Luglio 19th, 2023 Riccardo Fucile
IL PADRE HA IMPIEGATO 40 GIORNI PER CONVINCERE LA FIGLIA, CHE NON NE VOLEVA SAPERE DI FINIRE SBATTUTA SUI GIORNALI, A SPORGERE DENUNCIA CONTRO APACHE… OGGI È STATO INDAGATO PER VIOLENZA SESSUALE ANCHE IL DJ 24ENNE TOMMY GILARDONI, AMICO DI LEONARDO
A Milano non si sparla d’altro. L’accusa di stupro al figlio della seconda carica dello Stato ha sconvolto i salotti del danè sotto la Madunina. Le voci, i commenti, le maldicenze si rincorrono e alimentano il tam-tam su una brutta storia i cui contorni sono ancora da definire.
Si vocifera che, all’indomani della notte violenta in casa La Russa, la 22enne fanciulla si sia sottoposta a una visita medica, la quale avrebbe rilevato graffi sulle gambe ed ecchimosi su altre parti del corpo. Ma soprattutto sarebbero state rilevati su di lei tracce biologiche appartenenti a due persone.
Dopodiché, il padre ha impiegato 40 giorni per convincere la figlia, che non ne voleva sapere di finire sbattuta sui giornali, a sporgere denuncia contro La Russa Jr.
“Oggi – come scrive l’Ansa – è stato iscritto per violenza sessuale anche il dj 24enne Tommy Gilardoni, amico del figlio dell’esponente di Fratelli d’Italia. Anche lui sarebbe rientrato a casa La Russa quel mattino del 19 maggio, dopo aver suonato, tra l’altro, nel corso della serata in discoteca, in cui si alternavano tre dj”.
Un nome, quello di Gilardoni, che lavora in un club di Londra e che anche al momento si troverebbe all’estero, a cui i pm sono arrivati grazie alle analisi dei telefoni, dal momento che Leonardo Apache, come indagato, si è avvalso della facoltà di non rispondere alla domanda degli inquirenti di rivelare il nome dell’amico che era con lui la notte tra il 18 e il 19 maggio.
“Gli inquirenti – si legge sempre sull’Ansa – hanno deciso di contestare anche a Gilardoni l’accusa di violenza sessuale e di non optare per un’imputazione di abusi di gruppo a carico suo e di Leonardo Apache, anche perché le indagini dovranno appurare non solo se la ragazza sia stata violentata in stato di incoscienza, come lei ha raccontato, ma anche se quelle violenze siano avvenute in fasi diverse”.
“La 22enne – prosegue l’Ansa – nella denuncia arrivata il 3 luglio sul tavolo dell’aggiunto Letizia Mannella e del pm Rosaria Stagnaro, ha scritto di avere “ricordi della notte vaghi” perché “drogata”.
L’unico “dato certo”, ha messo nero su bianco, “è che Leonardo mi ha dato un drink, mi ha portato a casa sua, senza che io fossi nelle condizioni tali da poter scegliere” e, quando lei si è svegliata, lui “ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali, lui e l’amico, sempre a mia insaputa”.
Gli investigatori hanno raccolto altri elementi utili all’inchiesta, tra cui l’analisi di alcuni contatti telefonici e le testimonianze di ragazzi che erano presenti alla festa del 18 maggio all’Apophis.
Il locale, che è un club a ingressi molto selezionati, sarebbe il punto di ritrovo della gioventù danarosa di quella che fu la Milano-bene. Infatti si insinua che nel giro dei clienti del club ci siano anche figli e nipoti di personaggi molto noti nel mondo dell’imprenditoria
(da Dagoreport)
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Luglio 19th, 2023 Riccardo Fucile
OCCORRE RAFFORZARE LA PARTE PIU’ DEBOLE
Nonostante la maggioranza si appresti a respingere in Parlamento la proposta di salario minimo a 9 euro, l’azione delle opposizioni – ed in particolare del PD che è riuscito ad intestarselo politicamente – ha fatto centro.
Ha fatto centro per due ordini di motivi: uno di natura politica e uno di sostanza.
Da un punto di vista politico, la novità è la capacità delle opposizioni di fare fronte comune su un problema reale che coinvolge i cittadini, ed in particolare, il loro elettorato: alcuni milioni di lavoratori hanno una remunerazione oraria che non garantisce una vita dignitosa.
Chiedere un salario minimo per legge ha fatto breccia sull’elettorato (due terzi dei cittadini sono a favore) e ha trovato l’adesione – non scontata fino a qualche tempo fa – dei sindacati.
