziata. Disegno di legge contestato dalle opposizioni e da molti studiosi – che temono appunto che si possa spaccare il Paese – ma accolto con freddezza anche da ampie parti della maggioranza, Fratelli d’Italia per primi.
Uno dei punti cruciali sono i Lep, cioè i livelli essenziali di prestazione, che devono garantire “i diritti civili e sociali” in modo equo ai cittadini di tutto il Paese, e che con l’autonomia differenziata sarebbero a rischio. Tanto che proprio su questo tema c’è una commissione che deve garantire questi diritti civili e sociali in modo equo per tutti, e nei giorni scorsi quattro illustri membri della commissione medesima – Giuliano Amato, Franco Gallo, Alessandro Pajino e Franco Bassanini – si sono dimessi.
La legge sull’autonomia differenziata è dunque a rischio e Calderoli ha detto che, se non passa, lascia la politica, aggiungendo: “La lascio davvero, mica come Renzi”.
Sperando che il lettore abbia avuto la forza di giungere fino a qui, perché la materia è ostica, ecco, il punto è questo: sarà anche un’importantissima questione di competenze e soprattutto di soldi, questa autonomia differenziata: ma, ammesso che passi, era questo il sogno di Umberto Bossi? E del suo popolo?
La Lega nacque che si chiamava Lombarda, erano quattro gatti e all’inizio degli anni Ottanta spedivano nelle case dei cittadini con cognomi “dei nostri” (Brambilla, ad esempio) un giornaletto che si chiamava “Lumbard, tass”, lombardo taci. Il tema era il seguente: oggi i professori nelle nostre scuole sono in gran parte meridionali, non si parla più la nostra lingua, ci hanno silenziati.
Nasceva l’epopea e la retorica del Nord che la mattina presto tira su la saracinesca della bottega; che mantiene il Paese mentre i terroni vivono di sussidi, clientele, pensioni anticipate, false invalidità. Bollata dai giornali con troppa faciloneria come un fenomeno folcloristico, la Lega cresceva, il suo pensiero correva di bar in bar e di mercato in mercato (per mercato intendendo le bancarelle dei paesi, non la City), forte di quell’idem sentire di cui Bossi parlava.
E lo prendevano in giro, Bossi: con i suoi Rayban a goccia anni Settanta, le sue canottiere, il suo stuzzicadenti all’angolo della bocca, la sua “gabina elettorale”, il suo “laoro”, il suo “Nort”: ma Bossi aveva dietro a sé un popolo. E un progetto politico. Bello, brutto, giusto o sbagliato: ma un progetto politico forte, forse il più forte che circolasse in giro fra i partiti, tanto che il suo, di partito, che doveva sparire in un battibaleno secondo i giornalisti, è oggi il più longevo del Parlamento.
In principio fu, questo progetto politico, il federalismo del professor Gianfranco Miglio: la divisione del territorio italiano su base cantonale secondo il modello svizzero, con la costituzione di tre macroregioni (il Nord o Padania, il Centro o Etruria, il Sud o Mediterranea) più cinque regioni a statuto speciale.
Ci fu poi, dal 1995 al 1998, la svolta secessionista. Niente più federalismo: indipendenza. Bossi e suoi cominciarono con il rito dell’ampolla, prelevavano acqua dal Po a Pian del re di Crissolo e la portavano a Venezia. A Bagnolo San Vito, in provincia di Mantova, fu istituito il Parlamento del Nord, che legiferava per conto proprio. A Bagnolo, Bossi arrivava verso le due del pomeriggio perché la mattina ha sempre dormito: arrivava e disfaceva gli articoli della Costituzione messi insieme la mattina dai vari Calderoli, Speroni, Castelli, Borghezio, Boso detto Obelix. I soliti giornali prendevano in giro tutto questo, dicevano che sembrava di essere a Paperopoli, ma Bossi – ripeto – aveva un popolo. Una notte arrivò, verso le tre o le quattro, in un bar a Ponte di Legno per giocare a calcio balilla e ordinare la sua cena, cioè gli immancabili spaghetti in bianco con Coca Cola. C’era un gruppo di tifosi dell’Atalanta che lo vide e lo accolse come un dio vichingo al grido “Bergamo nazione / il resto è meridione”.
