Luglio 24th, 2023 Riccardo Fucile
POI CONTINUANO A DIRE CHE I GIOVANI NON HANNO VOGLIA DI LAVORARE
Il primo giorno da bagnina per Noemi è stato di fuoco. Ha riportato a riva cinque persone in difficoltà tra le onde, in balìa delle correnti e della paura. Lei è giovanissima, classica divisa rossa, occhi e capelli nerissimi sotto un berretto con la visiera. Noemi Marangoni, assistente bagnante di 19 anni, nelle sue prime ore di lavoro a Sabaudia ha subito dovuto mettere a frutto tutte le competenze acquisite con il brevetto da assistente bagnante.
«Era dalla mattina che fischiavo a ripetizione, il mare era molto mosso» racconta la ragazza[
Tutto è iniziato con un kite-surf che si è avvicinato a riva e ha chiesto aiuto. Mentre Noemi era intentata a contattare la capitaneria di porto un altro signore che stava facendo il bagno vicino agli scogli ha iniziato ad avere difficoltà a tornare sul bagnasciuga: la forte corrente, ma soprattutto un’enorme buca di almeno tre metri, impedivano all’anziano di raggiungere la riva.
«Ho visto il figlio che chiamava aiuto e immediatamente mi sono tuffata in mare» racconta. «Mentre mi avvicinavo mi sono accorta che non era l’unico ad avere bisogno di me. Anche sua moglie e un altro ragazzo, che si erano buttati in acqua per cercare di aiutarlo, si erano ritrovati a loro volta in balìa delle onde vicino agli scogli».
Armata solamente di salvagente baywatch, era impossibile infatti utilizzare il pattino visto il mare mosso, Noemi non si è fatta scoraggiare e anzi, a mente lucida nonostante l’emergenza, ha analizzato ogni dettaglio della situazione: «Mentre nuotavo ho visto che il signore era riuscito ad aggrapparsi agli scogli, allontanandosi così dall’enorme buca. A quel punto ho afferrato prima sua moglie e poi l’altro ragazzo, li ho portati entrambi sul bagnasciuga e sono ripartita per raggiungere l’uomo più grande».
Neanche il tempo di sincerarsi delle condizioni dei tre che un nuovo intervento ha richiamato la sua attenzione. A rischiare di annegare questa volta un ragazzo che era entrato in acqua in compagnia di suo fratello gemello e di un’altra donna. Mentre questi ultimi erano riusciti ad evitare la corrente il giovane era in notevole difficoltà, ha iniziato a urlare, a chiedere aiuto. La bagnina si è di nuovo tuffata ed è riuscita a riportare il ragazzo sano e salvo sul bagnasciuga
«Amo molto il mare, ho deciso di prendere il brevetto da bagnina ma il mio prossimo obiettivo è lavorare nella capitaneria di porto» dice. La ragazza, classe 2003 di Pontinia, un comune a un pugno di chilometri da Sabaudia nell’entroterra pontino, racconta ancora: «Questo è il mio sogno. Ho sempre fatto sport, fin da molto piccola: ho iniziato con il nuoto, poi ginnastica artistica e, adesso, power-lifting. Amo la pesistica, ma nuotare mi è rimasto dentro e così ho deciso di unire le due cose, la passione e il lavoro che vorrei fare da grande. Mi piacerebbe che questo fosse solo l’inizio».
(da agenzie)
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Luglio 24th, 2023 Riccardo Fucile
TRA BAGAGLI SMARRITI, RIMBORSI NEGATI E SCONTRINI FISCALI CON IL CONTAGOCCE
I colori sono tanti ma la scelta giusta è una sola: lemongrass. Giallo fluo insomma. Pare sia il nuovo must dell’estate contro il logorio da bagaglio disguidato, ovvero consegnato in ritardo, danneggiato o smarrito.
Quella cosa che, oltre alle madonne, tira giù l’umore di famiglie intere e adombra l’aplomb di businessmen in trasferta. Perché di fronte al nastro bagagli siamo tutti uguali. È un check up dei nervi gratis et amore Dei valido in tutto il mondo.
Più aumentano i minuti del loop senza traccia di bagaglio e più cresce l’affanno, fino all’ultimo secondo in cui il nastro si ferma ed esce solo un liberatorio vaffanculo. È andata così, nel 2022, per 26 milioni di valigie in tutto il mondo, l’anno peggiore dell’ultimo decennio.
I dati sono del report “Baggage It Insights 2023” di Sita, la società fornitrice globale di tecnologie per il trasporto aereo. In un anno, secondo lo studio, il numero dei “disguidi” è aumentato del 75%, passando da 4,35 ogni mille passeggeri nel 2021 a 7,6 nel 2022. Ventuno milioni le valigie arrivate in ritardo, 1,8 quelle smarrite o rubate e 3,2 quelle danneggiate o manomesse.
Il volo dei trolley
A me è andata di sfiga il 22 giugno scorso sull’AZ1289 da Linate a Napoli operato da Ita Airways, la nuova compagnia italotedesca nata sulle ceneri di Alitalia e di cui Lufthansa ha rilevato il 40%. Arrivo al desk con il check-in già fatto online. Devo solo imbarcare il trolley. E chi lo poteva immaginare che il battesimo del lemongrass luggage sarebbe stato così di fuoco?
Perché, nonostante il giallo fluo, il nastro di Capodichino non mi ha restituito alcun bagaglio al mio arrivo. Sono in bermuda blu, camicia di lino e un paio di tennis ai piedi. Nello zaino solo pc e beauty case. Allo sportello del “Lost&Found” consegno la tag del bagaglio. Dopo un controllo ecco la risposta: «Non risulta da nessuna parte. Forse è rimasto a Linate».
Mi giro e alle mie spalle c’è una massa di valigie disguidate da tutto il mondo. «E non sa quanti aerei vuoti di passeggeri, ma pieni di bagagli, sia Lufthansa che Ita mandano qui in una settimana. Ci sono problemi con l’handling anche a Monaco di Baviera», mi dice l’impiegata dello sportello.
Avanzo una domanda: «Ho un appuntamento di lavoro a Ischia tra due giorni e ho bisogno degli abiti che sono dentro la valigia. Vado comunque sull’isola o aspetto qui?». Risposta: «Per le isole la consegna è fino a 48 ore da quando il bagaglio arriva. Aspetti i voli delle 19 e delle 23, magari hanno imbarcato il suo bagaglio su quelli».
Mi sembra una prospettiva saggia benché allucinante, visto il luogo: nessuna presa elettrica per ricaricare il telefono, solo un distributore automatico di junk food e soft drink, robe che fanno a botte con il mio reflusso, ma tant’è. Dunque decido di aspettare.