Il governo ha accusato il colpo, è stato costretto sulla difensiva, ha tenuto un profilo basso sostenendo che l’istituzione di un salario minimo per legge non sia un buon modo per risolvere la questione dei bassi salari. Non ha avanzato però alcuna proposta alternativa.
Quindi, politicamente 1 a 0 per l’opposizione. La sostanza è quella che più deve interessarci. L’obiettivo è combattere il cosiddetto ‘‘lavoro povero’’, il lavoro non retribuito adeguatamente. Un intervento per legge sul salario minimo può aiutare, anche se non è la bacchetta magica.
Partiamo da un punto che le organizzazioni datoriali e il governo hanno portato contro l’iniziativa: storicamente, la definizione del salario nel nostro paese non è stata affidata ad un intervento legislativo. La ragione è presto detta: il salario orario è solo una parte della retribuzione, ci sono altre componenti molto rilevanti, che possono essere definite soltanto tramite la contrattazione collettiva tra le organizzazioni datoriali e le forze sindacali.
Si tratta del pilastro che sta alla base delle relazioni sociali in Italia dal dopoguerra in avanti. La contrattazione tra le parti sociali rimanda alla divisione del valore generato tramite i fattori produttivi (capitale e lavoro). La loro remunerazione deve essere demandata alla libera contrattazione tra le parti in quanto dipende da tanti fattori, tra cui la produttività. Un intervento normativo (come l’istituzione del salario minimo) potrebbe essere motivato soltanto dalla volontà delle forze politiche di rafforzare/tutelare una delle due parti nel caso in cui la contrattazione non funzioni bene. Bisogna stare attenti, ad esempio, un intervento per legge potrebbe minare la competitività delle imprese se rendesse il costo del lavoro troppo elevato.
Occorre quindi capire se la contrattazione collettiva funzioni bene o male in Italia.
In termini puramente numerici funziona ancora: il 99% dei lavoratori è coperto dalla contrattazione collettiva, un dato ben superiore alla soglia critica individuata dall’Unione Europea (80%).
Ciononostante, il sistema è in crisi, e non da oggi, e sono i lavoratori ad avere la peggio. La crisi trova due ragioni principali.
In primo luogo, la diffusione di forme di lavoro non standard (tempo determinato-indeterminato; part time-tempo pieno). La casistica è molto variegata, la quota di lavoro non standard è oramai pari al 40% con un incremento significativo nel nuovo millennio. Questi lavoratori non rientrano pienamente nell’alveo della contrattazione collettiva. Via via, la giurisprudenza nel mondo del lavoro ha posto in essere una serie di tutele per i lavoratori non standard ma questi si sono rilevati poco efficaci. Il risultato è che circa il 30% dei lavoratori (cinque milioni) ha una bassa retribuzione, inferiore cioè a 12.000 euro annui, il 60% del valore mediano. La gran parte di questi lavoratori si colloca nell’ambito dei servizi di alloggio e ristorazione, supporto alle imprese, supporto alla persona.
Il secondo motivo è il proliferare di contratti stipulati da organizzazioni sindacali diverse da CGIL, CISL e UIL, contratti che spesso vengono etichettati come ‘‘pirata’’ in quanto sono siglati da organizzazioni sindacali non rappresentative. I contratti stipulati dai sindacati confederali (202 a fine 2022) coprono il 96,6% deli lavoratori, ma ci sono ben 687 contratti firmati da altre organizzazioni sindacali. Questi contratti sono poco rappresentativi, coprono meno di mezzo milione di lavoratori ma complicano significativamente il quadro soprattutto in tema di applicazione dei minimi tabellari nei contenziosi nel mondo del lavoro. La questione chiama in causa il nervo scoperto della rappresentanza delle organizzazioni sindacali nel mondo del lavoro e la necessità di individuare i contratti dei diversi settori stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative. Una questione spinosa che nessun governo ha mai voluto affrontare per la divisione tra le forze sociali stesse.
Le analisi e i commenti della proposta di salario minimo si sono concentrati sugli effetti diretti. Una soglia di 9 euro l’ora aumenterebbe la remunerazione per circa un quinto dei lavoratori (3 milioni) coinvolgendo soprattutto giovani, donne e residenti nelle regioni del sud. La soglia di 9 euro ‘‘morderebbe’’, ci sono valori minimi nelle retribuzioni contrattuali di alcuni settori produttivi che prevedono livelli ben inferiori.
