Agosto 14th, 2024 Riccardo Fucile
UNA REAZIONE DA DITTATURA E RENZI METTE IL DITO NELLA PIAGA: “PARTITO DELLA PARTITOCRAZIA SFRENATA”… BORGHI CHIEDE A LA RUSSA DI INTERVENIRE PER DARE UNO XANAX AGLI SCAPPATI DI CASA
Arianna Meloni decide le nomine del governo, pur non ricoprendo ufficialmente alcuna carica di governo?
La domanda viene sollevata da Italia viva, il partito di Matteo Renzi, dopo l’articolo di Repubblica sulla possibile sostituzione dell’amministratore di Trenitalia Luigi Corradi con Sabrina De Filippis, ad di Mercitalia logistics, il polo della logistica del gruppo FS, e amica della sorella della premier.
Ma la sola domanda innervosisce FdI, che invia risposte piccate, finché non interviene Arianna Meloni con un post su Instagram in cui nega di aver alcun ruolo nelle scelte dell’esecutivo.
Ma andiamo con ordine. La prima a intervenire è la coordinatrice di Iv Raffaella Paita: “Arianna Meloni ieri era sui giornali per l’influenza sulle nomine in Rai, oggi per FS. A questo punto mi chiedo: non potrebbero farla direttamente ministra dell’attuazione del programma? Parentocrazia”.
A lei risponde la senatrice di FdI Domenica Spinelli: “Patetica – la definisce – si presta, sotto dettatura del ‘padre padrone’ Renzi, a muovere accuse infondate ad Arianna, colpevole solo di essere una donna libera che ha conquistato con la militanza ogni incarico ricoperto e non è stata eletta in Parlamento grazie a una lista bloccata. Le parlamentari alla Paita, strumenti arrendevoli del maschio padrone che si nasconde alle loro spalle, fanno regredire di decenni le lotte per l’emancipazione femminile. Solidarietà ad Arianna per questi attacchi scomposti e grande tristezza per lo stato di sottomissione palese della povera Paita”.
Rincara la dose la senatrice meloniana Paola Mancini: “Il capo branco Renzi, dopo aver dettato alla sua sottoposta Paita gli attacchi contro Arianna Meloni, ora scatena la sua muta di cani contro la senatrice Spinelli. I suoi metodi da boss fallito di provincia non intimidiranno la senatrice Spinelli e nessuno di Fratelli d’Italia”.
Un attacco così scomposto, si guadagna la risposta dello stesso Renzi: “Arianna Meloni è moglie di un ministro, sorella della premier ma non risulta avere – al momento – alcun ruolo di governo: non può essere la parentocrazia a guidare viale Mazzini. E oggi alcuni organi di stampa hanno ipotizzato nelle prossime nomine del gruppo Fs venga valorizzata una manager giudicata fedelissima della sorella della Premier e Italia Viva con l’onorevole Paita ha chiesto di fare chiarezza su questo tema, così cruciale in un mese di sofferenza per chi usa il treno. Nessuna risposta o smentita. Siamo al paradosso che le nomine del governo vengono discusse in presenza di una parente stretta della premier e di un ministro ma che non ha alcun ruolo nell’esecutivo. Fratelli d’Italia è il partito della parentocrazia più sfrenata ma non è accettabile che nessuno risponda nel merito alle richieste di chiarimenti dell’opposizione”.
Non finisce qui la querelle. Mentre Italia Viva si appella con una lettere al presidente del Senato La Russa, chiedendo con iI capogruppo Enrico Borghi di intervenire perché “è stato superato il limite”, in serata arriva anche il post Instagram di Arianna Meloni, che non smentisce l’articolo di Repubblica, ma attacca: “Vogliono dipingere mia sorella come traffichina e melmosa. Non ho partecipato a riunioni sulle nomine”.
(da Repubblica)
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Agosto 14th, 2024 Riccardo Fucile
AL 31 LUGLIO HA INCASSATO 1,7 MILIONI DI EURO, CON UN AUMENTO DI 76 MILA SCELTE RISPETTO ALLO SCORSO ANNO
Crescita record del 2 per mille per il Pd. Al 31 luglio 2024 ha raccolto 1.758.613 euro con un aumento di 75.902 scelte rispetto al 31 luglio dello scorso anno. Si tratta di una conferma ma non solo.
Dopo l’abolizione dei rimborsi elettorali, il 2 per mille è l’unica forma di finanziamento pubblico rimasta ufficialmente a disposizione dei partiti, una scelta che viene fatta in modo volontario dalle e dai contribuenti al momento della dichiarazione dei redditi.
Alla fine del 2023 il Pd aveva raccolto 8.118.192 euro mentre il secondo partito, Fratelli d’Italia, ne aveva incassati 4.807.551. Una distanza che, se dovesse essere confermata la tendenza dei primi sette mesi del 2024, potrebbe aumentare ancora.
