Agosto 24th, 2024 Riccardo Fucile
GLI ESPONENTI SOCIALISTI SARANNO AL MASSIMO TRE E A FARLA DA PADRONE SARANNO I “FRUGALI” DEL NORD EUROPA, CHE NON FARANNO PASSARE NIENTE ALL’ITALIA SPENDACCIONA DEI “DUCIONI”… L’AUSTRIACO BRUNNER, L’OLANDESE HOEKSTRA, IL LITUANO KUBILIUS E IL VETERANO LETTONE DOMBROVSKIS: LE FACCE DEL NEIN AI SOGNI DI DEFICIT ITALIANI
C’è l’ex premier lituano che affrontò la crisi finanziaria imponendo pesanti politiche d’austerità ai suoi cittadini. Poi c’è il ministro delle Finanze austriaco che da due anni a questa parte on perde l’occasione per ricordare all’Italia l’urgenza di tagliare il debito. E c’è anche l’ex ministro delle Finanze olandese che durante la pandemia ha tentato fino all’ultimo di opporsi al debito comune
Nella nuova squadra di Ursula von der Leyen c’è un nutrito pool di rigoristi che punta a prendere il controllo dei principali dossier economici. Si preparano a volteggiare su Palazzo Berlaymont sotto l’ala protettrice del veterano Valdis Dombrovskis, la cui visione sulla gestione dei conti pubblici è ormai ben nota. Falchi, basta la parola.
Un segnale non certo positivo per un governo come quello italiano che si appresta ad attraversare il tortuoso percorso della procedura per deficit eccessivo e che vorrebbe veder nascere nuovi strumenti di debito comune per finanziare gli investimenti necessari.
«Finirà che il governo Meloni si troverà a rimpiangere l’epoca in cui in quella posizione c’erano i Moscovici e i Gentiloni, criticati nonostante il loro lavoro decisivo per contrastare i colleghi rigoristi», sorride un funzionario europeo
Sarà l’attuale Commissione ad approvare il piano settennale per il rientro del debito che in queste settimane sta togliendo il sonno al ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.
Ma tra novembre e dicembre avverrà il passaggio di consegne e a quel punto sarà il nuovo esecutivo europeo a monitorare l’implementazione delle riforme e a seguire passo dopo passo l’attuazione dei piani di bilancio.
La linea dell’austriaco Brunner, esposta in modo molto netto nel corso delle riunioni dei ministri delle Finanze, è chiara: «Se vogliono un aiuto da parte della Bce, Italia e Grecia devono prima mettere in ordine i loro conti». L’ormai ex ministro del governo di Vienna si era subito dichiarato contrario anche all’introduzione di nuovi fondi comunitari finanziati a debito, liquidando come «un’opinione personale» la proposta avanzata da Paolo Gentiloni e Thierry Breton dopo la crisi energetica.
Da quando è diventato commissario europeo, l’olandese Wopke Hoekstra ha un po’ moderato i toni . Ma la sua filosofia sulla disciplina di bilancio non è cambiata, così come il calo della popolarità in patria non ha modificato la visione dell’ex premier lituano Andrius Kubilius, fiero sostenitore delle politiche di austerità.
Al di là dei profili dei singoli, c’è anche un altro aspetto non di poco conto che caratterizzerà il prossimo collegio: gli esponenti socialisti, solitamente più ostili alle politiche di austerità, si conteranno sulle dita di una mano monca. Fatto fuori il lussemburghese Nicolas Schmit, a rappresentare il Pse ci saranno solo la spagnola Teresa Ribera, il maltese Glenn Micallef e il romeno Victor Negrescu, più il candidato che verrà proposto dal governo danese, che però fa parte del “club dei frugali”.
Metà Commissione sarà infatti composta da esponenti del Ppe, nettamente sovrarappresentati rispetto al Parlamento Ue (mentre l’italiano Raffaele Fitto, se confermato, potrebbe essere l’unico membro di Ecr).