Bossi aveva un popolo, un’idea. A Pontida si celebrava, ogni anno, la solenne liturgia. Chiunque andasse sul palco a parlare prima del Capo intercalava ogni discorso con “la nostra gente”. Anche Rosi Mauro che era nata a San Pietro Vernotico in provincia di Brindisi (l’avevate rimossa Rosi Mauro, vero?) diceva sempre così: la nostra gente.
Una sera, mi pare a Porta a Porta, Bossi annunciò che oltre a uno Stato voleva farsi una Chiesa: “Via da Roma”, disse, come Lutero aveva detto (e fatto) “Los von Rom”. Pochi giorni dopo lo colse un accidenti, la famosa e maledetta notte dell’ictus nella neve fra Gemonio e Varese, e qualcuno ipotizzò una punizione del Padreterno, offendendo più quest’ultimo che Bossi.
Ecco, tutto questo era, è stato, fu la Lega. Molte cose sono cambiate, Salvini soprattutto. E questa storia dell’autonomia differenziata – che pure è certo, economicamente, rilevantissima – passa ormai nell’indifferenza degli elettori e tutto sommato anche in quella della Lega stessa, un partito che ormai da tempo ha perso il dna, e che probabilmente vive oggi nella speranza che Giorgia Meloni prenda la guida di un polo conservatore per poter ritagliarsi uno spazio ancora più a destra. Lontanissimo, comunque, da Pontida e dintorni.
(da Huffingtonpost)
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Luglio 9th, 2023 Riccardo Fucile
“I DIRITTI DEI CITTADINI CAMBIERANNO IN BASE ALLA RICCHEZZA DELLA REGIONE IN CUI VIVONO”
“Gli effetti a lungo termine dell’autonomia differenziata? Dai concorsi per i professori agli ospedali, i diritti dei cittadini, di fatto, saranno garantiti in modo diverso a seconda della ricchezza dei territori in cui abitano”,
Gianfranco Viesti è professore di Economia all’Università di Bari. Da mesi si spende contro la riforma disegnata da Roberto Calderoli, che porterà le regioni a poter gestire in autonomia materie importanti – dall’ambiente alla salute, dall’istruzione ai trasporti – sottraendone la potestà allo Stato.
“Sull’espressione ‘secessione dei ricchi’ ho il copyright io”, scherza con HuffPost che gli chiede di spiegare quali saranno gli effetti di una riforma così importante come quella dell’autonomia sulla vita delle persone.
Viesti non coglie l’occasione per picconare indistintamente un disegno che non condivide neanche in minima parte, ma analizza tutte le opzioni. E avverte: “Ci sono ancora tantissime incognite e anche per questo è difficile prevedere a tuttotondo gli effetti che la riforma avrà sulla vita dei cittadini. Ci sono, però, delle ipotesi che si possono già fare. Il fatto che ci siano tante incertezze non è buon segno: prima di questo passaggio così radicale sarebbe giusto che i cittadini sapessero esattamente cosa accadrà. Molti cambiamenti si avvertiranno solo nel lungo periodo, altri saranno più immediati”.
Ci sono degli indicatori che già aiutano a comprendere quali saranno i risvolti di quello che Viesti chiama “un processo lento ma inarrestabile, rispetto al quale non è stata prevista la possibilità di tornare indietro”. Come ha spiegato HuffPost, infatti, il progetto del ministro per gli Affari regionali prevede che le materie passino dalla competenza dello Stato alla Regione, su richiesta di quest’ultima, grazie a un’intesa – sulla quale il Parlamento deve dire solo “sì” o “no” – dalla quale non è previsto recesso.
“Due sono gli ambiti in cui l’effetto dell’autonomia differenziata si sentirà di più, e con tempi relativamente più brevi: scuola e sanità”. Argomenta Viesti: “Sull’istruzione – aggiunge – dipende molto da quali richieste faranno le regioni. Alcune saranno estreme: tra le materie che possono diventare materia regionale, infatti, ci sono le norme generali sull’istruzione e sull’assunzione di personale. Che significa? Significa che potrebbero essere fatti concorsi scolastici su base regionale”.
E le conseguenze sarebbero le più varie. Molte impatterebbero inevitabilmente sulla qualità dell’istruzione nelle aree più svantaggiate. O meglio, nelle regioni che non chiedono l’autonomia sulla scuola: “Se la selezione fosse fatta su base regionale, verrebbe meno il contratto nazionale, si porrebbe il tema della mobilità tra una sede di lavoro e un’altra ma, soprattutto, il tema delle retribuzioni”, argomenta Viesti.