In base ai dati di fine luglio il Pd ha ottenuto 495.021 scelte per un equivalente economico di 7.530.654,96 euro (con un imponibile totale di 3.765.327.478 euro).
Al 31 luglio 2023, il numero di scelte per il Pd fu di 419.119 con un equivalente di 5.772.041 euro (e un imponibile di 2.886.020.786 euro).
«È un record storico per il Pd da quando esiste il 2×1000», sottolinea Michele Fina, senatore e tesoriere nazionale del partito.
A spiegare il record, secondo il tesoriere dem sono quattro elementi: «Durante la campagna elettorale abbiamo avuto un ritorno chiaro di persone che tornavano a scegliere il 2 per mille per il Pd perché la nostra comunità si è sentita rappresentata da una linea politica netta su lavoro, sanità e diritti. In secondo luogo c’è stato il fattore Elly con un affetto nei suoi confronti e il desiderio di dare una mano.
Dallo scorso anno, infatti, il Pd ha deciso di restituire ai territori l’aumento dei fondi arrivati attraverso il 2 per mille secondo quella che Fina definisce «una ripartizione premiale» calcolata in base all’aumento realizzato nelle varie province.
Alla fine «il 70 per cento della crescita è stata inviata ai territori e il resto utilizzato a livello centrale. Questo ha fatto sì che la rete presente a livello locale abbia sentito ancora più sua questa forma di raccolta e si sia impegnata ancora di più quest’anno», spiega Fina.
Quello che infatti spiega il successo costante del Pd nella raccolta del 2 per mille è proprio la rete presente sul territorio formata da migliaia di circoli, amministratrici e amministratori locali, feste dell’Unità, iscritte e militanti.
Per il Pd il 2 per mille rappresenta l’80% del bilancio. Nessuna nostalgia del finanziamento pubblico? A questa domanda Fina risponde in modo netto: «Bisogna prima aprire una discussione per arrivare a una legge sui partiti definendo la loro organizzazione in totale trasparenza. Solo dopo si può affrontare la questione del finanziamento pubblico».
(da La Stampa)
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Agosto 14th, 2024 Riccardo Fucile
DOPO LA PROPOSTA DEL PD, SI RIAPRE IL DIBATTITO… I CAVERNICOLI RAZZISTI SEMPRE PIU’ FUORI DAL MONDO CIVILE
Cresce la tensione nella maggioranza di governo dopo l’ultimo attacco della Lega nei confronti di Forza Italia, riguardo alla tanto dibattuta questione dello Ius Soli. In un recente post pubblicato sui social, il partito di Matteo Salvini ha ribadito la sua ferma opposizione a qualsiasi modifica della legge sulla cittadinanza, puntando il dito contro gli alleati di governo. Ma questi ultimi non sembrano mollare.
Lega all’attacco
«La legge sulla cittadinanza va benissimo così. Non c’è nessun bisogno di Ius Soli o scorciatoie», si legge nel post – pubblicato sui social dal partito di Matteo Salvini – corredato da un fotomontaggio con i volti del Segretario di FI Antonio Tajani e della leader del Pd Elly Schlein dove viene citato l’articolo di Repubblica: «Il Pd rilancia lo ius soli, Fi apre un varco a destra».
La replica dura di Forza Italia
Ma da Forza Italia non tarda troppo ad arrivare una risposta al Carroccio. «Innanzitutto dispiace che un alleato di coalizione ci attacchi. Noi abbiamo ribadito quella che è la nostra linea da sempre, ma non fa parte del programma di governo ovviamente. Ognuno ha le sue sensibilità e impostazioni. Noi siamo contrari allo Ius soli ma siamo invece aperti allo Ius Scholae. Come disse Berlusconi, noi siamo per favorire l’integrazione. E la scuola è il motore di questa integrazione», ha dichiarato il portavoce nazionale di Forza Italia Raffaele Nevi.
«Noi come impostazione non vogliamo attaccare gli alleati. La sinistra sta tornando indietro. E molti moderati sono interessati a Fi proprio per la nostra posizione liberale e moderata. Dalla Lega invece di ringraziarci, troviamo dei post che non ci piacciono. La nostra strategia è colpire avversari, non gli alleati», chiosa.
L’apertura di Forza Italia
Il dibattito è tornato in auge perché per i vertici di Forza Italia la legge sulla cittadinanza, datata febbraio 1992, deve essere cambiata. «Qualcosa va fatto, ci impegneremo presentando un nostro testo nei prossimi mesi», aveva fatto filtrare ieri una fonte di FI alla commissione Affari costituzionali, citata dal giornale romano. Per i forzisti va dunque trovata una sintesi interna tra l’ala liberal e quella più conservatrice della maggioranza. Non si tratterà, con ogni probabilità, di uno Ius soli puro (la cittadinanza per tutte le persone nate nel Paese), come chiedono da tempo i dem. Secondo il deputato FI Alessandro Cattaneo «ragionare sul tema è doveroso, ma no allo ius soli – dice a Repubblica – ripartiamo da ius scholae e ius culturae», cioè la cittadinanza a chi abbia concluso un ciclo di studi in Italia. «L’integrazione passa dal percorso scolastico», conclude Cattaneo. Ad oggi sono state depositate in Parlamento oltre venti proposte di legge sulla cittadinanza.