(da La Stampa)
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Agosto 24th, 2024 Riccardo Fucile
LA CRESCITA LENTA NON E’ BASTATA A COMPENSARE L’INFLAZIONE
Nel secondo trimestre dell’anno, cioè il periodo tra aprile e giugno 2024, gli stipendi nei Paesi dell’Eurozona sono cresciuti del 3,55% rispetto a un anno prima. Un dato che potrebbe sembrare positivo, ma ci sono diverse cose da tenere a mente. Innanzitutto, il dato (della Banca centrale europea) si riferisce agli aumenti negoziati, quindi non a quelli già avvenuti ma a quelli che sono stati concordati – soprattutto con rinnovi di contratti collettivi – e verranno applicati nei prossimi mesi. In più, un aumento del 3,55% è piuttosto contenuto: il più basso dalla fine del 2022. Per l’Italia, poi, la situazione è peggiore: gli aumenti di stipendio sono stati sotto la media dell’Eurozona, e il potere d’acquisto è bel lontano dal periodo pre-pandemia.
Come vanno gli stipendi nella zona Euro
In tutto lo scorso anno, infatti, l’aumento degli stipendi dei Paesi Euro era stato ben al di sopra del 4%, con un picco del 4,74% nel primo trimestre del 2024. Una risalita partita dall’inizio del 2022, con la fine degli effetti più pesanti della pandemia, e che ora sembra aver rallentato il passo, anche a causa delle difficoltà della Germania.
Per i dipendenti questa non è una buona notizia. Anche perché dopo la pandemia non sono aumentati solo gli stipendi, ma anche – e in misura maggiore – i prezzi. L’inflazione altissima registrata nel 2022 e in buona parte del 2023 ha ridotto il potere d’acquisto dei cittadini, e solo in pochi casi i salari sono riusciti a compensare questa perdita.
Perché l’Italia è in una situazione peggiore
Per di più, in Italia la crescita dei salari è andata più a rilento che nel resto della zona Euro. Da aprile a giugno 2024, quando la Bce ha registrato un +3,55% per i Paesi con l’Euro, in Italia ci si è ‘fermati’ al +3,1%, secondo Istat. A inizio 2024, quando l’Eurozona segnava un +4,74%, l’Italia aveva un +2,8%. E così via, nei trimestri precedenti. Tra i motivi c’è la lentezza dei rinnovi dei contratti collettivi, soprattutto quelli pubblici.
A dimostrare le difficoltà dell’Italia c’è un rapporto dell’Ocse, pubblicato il mese scorso: i salari reali, cioè quelli calcolati tenendo conto non solo della somma in busta paga, ma anche di cosa si può effettivamente comprare con quei soldi, sono ancora decisamente più bassi rispetto a prima della pandemia. Nei primi tre mesi del 2024, in Italia il potere d’acquisto era più basso del 6,9% rispetto al 2019. Questo è il dato più basso di tutti i Paesi Ocse, dove in media il potere è aumentato di poco meno del 2% nello stesso periodo.
L’attesa della Bce per i tassi d’interesse
Se c’è un possibile risvolto positivo, in questa situazione, sarà la Banca centrale europea a deciderlo. Infatti, il 12 settembre la Bce si riunirà per decidere se è il momento di tagliare di nuovo i tassi d’interesse, come fatto a giugno per la prima volta dopo anni. Nel corso dell’estate la Banca ha deciso di mantenere stabili i tassi, ma se i salari dimostrano di non crescere molto (diminuendo il rischio che l’inflazione torni a salire), potrebbe arrivare un altro taglio a settembre. A beneficiarne, se dovesse avvenire, sarebbero tutti coloro che hanno un mutuo a tasso variabile o vogliono chiedere un prestito.