Il problema della differenza di retribuzione – un medico che lavora in Puglia guadagnerebbe di meno di uno che lavora in Veneto, per intenderci – si pone con forza anche nel settore sanitario.
Con un’aggravante: “Se la sanità diventa appannaggio delle Regioni – spiega ancora il professore – dal giorno dopo finisce il servizio sanitario nazionale, perché le Regioni avranno piena potestà nella definizione delle norme e delle strutture. Quanto alla retribuzione, i compensi di medici e infermieri sarebbero anche molto diversi da Regione a Regione, con la conseguenza che ci sarebbe, col tempo, una migrazione di queste figure professionali, dettata dai compensi”.
Sollecitato da HuffPost sull’estressione “secessione dei ricchi” – non sarà un’esagerazione? – il professore, che a settembre pubblicherà un libro con Laterza intitolato proprio “Contro la secessione dei ricchi”, risponde senza esitare: “Sarà una parasecessione, una secessione di fatto, del pezzo più ricco del Paese. Nello specifico, delle tre Regioni più ricche: Emilia Romagna, Lombardia, Veneto”.
In tutto questo discorso, però, manca un elemento: come ha fatto notare spesso il ministro Roberto Calderoli, forme di autonomia sono previste dalla Costituzione. Questo movimento contrario all’autonomia si sta dunque scagliando contro la Carta stessa? A sentire il professore non è esattamente così: “Si, vero, la Costituzione dà la possibilità alle regioni di ottenere ulteriori competenze rispetto a quelle che già spettano loro, ma la potestà in merito spetta al Parlamento”. Nel disegno di legge attuale – che, però, sarà modificato, anche per volere di Fratelli d’Italia, come spiegato qui da HuffPost – invece, alle Camere spetta solo un parere finale, dopo che l’intesa Stato-Regione è già stata perfezionata. C’è poi il nodo dei livelli essenziali di prestazione – quel minimo servizi che, al di là dell’autonomia, devono obbligatoriamente essere garantiti su tutto il territorio nazionale – sul quale il professore non mostra ottimismo: “Al momento sono solo fumo. Ci vorrebbero anni per definirli e, forse, un periodo ancora più lungo per finanziarli.
(da Huffingtonpost)
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Luglio 9th, 2023 Riccardo Fucile
ALLA FESTA BOLOGNESE DEL SINDACATO ELLY SCATENATA: “QUANDO LA MELONI AVRA’ FINITO DI PREOCCUPARSI DEI GUAI GIUDIZIARI DEI SUOI AMICI, SPERO SI RICORDI ANCHE DEI TRE MILIONI DI LAVORATORI PRECARI SFRUTTATI CHE ATTENDONO RISPOSTE”
Elly Schlein e Maurizio Landini. Di nuovo insieme, sempre insieme. La segretaria del Pd torna a casa della Cgil, sarà almeno la quarta volta da quando si è insediata al Nazareno. Di fatto, una volta al mese.
Dal congresso Cgil di Rimini, passando per un convegno alla Leopolda di Firenze e per la piazza romana in difesa del diritto alla salute, ora la festa bolognese del sindacato. Lei c’è, per rafforzare, una volta di più, l’alleanza in difesa dei lavoratori, contro la precarietà, per il rinnovo dei contratti e l’aumento dei salari.
La leader dem è combattiva, al suo arrivo al parco del Cavaticcio mette subito nel mirino Giorgia Meloni: «Quando uscirà dal suo imbarazzato e imbarazzante silenzio, la premier ci dica che cosa pensa della nostra proposta unitaria sul salario minimo», dice Schlein, riferendosi agli ultimi casi che hanno agitato la maggioranza, da Santanchè a Delmastro, fino a La Russa.
«Meloni si sta occupando unicamente delle beghe giudiziarie dei suoi ministri – attacca – ma ci sono più di 3 milioni di lavoratrici e lavoratori poveri in Italia che non possono aspettare ancora».
Di fronte alla quale la segretaria Pd torna a indicare una prospettiva, parallela a quella della Cgil: «Bisogna rafforzare la contrattazione collettiva, ma va estesa anche ai parasubordinati e autonomi – spiega –. Invece abbiamo un governo che ha messo mano ai contratti a cascata, che non vuol dire solo più precarietà, ma anche aprire le porte alla criminalità organizzata e abbassare l’attenzione sulla sicurezza sul lavoro».
