Agosto 22nd, 2024 Riccardo Fucile
L’INTERCETTAZIONE DI TOTI: “SAPPIAMO GIA’ CHI VINCE L’APPALTO”… LA PROCURA EUROPEA INDAGA PER TURBATIVA D’ASTA
Che la Procura europea (o Eppo) avesse aperto un fascicolo sul progetto della diga di Genova era già noto da diversi mesi. Ora, però, si sa anche qual è il reato ipotizzato dai magistrati: turbativa d’asta, con danno agli interessi finanziari dell’Unione europea.
In questi giorni infatti è emerso che la Procura di Genova ha inoltrato ai pm europei i fascicoli dell’indagine per corruzione che ha visto gli arresti domiciliari e poi le dimissioni dell’ex presidente della Liguria Giovanni Toti. In particolare, è circolata un’intercettazione dello stesso Toti: “La diga è già in gara, sappiamo già anche chi la fa”. I procuratori europei che seguono il caso sono Stefano Castellani e Adriano Scudieri, nella sede di Torino, che è competente per le questioni di Genova.
Cosa ha detto Toti sulla diga di Genova
A settembre 2021, molti mesi prima del via alla gara per la diga (che sarebbe partita a giugno 2022) e dell’assegnazione ai vincitori (avvenuta a ottobre 2022, più di un anno dopo), l’allora presidente ligure era al telefono con l’imprenditore Aldo Spinelli, anche lui coinvolto nell’inchiesta per corruzione. Su invito di Spinelli (“della diga non ne parlate mai, ma parte sta diga o no?”), Toti aveva risposto: “La diga, ma la diga è fatta… è già in gara”, per quanto non fosse così.
Poi Toti era andato oltre: “Sappiamo già anche chi la fa però non te lo… (ride)”. Spinelli aveva chiosato: “Speriamo che vincano quelli del ponte non i cinesi perché quelli lì sono in bancarotta”. E a quel punto Toti si era lanciato: “Ma no vince vince vince, secondo me vince Salini Fincantieri e Fincosit”.
Una previsione che, se viene dal presidente di Regione e riguarda un bando da un 1,3 miliardi di euro finanziato dal Pnrr (o meglio, dai fondi stanziati dall’Italia per le opere “complementari” al Pnrr) , attira l’attenzione degli inquirenti. Tanto più perché si è dimostrata giusta. La gara per la diga è andata al consorzio Breakwater, che univa quattro soggetti: Webuild (ovvero Salini), Fincantieri, Fincosit e Sidra. Le prime due sono le stesse aziende che hanno ricostruito il ponte San Giorgio dopo il crollo del ponte Morandi.
Le critiche dell’Anticorruzione all’asta per la diga
L’Eppo ha ricevuto anche documenti dall’Anac, l’autorità italiana anticorruzione, che aveva già contestato le procedure seguite per l’appalto (il commissario che seguì la gara fu Paolo Emilio Signorini, già presidente dell’Autorità portuale, e anche lui indagato nell’inchiesta per corruzione).
Secondo l’Anac ci sarebbero state “scarsa trasparenza, conflitti di interesse” e anche “mancato rispetto della concorrenza”. Tra le altre cose, il contratto per la diga avrebbe previsto degli adeguamenti in base alle “condizioni geologiche e geotecniche e ai campi di prova”. Una clausola che, per l’Anac “annulla i rischi di impresa dell’appaltatore”.
Sulla gara, va detto, la giustizia amministrativa si è già espressa. Il consorzio che aveva perso l’appalto aveva fatto ricorso al Tar, e in primo grado aveva avuto ragione. Ma in appello il Consiglio di Stato ha ribaltato la sentenza, dichiarando che la procedura è stata regolare.
(da Fanpage)
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Agosto 22nd, 2024 Riccardo Fucile
SONO ACCUSATI DI VIOLENZA PRIVATA E LESIONI PERSONALI AGGRAVATE
Sono scattati i domiciliari per i quattro militanti di CasaPound indagati per l’aggressione
avvenuta un mese fa ai danni del giornalista Andrea Joly. Le accuse sono violenza privata aggravata e lesioni personali aggravate.
Questa mattina la Polizia di Stato ha eseguito le quattro misure cautelari al termine delle indagini guidate dal pm Paolo Scafi. Lo scorso 20 luglio il giornalista de La Stampa, che si trovava nei pressi del circolo Asso di Bastoni, era stato avvicinato da alcune persone dapprima intenzionate ad accertarsi dell’identità del ragazzo. Il locale è noto per essere frequentato abitualmente da militanti di estrema destra, nello specifico di CasaPound.