(da Fanpage)
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Agosto 24th, 2024 Riccardo Fucile
IN VISTA DELLA MANOVRA, NON C’È SPAZIO NÉ PER ALLENTARE LE REGOLE SULLE PENSIONI, NÉ PER FARE CONCESSIONI FISCALI. È GIÀ TANTO SE SARÀ CONFERMATO IL TAGLIO DEL CUNEO
Non sta andando bene la trattativa fra Roma e Bruxelles sui conti pubblici, e non è solo una questione di numeri. Rimini, ieri. Al riparo dal caldo africano nei padiglioni climatizzati della Fiera c’è il consueto Meeting di Comunione e Liberazione. Ore 13, Giancarlo Giorgetti: «Certi piani europei ricordano quelli quinquennali dell’Unione Sovietica». Ore 17, Paolo Gentiloni: «Piani sovietici? Conosco bene il ministro e le sue battute».
Che cosa c’è dietro questo scambio velenoso fra il ministro del Tesoro e il commissario europeo all’Economia? Per ricostruire una vicenda molto delicata, occorre riavvolgere il nastro a luglio, quando iniziano le trattative fra i tecnici della Commissione e quelli del Tesoro italiano.
Finita la moratoria delle regole per affrontare le conseguenze della pandemia, c’è da fare i conti con il nuovo patto di Stabilità riformato. La buona notizia è che il governo può presentare un piano di rientro lungo sette anni, la cattiva è che per ottenere un lasso di tempo così lungo occorre prendere impegni precisi sulle riforme da attuare.
L’Italia è osservata speciale su almeno tre questioni: concorrenza, qualità e tempi della giustizia, evasione fiscale. Secondo quanto riferiscono fonti europee, gli scambi fra Roma e Bruxelles sono andati bene finché si è parlato di numeri. «Per gli impegni sulle riforme occorre un passaggio politico», si sono sentiti obiettare i tecnici comunitari.
L’autunno che attende Giorgia Meloni sarà difficile. Quel che il governo deve fare entro metà settembre è un esercizio che deve proiettare l’Italia oltre l’orizzonte della legislatura. E lo deve fare con un debito pubblico che agli occhi dell’Unione è ormai più preoccupante di quello greco. Gentiloni lo dice senza mezzi termini: «Il nostro è l’unico senza una traiettoria discendente». Anche qui per capire lo stato dell’arte basta affidarsi alle battute a distanza fra il ministro e il commissario: «Il nuovo patto impone scelte di corto respiro». Corto respiro? «Il nuovo patto è stato scritto nell’ottica opposta».
A fine mese, quando la premier sarà tornata dalle vacanze, dovrà sciogliere i nodi con gli alleati. La lista delle richieste messe sul tavolo da Matteo Salvini vanno in direzione opposta alle richieste necessarie a ottenere il rientro nei parametri di Maastricht in sette anni.
Sulla carta Meloni non ha alcuno spazio né per allentare le regole pensionistiche, né per fare ulteriori concessioni fiscali al lavoro autonomo. Può solo sperare che l’attuale stallo per la nascita di un nuovo governo a Parigi duri il più possibile: più tempo ci vorrà, più è probabile che la scadenza di metà settembre per la presentazione della «traiettoria tecnica» sui conti slitti.
La premier non può nemmeno sperare di attendere l’insediamento della nuova Commissione europea, che non avverrà prima di dicembre. Non le giova la decisione […] di votare contro la conferma di Ursula von der Leyen al parlamento di Strasburgo. E non giova alle ragioni italiane lo stato di attuazione del Recovery Plan. Fin qui il governo è riuscito a ottenere con regolarità il pagamento delle rate, ma ha speso solo un quarto dei fondi a disposizione. E’ ormai certo che sarà costretto a chiedere una proroga alla scadenza tassativa di agosto 2026.
Con il passare delle settimane l’ipotesi di trasferire alla Commissione di Bruxelles il ministro del Pnrr Raffaele Fitto è quasi obbligata. «Se riuscirà a ottenere le deleghe sulla gestione dei fondi comunitari abbiamo qualche margine di trattativa», spiega un esponente della maggioranza che chiede l’anonimato. Resta l’enorme problema politico: il nuovo patto di Stabilità non è fatto solo di numeri. E l’Italia è il Paese che ha deciso di prendere di petto la giustizia comunitaria persino sulle concessioni dei balneari.