Su questo terreno, come pure sulla difesa della sanità pubblica, «vorremmo intrecciare battaglie anche con la Cgil e gli altri sindacati – aggiunge Schlein – Perché la destra deve capire che il welfare non è un costo ma un investimento».
Landini è pronto a raccogliere, sottolineando che «serve il rinnovo dei contratti, pubblici e privati, e una legge che dia valore generale ai contratti nazionali, firmati da organizzazioni che siano rappresentative – spiega il segretario – e su questa base stabilire la quota oraria sotto la quale nessuno deve essere pagato. Il salario minimo è un punto, non la soluzione di tutto». Per tutte queste istanze e per «impedire che la Costituzione venga messa in discussione»,
Landini rilancia il prossimo appuntamento di piazza, dopo l’estate: il 30 settembre a Roma per proseguire il percorso avviato con il corteo dello scorso 24 giugno. Ma il leader Cgil va oltre e parla anche di «un nuovo diritto», quello «alla formazione e alla conoscenza», che nel concreto è la richiesta di aggiungere un monte ore settimanale retribuito, per l’educazione e l’istruzione degli operai.
(da agenzie)
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Luglio 9th, 2023 Riccardo Fucile
MA ‘GNAZIO È L’UNICO ISCRITTO AL SUO PARTITO DAVANTI AL QUALE LA PREMIER HA SOVRANITÀ LIMITATA… MA DENTRO IL PARTITO CRESCE IL MALUMORE
Lo consideravano autorevole, ma ora è soprattutto ingombrante. Eppure lo devono tenere al suo posto. Inamovibile, ma sicuramente scomodo. Ignazio La Russa ne fa tante, troppe.
Nel suo partito lo sanno e da tempo hanno organizzato una sorta di sistema d’emergenza che si attiva a ogni sparata del senatore. Per Giorgia Meloni, sin dai giorni della fondazione di Fratelli d’Italia, Ignazio è stato una guida utile e a tratti decisiva, apriva porte e all’occorrenza sapeva anche sbatterle, ma in questa fase la sua figura sta diventando, ad ascoltare il dibattito interno a FdI, più un problema che un sostegno.
La questione La Russa è seria, anche perché, a differenza di ministri e sottosegretari, il presidente del Senato resterà tale per tutta la durata della legislatura, a modo suo. E il timore di molti in via della Scrofa è che il vero obiettivo delle inchieste su Daniela Santanchè possa essere proprio lui, da sempre legato alla ministra del Turismo, per motivi politici, professionali e anche di amicizia. La riunione con i legali dell’imprenditrice, nella quale il presidente del Senato avrebbe dispensato consigli sulla strategia legale, ma di fatto anche quella politica, rende manifesto un conflitto se non di interessi, per lo meno di ambiti.
Meloni lo sa e ha provato ancora una volta ad appellarsi al buon senso, se non alla disciplina istituzionale: «Non parlare più».
Il riferimento è al caso giudiziario che coinvolge il figlio Leonardo Apache, quando La Russa ha, attraverso una nota, espresso dubbi sulla versione di una ragazza che ha denunciato lo stupro, avvenuto, secondo il racconto della giovane, nella casa del presidente del Senato. La premier si è alterata e ha preteso che si correggesse il tiro. Non è la prima volta e non sarà l’ultima. Ma La Russa è forse l’unico iscritto al suo partito davanti al quale la premier ha sovranità limitata.
A ogni gaffe, nel partito corrisponde un’alzata di spalle, «sappiamo com’è fatto…».
Ora, però, lo sguardo imbarazzato non basta più. Verso di lui il sentimento è sempre oscillato dall’affetto allo sconcerto. Con una prevalenza del secondo, man mano che le figuracce aumentano.
Nessuno osa attaccarlo in pubblico, ma la questione è ben presente negli sfoghi dei dirigenti. Meloni si è anche trovata costretta a censurarlo pubblicamente, quando lo scorso aprile, tra gli stand del Vinitaly, definì «sgrammaticatura istituzionale» le frasi in libertà sulla strage di via Rasella. Le posizioni su fascismo e Resistenza hanno costretto il partito e quindi di fatto anche Palazzo Chigi a giocare in difesa per varie settimane, fino al 25 aprile, causando un danno d’immagine notevole.