Cittadinanza in Italia: come funziona e il dibattito su Ius soli e Ius scholae
In Italia, la cittadinanza viene attualmente acquisita principalmente secondo il principio dello ius sanguinis: un individuo ottiene la cittadinanza per discendenza dai genitori italiani. Esistono anche altre modalità, come la naturalizzazione, che richiede un periodo di residenza legale continuativa di almeno dieci anni.
Negli ultimi anni, il dibattito politico si è concentrato sull’introduzione di alternative più inclusive, come lo ius soli e lo ius scholae.
Lo ius soli prevede l’acquisizione automatica della cittadinanza per chi nasce sul suolo italiano, mentre lo ius scholae concede la cittadinanza ai minori stranieri che abbiano completato un ciclo di studi di almeno cinque anni in una scuola italiana.
E il dibattito non divide sono destra o sinistra, ma gli stessi alleati di centrodestra del governo.
(da agenzie)
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Agosto 14th, 2024 Riccardo Fucile
UNICO PROBLEMA: MOLLICONE È IN QUOTA “GABBIANI” DI RAMPELLI E IL SUO SILURAMENTO METTEREBBE A RISCHIO I GIÀ FRAGILI EQUILIBRI NEL PARTITO
I tempi non sono ancora definiti: c’è chi spinge per settembre e chi per aspettare l’inizio del prossimo anno quando saranno rinnovati i vertici delle commissioni parlamentari a metà legislatura.
Ma la premier Giorgia Meloni sembra aver deciso di fare due sostituzioni eccellenti in Fratelli d’Italia: il presidente della Commissione Cultura Federico Mollicone e quello della commissione Giustizia Ciro Maschio.
Entrambe le scelte sarebbero legate a una volontà politica di Palazzo Chigi. Inoltre, la decisione di sostituire Mollicone farebbe scalpore visto che quest’ultimo è un dirigente importante di Fratelli d’Italia (soprattutto a Roma) ed è uno dei pochi rimasti ai “Gabbiani”, la corrente interna a Fratelli d’Italia del padrino politico di Meloni Fabio Rampelli che viene considerato un “dissidente” rispetto alla premier.
La decisione dei vertici di Fratelli d’Italia sarebbe quella di “punire” Mollicone per alcune gaffe e dichiarazioni fuori linea, come quella consegnata alla Stampa il 4 agosto scorso in cui attaccava i giudici di Bologna per le sentenze sulla strage neofascista accusandoli di voler costruire un “teorema” per colpire la destra al governo.
Sebbene in molti nel partito la pensino come Mollicone – la cosiddetta “pista palestinese” va per la maggiore tra i dirigenti legati alla destra romana – Palazzo Chigi ha fatto sapere di non aver gradito le parole di Mollicone e di non aver concordato la sua dichiarazione che ha messo in imbarazzo Meloni
L’unico ostacolo, però, riguarda la sua collocazione politica e anche la volontà di non darla vinta all’opposizione: il presidente della Commissione Cultura appartiene ai “Gabbiani” di Rampelli e per defenestrarlo il rischio è di alimentare tensioni tra Meloni e il suo padrino politico.
I vertici di Fratelli d’Italia avrebbero già individuato il suo possibile sostituto: si tratta del deputato toscano Alessandro Amorese, dato in ascesa nel partito della premier e considerato in continuità con Mollicone.
L’altro nome che rischia di saltare è quello del presidente della commissione Giustizia Maschio. Quest’ultimo, veneto alla seconda legislatura, non ha fatto gaffe o dichiarazioni fuori linea ma viene considerato troppo “anonimo” quando si tratta di lavorare sui provvedimenti più spinosi in materia di giustizia.
In questi mesi, soprattutto alla Camera, infatti, Fratelli d’Italia ha spesso dovuto inseguire Forza Italia e Lega che sono andati all’assalto del governo su alcune battaglie garantiste, da ultimo la legge Severino ma anche la prescrizione e l’utilizzo del trojan per le intercettazioni.
E nei prossimi mesi la commissione Giustizia diventerà un banco di prova importante per la maggioranza: da qui passerà il provvedimento sulle intercettazioni – ancora fermo al Senato – per limitare la possibilità di prorogare gli ascolti a 45 giorni. Una norma voluta fortemente da Forza Italia ma su cui Fratelli d’Italia ha molti dubbi, dopo alcune proteste della magistratura.