L’impiegata del “Lost&Found” mi allunga un foglio: «Consulti Worldtracer, il sito di ricerca bagagli smarriti», mi dice. «Qui sopra invece c’è il numero di Ita per informazioni». Consulto il sito. Ma l’esito è negativo. Chiamo il numero del “call center Ita Airways from Italy”. Compongo le cifre che trovo scritte: 06800936090. Dall’altra parte: «Il numero da lei chiamato non è attivo». Lo guardo meglio. Uno 06 davanti a un 800? Ma quello è un numero verde e quel prefisso deve essere un errore di chi ha scritto il modulo. Faccio un tweet e taggo Ita. La risposta arriva in privato: «Puoi inviarci il codice che ti ha fornito il “Lost&Found?”».
Passano le ore. Per due volte mi sottopongo al brivido del nastro bagagli. Ma né il volo delle 19 né quello delle 23 hanno in pancia la mia valigia. Alle 23.45 sono costretto a prenotare un hotel. Prezzi folli in tutta Napoli. Mi sento fortunato ad aver trovato una singola a 134 euro al Capodichino International Hotel, che prima si chiamava Hotel Capodichino e poi evidentemente si è voluto dare un tono.
Prima di andare a dormire controllo il sito Worldtracer e magicamente compare il mio bagaglio, in consegna il giorno dopo con il volo in arrivo alle 8.30 da Linate. La mattina seguente la coda di turisti stranieri rimasti senza valigia è già lunga. Si parla a un citofono, dando il numero di pratica e il nome. Finalmente la mia valigia è nelle mie mani. Ora il taxi.
Poveri forestieri
Devo andare al molo Beverello, da dove partono gli aliscafi per Ischia. Taxi numero 2603. «Per il Beverello, c’è la tariffa fissa a 21 euro giusto?». «No», mi risponde il tassista. E inizia a darmi la stessa versione che un mese prima mi aveva dato un suo collega, a riprova che la scuola di recitazione napoletana è ancora ad altissimi livelli: «La tariffa fissa c’è se facciamo il centro, ma ci mettiamo un’ora. Se vuole andare dritto al Beverello in venti minuti ci siamo, ma a tassametro».
Tutti questi mutetti, queste scuse, questi lamenti a libro paga dei cittadini, provocano talmente tanto il mio self control, che invece di alzarmi e andarmene, faccio l’errore di voler capire. Perché se ti intigni a Napoli sei fregato più di quanto tu non debba mettere in conto appena ci metti piede. È una specie di Welfare State alla pummarola ‘ncoppa, per cui di norma ‘o bancomàt non funziona, quindi cash e se chiedi la tariffa fissa «sì nu strunz», come se non fosse stata approvata dal Comune e fosse solo un’illusione di noialtri poveri forestieri capitati per errore nella landa delle fregature.
«Per il molo Beverello, il porto e piazza Municipio c’è la tariffa fissa a 21 euro», dico. Risposta: «C’è il supplemento aeroporto di 5 euro». Peccato invece che la tariffa comprenda ogni extra: notturno, festivo, bagaglio, animali, supplemento aeroporto. E peccato sia esposta proprio nel suo taxi. Risposta del tassista: «Si tratta di 5 euro in più, non è tanto».
Giunti al molo, prima di scendere, chiedo la ricevuta. 2603 rovista tra decine di foglietti stropicciati, già con il prezzo scritto a penna, nel mio caso 25. «Le faccio lo sconto di un euro». Mi allunga un foglietto con la data del 21 aprile 2023.
Accortosi che stavo scoppiando, come la moka quando ti dimentichi di metterci l’acqua, me lo toglie dalle mani e suo malgrado apre il blocco delle ricevute numerate della cooperativa taxi “La Futura”. Compila la numero 143588. Si vede che, più che fargli fatica, compilare la ricevuta numerata gli faceva reddito. Del resto le tasse sono «un pizzo di Stato» verso i piccoli commercianti, no?
E allora decido che è giunto anche per me il tempo di sostenere l’economia del Paese.
Sfogliatella amara
Al Caffè Beverello, snack bar e tabacchi della società Atlantis srl, pago un’acqua piccola, un caffè del nonno, aka “crema di caffè” e una sfogliata, aka “sfogliatella napoletana classica”. Totale: 5 euro e 50. Cash. Ma mentre addento la sfogliatella l’occhio troppo impiccione mi va sullo scontrino emesso. Leggo: «Preconto. Asporto #494». Poi guardo l’orologio. Sono le 11 e 21.
Il bar apre alle 6 di mattina. In cinque ore e ventuno minuti quasi 500 scontrini non fiscali. Anche considerando un solo euro a scontrino in cinque ore sono quasi 500 euro. Quanti di questi “preconto” diventano poi scontrini fiscali?
La risposta, mentre mi rimetto in fila verso la cassa e lo richiedo, me la dà il progressivo del mio, che si trova in basso, subito dopo le quattro cifre che identificano il codice di azzeramento, nel mio caso 1369, ovvero i giorni in cui quel registratore di cassa è stato operativo. Il numero più interessante è però quello che segue subito dopo e che indica il progressivo degli scontrini battuti. Alle 11.50 il mio era il numero 2. Due soli scontrini fiscali in sei ore di attività, con preconti arrivati a quota 543. Alla faccia del bicarbonato di sodio, direbbe quello.
Ma se pensate sia solo una cosa di Napoli potreste sbagliarvi. Nella Romagna colpita dalla tremenda alluvione le cose non vanno meglio.
Romagna mia
Cattolica, bagno “Giorgio” numero 75. «Un ombrellone e un lettino per una giornata», gli dico. «Il 158, dopo la quarta fila. Viene 22 euro, ti faccio 20». Pago cash e mentre guardo il registratore di cassa acceso e aspetto lo scontrino mi dice: «Non funziona. Te lo porto più tardi all’ombrellone». Mai pervenuto, ovviamente.
In un attimo mi è venuta in mente tutta la retorica delle “Romagna mia” di questi ultimi mesi, dei “Romagnoli popolo eletto” su Instagram, che le maniche se le sono tirate su, c’è da dirlo, ma evidentemente hanno fatto in fretta a farle torna lasse, quando si può incassare esentasse.
Danno più beffa
Che estate pazzesca. Con i prezzi di Miami, i servizi da terzo mondo e i guadagni invisibili al fisco. Tuttavia penso che in tutto questo casino tra leggi, codice civile, regolamenti europei e convenzioni internazionali ci possa essere un ristoro per il bagaglio arrivato in ritardo e la notte in albergo non preventivata. Per il malcostume della piccola evasione.
Ma non è semplice come sembra. Qualche giorno dopo la disavventura con la valigia sono stato contattato dal customer care di Ita, dopo la mia richiesta di rimborso: 163 euro e 50 centesimi tra hotel, aliscafo e caffetteria. Mi si dice che secondo la convenzione di Montreal, che regola le compensazioni nel caso di bagagli disguidati, «non possiamo rimborsare nessuna delle spese da lei sostenute perché non si tratta di beni di prima necessità».
Provo a insistere: «A mezzanotte un hotel non è un bene di prima necessità?». Risposta: «Restare in aeroporto è stata una sua scelta. Poteva dormire nell’hotel prenotato a Ischia e noi le avremmo consegnato lì il bagaglio». Certo. Con tempi fino a 48 ore dall’arrivo della valigia, quando ormai non mi sarebbe servita più.