Le forze politiche a sostegno della proposta la fanno facile: si stabilisce 9 euro come salario minimo e il problema scompare. Le cose non stanno così. C’è più di un problema.
In primo luogo ci sono problemi tecnici: quale sarebbe il livello di salario minimo? con quale frequenza e secondo quali regole verrebbe aggiornato in presenza di una inflazione elevata? Coinvolgerebbe solo la remunerazione oraria e non il trattamento economico complessivo che costituisce larga parte della remunerazione? A quali categorie si estenderebbe, anche ai precari?
Ci sono poi due effetti indesiderati. L’aumento dei minimi retributivi porterebbe un effetto trascinamento sulle classi più elevate di retribuzione con un aumento del costo del lavoro. Le imprese potrebbero reagire all’aumento del costo del lavoro riducendo la forza lavoro. In secondo luogo, il salario minimo potrebbe offrire una strada al ribasso per le imprese che potrebbero fuggire dalla contrattazione collettiva, che in alcuni settori industriali è più onerosa di 9 euro. Per ovviare a questo problema le proposte rimandano all’applicazione del contratto nazionale nel caso in cui fornisca una retribuzione superiore. 9 euro rappresenterebbe di fatto una soglia minima per tutti i contratti, il punto è capire se i sindacati avranno sufficiente forza contrattuale per ottenere di più. Non è detto.
I problemi ci sono, l’introduzione del salario minimo richiederebbe gioco forza un attento monitoraggio ma enfatizzarli per mantenere uno status quo, come fa il governo, non è onesto intellettualmente e politicamente. Occorre prendere atto che il mondo del lavoro e della contrattazione è cambiato e che occorre rafforzare la parte più debole (il mondo del lavoro). Dire che il salario minimo non è la soluzione, senza avanzare una proposta alternativa, equivale semplicemente a buttare la palla in tribuna e non ce lo possiamo permettere.
(da Huffingtonpost)
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Luglio 19th, 2023 Riccardo Fucile
LA MELONI È FREDDISSIMA CON LA “PITONESSA”: LUNEDÌ IN CONSIGLIO DEI MINISTRI NON L’HA NEMMENO SALUTATA… IN CASO DI RINVIO A GIUDIZIO LA SORA GIORGIA CHIEDERÀ ALLA REGINA DEL TWIGA UN PASSO INDIETRO
In molti hanno notato che Flavio Briatore, dopo una timida e vaga dichiarazione di sostegno alla sua amica, Daniela Santanchè, è un po’ sparito dai radar.
Si è trincerato in un silenzio inusuale per un tipo così ciarliero, che non disdegna di solito riflettori e polemiche.
Il sospetto è che il “Bullonaire” non voglia essere trascinato nei guai della “Pitonessa”, che ha dovuto persino vincolare la sua villa in centro, a Milano, da 6 milioni di euro, per garantire i creditori di “Visibilia”.
La ministra del turismo non è più certa neanche del sostegno di Giorgia Meloni. All’ultimo consiglio dei ministri, di lunedì 17 luglio, qualcuno ha notato una certa freddezza da parte della Ducetta, che non avrebbe neanche salutato la Santanchè.
La premier è furiosa, per non essere stata messa al corrente a tempo debito dei guai che avrebbero potuto colpire la ministra, e quindi il governo.
Danielona passerà indenne il voto della mozione di sfiducia avanzata dal M5s previsto per il 26 luglio, poi la palla passerà alla procura di Milano. Spetterà al pm Laura Pedio decidere se e quando richiedere il rinvio a giudizio.
Fra l’altro l’Agenzia delle Entrate non ha ancora preso una decisione sulla proposta del gruppo Visibilia di rateizzare in 10 anni del debito da 1,2 milioni, quindi resta sul tavolo l’ipotesi accusatoria di bancarotta e quella di falso in bilancio.
Cosa potrebbe accadere, dunque? In caso di rinvio a giudizio, Giorgia Meloni chiederà un passo indietro alla Santanchè, descrivendo come “insostenibile” politicamente la sua permanente al governo e calcando la mano sul mancato sostegno della Lega, che fin dal primo momento è stata tiepida (eufemismo) nella difesa della ministra. Salvini, infatti, non vede l’ora di sfruttare il caso “Visibilia” e quello che coinvolge il figlio di La Russa per partire lancia in resta e indebolire la sora Giorgia.