Il potere gli derivava poi dall’innegabile capacità nelle trattative, nelle quali La Russa sa alternare momenti di amabilità a un tratto aggressivo, quasi brutale, finalizzato a piegare la controparte. Quando le vicende si complicavano, gli alleati non si piegavano o un candidato non si voleva ritirare, c’era Ignazio.
Il problema, però, è che Ignazio c’è ancora sfidando apertamente l’etichetta istituzionale. Le cronache, ricche di testimoni, raccontano che il presidente del Senato è entrato in molte vicende locali, da Imperia alla Regione Lombardia, dove ha preteso un posto in giunta per il fratello Romano, creando forti malumori nel partito e nella coalizione. Insomma, non si è fatto ingabbiare, ma nella sua gabbia rischia di entrare tutto il partito.
(da La Stampa)
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Luglio 9th, 2023 Riccardo Fucile
“SARA’ UNA STORIA CHE NARRA DI UOMINI CIALTRONI CHE CONDANNANO A MORTE UN’ORSA”
Il regista Giovanni Veronesi farà un film sull’orsa Jj4 che ha aggredito e ucciso Andrea Papi. «Sarà una storia che narra di uomini cialtroni che processano e condannano a morte un orso. Quello che è accaduto e sta accadendo in Trentino è una storia di cui parlare per dimostrare quanto sono stupidi e crudeli gli uomini», inizia a raccontare. Gli attori ancora non li ha in mente, ma sa bene quali saranno i personaggi. E soprattutto, chi saranno i buoni e i cattivi. Per quanto riguarda la seconda categoria, in prima linea ha intenzione di metterci il presidente del Trentino Alto Adige, Maurizio Fugatti, che descrive come una «persona inutile e incapace che andrebbe mandata via immediatamente».
In un’intervista al Corriere della Sera rivela che la storia si strutturerà sulla caccia all’ora vista da due punti di vista differenti e con due modalità diverse: «Da una parte la persona che cerca di salvare Jj4 e dimostrare che non è aggressiva, dall’altra chi vuole ucciderla e non sente ragioni. Una corsa contro il tempo, il bene e il male contrapposti».
«Cercheranno di impedirmelo…»
Qualche scena del film già la immagina: «Vorrei portare una folla di bambini a protestare sotto la sede della Regione Trentino-Alto Adige, centinaia di bambini con i cartelli e le bandiere a urlare per salvare gli orsi, anche i figli di quelli che hanno votato Fugatti. Nessun bambino condannerà mai a morte un orso», rivela a colloquio con la giornalista Francesca Visentin.
La decisione di iniziare a pensare queso girato nasce perché il regista vive l’arte come valore civile: «Chi fa il mio mestiere deve impegnarsi e indignarsi, dire le cose, denunciare senza paura delle conseguenze. Io non sto zitto su questa vicenda. Cosa possono farmi? Impedirmi di fare il film? Vietarmi di girare in Trentino? Se succederà, sarà peggio, mi arrabbierò molto, chiamerò tv e giornali, racconterò tutto».
Data di uscita? Probabilmente nel 2025. Per ora il regista vuole passare un anno in Trentino per documentarsi su quanto sta accadendo. Ma secondo Veronesi non sarà un’impresa così semplice la realizzazione di questa pellicola: «Immagino che Fugatti cercherà in ogni modo di impedirmi di girare in Trentino. Se sarò costretto, andrò anch’io in Romania come l’orsa, girerò lì il film».
(da agenzie)
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Luglio 9th, 2023 Riccardo Fucile
RACCONTERA’ LA SUA ESPERIENZA IN PRIMA LINEA NELL’AIUTO AI MIGRANTI CON LA ONG: “NON RINNEGO LA MIA STORIA DA ANTAGONISTA. OGGI MI SENTO CRISTIANO”
Luca Casarini, storico leader dei Centri sociali, dei No Global italiani e dei Disobbedienti del G8 a Genova, oggi in prima linea nell’aiuto ai migranti con la Ong «Mediterranea Saving Humans» (il cui cappellano don Mattia Ferrari è stato oggetto di minacce su cui indaga la Procura di Modena), sarà «invitato speciale» al prossimo Sinodo dei Vescovi che si terrà in ottobre. Il suo nome è stato pubblicato dalla Sala Stampa vaticana nell’elenco dei partecipanti alla prima sessione della XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi sul tema: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione» (dal 4 al 29 ottobre).