Al posto di Maschio, che non viene considerato politicamente efficace come la sua collega del Senato leghista Giulia Bongiorno, potrebbe essere eletta Carolina Varchi, palermitana, già vicesindaca, che aveva già prenotato il posto da presidente della commissione Antimafia prima che la scelta di Meloni ricadesse sulla fedelissima Chiara Colosimo. Ora può puntare su un risarcimento
(da il Fatto Quotidiano)
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Agosto 14th, 2024 Riccardo Fucile
COSÌ, RAGIONANO GLI SHERPA DI FDI, SI PERDEREBBE L’EFFETTO “SPALLATA” A DANNO DELLA DUCETTA
Dentro FdI c’è chi si butta sul latinorum. E dunque sul premierato il motto adesso sarebbe questo: festina lente . Affrettarsi lentamente. In realtà nel partito della fiamma, dopo lo sprint per strappare il sì in prima lettura al Senato a ridosso delle Europee (alla fine è arrivato il 18 giugno), adesso si ragiona su un andamento meno spedito.
Non solo perché Forza Italia, che ha già dovuto ingoiare il rospo dell’autonomia leghista con mezzo partito col broncio, ha chiesto di dare priorità, alla Camera, al vecchio pallino del Cavaliere, la separazione delle carriere.
Gli azzurri sono già stati avvisati, poco prima che il Palazzo chiudesse i battenti per le ferie d’agosto. Il calendario della ripresa dunque cambia. E non è solo questione di tecnicismi di agenda. Tra i postberlusconiani c’è chi sospetta che quella dei colleghi meloniani non sia solo una gentile concessione. Ma che dietro ci sia la volontà di far slittare il referendum sul premierato a cui già si preparano le opposizioni, con l’obiettivo di rimandarlo, sempre che la riforma arrivi a quattro approvazioni nelle Camere, all’ultimo scampolo della legislatura.
Cioè tra la fine del 2026 (sarebbe dieci anni dopo quello che costò caro a Matteo Renzi…) o ancora meglio all’inizio del 2027, quindi a pochi mesi dalle Politiche. In questo modo, ragiona a microfoni spenti un parlamentare di FdI che segue il dossier, «la sinistra potrebbe perdere una spinta propagandistica: trasformare il voto sul premierato in una spallata a Meloni. Perché alle Politiche si voterebbe poco dopo, dunque forse si riuscirebbe a discutere sul merito della proposta».
FI naturalmente fa buon viso al gioco dei Fratelli. La separazione delle carriere di giudici e pm è già stata incardinata a Montecitorio, peraltro solo in Commissione Affari costituzionali, senza coinvolgere quella della Giustizia.
Sono già state portate a dama una cinquantina di audizioni. Tra gli azzurri, la speranza è di arrivare al primo voto in Aula per la fine di novembre, un attimo prima della manovra. Il premierato, a quel punto, verrebbe calendarizzato nel 2025.
C’è poi il nodo della legge elettorale, che la ministra forzista Elisabetta Casellati ha annunciato per l’autunno. Ma ancora in maggioranza non hanno deciso se ripristinare il Mattarellum, con qualche correttivo, o virare sul meccanismo delle ex Province.
Anche la Lega si tormenta per l’autonomia, dato che l’opposizione in piena estate è riuscita a scavallare quota 500mila firme per un referendum abrogativo.
Il papà della riforma, il ministro Roberto Calderoli, ieri ha sostenuto che la consultazione referendaria sarebbe da dichiarare «inammissibile», perché l’autonomia «è collegata alla legge di bilancio». «Fermo restando che, ovviamente, deciderà la Corte Costituzionale» aggiunge il big leghista ad Affaritaliani.it
(da agenzie)
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Agosto 14th, 2024 Riccardo Fucile
DALLA RETE TIM ALLE AUTOSTRADE PER L’ITALIA, E’ SEMPRE LO STATO A RISCHIARE DI PIU’
Volete un fragoroso applauso? Dite che l’Italia va a fondo e s’aggrappa ai fondi stranieri di investimento, speculativi, industriali, perpetui, stanziali, o come preferite chiamarli. Volete una estatica ovazione? Dite che l’Italia che va a fondo deve, è un obbligo, aprire il capitale pubblico ai fondi stranieri di investimento, speculativi, industriali, perpetui, stanziali, o come preferite chiamarli.
Qui lasciamo perdere applausi e ovazioni, più o meno spontanee, a volte sui giornali sono «spintanee», e tentiamo di rispondere a due o tre quesiti fondamentali per dire meglio ciò che stiamo per dire sui fondi stranieri. Chi siete? Che fate? Cosa portate? Gli esempi pratici insegnano.