(da La Stampa)
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Agosto 24th, 2024 Riccardo Fucile
MA C’È IL GIALLO DEL CONTRATTO CON CUI L’ELEVATO AVREBBE RINUNCIATO A OGNI CONTESTAZIONE – E SOPRATTUTTO: CON CHI FAREBBE LA SCISSIONE IL PADRE DI CIRO? TRA I PRESUNTI FEDELISSIMI GLI SONO RIMASTI FEDELI SOLO LA CONSIGLIERA COMUNALE VIRGINIA RAGGI E L’ASSICURATORE DANILO TONINELLI
Nessuno, tra i colonnelli di Giuseppe Conte, vuole sentir parlare di “scissione”. Nelle ultime ore hanno cercato in ogni modo di togliere l’argomento dal tavolo: «Non avrebbe senso», «siamo tutti uniti», vanno dicendo pubblicamente. D’altro canto, non c’è nulla che faccia più paura, in questo momento.
Sanno che in fondo è lì che si annidano i pericoli più seri per la sopravvivenza del partito. Il nome e il simbolo del Movimento 5 stelle, infatti, appartengono a Beppe Grillo. E se fosse proprio lui […] a benedire una scissione, potrebbe sbattere la porta e portarsi via l’identità grillina. E con essa, un bel pezzo di consenso.
Esistono due associazioni del Movimento: una del 2013, fondata da Grillo e Casaleggio, e una del 2017, sulla quale si è evoluto l’attuale M5S, oggi presieduta da Conte. Dentro il partito, adesso, viene fatta circolare la tesi secondo cui nome e simbolo appartengono alla nuova associazione del 2017.
All’apparenza, sembrerebbe così. Una sentenza della Corte d’appello di Genova, però, nel 2021 ha sancito che il nome e il simbolo originari, con cui il Movimento si è presentato alle elezioni nel 2013, sono di proprietà di Grillo. È evidente, poi, che il logo e il nome dell’associazione del 2017 siano solo una continuazione di quelli del 2013.
In altre parole, nome e simbolo sembrano nella piena disponibilità di Grillo. Il fondatore, quindi, se volesse potrebbe inibire Conte dall’utilizzo del nome e del simbolo del Movimento 5 stelle, costringendolo a ripartire da zero: nuovo nome e nuovo simbolo.
Per i contiani è uno scenario da incubo. In molti scommettono sul fatto che Grillo non avrebbe voglia di rimettersi al timone del Movimento e di gestire una nuova e faticosa fase. E poi, chi sarebbero gli scissionisti? Il gruppo parlamentare, nella sua stragrande maggioranza, sostiene con convinzione Conte. I sospetti si posano quindi sugli ex […] tra i quali torna a girare il nome di Davide Casaleggio.
A 76 anni suonati, e a 17 dal trionfo del Vaffa-day, stavolta è Beppe Grillo stesso che rischia di ricevere il benservito dal partito che aveva fondato. Il comico sceso in politica forse mai aveva pensato di arrivare fino a Palazzo Chigi. Ma di sicuro non accetterà mai che qualcuno gli sfili le redini della sua creatura.
Eppure «Beppe» si trova fisicamente davanti a questo bivio. Ce lo ha portato «Giuseppe» (Conte), attuale leader ed ex premier, che, per usare un eufemismo, non ha mai amato. Ma oggi, mentre i Cinque Stelle sono finiti sotto al 10% alle Europee, anche la forza e l’influenza di Grillo sono ridotte al lumicino.
Il fondatore non ha più truppe in Parlamento, perché Conte alle ultime Politiche ha costruito liste a sua immagine e somiglianza. Non ha più il seguito di popolo di prima: i Palasport gremiti con i suoi spettacoli sono un lontano ricordo, anche perché negli ultimi due tour ha talvolta faticato a riempire piccoli teatri. Inoltre, sul fronte privato, si è ritrovato esposto per l’inchiesta e il processo al figlio, imputato di violenza sessuale su una ragazza.