Dopo aver compreso che Joly non avesse nulla a che fare con le organizzazioni di estrema destra, tali individui avevano cominciato a minacciarlo perché consegnasse loro il suo telefono. Alle aggressioni verbali sono presto seguite quelle fisiche, sfociate in calci e pugni ai danni del giornalista.
Nei video pubblicati nei giorni successivi si vede chiaramente Joly colpito a terra da tre individui fuori dal circolo. Quella sera era in corso un evento identitario con tanto di inni e cori fascisti intonati dai partecipanti.
Dopo l’accaduto la Digos aveva avviato immediatamente degli accertamenti che hanno portato all’individuazione di cinque responsabili, ma per il quinto non è stata disposta alcuna misura cautelare.
Il pestaggio ai danni del giornalista era finito al centro delle polemiche dopo le dichiarazioni di Ignazio La Russa sulla vicenda. “Io credo che i giornalisti dovrebbero fare in modo più attento le loro incursioni. Ho letto che (Joly) non si è mai dichiarato giornalista, non vorrei che ci fossero metodologie che innescano reazioni, non sto giustificando niente ma non credo che il giornalista passasse lì per caso e sarebbe stato bello se lo avesse ammesso”, aveva dichiarato la seconda carica dello Stato scatenando la reazione indignata delle opposizioni. La Russa aveva poi corretto il tiro. “Questo non giustifica la reazione violenta, non c’è nulla che possa giustificare il passare dalle parole ai fatti, da parte mia c’è condanna assoluta verso gli aggressori”, aveva dichiarato.
(da Fanpage)
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Agosto 22nd, 2024 Riccardo Fucile
LA LEGGE ANNUNCIATA E’ FERMA AL SENATO DA 9 MESI
Il tema del lavoro povero è scomparso dall’agenda di governo, alla stessa velocità con cui aveva fatto irruzione circa un anno fa, di fronte alla necessità di contrastare la proposta delle opposizioni sul salario minimo. Era l’11 agosto 2023 e Giorgia Meloni convocava a palazzo Chigi i leader dell’opposizione, a confrontarsi sui possibili rimedi per i salari bassi, dopo settimane di rinvii della discussione della proposta di legge – sottoscritta dai partiti del centrosinistra più Azione – per fissare a 9 euro lordi l’ora la retribuzione minima dei lavoratori. La storia ci racconta come è finita la corsa della legge sul salario minimo, portato dalla maggioranza su una linea morta alla Camera.
Come compensazione, il centrodestra il 6 dicembre 2023 ha approvato una legge delega, per affidare al governo la responsabilità di legiferare su due aspetti: da una parte, assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi e contrastare il lavoro sottopagato; dall’altra, mettere ordine al sistema della contrattazione collettiva. In quei giorni, la ministra del Lavoro Marina Calderone assicurava che l’esecutivo sarebbe intervenuto nei primi mesi del 2024. E il sottosegretario di via Veneto Claudio Durigon vaticina che l’obiettivo sarebbe stato raggiunto entro il 1 maggio di quest’anno
Che fine ha fatto la legge sul lavoro povero
Sono passati più di otto mesi. Non solo il governo non ha ancora presentato una proposta sul lavoro povero, ma la legge delega sulla materia giace nei cassetti del Senato, dove deve ancora iniziare la discussione in Commissione. Dice a Fanpage.it la senatrice Pd Susanna Camusso che dalla maggioranza e dal governo non è mai arrivata una spiegazione, circa la scomparsa del testo. “Questo dimostra come la delega è stata un puro trucco parlamentare, per affossare la discussione sul salario minimo”, sostiene l’ex segretaria della Cgil. E per la a vicepresidente del Senato M5S Mariolina Castellone: “Il ritardo non è casuale, il governo non ha alcuna intenzione di intervenire in modo serio e strutturale sui salari e continua a perdere tempo”.
Abbiamo provato a raggiungere per un commento anche il presidente della Commissione Lavoro e Affari Sociali a palazzo Madama, il meloniano Francesco Zaffini, ma senza successo. Va detto che subito prima della pausa estiva, il testo è riemerso dai meandri di palazzo Madama ed è stato finalmente incardinato in commissione. “Hanno sperato che il tema passasse ‘di moda’ – dice ancora Camusso- ma siccome questa operazione non gli è riuscita e c’è in corso la raccolta di firme per la legge di iniziativa popolare sul salario minimo, hanno ricominciato a sventolare un drappo”.