È finita che Ita mi ha proposto un voucher da 163 euro e 50 centesimi per l’acquisto di nuovi voli della compagnia. Una soluzione che ho rifiutato per principio.
«Purtroppo le convenzioni internazionali non coprono tutti i danni che i passeggeri possono subire», spiega Mauro Antonelli dell’Unione Nazionale Consumatori. «Per la convenzione di Montreal sui bagagli non si ha diritto a un rimborso, se non per beni di prima necessità tra cui non rientra l’hotel.
Il paradosso è tutto qui: in casi del genere per ottenere un ristoro del danno si deve avviare un procedimento giudiziario, perché un comportamento colposo da parte del vettore è sempre fonte di risarcimento del danno ingiusto subito».
Ristori economici sono previsti dal regolamento comunitario 261/04 nel caso di ritardi a partire dalle tre ore o cancellazioni di voli per circostanze imputabili al vettore aereo. Si va da un minimo di 250 euro per voli fino a 1.500 km fino a un massimo di 600 euro per voli superiori ai 3.500 km.
«Le cifre delle compensazioni sono ferme da anni e non tengono conto dell’inflazione che avrebbe dovuto spingere in su anche i ristori», continua Antonelli. «Se l’entità dei rimborsi è poco significativa non ha una funzione di deterrenza. Se i costi degli indennizzi pagati dai vettori sono inferiori a quelli sostenuti per il miglioramento del servizio nessuna compagnia sarà incentivata a percorrere questa seconda strada».
Open to meravigli
Alla fine di questo folle mese di viaggi ho appreso che: lemongrass o meno, se si dimenticano di spedirti il bagaglio sono colori tuoi; se prendi un taxi la tariffa fissa, benché prevista, è considerata quanto il due a briscola; se chiedi la ricevuta commetti un oltraggio a pubblico ufficiale; se alle undici di mattina ti spari una sfogliatella sei il preconto numero 494, ma lo scontrino fiscale numero 2. Se non ti arriva il bagaglio le mutande te le rimborsano, ma se sei costretto a prenderti un hotel per non dormire sotto le stelle puoi attaccarti al tram. Anzi all’airbus.
Davvero open to meraviglia questa bella Italia.
(da TPI)
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Luglio 24th, 2023 Riccardo Fucile
LA QUESTIONE DI FIDUCIA E’ STATA POSTA 23 VOLTE IN 9 MESI, IL DATO PIU’ ALTO PER UN ESECUTIVO
Il governo Meloni fa registrare un record. Ma non è proprio un merito: si tratta del primato sul numero delle questioni di fiducia poste in parlamento dal giorno del giuramento. Dallo scorso 22 ottobre a oggi, cioè in nove mesi di attività, è stata chiesta 23 volte: 17 alla Camera e 6 al Senato. La media complessiva è di quasi 2,6 fiducie poste a Montecitorio e palazzo Madama.
La priorità è blindare i testi e silenziare i parlamentari. L’ultima risale a oggi, lunedì, alla Camera, dove il ministro per i Rapporti con il parlamento, Luca Ciriani, ha annunciato che il governo ha chiesto la fiducia sul decreto Alluvione. Ormai un copione consolidato. Il trend lascia pensare che non finisca qui: prima della pausa estiva bisogna convertire altri decreti. Già la prossima settimana è prevedibile una nuova fiducia durante il passaggio al Senato del decreto Alluvione che, in caso contrario, decade il 31 luglio. Di certo ne è stata prevista un’altra, entro fine mese alla Camera, sul decreto Pa bis.
COME MELONI NESSUNO MAI
Resta il fatto che nessun esecutivo politico ha mai avuto questi ritmi. La strategia è chiara: i parlamentari non possono illustrare nemmeno gli emendamenti preparati, devono limitarsi alle dichiarazioni di voto. E non si tratta solo di una questione tecnica, il risvolto è principalmente politico. L’alleanza di governo deve cercare di tagliare i tempi del confronto tra partiti, limitare il margine di manovra di deputati e senatori per scongiurare il rischio di trappole.
Il continuo ricorso alla fiducia, che dovrebbe mostrare la solidità della maggioranza, in realtà mostra la diffidenza con cui, da palazzo Chigi, guardano ai gruppi parlamentari. Nelle ultime ore Meloni ha anche superato il governo Gentiloni che, in tempi più recenti, era tra i più “fiduciosi” con una media di 2,3 al mese.
Il raffronto con i precedenti esecutivi è in effetti una mappa molto utile per comprendere la situazione. Gli esecutivi di «unità nazionale» di Mario Monti e Mario Draghi hanno messo la fiducia con una media superiore a 3 volte al mese. Ma la natura eterogenea delle loro maggioranze li esclude dalla graduatoria. Eppure, di questo passo, Meloni può avvicinarsi, facendosi beffe del fatto di avere in dote una maggioranza di matrice politica e ben solida – almeno – nei numeri.
«I dati dicono che c’è una fiducia quasi ogni 10 giorni», dice la vicepresidente del Pd, Chiara Gribaudo. «Ci saremmo aspettati un ritorno alla normalità – aggiunge la deputata – da chi si è presentato agli elettori con lo slogan “pronti” e da chi ora gode di un’ampia maggioranza parlamentare. Il concetto di democrazia di Meloni, evidentemente, è più vicino all’idea di comando che di governo».
Prezioso è il parallelo con il governo Conte II, che ha operato in una fase di eccezionalità come quella della pandemia mettendo insieme partiti distanti tra loro, dai renziani di Italia viva al Movimento 5 stelle. Nonostante questi fattori di instabilità, la media delle questioni di fiducia è stata di 2,3 al mese durante i 17 mesi di mandato. L’esecutivo di Matteo Renzi è stato ancora più cauto nel ricorso a questo strumento: ha blindato in media 2 provvedimenti al mese. Addirittura Conte I, quello sostenuto dall’alleanza Lega-Cinque stelle, ha posto la fiducia in appena 13 occasioni, poco più di una volta al mese.
SOLO BUONE INTENZIONI
L’abuso di testi blindati nei due rami del parlamento mette sul tavolo un problema istituzionale tutt’altro che secondario. Tutti promettono di rispettare le prerogative del parlamento, titolare del potere legislativo. Il capo dello stato, Sergio Mattarella, ha denunciando più volte questa stortura e ha invitato i presidenti delle Camera a prestare maggiore attenzione sull’uso dei decreti, che inevitabilmente favoriscono il ricorso alla fiducia. Lo scorso 19 luglio la presidente del Consiglio aveva fornito l’ennesima garanzia durante il «cordiale», come è stato definito, incontro con il presidente della Camera, Lorenzo Fontana. Nel faccia a faccia si era parlato di «decretazione d’urgenza, omogeneità dei decreti-legge e organizzazione dei lavori parlamentari», spiegava la nota ufficiale. Buone intenzioni, nulla di più. I fatti dicono altro. Ma quantomeno Fontana ha provato a far qualcosa, mentre il presidente del Senato, Ignazio La Russa, lascia correre senza battere ciglio.