Adesso si sussurra che «l’Elevato» potrebbe varare una scissione. «Già ma con chi?», osserva perfidamente più d’uno tra i fedelissimi di Conte. «Luigi Di Maio la fece portandosi via più di 60 parlamentari, e poi è andata com’è andata». A scorrere l’elenco dei «grillini doc» si rimane quasi con un pugno di mosche.
Molti hanno abbandonato la politica e molte ex prime linee non potendo fare il terzo mandato sono state assunte nella «macchina» del M5S (vedi Paola Taverna o Vito Crimi). Poi ci sono casi come l’ex presidente della Camera Roberto Fico, già capo degli «ortodossi», o l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino, che non si sbilanciano né di qua né di là. Insomma, essendosi accapigliato anche con Davide Casaleggio, al fianco di «Beppe» rimangono: Virginia Raggi, oggi consigliera comunale a Roma, e l’ex ministro Danilo Toninelli, oggi assicuratore. Ci sarebbe infine il tesoriere del partito Claudio Cominardi, non più parlamentare, «grillino» sì ma leale all’attuale leader.
Prima del voto per Bruxelles, forse convinto di conquistarsi una pax a tempo, Conte aveva rinnovato a Grillo il contratto da 300 mila euro annui, a titolo di una non meglio precisata consulenza per la comunicazione. Poi però è arrivata la doccia fredda delle urne […]. E il fondatore l’ha sparata così: «Ha preso più voti Berlusconi da morto che Conte da vivo». È stato questo […] il punto di rottura tra i due. A questo punto l’ex premier ha deciso di mettere un paletto e rispondere a muso duro.
Per rispondere a chi chiedeva la sua testa dopo la caduta alle Europee, Conte ha annunciato il via a una serie di assemblee di ascolto della base, al termine delle quali ci sarà una maxi votazione online per riformare il M5S. […]I punti chiave rimessi alla proposta degli iscritti? Sì al terzo mandato e sì a un possibile cambio di nome e simbolo
Un dito nell’occhio di Grillo, che è andato su tutte le furie. Ma Conte, forse per tutelarsi dai possibili attacchi di «Beppe», qualche tempo fa aveva messo in atto uno stratagemma da giurista di lungo corso.
Un colpo di scena svelato, ieri in un’intervista al Corriere , da Alfonso Colucci, deputato-notaio del Movimento. In sintesi: «Grillo in forza di specifici obblighi contrattuali — coperti da riservatezza e che non si riferiscono al contratto da 300 mila euro per la comunicazione che il M5S gli paga ogni anno — ha espressamente rinunciato a ogni contestazione relativa all’utilizzo sia del nome e sia del simbolo del M5S». Una battaglia finale, con le armi spuntate.
(da agenzie)
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Agosto 24th, 2024 Riccardo Fucile
A CACCIA DI BOTTIGLIE, LATTINE E MATERIALI ABBANDONATI: “LO FACCIO PER LA NATURA, LE STRADE E I GIARDINI SONO PIU’ FELICI SE SONO PULITI”
Altro che estate coi nonni. O al centro estivo. «Sto raccogliendo la spazzatura che le persone buttano per terra, agli angoli delle strade. Anche se in realtà la gente lascia i rifiuti anche nei giardini. Ieri ho raccolto tre bottiglioni di vetro vuoti, di quelli per il vino, sotto gli alberi. Io non so perché lo fanno, però non è giusto».
È l’estate sicuramente alternativa di Tommaso: otto anni, vive con papà Sandro Giacomodonato e mamma Tiziana Miranda a Montalenghe, un paesino di appena mille abitanti fuori Torino, vicino Chivasso.
Un piccolo «Greta Thunberg» in chiave piemontese, che passa al setaccio strade, boschi e giardini almeno una volta al giorno. La famiglia non riesce a ricordare quando sia scattata la scintilla a difesa dell’ambiente in Tommaso: «Ce l’ha sempre avuta credo – scherza il papà -. Era davvero piccolo, ancora sul passeggino, e indicava le cartacce o i rifiuti per terra». Crescendo ha iniziato poi a chiedere di poterle raccogliere per buttarle al loro posto.