Come tutte le leggi delega, però, anche questa ha un iter piuttosto complesso. Dopo l’esame in commissione e il voto in Aula, il governo dovrà adottare entro sei mesi i decreti, per concretizzare i principi generali contenuti nella legge. Questi decreti poi dovranno di nuovo essere sottoposti ai pareri delle Camere, prima del via libera definitiva dell’esecutivo. Insomma, anche se da settembre si procedesse spediti al Senato, non avremmo una norma in vigore prima del 2025. In ogni caso, le opposizioni ritengono insufficienti le promesse della maggioranza, che continua a rifiutare l’idea di un salario minimo legale e mira a estendere il più possibile le forme di contrattazione collettiva.
La battaglia d’autunno sui salari
“In un Paese che fra il 2013 e il 2023 ha visto il potere d’acquisto delle retribuzioni diminuire del 4,5 percento – dice a Fanpage.it la senatrice M5S Castellone – il solo taglio del cuneo fiscale è insufficiente. Occorre stabilire, una volta per tutte, quali retribuzioni sono rispettose dell’art. 36 della Costituzione e quali no, e al contempo stabilire criteri che misurino la reale rappresentanza delle parti sociali, per spazzare via i ‘contratti pirata’. E per la collega dem Camusso: “Questo governo non capisce assolutamente nulla del tema dei salari e si rifiuta di affrontare quello che è uno strumento essenziale, sia per il lavoro povero sia per le tante forme di precarietà e di irregolarità”.
Per questi motivi, assicurano le due esponenti dell’opposizione, quando la legge delega sarà discussa in Commissione Lavoro a palazzo Madama, il tema della retribuzione minima verrà riproposto. Spiega Camusso: “È nostra intenzione quella di ripresentare tutti insieme la proposta di legge, non possono pensare di fare una discussione solo sulla loro ipotesi”. E conclude Castellone: “Malgrado l’ostinata contrarietà di governo e maggioranza e le fake news, la nostra battaglia va avanti”.
Anche se il centrodestra decidesse di ritardare ancora la discussione in Senato, a breve il governo sarà comunque obbligato ad affrontare la materia. Il 15 novembre, infatti, scade il termine per recepire la direttiva europea sul salario minimo. L’esecutivo italiano sostiene che per l’Italia cambierà poco o niente, perché la direttiva si rivolge agli Stati che hanno un livello di contrattazione collettiva meno esteso rispetto al nostro. Ma al momento di tradurre la normativa europea nel nostro ordinamento, altri nodi potrebbero incendiare il dibattito. E se si considera che nelle stesse settimane, Meloni e i suoi ministri dovranno varare anche la legge di bilancio, è facile immaginare come sul fronte dei salari si prospetti il classico ‘autunno caldo’.
(da Fanpage)
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Agosto 22nd, 2024 Riccardo Fucile
IL TIMORE DI UNO SGANCIAMENTO DI FORZA ITALIA, L’UNICO PARTITO DI GOVERNO CHE FA PARTE DELLA “MAGGIORANZA URSULA” IN EUROPA, SI INCROCIA CON L’OSTILITÀ VERSO MARINA E PIER SILVIO
Propone di arricchire il programma di coalizione con lo Ius scholae ,forse di approvarlo
con una maggioranza trasversale. La presidente del Consiglio è furiosa. Nella telefonata a tre con Matteo Salvini aveva chiesto di smetterla con questa pretesa. Inascoltata. I peggiori sospetti si saldano.
Il timore di uno sganciamento di Forza Italia, l’unico partito di governo che fa parte della “maggioranza Ursula” in Europa, si incrocia con l’ostilità verso i fratelli Berlusconi. Parte l’ordine di ignorare l’azzurro.
Ma Meloni è preoccupata. Sa che la situazione potrà soltanto peggiorare. Matteo Salvini teme il generale Vannacci e non può tacere. E infatti, a metà pomeriggio, il governo si squarcia con il siluro di Matteo Piantedosi. Se il ministro dell’Interno propone di cambiare le regole per diventare italiani, Meloni non può più fare finta di nulla.
C’è un dettaglio che manda su tutte le furie la premier: lo Ius scholaedi cui parla Forza Italia ricalca un’idea che la stessa Meloni aveva sostenuto pubblicamente nel 2022. Due anni, non due decenni fa. Fatica dunque a opporsi, ma è bloccata: incombe il progetto Vannacci, “nessuno nemico a destra” resta l’ossessione. Ne deve fare dunque una questione di forma e priorità.