Quasi sei anni fa, e la memoria custodisca quel giorno, la tragedia del ponte Morandi di Genova denunciò con il sacrificio di 43 vittime innocenti quello che pochi valorosi giornalisti, immuni al fascino della famiglia Benetton, hanno denunciato per anni. Contro le concessioni autostradali abbinate al perverso meccanismo dei pedaggi. Contro gli osceni profitti di Atlantia/famiglia Benetton con Autostrade per l’Italia. La politica reagì – c’era il governo gialloverde di Giuseppe Conte – con promesse vanagloriose o gradasse, scegliete voi, del tipo ci riprendiamo quello che è nostro e la famiglia Benetton verrà punita. Alla fine, e vi risparmiamo le eccezioni, anche giuridicamente corrette, sollevate duranti i governi Giuseppe Conte versione giallorossa e Mario Draghi in formato salvezza nazionale, lo Stato si è ripreso ciò che era suo e ha punito la famiglia Benetton versando al gruppo Atlantia controllato dalla famiglia Benetton 8,2 miliardi di euro. Con un solenne giuramento però: mai più affari facili risparmiando sulla sicurezza.
Per la rifondata Autostrade per l’Italia (Aspi), concessione statale su oltre 2.800 km di rete per 16 anni e dunque sino al 2038, fu deliberata la maggioranza pubblica a Cassa Depositi e Prestiti con il 51 per cento e un 24,5 ciascuno per gli americani di Blackstone Infrastrutture Part e gli australiani di Macquarie Asset Management. Era il 5 maggio 2022. Tempo qualche mese e si scoprì – grazie a Giorgio Meletti su Domani – che i patti parasociali sottoscritti dagli azionisti imponevano l’automatica conversione in dividendo dell’intero utile: ogni euro di guadagno rotolava nelle tasche degli azionisti. Era la garanzia per Blackstone e Macquarie di recuperare i soldi spesi, circa 2 miliardi di euro a testa, e moltiplicare velocemente il rendimento del capitale impegnato nei 16 anni di concessione. Aspi nel primo biennio di nuova vita, partita lenta per la pandemia, ha agevolmente segnato 2 miliardi di utili netti (e anche il debito galoppa). Lo scorso anno, mentre stava per essere staccata la prima cedola agli azionisti, nel governo di Giorgia Meloni più di un ministro, certamente Matteo Salvini (Trasporti), caldeggiava l’ipotesi di espellere i fondi da Autostrade per l’Italia, a loro parere troppo prudenti sugli investimenti e poco parsimoniosi sui dividendi. Cassa Depositi e Prestiti, che ha la sua porzione di responsabilità in questa vicenda, ha preso talmente sul serio la collera salviniana che ha designato per il consiglio di amministrazione di Aspi nientemeno che Fabio Barchiesi, una sorta di generale von Clausewitz per l’amministratore delegato Dario Scannapieco.
A dicembre è arrivato un gesto magnanimo da parte dei fondi: hanno accettato di ridurre l’utile netto per i dividendi dal 100 per cento al 75 per cento e pure in due rate. Non è mai scontato approvare in corsa modifiche alle regole. Sarà che i fondi hanno cambiato struttura cromosomica? Macché. Non fanno mica beneficenza. A quasi sei anni dal ponte Morandi, siamo ancora al ministero dei Trasporti, quindi lo Stato, che deve valutare il piano economico finanziario di Aspi. Insomma i fondi Blackstone, Macquarie più Cassa Depositi e Prestiti confermano la disponibilità a investire 35,9 miliardi di euro – di cui 19,3 per le grandi opere, 14,1 per manutenzione e sicurezza, 2,5 per migliorie tecnologiche – ma se la concessione verrà prolungata al 2044 e dunque di sei anni. Questo per consentire, è evidente, di non alterare le aspettative di Blackstone e Macquarie: 8 anni per riprendersi il capitale, 8 anni per raccoglierne i succosi frutti. Con questa soluzione l’aumento dei pedaggi sarà in linea con l’inflazione. Se il governo rifiuta o tratta al ribasso, Aspi si rifà con gli investimenti, tagliando perciò la manutenzione, la sicurezza, le grandi opere. Ricorda qualcosa. Salvini è riuscito a creare la società Autostrade dello Stato, già prevista col governo Draghi, per riconsegnare allo Stato le concessioni. Al momento ci sono una manciata di chilometri di tratte a pedaggio gestite da Anas. Il governo Meloni con Salvini da ariete potrebbe cacciare per la seconda volta in due anni i privati da Aspi, ma che credibilità ha uno Stato che ogni due anni ripete gli stessi errori e cerca di uscirne indenne da accordi sottoscritti? Blackstone e Macquarie fanno sapere a L’Espresso che sono più che concilianti col ministero e che, nonostante le recenti modifiche statutarie che permettono la fuga, non hanno intenzione di lasciare Autostrade per l’Italia. Ci sarà da divertirsi.