Se la Pitonessa dovesse puntare i piedi e negare le sue dimissioni, la Meloni avrebbe soltanto due possibilità: o la maggioranza presenta una sua mozione di sfiducia, con Fratelli d’Italia che scarica completamente la Santanché, oppure salire al Quirinale per una crisi-flash, e chiedere a Mattarella il reincarico. A quel punto, potrebbe approfittarne per un più ampio rimpasto di governo e sostituire i ministri che non l’hanno pienamente soddisfatta. E sono molti a temere il siluramento…
(da Dagoreport)
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Luglio 19th, 2023 Riccardo Fucile
IL FAN DELLA PREMIER MULTATO PER UN’ATTIVITA’ IN CASA SENZA LE NECESSARIE AUTORIZZAZIONI
Un salone di bellezza, con un locale dedicato all’attività di parrucchiere e uno a quella di estetista con tanto di sala d’attesa e pure diversi clienti che aspettavano il loro turno. Il tutto ricavato nel ripostiglio di un’abitazione di San Pietro in Vincoli, senza autorizzazioni.
L’abitazione dove sono arrivati gli agenti della Polizia locale di Ravenna è quella di un volontario, divenuto celebre per un video dei giorni dell’alluvione, che lo vedeva impegnato a raccogliere il fango a Ghibullo, salutando con entusiasmo l’arrivo del premier Giorgia Meloni.
Lui è Alberto Albonetti e ora è stato multato per 1.700 euro con tanto di chiusura del salone di bellezza, che aveva allestito a casa senza le necessarie autorizzazioni, e rischia una segnalazione all’Autorità giudiziaria, qualora i locali non risultassero idonei a ospitare un’attività commerciale.
Durante l’alluvione, immortalato in un video, l’uomo aveva accolto il premier Meloni, dividendo il popolo del web per le sue critiche all’Amministrazione locale.
(da agenzie)
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Luglio 19th, 2023 Riccardo Fucile
DOPO I LUNGHI SILENZI DELLE AUTORITA’ DI VIGILANZA, IL 10 GIUGNO 2022 I SOCI HANNO PRESENTATO DENUNCIA AL TRIBUNALE DI MILANO CHE HA DI FATTO SANCITO L’AVVIO DELLE INDAGINI
C’è un’altra omissione che lardella ulteriormente l’informativa tenuta il 5 luglio in Senato dal ministro del Turismo Daniela Santanchè sul suo disastrato gruppo editoriale-pubblicitario Visibilia.
Dietro la decisione datata 5 ottobre dei pm milanesi Roberto Fontana e Maria Gravina di iscrivere Santanchè, il compagno Dimitri Kunz, gli amministratori Fiorella Garnero (sorella della ministra), Massimo Cipriani e Davide Mantegazza insieme all’ex sindaco Massimo Gabelli nel registro degli indagati per falso in bilancio e bancarotta, ci sono tre anni di richieste di chiarimento inviate da alcuni azionisti di minoranza non solo alla società quotata, che sino a fine 2021 fu controllata e gestita dalla senatrice, ma anche agli organismo di vigilanza: Consob, Borsa Italia, Banca d’Italia e Agenzia delle Entrate.
L’infinito carteggio, rimasto senza esito, è confluito nella denuncia al Tribunale di Milano presentata il 10 giugno 2022 dai soci di minoranza capitanati da Giuseppe Zeno.
Si scopre cosìche Zeno e altri azionisti non sono spuntati dal nulla nelle vicende di Visibilia, ma che sin dal 2019 avevano inviato “una serie di comunicazioni rimaste totalmente prive di riscontro” agli amministratori e sindaci della società di Santanchè e ai suoi revisori di Bdo Italia per chiedere lumi su una serie di operazioni del gruppo Visibilia, a partire dall’emissione di obbligazioni convertibili a favore dei fondi Bracknor e Negma, il valore degli avviamenti e del conferimento delle testate ad altre società del gruppo sino ai controlli “in merito al rischio di riciclaggio ed autoriciclaggio”.
Per questi motivi Zeno & C. chiedevano l’intervento della Consob il 29 dicembre 2021 e poi il 10 febbraio 2022, inviando le richieste “per conoscenza anche alla Banca d’Italia e all’Agenzia delle Entrate”, ma “tali comunicazioni rimanevano prive di riscontro”. Non basta: l’intervento della Banca d’Italia era richiesto perché “le azioni erano detenute da Visibilia Holding srl in Banca Generali e da Visibilia Concessionaria srl in Banca Popolare di Sondrio filiale di Sondrio.