Non è nel programma, dice, semmai in quello delle opposizioni. E non è un’urgenza. È il senso del messaggio che consegna a questo giornale Tommaso Foti, capogruppo di FdI titolato a interpretare il pensiero del capo: «Legittimo che Tajani ribadisca una convinzione sua e del suo partito – premette – Resta il fatto che sia il Pd che altri gruppi d’opposizione hanno presentato a inizio legislatura una proposta sulla cittadinanza, ma mai hanno chiesto di iniziare l’esame». Premi e metti in difficoltà l’esecutivo più del centrosinistra, è il messaggio a Tajani. «Nei prossimi giorni – aggiunge – la maggioranza dovrà iniziare ad affrontare tra i temi più rilevanti quello della legge di stabilità». Di altro, insomma, ci occuperemo.
Meloni considera allarmante l’attivismo azzurro. E osserva le mosse dei fratelli Berlusconi, indispettita. Fonti autorevoli del cerchio magico meloniano si soffermano su dettagli all’apparenza insignificanti. Fanno notare ad esempio un’intervista di Pier Silvio dopo Milan-Monza nel trofeo Berlusconi, concessa con al fianco uno dei suoi figli: rappresenterebbe, questa è la tesi ardita, un indizio della tentazione di impegnarsi in prima persona. Sospetti e paranoie, specchio di una sindrome da accerchiamento che a Palazzo Chigi straripa. Vale lo stesso per la paura che indefiniti poteri forti si stiano muovendo per rovesciare l’esecutivo
Su Tajani il giudizio della premier è più complesso. Il rapporto con Meloni è antico e consolidato. Ma è evidente che l’azzurro interpreta una spinta che non arriva solo dai fratelli Berlusconi (ormai celebre l’intervista d Marina sui diritti), ma anche da settori sempre più larghi del partito. Anche ieri, dopo l’intervista ab Repubblica , molti dirigenti si sono esposti a suo favore. E non basta.
C’è un punto che angoscia più di altri Meloni e i suoi colonnelli. È un passaggio di Tajani in cui indica il target elettorale di Forza Italia: «Diciamo, tra Meloni e Schlein». Alla leader non piace l’idea di voler trasformare Forza Italia in un ponte tra le due coalizioni, pur restando lealmente nel centrodestra. Per la premier, quello di Tajani è un posizionamento potenzialmente utile a smarcarsi in futuro, nel caso in cui l’attuale esecutivo andasse in crisi e si aprissero scenari diversi.
Figurarsi allora la reazione di Palazzo Chigi alle moltiplici aperture di Pd, 5S e addirittura Avs sullo Ius scholae .
Paranoie e accerchiamento. Che rendono ancora più sottile la lastra di ghiaccio su cui pattina il vicepremier. Attento a non strappare con Meloni, attentissimo a interpretare la sensibilità dei Berlusconi. L’obiettivo politico resta quello di allargare il consenso e mantenere FI ancorata al Ppe. In cima all’interesse del ministro degli Esteri c’è però soprattutto un’area, quella cattolica. Anche in questo caso, il calcolo è frutto di un’analisi dei sondaggi.
I più recenti indicano lo ius scholae come gradito all’opinione pubblica, con una distinzione: non riscuote particolare consenso tra gli elettori di destra, ma è sostenuto dal mondo cattolico. È proprio quello il prossimo bersaglio di Tajani. Lo stesso mondo a cui parla Piantedosi dal palco del Meeting. Il ministro dell’Interno due vite fa era prefetto di Bologna, dove il cattolicesimo democratico considera l’inclusione una priorità. Il segnale è chiaro.
(da Repubblica)
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Agosto 22nd, 2024 Riccardo Fucile
“E’ PIU’ AUTORITARIO DEL MONARCA LUIGI XVI, METTE IN DISCUSSIONE IL SUFFRAGIO UNIVERSALE. DEVE NOMINARE, NON SCEGLIERE, IL PRIMO MINISTRO. VOTEREMO PER LA CENSURA DI QUALSIASI GOVERNO NON GUIDATO DA MADAME LUCIE CASTETS”
“Dalla Rivoluzione del 1789 il diritto di veto è stato negato al monarca”. Jean-Luc Mélenchon, leader della sinistra francese, vincitore delle elezioni legislative di un mese e mezzo fa alla guida del Nuovo fronte popolare, è pronto ad affrontare in Assemblea nazionale una procedura di destituzione del presidente Emmanuel Macron e una mozione di censura verso il governo che sceglierà, se non tenesse conto del risultato del voto. “Quella di Macron è una deriva autoritaria, mette in discussione il suffragio universale. Deve nominare, non scegliere, il primo ministro”.
Proponete un governo di minoranza? I macronisti vi accusano di volere il caos
Adesso il presidente Macron si arroga il diritto di veto sul risultato del suffragio universale. Accidenti! Già nel 1789 al re Luigi XVI, prima ancora che fosse istituita la Repubblica, era stato negato questo privilegio da un voto della prima Assemblea!