Invece il fondo americano Kkr non può temere il futuro: deve solo capire se farà profitti abbondanti o stratosferici con la rete telefonica comprata da Tim sborsando una cifra – che L’Espresso ha verificato con autorevoli fonti – da saldi di vecchia stagione. A luglio è giunta al traguardo una operazione finanziaria destinata a fare scuola nei manuali del perfetto “fondista”. Il gruppo Tim, primo azionista disarmato Vivendi (23,75 per cento), secondo azionista silente Cassa Depositi e Prestiti (9,81 per cento), amministratore delegato Pietro Labriola, ha ceduto la rete primaria in rame e la sua quota di maggioranza in Fibercop. Così è venuta alla luce Fibercop Newco che dovrebbe cablare con le connessioni veloci l’Italia. Non proprio l’Italia montagne e periferie incluse poiché esiste ancora, respirando a fatica, la pubblica Open Fiber. Questo è un altro discorso, e lo mettiamo da parte. Fibercop Newco presenta un elenco soci parecchio affollato: 37,8 per cento riconducibili a Kkr; 17,5 per cento a un fondo pensionistico canadese; 17,5 per cento agli emiratini di Adia; 16 per cento al ministero del Tesoro; 11,2 per cento al fondo infrastrutturale italiano F2i. Questa operazione finanziaria destinata a fare scuola nei manuali del perfetto “fondista”, da leggere d’un fiato, e da ripetere, difatti lo riscriviamo, al fondo americano Kkr è costata in denaro (cash) 2,4 miliardi di euro. Perché il contratto da 18,8 miliardi è diviso in 8,8 di debito ereditato da Tim (il senso di tutto), 10 miliardi di capitale (equity), più o meno l’equivalente del valore attualizzato di Fibercop (9,748 miliardi). Siccome il fondo Kkr deteneva già il 37,5 per cento di Fibercop, pagato 1,8 miliardi di euro appena tre anni fa col contributo di mezzo miliardo degli emiratini di Adia, per accaparrarsi la rete di Tim e con dentro Fibercop ci ha messo la differenza di circa 2,4 miliardi di euro. Con meno di 4 miliardi – 1,3 tre anni fa e 2,4 adesso – gli americani di Kkr hanno la maggioranza relativa della rete telefonica italiana. E lo Stato ha recuperato chissà dove e chissà come 1,6 miliardi per non rimanere fuori. Kkr ha comprato a prezzi di saldo un bene di alto pregio com’è illustrato nelle perizie e come ha spiegato Carlo Di Foggia sul Fatto Quotidiano.
Alcuni parametri sono sorprendenti. Fibercop Newco sarà legata a un accordo di fornitura a Tim fino al 2039 e la stessa Tim, che ha venduto l’altro ieri, sarà il primo cliente con circa 2 miliardi annui. I ricavi di Fibercop Newco, per la perizia depositata, potranno oscillare dai 4,1 miliardi nel 2024 e nel 2025 ai 4,5 miliardi nel 2038 e nel 2039, ma il margine operativo lordo passerà dal 46 al 61 per cento con una crescita esponenziale dal 2029 in poi. Perché in quattro o cinque anni Fibercop Newco sarà chiamata a investire sostituendo la rete in rame con quella in fibra, e sarà pure supportata da 1,6 miliardi di euro di Pnrr, inoltre dovrà retribuire 20.000 dipendenti. Superata questa fase, Fibercop Newco potrà tagliare i costi, anche quelli del personale (da 1,078 miliardi oggi a 880 milioni), e godersi i ricavi con dividendi per Kkr da almeno 500 milioni annui. Uno spasso. Con un esito scontato: quando sarà sazio, il fondo Kkr quoterà l’azienda in Borsa e lascerà la guida allo Stato che, al solito, dovrà pagare caro ciò che era suo. Cattiva sorte è toccata agli australiani di Macquarie. Proprio mentre gli americani di Kkr scelsero di accompagnare la nascita di Fibercop, gli australiani strapagarono 2,2 miliardi il 40 per cento di Open Fiber, conservato in cantina da Enel. Non un azzardo, ma una disamina scorretta: c’è Cassa Depositi e Prestiti, c’è lo Stato, non può andare male. Sta andando malissimo: Open Fiber doveva coprire le zone bianche e grige e ha coperto quelle nere, le più densamente popolate, e si ritrova con un debito di 5,5 miliardi di euro, numerosi investimenti da completare e 582 milioni di ricavi, 292 milioni di perdite.
L’invocazione ai fondi deriva da un assunto sbagliato: l’Italia è squattrinata e deve ricorrere al credito in questo modo. Non è vero. Il credito, quando serve, lo si trova sul mercato. Al contrario, caso unico, in Italia i fondi vengono utilizzati in settori strategici dove la presenza dello Stato è conveniente e inevitabile. (Ottima eccezione il piano del Tesoro, invece, di acquistare da Tim i cavi sottomarini per le comunicazioni di Sparkle con a fianco, in minoranza, il fondo spagnolo Asterion).