Pertanto, si richiedeva di accertare se gli istituti di credito dove erano avvenute le transazioni, relative a tali acquisti, avevano proceduto alle opportune e dovute verifiche, ponendo in essere tutti i controlli prescritti dalla legge, anche in considerazione della circostanza che sia Visibilia Editore Holding che Visibilia Concessionaria sono riconducibili a ‘persone politicamente esposte’”, ovvero a Santanchè.
Solo al termine di questa sequenza di comunicazioni, quasi tutte senza risposta di merito, che gli azionisti di minoranza il 10 giugno 2022 hanno presentato […] denuncia al Tribunale di Milano che ha di fatto sancito l’avvio delle indagini. Un silenzio delle autorità di vigilanza che fa ancor più rumore se lo si guarda oggi, a indagini in corso su quelle “persone politicamente esposte”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Luglio 19th, 2023 Riccardo Fucile
COME INSEGNA SANGIULIANO, IN QUESTO GOVERNO I LIBRI SI CELEBRANO, MA NON SI LEGGONO
A fare sudare Meloni in questo torrido luglio non sono solo le uscite allegre del ministro Nordio sulla giustizia.
C’è un altro tecnico che sembra provare un piacere perverso nel metterla in difficoltà: l’ex prefetto Matteo Piantedosi (che oggi presidia l’Interno, tanto caro all’omonimo Salvini).
Dopo essersi distinto per certe gaffe terrificanti – tipo la definizione di “carico residuale” per i migranti delle ong – Piantedosi ne combina un’altra: venerdì sarà ospite d’onore alla presentazione del libro di Luigi Bisignani e Paolo Madron, I potenti al tempo di Giorgia.
Che c’è di male? Nulla, è perfettamente normale che un ministro porti i suoi omaggi a Bisignani, già iscritto alla loggia massonica P2 e condannato, tra le altre cose, nel processo sulla P4. Ma c’è un altro dettaglio diabolico: nel suo libro Bisignani è critico feroce di Giorgia e del circo che le orbita attorno. Piantedosi lo sa? Forse no: come insegna Gennaro Sangiuliano, in questo governo i libri si celebrano, ma non si leggono.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Luglio 19th, 2023 Riccardo Fucile
IL QUADRO DELLA POVERTA’ SEMPRE PIU’ DRAMMATICO
“Non vogliamo diventare come l’Unione Sovietica”, ha incongruamente dichiarato il vicepresidente del Consiglio Tajani per spiegare i motivi del governo nel sostenere l’emendamento soppressivo della proposta di legge delle opposizioni tesa ad introdurre un salario minimo di 9 euro lordi all’ora. Come se l’introduzione di un minimo legale, presente in molti Paesi europei e Ocse certamente non imputabili di vetero-comunismo, impedisse la contrattazione e la diversificazione verso l’alto.
Sembra che la maggioranza di governo, a partire dalla presidente del Consiglio e dai leader di partito, viva in un mondo che non esiste, non solo perché i regimi comunisti sono finiti da un pezzo e non c’è all’orizzonte alcun rischio che ritornino, ma perché ignora i milioni di lavoratori che, pur lavorando, non riescono a guadagnare abbastanza da sottrarsi alla povertà.
Eppure, salari da fame, che non consentono di vivere dignitosamente, sono in contrasto con l’articolo 36 della Costituzione. Proprio per questo una recente sentenza del tribunale di Milano ha condannato una società di servizi a risarcire sostanziosamente un lavoratore che per contratto riceveva un compenso di 3,96 euro l’ora. Altre sentenze hanno colpito contratti che non arrivavano a 6 euro l’ora. Situazioni simili sono tutt’altro che rare in Italia.
Secondo l’Istat, compensi orari inferiori ai 9 euro lordi riguardano almeno 3 milioni e mezzo di lavoratori, concentrati tra giovani di ambo i sessi e donne di ogni età, tra le lavoratrici e i lavoratori del turismo (servizi di alloggio, ristorazione, agenzie di viaggio), della logistica, ma anche tra chi lavora nelle attività artistiche, sportive di intrattenimento, ove, accanto ai compensi stellari di pochi, vi sono quelli spesso bassissimi nei servizi di supporto e tra gli operai in ogni settore.
Nel Mezzogiorno questa situazione riguarda un lavoratore/lavoratrice su quattro, come ha denunciato l’ultimo rapporto Svimez, spingendo chi può ad emigrare, sguarnendo così di risorse preziose quelle regioni.