È vero, però, che in Assemblea nazionale non avreste i numeri per governare da soli: qual è la soluzione che auspica?
Non c’è una soluzione da immaginare. Ci sono diritti costituzionali da rispettare. Il Nuovo fronte popolare è uscito vincitore e gli spetta formare il governo e poi presentare le proposte ai deputati, quando necessario. Gran parte del programma può essere attuato tramite decreto o circolare.
Non dobbiamo giustificare nulla. Perché ci viene chiesto di fornire giustificazioni quando il presidente della Repubblica non ne fornisce? In ogni caso, un nuovo scioglimento non è possibile prima di un anno e voteremo per la censura di qualsiasi governo non guidato da madame Lucie Castets. Il comportamento di Macron è la deriva autoritaria dei governi neoliberisti in Europa. Ma è eccezionale, perché il suffragio universale stesso viene messo in discussione dal presidente.
E per questo volete la procedura di destituzione…
Dopo la sua sconfitta alle Europee, il presidente della Repubblica ha sciolto l’Assemblea nazionale par ottenere un “chiarimento politico’’ secondo la sua stessa espressione. La risposta è stata inequivocabile: il suo partito è stato bocciato in modo ancora più duro. Del resto, senza il ritiro dei candidati di sinistra arrivati in terza posizione, il suo partito sarebbe quasi scomparso dall’Assemblea.
Quale messaggio vogliono dare al paese? Che non esiste un ricorso legale contro un’autocrate? Che non c’è nessun mezzo istituzionale contro un colpo di mano contro la democrazia? Eppure il momento di verità democratica nelle elezioni parlamentari verrà a galla. Verrà tramite questa procedura di destituzione e la censura del governo che Macron avrà scelto per usurpare la “volontà generale’’ di più dei due terzi degli elettori che lo hanno bocciato.
Le Olimpiadi dovevano essere la vetrina del grande rilancio di Macron, è andata così?
Credo che abbia esasperato i francesi. I Giochi olimpici appartengono agli atleti e molti hanno trovato il suo atteggiamento invadente e inappropriato.
È uscita dal dibattito pubblico francese la provocazione di Macron sui soldati francesi in Ucraina. Ma era solo una provocazione?
No. Al contrario, penso che sia stata un’intenzione deliberata, in linea con la tabella di marcia per questa vicenda fornita dalla fazione più estremista della Nato. Senza dubbio è stato il suo modo di far dimenticare che poco tempo fa aveva dichiarato la Nato “cerebralmente morta”.
(da Fatto Quotidiano)
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Agosto 22nd, 2024 Riccardo Fucile
IL NOSTRO PAESE E’ TERZULTIMO NELLA CLASSIFICA DEGLI STATI EUROPEI PER LIBRI LETTI: SOLO IL 35% DELLA POPOLAZIONE SOPRA I 16 ANNI NE FINISCE ALMENO UNO OGNI ANNO, PEGGIO DI NOI SOLO ROMANIA E CIPRO … SIAMO BEN AL DI SOTTO DELLA MEDIA: IL 53% DI TUTTA LA POPOLAZIONE NELL’UE LEGGE ALMENO UN LIBRO ALL’ANNO
«Nel mio piccolo mi sono autoimposto di leggere un libro al mese: è un fatto di disciplina,
come andare a messa», aveva detto l’anno scorso il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Non sappiamo se Sangiuliano stia rispettando davvero questo impegno, ma in ogni caso la buona abitudine del ministro – che ha promesso anche di regalare un libro a ogni nuovo nato – non è condivisa dal resto del Paese: solo un terzo degli italiani infatti legge almeno un libro all’anno, il terzo dato più basso tra i Paesi dell’Unione europea.
Secondo i dati più aggiornati, relativi al 2022, il 53 per cento di tutta la popolazione nell’Ue che ha minimo 16 anni di età legge almeno un libro all’anno. Dunque quasi la metà dei cittadini europei non legge neppure un libro in 12 mesi. Tra i lettori, il 27 per cento legge meno di cinque libri all’anno, il 12 per cento ne legge tra cinque e nove, mentre circa il 14 per cento ne legge più di dieci.
Il Paese europeo in cui si legge di più è il Lussemburgo, dove nel 2022 il 75 per cento degli abitanti sopra i 16 anni ha letto almeno un libro. Seguono la Danimarca (72 per cento), l’Estonia (71 per cento), la Svezia e la Finlandia (70 per cento).