I governi di Roma, al plurale, hanno fatto accomodare i fondi stranieri nelle infrastrutture –telefoniche, autostradali, aeroportuali, pagamenti digitali – per risolvere annose questioni che non sanno risolvere. Come per Tim. C’è una carenza di competenze, non soltanto di denaro. I fondi “catturano” anche le competenze: si racconta di offerte a dirigenti di aziende pubbliche o partecipate con stipendi raddoppiati e liquidazioni milionarie dopo quattro o cinque anni. Non dite che l’Italia è in vendita. Così è in svendita.
(da lespresso.it)
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Agosto 14th, 2024 Riccardo Fucile
QUALCUNO DALLA FINESTRA URLA: “SLAVA UKRAINI”
Non si arresta l’offensiva di Kiev in territorio russo. Il presidente Zelensky ha fatto sapere che l’Ucraina sta «facendo ulteriori progressi nella regione (russa, ndr) di Kursk.
Da uno a due chilometri in diverse aree dall’inizio della giornata», scrive su Telegram il leader ucraino.
Nei video pubblicati online si vedono le truppe di Kiev entrare nelle città al confine con l’Ucraina, mentre dalle finestre si sente urlare il motto: «Slava Ukraïni!», ovvero Gloria all’Ucraina!.
Nel frattempo, Mosca sta ritirando una parte delle truppe dall’Ucraina per rispondere all’attacco di Kiev. Lo riporta il Wall Street Journal (Wsj), che cita funzionari statunitensi. Si tratta del primo segnale che l’incursione ucraina nella regione di Kursk sta costringendo la Russia a rivedere la sua forza d’invasione, precisa il quotidiano statunitense. Gli Stati Uniti, hanno aggiunto i funzionari, stanno ancora cercando di determinare il significato della mossa della Russia e non hanno detto quante truppe gli Stati Uniti ritengono che l’esercito russo stia spostando. Tuttavia, la nuova valutazione di Washington rafforza le affermazioni dei funzionari ucraini, secondo i quali l’invasione a sorpresa della regione russa di confine – avvenuta la settimana scorsa – ha allontanato parte delle forze russe dall’Ucraina, dove il vantaggio di Mosca in termini di uomini ed equipaggiamenti sta permettendo loro di avanzare in diversi punti.
(da Open)
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Agosto 14th, 2024 Riccardo Fucile
TRUMP CON VOCE QUASI INCOMPRENSIBILE HA SPARATO CAZZATE SULL’INNALZAMENTO DEI MARI CHE “REGALA SPIAGGIE” E COME SIA GIUSTO LICENZIARE GLI OPERAI “SE SCIOPERANO”… UN CRIMINALE RINCOGLIONITO CHE SI BECCA PURE LA DENUNCIA DEI
SINDACATI… AL PRIMO DIBATTITO TV KAMALA HARRIS LO MASSACRA
“Fottuti codardi”: la reazione di Steven Cheung, portavoce del candidato repubblicano alla Casa Bianca ed ex presidente Donald Trump, contro i democratici di Kamala Harris, non passerà alla storia del fair play, ma indica l’umore della campagna Usa 2024.
L’intervista che Trump aveva organizzato, lunedì, con Elon Musk, patron di X e Tesla, doveva rilanciarlo dopo la carica di Harris, in testa in tre stati chiave, Michigan, Wisconsin, Pennsylvania. Il risultato è invece mediocre, la piattaforma social, ex Twitter, va in crash, Musk accusa non verificati “hacker” mentre Trump, rauco e poco chiaro nell’audio, cerca invano il colpo del KO.
Trump ha dichiarato che l’innalzamento dei mari, per l’effetto serra, «regala spiagge con vista oceano», che per anni non ci sono pericoli per l’ambiente, che se vince Harris potrebbe chiedere asilo politico al regime del Venezuela e che Musk fa bene a licenziare gli operai, se scioperano o aderiscono al sindacato.
Non il tono giusto per ripartire nei sondaggi e infatti la chiacchierata online Elon-Trump scatena l’inferno virale. TruthSocial, piattaforma varata da Trump quando venne messo al bando da Twitter, nel 2021 per disinformazione sull’assalto al Campidoglio, perde di botto il 5% a Wall Street, valore 5 miliardi di dollari, 57% di azioni in mano all’ex presidente, perché gli investitori si fanno scettici: Donald torna a X, Truth social a chi serve ormai?
Peggiore il risveglio, ieri, con il formidabile sindacato United Auto Workers, 400.000 iscritti in servizio e 580.000 in pensione, a denunciare in tribunale Trump e Musk “per violazione delle leggi federali di protezione per i lavoratori e intimazione contro i loro diritti civili e sociali”.