(da agenzie)
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Luglio 24th, 2023 Riccardo Fucile
I SINDACATI: “LA SCUOLA NON E’ UN CENTRO ESTIVO, DAL MINISTRO SOLO PROPAGANDA”
Solo propaganda, slogan e misure fallimentari. La segretaria generale della Flc , Gianna Fracassi, attacca il ministro dell’Istruzione Valditara sulle ultime uscite, soprattutto sulla proposta di tenere le scuole aperte l’estate per aiutare le famiglie. Intervistata da Fanpage.it, la sindacalista critica anche la figura del docente tutor e annuncia che verrà impugnato il decreto sul dimensionamento scolastico.
Segretaria, cosa rispondete al ministro Valditara che dice di voler tenere le scuole aperte l’estate per aiutare chi lavora?
Bisognerebbe capire prima di tutto cosa significa. Vuol dire cambiare la decorrenza dell’anno scolastico? Segnalo che le scuole sono già aperte d’estate, perché ci sono corsi di recupero e si svolgono gli esami. Il ministro non va oltre gli slogan, come i suoi predecessori d’altronde.
Non è una novità quindi…
Tutti i ministri dell’Istruzione, in questa fase dell’anno, tirano fuori la stessa storia. Poi si rendono conto che la scuola non è un centro estivo, né un doposcuola. Se si vuole intervenire in questo senso ci sono già soggetti che se ne occupano, come gli enti locali. E poi c’è una differenza enorme tra l’aprire la scuola per dare una risposta a chi lavora, come ha detto il ministro Valditara, e l’aprire la scuola per compiere la sua missione, ovvero costruire un curriculum di competenze e conoscenze. Sono funzioni diverse.
Oggi si sta riparlando molto degli esami di riparazione da svolgere inderogabilmente entro agosto, è arrivata anche una nota del ministero…
È abbastanza incredibile, visto che già si tengono ad agosto. Poi le scuole, nella loro autonomia, definiscono i calendari. Non è una novità. Mi sembra che ci sia una percentuale di propaganda piuttosto alta, soprattutto su cose che le scuole già fanno.
A settembre non ci saranno gli esami di riparazione, però parte il docente tutor, che è stata un po’ la misura simbolo del ministro Valditara. Cosa ne pensa?
C’è un problema enorme su come è stata strutturata la figura. L’orientamento deve riguardare tutto il consiglio di classe, non può essere delegato a una persona che dovrebbe occuparsi da sola di una cinquantina di studenti. Così rischia di non raggiungere il suo scopo. Pensare, poi, che l’orientamento sia una funzione che si risolve con l’impegno di un insegnante e non con altri interventi – come ad esempio attività aggiuntive per i ragazzi – la rende un’operazione ancora più fallimentare.
Sull’importanza dell’orientamento, però, è d’accordo?
Le dico che l’orientamento comincia e si esaurisce solo durante la scuola secondaria di secondo grado, ma dovrebbe essere sviluppato dalle medie. Già lì si intravedono le difficoltà nell’identificare una scelta consapevole. Non avendo un biennio unitario, siamo sempre nella situazione in cui i ragazzi scelgono precocemente, il che favorisce la dispersione. E lo sappiamo da decenni. Ma è più semplice piantare la bandiera del tutor orientatore che risolve il problema. Anche in questo caso si affronta una questione complessa in maniera abbastanza banale.
Perché sul dimensionamento scolastico state protestando duramente contro le decisioni del ministro Valditara e del governo?
Perché Valditara è intervenuto con un ulteriore taglio dell’autonomia scolastica rispetto a quello già definito nel Pnrr. Questo riduce, soprattutto in alcuni territori, la presenza di istituzioni scolastiche autonome. Parliamo ti tagli fino al 24%. Non sono numeri bassi. È un intervento profondamente sbagliato, perché non solo ha un effetto sugli organici di dirigenti, docenti e personale Ata, ma si vanno anche a costituire delle mega-autonomie scolastiche, con una popolazione molto ampia, e si sguarniscono alcuni territori in maniera consistente. L’abbiamo già detto al ministro: impugneremo il decreto.
(da Fanpage)
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Luglio 24th, 2023 Riccardo Fucile
SI SCATENA UNA BUFERA POLITICA, MACRON INTERVIENE A MUSO DURO: “NESSUNO È AL DI SOPRA DELLA LEGGE”
“Un poliziotto non dovrebbe andare in prigione”: polemiche in Francia per le controverse dichiarazioni del direttore generale della polizia nazionale (Dgpn), Frédéric Veaux, che ieri ha chiesto la liberazione di un agente della brigata Bac di Marsiglia, finito in custodia cautelare nel quadro di un’inchiesta su presunte violenze di polizia perpetrate nell’ambito delle recenti rivolte urbane seguite alla morte di Nahel, il diciassettenne ucciso da un poliziotto il 27 giugno, durante un controllo stradale a Nanterre, alle porte di Parigi.
“Considero che prima di un eventuale processo, un poliziotto non debba andare in carcere, anche se ha commesso sbagli o errori gravi nell’ambito del suo lavoro”, ha dichiarato Veaux, mettendo in imbarazzo l’esecutivo e suscitando reazioni indignate nella classe politica. A cominciare dal segretario del partito socialista, Olivier Faure, che si chiede se “nel governo ci sia qualcuno che ricordi qualche nozione elementare del diritto” al capo della polizia.
O il capo della France Insoumise, Jean Luc-Mélenchon, che invita la polizia al “rispetto delle istituzioni repubblicane” mentre la capa degli ecologisti, Marine Tondelier, vede in queste dichiarazioni la radice di una “crisi istituzionale maggiore”.
Più in generale, la coalizione della sinistra Nupes mette in guardia su un'”allerta” ritenuta “ormai massima: se questi comportamenti che rimettono direttamente in discussione l’indipendenza della giustizia non vengono puniti verranno presto ribaditi con maggiore forza”.
Il presidente francese, Emmanuel Macron, dice di capire “lo stato d’animo” dei poliziotti dopo le recenti rivolte urbane seguite alla morte di Nahel, il diciassettenne ucciso da un poliziotto a Nanterre, alle porte di Parigi, ma ricorda che “nessuno nella Repubblica può essere al di sopra delle leggi”
Le forze dell’ordine traggono la loro “legittimità dal “fatto che proteggono il quadro repubblicano e che fanno rispettare le leggi democraticamente votate”, ha dichiarato il presidente in un’intervista diffusa a metà giornata su TF1 e France 2. “Ovviamente anche loro si iscrivono nel perimetro della legge e dello Stato di diritto”, ha aggiunto. Macron ha inoltre criticato i ”social network”, invocando “un ordine pubblico del digitale che consenta di prevenire queste derive”. E ha promesso, da settembre, un “patto insegnanti” che consenta di rafforzare la presenza dei docenti a scuola, incluso con una migliore retribuzione di professori e supplenti.