Luca Casarini, da ex leader dei centri sociali e delle rivolte del G8 di Genova a «invitato speciale» di papa Francesco al prossimo Sinodo dei Vescovi: soddisfatto di questo prestigioso ruolo?
«Assolutamente sì, è un grande onore e una grande opportunità per me come persona, ma anche un messaggio forte di sostegno per Mediterranea Saving Humans e per tutto il soccorso civile in mare. Non a caso questo invito deve molto a don Mattia Ferrari, nostro capo missione in quella che chiamerei la navigazione di Mediterranea dentro la Chiesa. Con Mediterranea saremo anche presenti a un incontro con i vescovi dal 18 al 24 settembre promosso dalla Diocesi di Marsiglia, preparatorio a un possibile Sinodo del Mediterraneo cui partecipino realtà laiche e cristiane».
Al Sinodo dei vescovi che contributo porterà? L’impegno del «nuovo Casarini» con la Chiesa in quali altre direzioni procede?
«Lavoro a stretto contato con la Caritas in Ucraina e anche con Migrantes. Al Sinodo vado per ascoltare, ma certamente mi piacerebbe condividere l’esperienza che sto facendo da 5 anni in mare coi migranti perché parla dello stesso Vangelo di papa Francesco, così come della sua enciclica Fratelli Tutti: ovvero l’importanza di sentire come fratelli sorelle le altre persone e in particolare i più deboli. Quelle che chiamiamo democrazie riservano ad alcune categorie di persone un trattamento diverso e ineguale: sono i più poveri che arrivano dal Sud del mondo, coloro che troviamo in Libia, nei campi profughi turchi finanziati dalla Ue, che muoiono nei naufragi di Cutro e Pylos. Se non affrontiamo seriamente questi temi le democrazie fondate nel dopoguerra sul concetto di diritti umani perdono senso».
A livello personale, i 5 anni con Saving Humans cosa le hanno insegnato?
«L’elemento dell’amore viscerale, un’espressione che torna spesso nel Vangelo ma anche nel Corano. Mi hanno insegnato poi la necessità dell’impegno personale: di fronte alla sofferenza bisogna agire, non accettare quella che papa Francesco chiama la globalizzazione dell’indifferenza, un mondo costruito su questo livello di diseguaglianze. Ho compreso che nessuno si salva da solo, l’azione deve essere mossa dall’amore, come arma potentissima».
Cosa rappresenta per lei Papa Francesco? È noto che avete un rapporto di amicizia…
«Papa Francesco rappresenta una Chiesa che sceglie di confrontarsi con il mondo. Che raffigura non un potere, ma un condannato a morte, Gesù Cristo, inchiodato a una Croce. Attraverso quello che facciamo con Mediterranea in mare, con il Papa e con molti Vescovi abbiamo costruito un rapporto solido basato sul fare, sulla concretezza, sulla pratica del soccorso civile in mare. È un rapporto fondato su grande stima, grande amicizia e soprattutto grande fratellanza. Incontrarsi facendo le cose».
Non teme, con questo invito, di diventare un «caso», un problema più che una risorsa?
«Col Papa, in questi anni, mi sono spesso rapportato. Ci conosciamo bene, il Papa ci ha sempre sostenuto e aiutato anche in questa cosa difficile. Io forse sarò visto un po’ come la “pietra dello scandalo”. Che ci fa uno come me in mezzo ai Vescovi? Ma penso sia invece lo spirito che vuole dare il Papa».
Ma un tempo era un antagonista nelle piazze: ora ha trovato la fede?
«In questi anni ho scoperto preti di strada, suore nei campi profughi che danno un prezioso aiuto nella gestione , parrocchie che sono luoghi di rifugio per chi è respinto. Gente come don Gallo, don Ciotti, don Vitaliano. Al Sinodo sarà un incontrarsi tra persone che fanno le stesse cose. Vivo ormai in Sicilia, ora con Mediterranea siamo fermi a Trapani in sosta tecnica, ma tra due settimane saremo in mare, intanto mi muovo in Ucraina con Caritas, Sant’Egidio, Salesiani. Non rinnego la mia storia da antagonista, quanto alla fede mi sento più cristiano che cattolico, vicino a coloro che vivono la fede in Gesù come colui che è stato il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. In fondo vengo da una famiglia cattolica di operai, fino a 12 anni frequentavo la Chiesa, poi mi sono allontanato. Bergoglio ha aperto un portone e mi ha avvicinato molto alla Chiesa degli ultimi e dei poveri. Il Papa sta provando a cambiare molte cose. Questo mondo va cambiato. E nella sfida che ci pongono le migrazioni è fondamentale riconoscersi tutti appartenenti alla famiglia umana».