Sempre Istat documenta che non si tratta solo di contratti pirata, ma anche di contratti firmati dai sindacati confederali, a dimostrazione del fatto che non basta che la maggior parte dei lavoratori sia coperta da contratti collettivi nazionali a garantire compensi decorosi.
Solo di recente i sindacati hanno iniziato una riflessione autocritica, che li ha portati a non osteggiare più l’introduzione di un salario minimo legale, pur con qualche distinguo.
Se si aggiunge che i lavoratori a bassa retribuzione coincidono spesso con i più vulnerabili, e non standard (che non hanno cioè contratti a tempo pieno e a tempo indeterminato), il quadro della povertà nonostante il lavoro appare ancora più drammatico. Altro che fantasticare su “salari ricchi” legati allo sviluppo come ha fatto Tajani. Qui siamo di fronte a salari poveri che spesso sono anche parziali.
Rispetto a tutto ciò, a quello che significa per la vita delle persone, per la loro possibilità di condurre una vita dignitosa, fare progetti, dar seguito all’eventuale desiderio di avere figli, la furia soppressiva del governo non dice nulla, nascondendosi dietro la fantasia di un futuro meraviglioso e il presente della mancanza di fondi per attuare quella parte della proposta di legge delle opposizioni che prevede una compensazione per le imprese nella fase transitoria.
Un’ammissione che tuttavia stride a fronte non solo del ritorno dei vitalizi e dell’aumento dell’indennità dei capogruppo per far fronte all’inflazione, ma anche ai condoni fiscali e alla promessa di introdurne altri.
Eppure, un governo che, giustamente, rivendica la legittimità delle proprie decisioni sulla base del mandato elettorale, dovrebbe interrogarsi sul perché gli stessi sondaggi che confermano la persistenza della maggioranza relativa dei consensi, rilevano anche un consenso larghissimo alla proposta di introduzione di un salario minimo legale. A differenza della maggioranza di governo, anche i suoi elettori hanno esperienza diretta di quanto siano diffusi, e insopportabili, salari da fame.
Alle opposizioni spetta ora la responsabilità di ripresentare la loro proposta, con le eventuali modifiche e specificazioni, allo stesso tempo allargando il dibattito e il consenso nel Paese. Ma un governo responsabile, che ha tolto il reddito di cittadinanza in nome della dignità del lavoro, forse qualche domanda su come garantire questa dignità dovrà pure farsela.
(da La Repubblica)
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Luglio 19th, 2023 Riccardo Fucile
IL GOVERNO TAGLIA NASTRI, MA LE NUOVE TRATTE SONO UNA BEFFA
Per il Roma-Pompei si sono spostati la premier e il ministro della Cultura: una parata con codazzo di fotografi ufficiali, mega-forbici per l’inaugurazione e toni trionfali. Il collegamento Bari-Napoli invece è stato rivendicato con forza da Matteo Salvini, perché la sinistra “non è stata in grado di realizzarlo”. Gratta e gratta però sotto la patina di annunci mirabolanti, resta poco quanto nulla. Perché il collegamento in Frecciarossa tra la capitale gli scavi romani era stato stato annunciato come operativo una volta al mese – poi, almeno ad agosto, opererà una volta a settimana – e perfino la tratta diretta tra il capoluogo pugliese e quello campano rischia di essere un flop perché l’Intercity di Trenitalia è più lento delle soluzione già disponibili. I nuovi treni decantati dal governo, insomma, sono un bluff. E una beffa per chi immaginava tempi più rapidi e maggiore frequenza.
Per non parlare del tragicomico ritorno della Freccia della Versilia, il treno che dagli Anni 50 fino al 2020 ha trasportato decine di migliaia di cremonesi a Forte dei Marmi, Marina di Pietrasanta e così via: lo scorso week end è tornato a coprire la tratta da Cremona al mare il sabato e i festivi dopo tre anni e mezzo di stop. E l’esordio è stato da incubo, perché il personale di Trenitalia e di Trenord non ha concordato la stazione in cui avrebbe dovuto darsi il cambio, lasciando a terra, a Fornovo di Taro, circa 300 passeggeri che rientravano dalla Toscana. Un disguido tecnico che rappresenta solo l’ultimo dei disagi riscontrati sulla linea ferroviaria italiana, dove otto treni su dieci – i dati sono di Rete ferroviaria italiana – arrivano puntuali o con un ritardo inferiore ai dieci minuti. Una percentuale al di sotto degli standard dei principali Paesi europei, come raccontato da Il Fatto Quotidiano.