I genitori di Tommaso sono operai in due fabbriche appena fuori Montalenghe, per cui capita spesso che «quando finiamo il turno Tommaso ci chieda di andare a fare un giro per raccogliere la spazzatura. È un bambino molto sensibile».
Per cui capita di vederli spesso per la città o fuori paese con una carriola, a caricare ciò che trovano: bottiglie, mozziconi, copertoni, lattine. «Lo faccio per la natura. Perché le strade e i giardini sono più felici se sono puliti. Io ci rimango male quando vedo sporco in giro», risponde timidamente Tommaso alla domanda perché preferisca passare l’estate con le mani nella spazzatura piuttosto che davanti alla televisione, ma il tono della risposta è allo stesso modo stupito sul perché non lo facciano anche altre persone.
Tommaso a settembre inizierà la quarta elementare ma «non ho mai raccontato di questa cosa ai miei compagni – spiega il bambino -, non so se i miei amici potrebbero capirmi che mi piace aiutare la natura. Non lo so, forse si. Magari quando inizia la scuola provo a dirglielo».
Intanto in provincia di Torino Tommaso sta diventando una piccola star: «L’altra sera eravamo in una pizzeria e una signora, non di Montalenghe, ci ha fermati per chiedere se mio figlio fosse proprio quello che pulisce le strade con la carriola», scherza papà Giacomodonato. Tommaso è stato anche premiato dalla Società Canavesana Servizi come «operatore ecologico per un giorno».
(da agenzie)
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Agosto 24th, 2024 Riccardo Fucile
IL RITO DELLE TRATTATIVE PER IL GOVERNO
Le sinistre in blocco, i centristi alla spicciolata, nel pomeriggio quel che resta dei gollisti; attraverso il sentiero che costeggia lo strabiliante giardino dell’Eliseo, fontane e fiori, un lungo prato verde, fino alle scale verso l’ala orientale del palazzo; i giornalisti eccezionalmente alloggiati nel salone delle feste, grandi lampadari di cristallo e puttini dorati. Chi tra i politici in passerella si ferma davanti alla barriera delle telecamere, chi passa e saluta, chi non sa che cosa fare.
È un gioco nuovo, di cui i francesi non conoscono le regole; e lo stesso presidente Emmanuel Macron sembra indugiare: il giorno in cui Parigi sperimenta le consultazioni come se fosse una democrazia parlamentare — l’Italia, per esempio — all’affannosa ricerca di un nuovo premier che tenga assieme una maggioranza stabile. «È una nuova fase — commentano dall’Eliseo — un cambiamento di cultura e di paesaggio politico che ci obbliga a una logica di coalizione». È l’effetto (boomerang) dello scioglimento dell’Assemblée nationale, quindi delle legislative concluse con il 7 luglio, con una composizione ingestibile dell’emiciclo, come mai nella Quinta Repubblica.
La prima convocata da Macron è la variegata dozzina dei vincitori relativi: i rappresentanti del Nouveau front populaire (Nfp), socialisti, ecologisti, comunisti ed estremisti della France insoumise (Lfi) di Jean-Luc Mélenchon, che — troppo ingombrante — non è nella delegazione. A guidarla, un passo avanti, e a condurre l’ora e mezza di confronto con il capo di Stato, è la premier prescelta, Lucie Castets, alta funzionaria del Comune di Parigi sulla quale le componenti molto diverse della coalizione hanno trovato accordo. Circondata plasticamente dai quattro leader di partito a corolla, con i capigruppo in Parlamento in seconda fila, Castets ha detto che il Fronte è compatto e soddisfatto, che Macron ha recepito il messaggio degli elettori «di un cambiamento di orientamento politico»: «Su questo punto il presidente è lucido»; benché manifesti «ancora la tentazione di voler formare un proprio governo», avrebbe compreso l’inevitabilità di una «coabitazione» — il gruppo evoca questa formula — con le sinistre. Perché un governo dell’Nfp funzioni, però, è necessario che racimoli voti nelle altre formazioni. Del centrodestra?