(da agenzie)
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Luglio 24th, 2023 Riccardo Fucile
IN ITALIA ESULTANO LE OPPOSIZIONI, I PARTITI DI MAGGIORANZA SILENTI… ALESSANDRA ROMPE IL MURO DEI COLLUSI FINTI “PATRIOTI”
Il flop della destra di Vox e il risultato dei popolari come primo partito, in Spagna, suscitano reazioni anche in Italia.
Elly Schlein esulta, ricavandone possibili auspici anche per una strategia di resistenza del suo Pd. «I risultati delle elezioni premiano il coraggio di Pedro Sanchez e della sua squadra e ribaltano un esito che sembrava già scritto. I veri sconfitti da un verdetto implacabile sono i nazionalisti di estrema destra di Vox», scrive sui suoi social la sdegretaria Dem.
«È la dimostrazione – aggiunge – che l’onda sovranista si può fermare quando non si punta ad alimentare le paure ma a risolvere i problemi concreti delle persone: aumentando il salario minimo e limitando i contratti a termine, affrontando sul serio l’emergenza climatica, limitando gli effetti del caro energia e dell’inflazione sulle imprese e sulle fasce più povere. Adelante!».
«Spero che dalle parti di Palazzo Chigi e in genere fra gli esponenti del governo si riesca a far tacere, almeno per un minuto, la propaganda e si esaminino seriamente i risultati spagnoli. Intelligenti pauca», scrive su Facebook il senatore iscritto al gruppo del Partito democratico, Pier Ferdinando Casini, commentando il risultato delle elezioni generali che si sono tenute ieri in Spagna.
Alessandra Mussolini, vice capodelegazione di Forza Italia (gruppo Ppe) al Parlamento Europeo, dice sulla mancata vittoria di Vox che «è una cosa positiva perché il partito della destra spagnola esprime dei contenuti, soprattutto per quanto riguarda i diritti, improntati al ritorno al passato. E’ un grande segno di civiltà della Spagna e della popolazione spagnola. Molto bene».
«Spagna infausta per Giorgia Meloni. L’unica cosa chiara del voto è infatti la sconfitta di Vox, una sorta di Fratelli di Spagna, e che popolari più sovranisti non raggiungono la maggioranza. E se non riescono a Madrid, figuriamoci a Bruxelles per le prossime elezioni europee», ha scritto sui social l’eurodeputato Giosi Ferrandino di Azione.
«In Spagna non sappiamo chi ha vinto, ma sappiamo chi ha perso: Vox, la destra estremista. È un segno interessante: non si vincono le elezioni contro l’Europa. E le prossime europee si vinceranno al centro. Un messaggio che da Madrid arriva forte e chiaro anche a Roma. Giorgia, la senti questa Vox?», ha commentato su Fb il leader di Italia Viva, Matteo Renzi.
(da agenzie)
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Luglio 24th, 2023 Riccardo Fucile
IN EUROPA, IL PREZZO PER UN PACCHETTO TURISTICO DI QUATTRO O PIÙ NOTTI SI AGIRA SUI 1.474 EURO… IN 14 PAESI SU 27 IL COSTO DELLE AGOGNATE VACANZE È PIÙ ALTO DI UN MESE DEL SALARIO SALARIO MINIMO
Secondo l’osservatorio prestiti di Prestitionline.it nel secondo trimestre di quest’anno l’incidenza dei prestiti destinati alle vacanze è aumentata dell’83,3% rispetto ai tre mesi precedenti raggiungendo il 2,2% del totale a cui si aggiunge poi lo stock dei cosiddetti prestiti di liquidità con cui molte famiglie finanziano varie spese, vacanze comprese, prestiti che a fine giugno avevano toccato quota 42,7% (dal 41,6% di 12 mesi prima). Un vero e proprio boom per i viaggi coi prestiti per andare in vacanza in aumento del 26% rispetto allo stesso periodo del 2022, anno in cui questa voce era già cresciuta addirittura del 302%.
La somma di salari bassi e inflazione alta costringe un italiano su 3 a rinunciare alle vacanze, oppure a fare i salti mortali per potersi concedere qualche giorno, magari indebitandosi o riducendo all’osso il numero di giorni da prendere. In tutto sono circa sei milioni gli italiani che si trovano in questa situazione, 38 milioni in tutta Europa secondo le stime della Confederazione europea dei sindacati (Ces), che elaborando gli ultimi dati di Eurostat ha calcolato che ben il 19,5% dei lavoratori europei quest’anno non può permettersi una settimana fuori casa.
Questo perché il prezzo medio dei pacchetti vacanza, quelli che possono offrire le soluzioni più convenienti, tra gennaio e maggio è aumentato del 12,4% in tutta l’Ue, dopo il +11,5% dello scorso anno. Si tratta dell’aumento più forte dal 1996 a questa parte.
A causa dei salari troppo bassi l’Italia è tra i paesi dove questo fenomeno pesa di più, dopo Romania (dove il 43% dei lavoratori non può permettersi vacanze, Grecia (37%) e Ungheria (34%). L’Italia col 30,75% si piazza al quarto posto al pari della Croazia e subito davanti a Cipro (30,1%). In media, ha calcolato la Ces, nel nostro paese un pacchetto vacanze quest’anno costa 1.319 euro
La nostra percentuale è ben oltre il doppio di quella che si registra in Francia e in Germania, dove solo il 13% dei lavoratori non può godersi un periodo di ferie estive». «Evidentemente, parliamo di persone che hanno, sì, un posto di lavoro, ma salari non adeguati o addirittura poveri – spiega Bombardieri – nel nostro Paese c’è una questione salariale in tantissimi settori, a cominciare, peraltro, proprio da quello del turismo, dove si stanno registrando considerevoli profitti, mentre restano al palo i rinnovi di molti contratti collettivi».
In base allo studio della Ces nell’Europa a 27 il costo medio di un pacchetto turistico di quattro o più notti è pari a circa 1.474 euro (si va da un minino di 498 in Romania ad un massimo di 3.932 in Danimarca).
E a conti fatti in ben 14 paesi su 27 il prezzo medio di un pacchetto turistico vale più di un mese di paga per chi guadagna il salario minimo. In Italia nell’ultimo anno il costo delle vacanze è aumentato del 14,1% battendo nettamente il record precedente del 2004 quando toccò il +10%.
Restare a casa risolve solo in parte il problema vacanze, perché anche il costo delle attività ricreative e culturali, comprese le visite al cinema o ai musei, è aumentato in media nei 27 paesi del 6,5%, un terzo in più rispetto alla crescita salariale nominale.
«Una vacanza è importante per il benessere dei lavoratori, ma l’aumento record dei prezzi significa che milioni di persone quest’estate non potranno concedersi una pausa – commenta il segretario generale della Ces, Esther Lynch -. Nel frattempo gli amministratori delegati che hanno causato l’inflazione usando la scarsità di offerta come scusa per aumentare i loro margini di profitto si prenderanno il sole nei resort di lusso. Lungi dall’essere una pausa, questa estate fa luce sulla profonda disuguaglianza che esiste nella nostra economia e società».