(da agenzie)
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Luglio 9th, 2023 Riccardo Fucile
IL RACCONTO DI ALESSANDRO SALLUSTI CHE STA SCRIVENDO UN LIBRO CON DONNA GIORGIA : “UN GIORNO LA MELONI MI FA VEDERE LA DICHIARAZIONE DI UN MINISTRO IMPORTANTE. E IO GLI DICO: ‘VABBÈ, C’È SEMPRE UNO PIÙ REALISTA DEL RE’. E LEI: ‘NO, ALESSANDRO: C’È SEMPRE QUALCUNO PIÙ COGLIONE DEL RE’”
Siamo quasi al traguardo di un anno di governo Meloni. Ed è tempo dei primi bilanci. Alessandro Sallusti, che sta scrivendo un libro con il premier prossimo alle stampe, ha avuto accesso a Palazzi Chigi più di tanti altri giornalisti. E ha potuto analizzare da vicino aspettative e strategia del leader di Fratelli d’Italia.
Qualcosa il direttore si è lasciato sfuggire. Soprattutto per quanto riguarda la classe dirigente del partito di cui è a capo. L’accusa è la seguente: il premier si è fatto da solo, ha conquistato l’Italia, ma si circonda di persone non al suo livello.
“La Meloni è conscia di questo – dice Sallusti – Non crede che tutti quelli che sono siano degli scappati di casa, ma sa che ci sono. Un giorno ero con lei e Meloni si distrae con il cellulare. Le ho detto: ‘Cosa succede presidente?’. E lei mi fa vedere la dichiarazione di un ministro importante. Dichiarazioni che hanno fatto un casino. E io gli dico: ‘Vabbè, c’è sempre più realista del Re’. E lei: ‘No, Alessandro: c’è sempre qualcuno più coglione del Re’”.
(da nicolaporro.it)
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Luglio 9th, 2023 Riccardo Fucile
QUANDO ATTACCO’ BEPPE GRILLO CHE DIFENDEVA IL FIGLIO CIRO
È sempre la stessa storia, più o meno: garantisti e pacati con gli amici, forcaioli ed esagitati con tutti gli altri. Vale anche per Giorgia Meloni e il delicato tema della violenza sessuale. Quando in passato le notizie di cronaca – con indagini spesso ancora tutte da fare – riguardavano presunti molestatori stranieri e Fratelli d’Italia stava all’opposizione, era un tripudio di “vermi” (testuale: “branco di vermi magrebini”, agosto 2017), “bestie”, “animali” e altri epiteti; né ci si faceva troppi problemi a invocare la castrazione chimica oppure in alternativa una pena di 40 anni di carcere. Addirittura lo scorso anno, con la campagna elettorale per le Politiche in corso, Meloni condivise sui propri canali social il filmato di uno stupro in strada a Piacenza, ad opera di un uomo di colore. Tutto faceva brodo per alimentare la macchina del consenso centrata su un’aggressiva retorica anti-immigrazione e in chiave securitaria. “Adesso lo Stato indagherà?”, si domandava sempre nel 2017, con quel fare un po’ complottista, riguardo a un tentativo di stupro subìto da una ragazza romana (e presunto aggressore bengalese).
Invece sul caso che coinvolge il figlio di Ignazio La Russa, Leonardo Apache, la presidente del Consiglio sceglie un rispettoso e istituzionale silenzio. Non ripete ad esempio lo stesso giudizio rivolto a Beppe Grillo: il fondatore del M5S infatti ha vissuto e sta vivendo un’esperienza simile a quella del presidente del Senato e sempre come La Russa difese a spada tratta il figlio Ciro. “Mi ha colpito il modo in cui Grillo ha minimizzato su un tema pesante, come quello che è la vicenda della presunta violenza sessuale”, disse la leader di destra due anni fa. Al compagno di partito che ha messo in discussione la testimonianza della ragazza, tirando in ballo la non immediatezza nella denuncia e il suo utilizzo di cocaina, Meloni non ha ricordato ciò che aveva spiegato accorata lo scorso novembre al convegno ‘I risultati della Commissione Femminicidio’, cioè che “molte donne non hanno il coraggio di denunciare” le violenze che subiscono e che se lo trovano, anche a distanza di tempo, forse non sarebbe il caso di darle delle bugiarde.