Alla Convenzione di Milwaukee, in luglio, i repubblicani avevano invitato il presidente del sindacato Teamsters, Sean O’Brien, nel tentativo di riavvicinare gli elettori delle Unions, ma la chiacchierata tra gli amiconi, ex rivali, Trump-Musk incenerisce le speranze, entrando negli annali della politica social per la contraddizione bla bla virale e realtà. Da veri influencer Elon e Donald non avevano preparato uno script, una scaletta, andando a braccio e, tra i singhiozzi tecnici, i loro ego ipertrofici li hanno traditi con eccessi, vanterie, luoghi comuni
Se il dibattito Trump-Biden del 27 giugno fu catastrofe per l’anziano presidente, costretto al ritiro, la chat al testosterone Trump-Musk non ha, almeno finora, ravvivato i repubblicani e il turpiloquio di Cheung ne tradisce la frustrazione, con i manager social media di Harris a pungere ironici “Che volete dire? Non si capisce mica”.
Musk sottovaluta l’animosità che l’uso padronale di X ha montato. Prima del dibattito, il commissario europeo Thierry Breton lo aveva ammonito «X è diffuso in Europa, Musk è tenuto a controllare la disinformazione, a norma del Digital Service Act UE», al volo rimbrottato, in modo brusco, dalla manager X Linda Yaccarino che lo accusa di “interferenze nella politica Usa” e “paternalismo” contro i cittadini europei. P
asso falso: Bruce Daisley, ex capo Twitter in Gran Bretagna, firma sul quotidiano The Guardian un feroce editoriale, concludendo che, del tutto inefficaci i boicottaggi, «quando violano le vigenti leggi britanniche sulla comunicazione Musk e il suo staff devono essere rinviati a giudizio per comportamento criminale, con mandato di cattura annesso», mentre Katrina vanden Heuvel, direttrice della storica rivista americana di sinistra The Nation, esorta Harris alla campagna antitrust contro Google, Meta, Amazon, Apple, rispolverando le politiche anti monopoli, ferrovie, Standard Oil, telefonia AT&T. Il premier irlandese Simon Harris marca la nuova stagione dichiarando autorevole «per le piattaforme over the top l’era dello strapotere è finita».
Donald Trump vive da recluso, il Secret Service è ossessionato per la sicurezza dopo l’attentato di Butler, Elon Musk sempre circondato da yesmen in azienda: entrambi si dicono certi che il dibattito sia stato un trionfo, e l’ex presidente offre al capo di Tesla, che accetta volentieri, un ruolo alla Casa Bianca, spending review su tasse e spesa pubblica, da Carlo Cottarelli Usa. Promessa una poltrona di governo anche a Nick Faldo, ex golfista, marito di una ballerina topless trumpiana Doc show business nelle istituzioni.
Ma non crediate che la kermesse implichi un arretramento sul fronte Politica Online, tutt’altro: per la prima volta nella storia, la Convenzione Democratica che si apre a Chicago il 19 agosto, tre presidenti al podio, Clinton, Obama e Biden, prima del discorso di Harris, andrà in streaming TikTok, Instagram, Youtube. L’analisi dati conferma che davanti la tv ci saranno gli over 55, nei sondaggi sono gli under 30 a portare avanti i Dem, +9%, e allora i “fottuti codardi” se ne vanno a caccia di suffragi sui cellulari.
(da agenzie)
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Agosto 14th, 2024 Riccardo Fucile
LA PROCURA DI PARIGI APRE UN FASCICOLO PER “ATTI DI MOLESTIE ON LINE AGGRAVATE”… ALLEGATI CENTINAIA DI POST DIFFAMATORI SUL SOCIAL, POTREBBERO ESSERE COINVOLTI ANCHE TRUMP E POLITICI ITALIANI
Imane Khelif denuncia per presunti «atti di molestie online aggravati» J.K. Rowling ed Elon Musk. A riportalo in esclusiva è Variety, che ha parlato con Nabil Boudi, l’avvocato parigino della campionessa olimpica.
Il legale ha confermato al magazine che Rowling e Musk sono stati menzionati nel testo della denuncia, inviata venerdì al centro anti-odio online della Procura di Parigi. I due sono accusati di aver «avviato una campagna misogina, razzista e sessista» contro la pugile.
Ma attenzione però: la causa è stata intentata contro X, per permettere che «la procura abbia tutta la libertà di poter indagare contro tutte le persone», comprese quelle che hanno postato in anonimato.
Durante i giochi olimpici Rowling pubblicò una foto del combattimento di Imane Khelif con la pugile italiana Angela Carini, accusandola di essere un uomo che «si stava godendo la sofferenza di una donna che aveva appena colpito in testa». Musk invece ha condiviso il pensiero della nuotatrice Riley Gaines secondo cui «gli uomini non appartengono agli sport femminili».
(da agenzie)
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