Mai con gli insoumis, dice a margine Laurent Wauquiez, che guida i gollisti dei Républicains. Il premier dimissionario e capogruppo del macronista Ensemble, Gabriel Attal, ricevuto a pranzo assieme agli altri della coalizione di governo, non commenta, e lascia l’Eliseo con la sua cartellina azzurra sotto il braccio. Ma poi in un messaggio ai propri deputati evoca «una mozione di censura immediata nel caso di un governo con ministri della France insoumise»; posizione «condivisa da tutto il blocco centrale».
Come se ne esce? In perfetto italiano, viene in aiuto al Corriere Éléonore Caroit, deputata di Ensemble nonché vicepresidente della Commissione Esteri: «Anche se non siamo ancora riusciti in questa equazione complicata, abbiamo fatto un passo in avanti. Il nostro blocco e la destra repubblicana sono disposti a non opporsi a un governo di sinistra, senza Lfi». È un calcolo complesso, come dice Caroit, perché i socialisti in particolare sono costretti dall’attuale sistema di circoscrizioni maggioritarie a conservare l’intesa elettorale con gli insoumis; i quali però sembrano far di tutto per far saltare il tavolo, appena domenica Mélenchon ha minacciato Macron di destituzione.
Una soluzione può essere quella di un socialista anti insoumis come il sindaco di Saint Ouen Karim Bouamrane o l’ex premier di Hollande, Bernard Cazeneuve; due nomi che circolano con insistenza? L’onorevole Caroit la considera una via ancor più ardua per le sinistre: meglio sarebbe un governo Castets liberato dal fardello Mélenchon. «Una spina nel piede», dicono i francesi. Lunedì il gioco ricomincia con la consultazione della destra estrema del Rassemblement national di Marine Le Pen. Non si esclude un ultimo giro di giostra martedì mattina, per arrivare a una nomina efficace al più tardi mercoledì. Pena il ritorno alla casella di partenza.
(da agenzie)
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Agosto 24th, 2024 Riccardo Fucile
“NELL’ULTIMO MESE LE PROSPETTIVE SI SONO COMPLETAMENTE RIBALTATE. IN STATI DOVE LA VITTORIA REPUBBLICANA ERA CERTA, ORA È POSSIBILE GIOCARSELA” – “CON BIDEN FUORI DALLA SCENA ORA È LUI L’ANZIANO, E IL SUO MESSAGGIO È VECCHIO, TRITO E ANCHE TRISTE”
«Beyoncé alla fine non è apparsa sul palco della convention dem. E sa cosa le dico? Meglio. La voce ha fatto bene ai Democratici, allargando immensamente l’audience. Di sicuro, molte più persone hanno ascoltato il suo intervento. Un ottimo discorso: non ha sbagliato un passaggio».
Larry Sabato è a capo del Center for Politics dell’Università della Virginia, autore di numerosi saggi e acuto osservatore della politica americana, che racconta in una newsletter ricca di informazioni, intitolata “Sabato’s Crystal Ball”.
La Convention è finita. Il suo bilancio?
«Una Convention superba, ha davvero posto Harris nel cuore di una difficile campagna. Nomi importanti, messaggi forti e positivi, clima gioioso. Davvero un’atmosfera che dà nuove speranze al Paese e rimanda al mittente la visione fosca di Donald Trump: basta con la rabbia e le lamentele, è il tempo dell’azione. Il tutto, messo in piedi in un solo mese.
Già solo questo mostra quello che questa nuova squadra è in grado di fare».
La parte difficile inizia ora…
«Certo, le elezioni non sono vinte, sarà comunque un testa a testa. Però nell’ultimo mese le prospettive politiche dei Democratici si sono completamente ribaltate. Passando da una sconfitta annunciata alla possibilità concreta di vincere conquistando alcuni Stati incerti. E c’è altro: in Stati dove la vittoria Repubblicana era certa, ora è possibile giocarsela fino all’ultimo voto».