In Italia questa percentuale è pari al 35 per cento, la terza percentuale più bassa dietro a Cipro (33 per cento) e Romania (29 per cento). Tra gli altri grandi Paesi europei, nel 2022 in Francia il 62 per cento della popolazione sopra ai 16 anni ha letto almeno un libro, mentre in Spagna il 54 per cento (il dato della Germania non è invece disponibile).
I tre Paesi con la più alta percentuale di “lettori forti”, ossia quelli che leggono più di dieci libri all’anno, sono l’Irlanda (il 26 per cento della popolazione con almeno 16 anni), la Finlandia (23 per cento) e la Svezia (22 per cento). In Italia questa percentuale è pari all’11 per cento, mentre in Romania, Grecia e Cipro è inferiore al 5 per cento.
In Italia le donne e i giovani sono le due categorie che leggono di più. Il 40 per cento delle donne con almeno 16 anni ha letto almeno un libro nel 2022, mentre questa percentuale tra gli uomini scende al 30 per cento.
Il 47 per cento della popolazione tra i 16 e i 24 anni di età legge un libro all’anno. Questa percentuale scende invece al 30 per cento nella fascia tra i 25 e i 34 anni e al 34 per cento tra i 35 e i 44 anni. Il dato poi risale al 38 per cento nella fascia tra i 45 e i 54 anni, fino ad arrivare al 39 per cento tra gli italiani che hanno tra i 55 e i 64 anni. Tra i cittadini con almeno 75 anni la percentuale di lettori scende al 21 per cento.
Se si incrociano i dati di genere con quelli anagrafici, si scopre che l’unica fascia di popolazione dove i lettori superano la metà della popolazione è quella delle donne tra i 16 e i 24 anni: qui il 52 per cento ha letto almeno un libro nel 2022. Tra gli uomini sopra i 75 anni si arriva invece alla percentuale più bassa, pari al 20 per cento.
Le differenze più ampie sulle abitudini di lettura si riscontrano sulla base del titolo di studio. Solo il 19 per cento della popolazione che al massimo ha il titolo di terza media legge un libro all’anno, percentuale che sale al 40 per cento tra i diplomati e al 66 per cento tra i laureati.
Chi ha una laurea rappresenta anche la fetta più grossa dei “lettori forti”, quelli che leggono più di dieci libri l’anno: supera questa soglia di lettura il 28 per cento di chi ha una laurea, contro il 12 per cento dei diplomati. Le donne leggono più degli uomini in tutte e tre le categorie, ma se le differenze di genere rimangono ampie tra i diplomati, si riducono tra i laureati.
(da pagellapolitica)
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Agosto 22nd, 2024 Riccardo Fucile
ANCHE IN ASSENZA DI INCHIESTE, GLI ATTACCHI AI PM SONO UNA COSTANTE NEI PRIMI DUE MESI… MA LA PREMIER GUARDA CON SOSPETTO ANCHE ALCUNI MINISTRI “LEGALI ALLE ELITE”
Un complotto tira l’altro. In questi quasi due anni di governo, Giorgia Meloni e i suoi fedelissimi Fratelli d’Italia hanno dato prova di eccellenti capacità di invenzione nella narrazione di una realtà fatta di poteri occulti il cui unico desiderio sarebbe far cadere il governo a colpi di inchieste giudiziarie. L’obiettivo cui rivolgere le minacce è una certa magistratura complice di una parte della stampa sgradita. Nemici esterni, certo.
Tuttavia la sindrome dell’accerchiamento a che fare pure con presunti complotti ”traditori” interni. Il grado di preoccupazione ha raggiunto un livello tale che persino dentro il partito, confermano autorevoli fonti, circolano sospetti su alcuni ministri, un tempo molto ascoltati ora un po’ meno per via di presunti rapporti con quelle che qualcuno ha definito «putride élite» che sarebbero in grado, secondo l’assioma meloniano, di sfibrare l’esecutivo per poi soppiantarlo con i «soliti burattini».
È noto che la cerchia di Colle Oppio non abbia mai amato Guido Crosetto, i cui rapporti con Meloni oggi sono assai tiepidi, mentre Antonio Tajani e gli altri ministri di Forza Italia da settimane vengono considerati alla stregua di una quinta colonna: l’apertura sullo ius scholae per dare cittadinanza ai figli di immigrati che concludono la scuola in Italia è visto come una provocazione per spaccare il governo. Meloni ieri non ha apprezzato nemmeno l’uscita del ministro Matteo Piantedosi, che ha aperto a una discussione «non ideologica» sul tema.