Di qui la richiesta che la Ces rivolge all’Unione europea ed ai governi nazionali di «porre fine alla crisi del costo della vita imponendo tasse straordinarie sui super profitti, che rappresentano i due terzi dell’inflazione, e ripristinando il potere d’acquisto dei lavoratori attraverso aumenti salariali dignitosi».
(da La Stampa)
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Luglio 24th, 2023 Riccardo Fucile
BENVENUTI A TELEMELONI, DOVE LA LOTTIZZAZIONE HA SUPERATO OGNI LIMITE, ANCHE QUELLO DELL’INDECENZA
«Non pensavo sarebbe stato così difficile». La frase è di un dirigente di primo piano della nuova Rai di stampo sovranista, Telemeloni l’hanno rinominata. Metterla in piedi in due mesi non è stato facile, neanche per chi della squadra aveva già familiarità con l’azienda, figurarsi per chi programmi non ne ha mai fatti e arriva da società collegate al servizio pubblico, come la nuova doppia punta alla guida della Rai per volere di Giorgia Meloni, composta da Roberto Sergio e Giampaolo Rossi.
Il risultato, alla fine, è stato raggiunto, la Rai è stata melonizzata. Perché chi non è andato via di sua sponte – sono stati tanti già nelle prime settimane, ma il telemercato di autori, redattori e inviati è lontano dalla conclusione – è stato allontanato, perfino fisicamente, in qualche caso. In azienda, hanno assistito perplessi. L’occupazione non è cosa nuova in Rai, ma la misura della lottizzazione della destra ha superato ogni precedente. Sia rispetto ai tempi del governo gialloverde Conte I che nel confronto con i governi Berlusconi. Anche se, ovviamente, Giorgia Meloni non ha tre televisioni a propria disposizione.
A colpire, nei corridoi di viale Mazzini e Saxa Rubra, è stato soprattutto il rancore e la voglia di rivalsa dei nuovi padroni: un sentimento che nella narrazione sovranista è un riscatto meritato dopo la cronica penalizzazione di giornalisti e conduttori di destra in Rai. Peccato sia un racconto che non corrisponde a realtà. E per averne prova, basta guardare alle carriere di tre punti di riferimento della destra in Rai.
PETRECCA, SANGIULIANO & CO.
Paolo Petrecca, direttore di RaiNews, per esempio, è diventato caporedattore politico nel 2017, sotto la direzione di Antonio Di Bella e durante il governo Gentiloni.
Gennaro Sangiuliano, oggi ministro della Cultura, è stato nominato vicedirettore del Tg1 nel 2009 e direttore del Tg2 nel 2018: momenti in cui la destra era al potere, ma nessun governo di sinistra ha poi messo bocca sui suoi incarichi.
Stesso discorso per Nicola Rao: oggi direttore della comunicazione della Rai (e a lungo in ballo come nome alternativo a Gian Marco Chiocci al Tg1), è stato responsabile della redazione del Lazio della TgR dal 2010 al 2017. Da lì è passato alla vicedirezione della TgR fino al 2021, per poi traslocare alla vicedirezione del Tg1 e, nel 2022, alla direzione del Tg2. Nessuno dei tre ha dovuto svolgere mansioni da Cenerentola, insomma.
Arrivati al potere, però, i meloniani non hanno avuto lo stesso riguardo per i loro avversari politici. Anzi, è partita una campagna alla conquista di più poltrone possibili, nelle direzioni come nei palinsesti.
Arrivando a creare spazi utili soltanto a rafforzare la presa – già salda – della destra sul servizio pubblico, come il numero sempre più alto di vicedirettori (in Radio sono arrivati addirittura a otto, anche se da viale Mazzini ci tengono a dire che ai tempi della direzione di Antonio Caprarica erano altrettanti), oppure ritoccando la durata dei programmi in modo da trovare strisce da assegnare a volti e penne amici.
Senza troppa compassione per chi ha dovuto fare le valigie e magari, a prescindere dall’orientamento politico, poteva fornire una professionalità utile all’azienda. Una decisione che si è poi rivelata un boomerang per Sergio e Rossi.
Fare fuori chi conosceva a fondo i meccanismi che mandano avanti tv e radio di stato ha lasciato i vertici soli anche nella stesura dei nuovi piani editoriali. E, potendo contare su pochissimi interlocutori interni disposti a dare una mano ai due meloniani, Rossi ha deciso di rivolgersi a consulenti esterni, ovviamente retribuiti a dovere e, mormora qualcuno, non esattamente di comprovata fede meloniana.
SCOMMESSE RISCHIOSE
Da viale Mazzini sottolineano che mettere in piedi i palinsesti autunnali in poche settimane è stata impresa quasi impossibile, ma si è riusciti ad arrivare in fondo, alla riunione del Consiglio d’amministrazione di questo martedì, che chiuderà anche la trattativa sulle squadre dei direttori di testata e di genere. I nuovi dirigenti si danno pacche sulle spalle, alla fine è andato quasi tutto come doveva.
Gli uomini di Meloni sono riusciti anche a riempire i buchi che si sono aperti con le defezioni di chi non voleva più lavorare in quel contesto. Come è successo nel caso di Bianca Berlinguer, migrata verso Mediaset a poche ore dalla presentazione dei palinsesti. Per farlo, le prime file della Rai sovranista non hanno esitato ad aprire parecchie trattative anche fuori dai confini dell’azienda. Ma i volti non Rai che i sovranisti di viale Mazzini desiderano di più restano – per il momento – sogni irrealizzati.
Come quello di Nicola Porro. A cui, nonostante i tempi strettissimi per chiudere la programmazione autunnale erano state dedicate ben due settimane di trattativa. Tutto in fumo, alla fine il giornalista, che può vantare un legame solido sia con Meloni che con Matteo Salvini (e che compariva, non è chiaro a che titolo, nel video dell’incontro tra il ministro degli Esteri Antonio Tajani e l’imprenditore Elon Musk) ha deciso di restare a Mediaset per ottenere, oltre al suo programma in prima serata, anche la conduzione dell’access time dei giorni feriali.
La decisione di chiudere la trattativa per quello che, nei sogni della Lega, sarebbe dovuto diventare un “anti-Report” ha lasciato l’amaro in bocca al settimo piano di viale Mazzini, dove si cita spesso l’incapacità di competere economicamente con le reti private per conduttori e giornalisti. «Gli stipendi Rai devono rispettare un tetto a cui altri non sono vincolati. Certo, bisogna valutare per chi vale la pena spenderli».
MASSIMO GILETTI
Uscito di scena Porro, l’altro nome su cui la Rai vorrebbe mostrarsi competitiva è quello di Massimo Giletti. Ma è ancora presto: troppo incerta la situazione che avvicina il conduttore di Non è l’arena alla vicenda dell’indagine della procura di Firenze.