E pensare che esattamente dieci anni fa (29 maggio 2013) sempre Meloni intervenne in aula alla Camera per annunciare il sì di Fratelli d’Italia alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Un sì poi smentito sei anni dopo in europarlamento dai suoi eletti, ma comunque quel giorno Meloni fece un intervento sul tema con La Russa accanto a lei ad ascoltarla: “La violenza sulle donne qui e oggi è ancora la violazione dei diritti umani più diffusa in assoluto. In Italia nella quasi totalità dei casi la donna sceglie di non denunciare, oltre il 90 per cento di quelle che subiscono violenza sessuale, ed è un tipo di violenza che a volte le perseguita per anni, per decenni”. Quando Meloni a fine discorso si rivolse all’allora presidente della Camera Laura Boldrini (“Mi consenta di far notare che anche in questo dibattito sono soprattutto le colleghe donne a intervenire, questo tradisce un problema culturale, la violenza sulle donne non è un problema delle donne ma della società”) il fino a quel momento imperturbabile La Russa ebbe qualche secondo di ilarità, con faccette e sorrisini: forse gli conveniva prendere sul serio l’argomento.
(da agenzie)
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Luglio 9th, 2023 Riccardo Fucile
L’ESPERIENZA DI UN CITTADINO-GIORNALISTA CHE HA CERCATO DI AIUTARE UN CLOCHARD A RECUPERARE LA SUA IDENTITA’ DIGITALE
C’è un luogo in Italia dove quando metti piede capisci che siamo un Paese in via di sviluppo e non certo una potenza mondiale. Ovunque vai ti trovi in locali angusti rispetto al pubblico, senza sedie, d’estate al caldo, d’inverno al freddo, con personale scorbutico e incompetente che non riesci nemmeno ad ascoltare perché devi urlare da dietro il vetro che lo protegge. Questo luogo sono gli uffici postali.
Appena dici posta in Italia ti vengono in mente code, personale insolente, problemi irrisolti. E’ il mio caso.
Da oltre un mese sto cercando di aiutare un clochard a recuperare la sua identità digitale per poter accedere al portale di Regione Lombardia per il fascicolo sanitario.
Dopo aver conquistato la possibilità di andare oltre ad un jingle telefonico e avere la fortuna di parlare con un’operatrice (che mi chiama da Campobasso e che non posso richiamare) ho iniziato la mia via Crucis: impossibile avere una password provvisoria perché il numero telefonico registrato dalle Poste è vecchio (e vuoi che un senzatetto abbia sempre quel telefono?); invano convincerli a fornire la password a me; invano far capire loro che questa persona non vive con me ma che la vedo una volta la settimana; tempo perso pensare che possano registrare il nuovo numero del mio amico.
In una delle ultime conversazioni mi hanno chiesto – dopo aver compilato l’ennesimo modulo per annullare la vecchia identità digitale – di andare in un ufficio postale a “securizzare” il nuovo numero. Una richiesta fatta come se io lavorassi per la Spa di Poste Italiane e sapessi di cosa stavamo parlando. Poco importa. Sabato scorso io e il mio amico siamo andati alle poste di Sant’Angelo Lodigiano: folla, caldo, caos, quattro sportellisti per trenta persone rinchiuse come in una scatola di sardine. Quando ho formulato la mia richiesta apriti cielo! Nessuno sapeva di cosa si trattasse. Non solo. Uno degli operatori – definito direttore da altri – dandomi del “tu” come se fossi sua fratello, ha tentato di depistare il tutto fornendomi su un foglio il classico 06… Tentativo andato a male, perché mi sono opposto nonostante l’accrescere della presunzione e dell’arroganza dello sportellista.
Risultato? Ancora nulla. Da Campobasso mi hanno chiamato dopo qualche minuto chiedendomi se i colleghi avessero fatto la “securizzazione”. Gli operatori di Sant’Angelo mi hanno detto di aver proceduto ma non risultava. Da allora più notizie di Poste Italiane. Un bell’esempio di come in Italia la digitalizzazione sia una farsa che punisce soprattutto i più poveri e gli anziani soli. Brutto esempio di come chi fa quel lavoro non sia stato formato nemmeno al rispetto e all’educazione. “Povera patria”, cantava Franco Battiato.
(da Il Fatto Quotidiano)
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