Il livello si è alzato a tal punto che non c’è neppure bisogno che qualcuno dei meloniani finisca sotto indagine: siamo alla fase degli allarmi preventivi. Come nel caso di Arianna Meloni, mai indagata ma che qualche procura “rossa”, secondo il retroscena pubblicato da Il Giornale diretto da Alessandro Sallusti, sarebbe pronta a mettere sotto inchiesta con tanto di titolo di reato ipotizzato: traffico di influenze, fattispecie peraltro depotenziata dallo stesso governo Meloni.
La sorella della presidente del consiglio, a capo della segreteria organizzativa di Fratelli d’Italia, è la figura oggi più potente nel partito appena sotto la premier. Perciò l’articolo ha scatenato reazioni durissime del partito. L’indagine fantasma su Arianna Meloni è solo l’ultimo allarme infondato lanciato in pasto all’opinione pubblica.
Da Santanchè a Delmastro
Luglio 2023 è il mese in cui Meloni decide di alzare il livello dello scontro con la magistratura. Due fatti in sequenza la convincono che attaccare sia la soluzione migliore.
Il 5 luglio Domani pubblica la notizia dell’iscrizione sul registro degli indagati, non più segreta, per falso e bancarotta della ministra Daniela Santanchè.
Il giorno successivo il giudice per le indagini di Roma respinge la richiesta di archiviazione per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro per la rivelazione del contenuto dei documenti riservati sui colloqui dell’anarchico Alfredo Cospito in seguito alla visita ricevuta da un gruppo di parlamentari del Pd.
Questi due fatti avevano preoccupato molto Palazzo Chigi, che tramite alcune veline aveva lasciato trapelare un pesante attacco alla magistratura. O meglio l’accusa era riservata a una «fascia» delle toghe colpevoli di muoversi in sincronia con opposizioni e pezzi dell’informazione. In quei giorni Meloni aveva parlato ai suoi di giustizia a orologeria, concetto molto in voga durante la sua esperienza nel governo Berlusconi.
Alcuni mesi più tardi, a fine novembre, a evocare complotti di ogni genere è stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Intervistato al Corriere paventava un golpe giudiziario: «Questo governo può essere messo a rischio solo da una fazione antagonista che ha sempre affossato i governi di centrodestra: l’opposizione giudiziaria. Non mi sorprenderebbe, da qui alle Europee, che si apra una stagione di attacchi su tale fronte». E ancora: «A me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”».
Crosetto temeva per sé e per altri del ristretto cerchio di potere attorno alla premier. Con questa intervista ha aperto la stagione degli attacchi preventivi, cioè stoccate violente verso possibili “nemici” pur in assenza di prove o pericoli concreti, fondati solo su timori, supposizioni.
Due settimane più tardi è toccato al Il Giornale diretto da Alessandro Sallusti creare un cortocircuito interno alla destra, con la pubblicazione di un articolo dal titolo: «Inchiesta su Crosetto». Talmente spericolata come operazione che si è adirato persino il ministro, che ha deciso di querelare Sallusti. Come rivelato dal nostro giornale, l’editore della testata ha dovuto risarcire con circa 35mila euro il ministro. Non c’era, infatti, alcunea indagine su Crosetto, era stato soltanto sentito come testimone dalla procura di Roma per le dichiarazioni sul complotto apparse sul Corriere.
Il caso Arianna
Il cortocircuito tutto interno alla destra culminato con lo scontro Giornale – Crosetto è utile per comprendere anche l’ultimo capitolo sulla sindrome dell’accerchiamento. Notizia ancora una volta data dal quotidiano di Sallusti il cui editore è il parlamentare leghista Antonio Angelucci, legatissimo in realtà al gruppo di potere di Fratelli d’Italia nel Lazio.
L’inchiesta che non c’è, con i vertici del partito al corrente dell’inesistente di fascicoli sulla sorella della premier, è per ora l’ultimo capitolo di una recita iniziata con l’insediamento a Palazzo Chigi di Meloni e destinata a proseguire con nuove puntate.
(da editorialedomani.i)
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Agosto 22nd, 2024 Riccardo Fucile
UN IMPRENDITORE AGRICOLO AVREBBE SFRUTTATO OLTRE 1.000 LAVORATORI: NE’ PERMESSI, NE’ RIPOSI… CONTESTATA UN’EVASIONE FISCALE DI 3 MILIONI DI EURO
In sei anni, dal 2017 al 2023, è accusato di aver sfruttato oltre mille lavoratori irregolari
per raccogliere ortaggi nei suoi campi nel Lodigiano. Per questo il gip del tribunale di Lodi ha interdetto per un anno il rappresentante legale di un’azienda agricola alle porte di Lodi indagato con l’accusa di caporalato.