Ma da agosto, fanno sapere, l’intenzione di viale Mazzini è quella di esplorare la disponibilità del giornalista per qualche evento singolo, in prima serata. Più avanti, è il ragionamento, se non dovessero esserci rischi di sorta, per il conduttore tornerebbe in ballo la prima serata del giovedì di Rai 2, lo spazio che la rete dedica tradizionalmente all’approfondimento e che fu di Michele Santoro.
Non si vuole rischiare un altro Facci, che ha scottato i vertici aziendali nelle ultime settimane. C’è chi non nasconde una certa incomprensione per quella scelta e forse un filo di sollievo nel sapere che l’imprevedibilità dell’editorialista di Libero è stata disinnescata.
Quel nome, calato dall’alto, avrebbe potuto provocare ulteriori imbarazzi, nonostante nella pianificazione del programma siano state prese una serie di precauzioni per mettere al riparo il servizio pubblico da eventuali passi falsi di Facci.
Ma la verità è che se i direttori sperano di delegare la messa a terra dei programmi ideati in queste settimane ai loro vice freschi di nomina, la nuova stagione si preannuncia rischiosa su tanti piani.
Già il palinsesto estivo, per certi versi, non sta dando i risultati sperati: la settimana scorsa, per la prima volta nella storia della sfida tra i due programmi del mattino, Omnibus di La7 ha scavalcato Agorà, su Rai 3, in termini di share. Ma i vertici rischiano di andare incontro a un autunno caldo nei rapporti con le redazioni.
Per ribilanciare gli investimenti in nomi esterni all’azienda, infatti, la Rai, che già si trascina dietro conti in profondo rosso, mette in conto di compensare altrove. Vero è che con la chiusura di tanti programmi molti collaboratori potranno essere sostituiti da figure più in linea con il nuovo corso, ma Sergio e Rossi hanno comunque intenzione di sbloccare le immatricolazioni di esterni, un modo per portare in azienda persone di fiducia.
Ma il problema dei soldi rimane. Un discorso che riguarda soprattutto la testata giornalistica radiofonica, dove i circa 200 giornalisti ora in mano al soldato di Salvini, Francesco Pionati, rischiano di vedersi meno valorizzati a favore di numerosi (e costosi) colleghi esterni all’azienda e potrebbero dover rinunciare alla possibilità di lavorare in trasferta. Stesso discorso per i programmi di approfondimento, dove il timore di molti è che, per tagliare i costi, si intervenga drasticamente sui contributi che oggi arrivano da fuori dalla redazione.
«Duemila giornalisti sono tanti, forse troppi» è una frase che si sente ripetere spesso ai piani alti di viale Mazzini, e il clima che si è creato nei primi mesi di Telemeloni riflette i dubbi che circolano sul valore delle testate. Certo, l’antipatia per la categoria che condividono sia Rossi sia Sergio non aiuta
IL CANONE
Resta poi la questione del canone. Per Salvini, ispirato dal suo responsabile Editoria Alessandro Morelli, la rimozione dalla bolletta (o almeno un ritocco al ribasso) resta una delle bandiere da sventolare in vista delle elezioni europee per superare a destra Meloni. Anche se per il momento Fratelli d’Italia è riuscita a contenere le ambizioni della Lega relegando la questione a un tavolo istituto al ministero dell’Impresa.
Per avere un’ulteriore assicurazione sui flussi di denaro, Rossi e Sergio si sono però anche tutelati inserendo un articolo che difende la Rai nel nuovo contratto di servizio, in modo da garantire all’azienda i fondi necessari per realizzare tutte le attività previste dal perimetro attuale.
IL TELECOMANDO NON SERVE
Se chiudere i palinsesti in poche settimane è stata un’impresa, figurarsi farlo mentre si stende il manifesto di una nuova narrazione per il paese. Ma Rossi è riuscito a distillare la sua visione del mondo – quella contenuta anche nel suo storico blog – nel contratto di servizio, dal quale sono stati cancellati tutti i riferimenti ad accoglienza e giornalismo d’inchiesta, introducendo piuttosto la celebrazione di sport e «gusto italico». L’impianto del documento dà una prima idea della Rai che verrà. E, a dispetto dei proclami, ha poco a che fare con il pluralismo.
L’azienda esce impoverita dall’intervento dei meloniani: la spartizione politica, che ha infarcito i palinsesti dei volti più cari alla destra, ha stravolto in maniera drastica anche delle reti tradizionalmente punto di riferimento dell’elettorato di sinistra, come Rai 3 e Radio 1.
Una prova di «pluralismo», nell’interpretazione meloniana del termine, sempre in virtù di un’“occupazione” della sinistra da compensare. Con il rischio che la fetta di telespettatori che sceglieva la Rai per seguire programmi come quelli di Fabio Fazio, Lucia Annunziata e Berlinguer, alla fine, si rivolga alla concorrenza, con la certezza che le tre principali reti Rai – complice anche la riforma Renzi, che ha cancellato le direzioni verticali in favore di quelle orizzontali – hanno ormai rinunciato alle proprie identità.
La sinistra, in Rai, sopravvive soltanto dove la destra non è ancora riuscita a intervenire. Marco Damilano resta un altro anno grazie alla protezione che gli garantisce il suo contratto, Serena Bortone copre il suo spazio nel fine settimana, mentre Monica Giandotti si occuperà di giovani (ma forse per lei si aprirà uno spazio nel lunedì sera di Rai 3). Ma quel che resta di “Telekabul” è tutto qui.
Anche nella partita delle vicedirezioni di rete e di testata, che a Saxa Rubra vengono considerate, a torto o a ragione, le briciole che la maggioranza di turno lascia alle opposizioni, il Pd rischia di non avere le soddisfazioni che si aspettava. Basta guardare RaiNews. Sotto Petrecca – forse non il più alto campione del pluralismo, considerato l’intervento drastico sul pezzo di una redattrice a proposito del caso La Russa – la sinistra è sparita, con l’uscita di scena dei vicedirettori di area, tra cui Diego Antonelli, al quale si deve la realizzazione del nuovo portale web della Rai.
GEMELLI DIVERSI
L’assalto alla diligenza che ha caratterizzato i primi mesi della destra al timone della Rai emerge anche in questa partita. Sergio e Rossi sono riusciti a presidiare persino le seconde file della dirigenza di viale Mazzini, sintomo evidente del complesso di accerchiamento che vivono. I due combattono uniti verso gli attacchi che arrivano dalle opposizioni, anche se per la verità non sono tantissimi, visto che in Consiglio d’amministrazione possono contare sulla “non opposizione” del consigliere di area M5s, Alessandro di Majo. “Ammorbidito” con una serie di concessioni ai Cinque stelle. Ma non è detto che Sergio e Rossi continuino a marciare compatti.