Intanto il governo taglia nastri. Domenica la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano si sono accomodati nelle carrozze del Frecciarossa 1000 che porterà i turisti da Roma Termini a Pompei in 107 minuti. Nessuno però ha chiarito che il treno era in programma una volta ogni 30 giorni, nella terza domenica del mese. Il trambusto è stato così forte da spingere a una correzione: “Dal 6 agosto sarà attivo tutte le domeniche”, hanno precisato Sangiuliano e Salvini. Non una manovra spot, ma poco ci manca, per il treno che si muoverà da Termini alle 8.53 e dopo una fermata a Napoli Centrale prevista alle 10.03 giungerà a Pompei trentasette minuti dopo. Da lì è prevista una navetta fino agli scavi. Al ritorno andrà anche peggio perché il percorso inverso verrà coperto in 2 ore e 15 minuti. Solo una sola volta al giorno. Tra l’altro, anche senza il Frecciarossa 1000, Pompei è già raggiungibile cambiando a Napoli e utilizzando poi i treni regionali (circa un’ora di percorrenza) o la ferrovia Circumvesuviana. Le opzioni in campo? Erano già una quarantina.
Ma vuoi mettere la comodità di salire a Termini e scendere dal treno a pochi chilometri dagli scavi? Che poi è un po’ la stessa filosofia di cui si è innamorato Matteo Salvini negli ultimi mesi a proposito del treno diretto Bari-Napoli. I due capoluoghi di regione sono finalmente collegati senza necessità di effettuare il cambio a Caserta. In attesa dell’Alta velocità, però, il collegamento verrà garantito da un’Intercity più lento della soluzione con il cambio. Chi deciderà di salire sul convoglio diretto ci metterà mezz’ora in più: 4 ore e 10 minuti invece di 3 ore e 38.
Aspetti che forse Salvini non conosceva, nonostante sia ministro delle Infrastrutture, quando a giugno annunciava: “A luglio sarò orgoglioso di fare il primo viaggio con il collegamento ferroviario diretto Bari-Napoli perché un treno, un ponte, un aeroporto non sono di destra o di sinistra”. Con tanto di bordata alla sinistra: “L’ha promesso senza mai realizzarlo”. In realtà i lavori – sbloccati dal governo Renzi quasi nove anni fa – sono in corso e a Salvini sarebbe bastato aspettare invece di annunciare un treno diretto “lumaca” e per giunta che collega le due città una sola volta al giorno. I primi tratti ad “alta velocità” dovrebbero entrare in funzione a dicembre 2024, assicura Ferrovie dello Stato, e in ogni caso il progetto da 5,8 miliardi di euro – finanziato per circa il 25% con i fondi del Pnrr – dovrà essere ultimato entro il 2026. A quel punto ci vorranno solo 2 ore per trasferirsi da Bari a Napoli. Ben che vada Salvini, se sarà ancora ministro, potrà esultare di nuovo.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Luglio 19th, 2023 Riccardo Fucile
SI INVENTANO NUOVI PARAMETRI VUOLE SOSTENERE CHE NON SERVONO GARE PUBBLICHE PER ASSEGNARE LE SPIAGGE… IN REALTA’ UNA MAPPA C’ERA GIA’
Il governo Meloni vuole portare avanti la riforma delle concessioni balneari, ma solo all’apparenza. Nel Consiglio dei Ministri del 17 luglio 2023 è stato approvato il decreto legislativo “per la mappatura e la trasparenza dei regimi concessori di beni pubblici”.
Lo scopo è avere dati aggiornati sulla presenza di stabilimenti balneari che hanno in affidamento le spiagge italiane, parte del demanio pubblico: quindi un bene di tutti. Il problema è che queste concessioni sono state date senza regole chiare e a tariffe molto vantaggiose per gli stabilimenti, meno per lo Stato.
Una riforma è attesa da anni anche perché l’Italia non è in regola con la direttiva Bolkestein, la norma europea secondo cui la gestione dei beni pubblici – come le spiagge – va assegnata con una procedura di gara. La mappatura annunciata rischia di tutelare le concessioni esistenti, aggirando ancora una volta la direttiva e diminuendo il numero delle spiagge libere, persino.
L’allergia italiana alla direttiva Bolkestein
Nel 2020 la Commissione europea aveva avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia per il mancato recepimento della direttiva Bolkestein sulla gestione dei beni pubblici. Per le leggi europee le spiagge andrebbero infatti assegnate con una gara “aperta, pubblica e basata su criteri non discriminatori, trasparenti e oggettivi”, nel caso in cui “il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali”.