Le indagini della Guardia di finanza di Lodi hanno permesso di scoprire che a tutti braccianti, quasi sempre giovani ed extracomunitari, l’imprenditore chiedeva turni massacranti, con un accumulo di ore di lavoro ben superiori alle 169 mensili previste dal CCNL.
Nei mesi della raccolta, infatti, i dipendenti arrivavano a lavorare, senza la possibilità di poter usufruire di permessi o riposi, mediamente per un numero di ore mensili pari al doppio di quelle previste da un regolare contratto, con punte fino a 512 ore mensili.
Un modus operandi ben consolidato che, oltre a garantirgli la manodopera, avrebbe permesso all’imprenditore di mettere in piedi un’evasione fiscale di circa 3 milioni di euro.
A pesare sull’accusa di caporalato è proprio la gestione del personale in servizio: i finanzieri, coordinati dalla procura di Lodi, hanno scoperto che l’imprenditore faceva leva sullo stato di necessità dei lavoratori.
In un sopralluogo effettuato sui campi coinvolti, infatti, sono anche state scoperte delle strutture utilizzate dai braccianti come dormitori: soluzioni precarie, degradanti e sovraffollate, che venivano concesse dal datore di lavoro facendo anche pagare una quota relativa alla concessione del posto letto e delle utenze attraverso la decurtazione dello stipendio.
(da agenzie)
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Agosto 22nd, 2024 Riccardo Fucile
LE MEMORIE DEL GENERALE IN PENSIONE MCMASTER CHE IL GUARDIAN HA POTUTO LEGGERE IN ANTEPRIMA
Una simpatia, una connessione tra i due che Mosca avrebbe sfruttato. Sono queste le anticipazioni del libro At war with ourselves. My tour of duty in the Trump White House del generale in pensione ed ex consigliere per la sicurezza Usa H.R. McMaster.
I retroscena forniti dal funzionario, poi licenziato dall’allora presidente americano Donald Trump con un tweet confermano le sue affinità con il leader russo Vladimir Putin. Un rapporto che l’inquilino del Cremlino avrebbe però piegato a suo favore: «Ha manipolato l’ego e le insicurezze di Trump», rivela McMaster.
«Putin ha fatto leva su di lui con l’adulazione»
Che quanto ci sia scritto non sia al miele per Trump, è intuibile dal titolo delle memorie di McMaster. L’ex generale ha resistito alla Casa Bianca per poco più di un anno, dal febbraio 2017 all’aprile 2018 prima di essere licenziato dal tycoon con un tweet. «Dopo oltre un anno di lavoro, non riesco a capire la presa di Putin su Trump», scrive McMaster nel suo libro che il Guardian ha potuto leggere in anteprima.
Durante la sua permanenza, McMaster non ha potuto non accorgersi che ogni valutazione negativa su Putin da parte dello staff veniva evitata da Trump. Anzi, l’allora presidente avrebbe preferito avere contro i suoi stessi consiglieri piuttosto che seguire le loro politiche più aggressive con Mosca.
Una strategia elaborata dallo stesso Putin: «Uno spietato ex operatore del KGB, ha fatto leva sull’ego e sulle insicurezze di Trump con l’adulazione». Una manovra che consisteva nel definire Trump «una persona eccezionale, di talento», operazione a cui lo stesso tycoon avrebbe confessato di essere vulnerabile.
Le reazioni alle ingerenze russe nelle elezioni del 2016
«Come i suoi predecessori George W. Bush e Barack Obama, Trump era troppo sicuro della sua capacità di migliorare le relazioni con il dittatore del Cremlino. Il fatto che la maggior parte degli esperti di politica estera di Washington sostenesse la necessità di un approccio duro nei confronti del Cremlino sembrava solo spingere il presidente all’approccio opposto», scrive McMaster. Un Trump che era anche a tal punto ossessionato dal rapporto Mueller sulle ingerenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016 da non poter «discutere di Putin e della Russia». Un argomento tabù: «Su Putin e la Russia, ho nuotato controcorrente con il presidente fin dall’inizio». Ma a nulla sarebbero valsi gli avvertimenti di McMaster, «Signor Presidente, è il miglior bugiardo del mondo», l’allora presidente ha tirato dritto facendo ciò che Putin voleva: l’alleggerimento delle sanzioni e il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria e dall’Afghanistan a basso costo. Tutto con la promessa di relazioni migliori tra Usa e la Russia, cooperazione in materia di antiterrorismo, sicurezza informatica e controllo degli armamenti.
(da agenzie)
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