C’è un dettaglio che ha colpito chi assisteva alla presentazione dei palinsesti autunnali andata in scena al centro di produzione di Napoli, che quest’anno celebra il suo sessantesimo compleanno. Il sette luglio, alla conferenza stampa condotta dal capo ufficio stampa Fabrizio Casinelli c’erano inizialmente cinque poltroncine: dopo che si sono seduti Sergio, il direttore della distribuzione, Stefano Coletta, la direttrice di RaiPlay, Elena Capparelli, e Gian Paolo Tagliavia, ad di Rai Pubblicità, una è rimasta vuota. Era destinata al dg Rossi che però, all’ultimo, ha preferito salire sul palco soltanto quando chiamato in causa dalle domande dei giornalisti.
Una decisione che mostra quali siano i rapporti di forza nella diarchia che, dicono i più generosi, rallenta ulteriormente un’azienda già di per sé elefantiaca. Sergio in prima fila e Rossi nelle retrovie. Con il risultato che spesso i due abbiano idee molto difficili da conciliare.
L’idealista contro il pragmatico, come ha mostrato il caso Facci. Sergio lo avrebbe voluto liquidare fin da subito, dopo le sue parole inaccettabili sul caso La Russa, mentre Rossi ha voluto tenere il punto, almeno per qualche giorno. Alla fine, però, l’ad ha avuto la meglio. E forse, a posteriori, ha fatto un favore alla maggioranza: il precedente può diventare un’arma nelle mani della destra, che ha promesso di portare in commissione di Vigilanza il caso di Roberto Saviano, che ha dato della «bastarda» alla premier e del «ministro della Mala Vita» a Salvini.
La prossima scadenza dei due dioscuri meloniani è maggio 2024. Il piano originario prevede che la prossima primavera Sergio e Rossi si scambino i posti, in modo da garantire all’ideologo della presidente del Consiglio un intero mandato per portare a termine la trasformazione del servizio pubblico in uno strumento a sua disposizione.
Sergio si sta mostrando però meno mansueto di quanto la destra si aspettasse e ha approfittato del suo ruolo per risolvere qualche conto in sospeso o proteggere chi voleva salvare dalla scure della destra. Anche nella gestione delle prime crisi, alla fine ha preso lui in mano la situazione, consapevole del fatto che la faccia da mettere sulle decisioni della nuova Rai era sempre la sua. Il rischio, dal punto di vista di Rossi, è quello di far accumulare troppi crediti con la maggioranza al vecchio democristiano sull’orlo della pensione, che potrebbe essere interessato a qualche poltrona dell’universo Rai (come quella di Rai Cinema o quella di Radiorai) al termine dell’incarico che ha accettato «per senso di responsabilità», come ha detto lui stesso.
L’altra partita che deve giocarsi Rossi è quella del suo rapporto personale con la presidente del Consiglio. Che, attualmente, è altalenante. Non è l’unico, considerata l’ambizione della premier di avere sempre tutto sotto controllo. Un atteggiamento che lascia a chi collabora con lei pochissime possibilità di sbagliare.
Le prime settimane in Rai però non sono andate benissimo e Rossi, che pretende di essere l’unico ufficiale di collegamento tra palazzo Chigi e viale Mazzini ed esclude l’ad dai suoi confronti con Meloni, ha dovuto prendersi tutte le responsabilità del caso.
Certo, ci sono rapporti personali della premier che sfuggono al controllo dell’ideologo accentratore, come quello con Bruno Vespa e Chiocci, ma a livello dirigenziale è per lui essenziale rimanere l’uomo di Meloni in Rai. Per poter aspirare, più avanti nella legislatura, ad assaporare gli effetti della riforma della governance che nei ragionamenti della destra sparsa tra parlamento e viale Mazzini rimbalza già da un po’. L’intenzione è quella di portare la durata del mandato dell’ad almeno a quattro anni. E rendere così la Rai «di tutti», come recita il nuovo slogan aziendale, ma soprattutto di Rossi.
(da editorialedomani.it)
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Luglio 24th, 2023 Riccardo Fucile
ENNESIMO BALZELLO PER I FUORISEDE
Da oggi, lunedì 24 luglio, chi lavora, studia o è in vacanza a Milano senza avere la residenza in Lombardia dovrà pagare per accedere ai servizi della guardia medica.
Il costo per una visita in ambulatorio è di 20 euro, mentre per i controlli a domicilio la cifra sale a 35. Ad annunciare la novità, richiesta a gran voce per anni dai sindacati dei medici, è una stringata nota pubblicata da Ats Milano.
La vicenda che ha portato alle nuove regole inizia in realtà nel 2007, quando Regione Lombardia e i sindacati – ricorda il Corriere – decidono di eliminare il pagamento cash delle visite per i cittadini non residenti e i compensi extra. In cambio, i camici bianchi ottengono un aumento della tariffa oraria da 22 a 23 euro l’ora. Un aumento modesto, che viene giudicato però «ingiustificato» dalla procura della Corte dei Conti. Si arriva così al 2019, quando l’accordo viene sospeso e i medici iniziano a visitare gratuitamente anche chi non ha la residenza in Lombardia ma abita a Milano.
Il nuovo accordo con i sindacati
A fine 2020, la situazione cambia. Regione Lombardia, tramite le Ats, chiede ai medici di restituire i soldi ricevuti negli anni precedenti come contributo aggiuntivo. Ne nasce un contenzioso, con alcuni camici bianchi che accettano di pagare e altri che chiamano in causa gli avvocati. Alla fine la Corte dei Conti raggiunge il suo verdetto definitivo: quell’aumento di un euro del 2007 è legittimo. Di conseguenza, non c’è nulla da restituire. Archiviati i contenziosi e le battaglie legali, nel 2022 si arriva a un nuovo accordo che prevede la tariffa extra per chi non ha la residenza in Lombardia e non è iscritto – neppure in via provvisoria – al servizio sanitario regionale. La cifra fissata dal nuovo accordo prevede un costo di 20 euro per le visite in ambulatorio e di 35 euro per quelle a domicilio, da pagare sempre tramite pos. Chi risiede in un’altra regione può chiedere il rimborso del ticket alla propria Asl, ma solo se previsto.
Le proteste delle opposizioni
La novità annunciata in questi giorni da Ats Milano ha scatenato la protesta delle opposizioni in consiglio regionale. «La guardia medica (servizio pessimo sul quale ho già presentato interrogazioni) diventerà a pagamento per gli studenti fuori sede. Nota categoria di persone che navigano nell’oro. Che vergogna», commenta il consigliere di centrosinistra Luca Paladini. Il timore è che il costo di queste nuove regole finisca per essere scaricato su chi, soprattutto a Milano, già fatica a fare i conti con il caro affitti e con l’inflazione sempre più alta. Secondo le stime dell’Unione degli Universitari, a gennaio 2022, erano circa 66mila gli studenti fuori sede a Milano. L’introduzione di una tariffa extra per l’accesso alla guardia medica rischia anche di intasare i pronto soccorso, che restano gratuiti. L’unica alternativa, come ricorda Regione Lombardia, è chiedere l’iscrizione temporanea al Servizio sanitario regionale. Una procedura totalmente gratuita e che permetterebbe a chi risiede a Milano di accedere alle visite in guardia medica senza dover pagare una tariffa extra.
(da agenzie)
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