Lo scopo della Bolkestein è “promuovere l’innovazione e la concorrenza leale e offrire vantaggi ai consumatori e alle imprese, proteggendo nel contempo i cittadini dal rischio di monopolizzazione di tali risorse”.
Con le spiagge in Italia accade l’opposto: il loro uso viene assegnato agli stabilimenti balneari tramite concessioni di lunga durata e a canoni di affitto molto vantaggiosi. Le ultime mosse del governo recepiscono un delega che il Governo ha ricevuto dalla legge del 5 agosto 2022, approvata dal governo Draghi, in cui si indicava di adottare, entro undici mesi, un decreto legislativo per “la costituzione e il coordinamento di un sistema informativo di rilevazione delle concessioni di beni pubblici al fine di promuovere la massima pubblicità e trasparenza, anche in forma sintetica, dei principali dati e delle informazioni relativi a tutti i rapporti concessori, tenendo conto delle esigenze di difesa e sicurezza”.
Il governo ha così avviato una nuova mappatura delle spiagge occupate dagli stabilimenti più per aggirare la direttiva che per rispettarla, oltre a dimostrarne l’inapplicabilità al contesto italiano perché le “risorse naturali”, cioè le spiagge, non sarebbero “scarse”. Anzi: nella nuova mappatura del governo ci sarebbero ancora spiagge libere che potrebbero essere messe a gara e assegnate.
Le spiagge italiane “occupate”: la mappa c’è già
A inizio giugno 2023, Palazzo Chigi ha dato il via al tavolo tecnico sulla questione con esponenti di ministeri, Regioni e associazioni di categoria. In una riunione del 4 luglio, i primi dati forniti dal Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti mostrano che “non emergerebbe la scarsità della risorsa spiaggia”. In realtà la mappa delle spiagge italiane occupate dagli stabilimenti c’è già, è del 2021 ed è molto dettagliata: sappiamo a quanto ammonta ogni singola concessione.
Secondo gli ultimi dati della Corte dei Conti, nel 2020 lo Stato ha incassato 92,5 milioni di euro da 12.166 concessioni “a uso turistico”, a fronte di un giro d’affari quantificato in circa 15 miliardi di euro – anche se è difficile fare stime esatte -. Dal 2021 è stato deciso che l’importo annuo del canone non può essere inferiore a 2.500 euro. Con l’adeguamento Istat dal 2022 il minimo è salito a 2.698,75 euro. Secondo l’ultimo “Rapporto Spiagge” di Legambiente, in alcune regioni la percentuale di spiagge occupate da stabilimenti sfiora il 70 per cento.
Ora, il tavolo tecnico del governo vuole produrre una nuova mappatura con parametri diversi che dimostrerebbero, comune per comune, l’opportunità di poter lasciare le cose come sono. Il problema è che ogni regione ha imposto una diversa percentuale di spiagge da dover lasciare libere, mentre il governo vorrebbe imporre una percentuale valida a livello nazionale. I dati sarebbero diversi da quelli attualmente disponibili perché il governo starebbe usando i metri lineari e non i metri quadri.
L’ultima proroga sulle concessioni era arrivata con il decreto Milleproroghe, che aveva spostato la scadenza al 31 dicembre 2024, differibile di un ulteriore anno in caso di “contenziosi o impedimenti per i Comuni che devono mettere a gara le coste”, norma poi dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato. E proprio i contenziosi non dovrebbero mancare. Infatti, le concessioni balneari sono affidate alle regioni, che a loro volta le hanno affidate ai comuni. C’è il rischio che ognuno vada per conto suo, magari per mettere a bando le gare entro il 2023, come previsto dallo stesso Consiglio di Stato.
In generale, la sensazione è che, dopo aver voluto guadagnare tempo posticipando per anni l’attuazione della direttiva, ora il governo Meloni voglia fare un passo in avanti per aggirarne le disposizioni. Mappare sì, secondo però criteri che manterrebbero le concessioni attuali e ne darebbero addirittura di nuove. E nel frattempo le spiagge continuano a essere “concesse”: nell’ ultimo rapporto della Corte dei Conti “I canoni attualmente imposti non risultano, in genere, proporzionati ai fatturati conseguiti dai concessionari attraverso l’utilizzo dei beni demaniali dati in concessione, con la conseguenza che gli stessi beni non appaiono, allo stato attuale, adeguatamente valorizzati”. Il governo ha annunciato che la mappatura verrà terminata entro l’estate 2023.
(da today.it)
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