Cosa deve fare Harris per vincere?
«Essere solida nei suoi messaggi, continuando a viaggiare in lungo e in largo: i suoi comizi sono coinvolgenti, la gente ne esce energizzata, ne parla agli amici, ai vicini di casa. In un’elezione dove ogni voto conta, è importante. E poi deve concentrarsi sul dibattito del 10 settembre: non le sarà difficile controbattere le bugie di Trump, ma non deve sottovalutarlo. Lui lotta per la sopravvivenza, potrebbe assestarle qualche colpo basso».
Nel frattempo Trump cosa farà?
«La frustrazione della sua campagna è stata resa evidente dalla quantità di mail e messaggi che hanno mandato in questi giorni di Convention. Trump ha ancora armi per colpire l’avversaria. Ma la verità è che non è in grado di usarle. Con Biden fuori dalla scena ora è lui l’anziano, e il suo messaggio è vecchio, trito e anche triste».
Ora però, e lo ha detto anche la candidata democratica, si tratta di trasformare la gioia e l’entusiasmo in voti il 5 novembre. E per questo serve mobilitarsi. Ci riuscirà?
«E’ la vera questione e la risposta la sapremo solo nel finale di gara. Ma per trovare un evento come la convention democratica di quest’anno così gonfio di entusiasmo bisogna risalire, forse, a quando venne nominato Barack Obama nel 2008».
Gli elettori non sono così interessati a conoscere cosa un probabile presidente farebbe una volta alla Casa Bianca in economia, sull’immigrazione o in politica estera?
«I repubblicani vogliono saperlo. Ma votano Trump. E i media sono interessati per l’aspetto notizia, novità. Ma a tutti gli altri elettori i dettagli interessano assai poco. Hillary Clinton aveva il più lungo ed esaustivo piano di qualsiasi candidato io ricordi. E sappiamo tutti come è andata a finire».
Quindi meglio l’emozione che la concretezza politica per vincere?
«Gli elettori hanno già il senso, l’emozione Kamala. Però certo un’agenda serve. Semplicemente mi sembra che sulla questione ci siano aspettative create dagli oppositori non certo dal suo mondo».
L’approdo sulla sponda trumpiana di Robert Kennedy jr con il suo endorsement cambia un po’ la dinamica della corsa?
«Sorprendentemente poco».
Anche negli Stati in bilico incide poco?
«Sorprendentemente sì. Un sondaggio CBS/You Gov recentemente ha stimato Robert F. Kennedy al 2%. Sottolineo 2%».
(da La Stampa)
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Agosto 24th, 2024 Riccardo Fucile
“FATEVI I FATTI VOSTRI QUANDO SI TRATTA DI DIRITTI RIPRODUTTIVI”
«Run, Kamala, run, non lasciare che nulla ti spaventi», la incitava il papà al parco quand’era bambina. E lei ha corso, e corso, e corso, fino alla sera magica di Chicago. Completo scuro, la camicetta con il collo a sciarpa ormai tra i capi distintivi del suo guardaroba, scenografia solenne e bandiere americane: nel pubblico moltissime donne sono vestite di bianco in omaggio alle suffragette, Harris no. Se vincesse a novembre sarebbe la prima donna, la prima donna nera e la prima persona di discendenza asiatica, ma nel discorso più importante della sua vita ha deciso di lasciarlo sullo sfondo per presentarsi prima di tutto come un’americana, figlia della «più grande nazione sulla Terra». «U-S-A!», «U-S-A», grida la folla agitando cartelli con la stessa scritta e non era la prima volta in questi giorni che chiudendo gli occhi si sarebbe potuto pensare di essere a una convention repubblicana, tanto che nel pomeriggio sembrava persino plausibile la voce dell’arrivo di George W. Bush.
Obamiana nel raccontare la sua biografia e nel volere unire le due Americhe, ma meno messianica, più «normale»: se Obama sul palco del 2008 aveva grandi colonne romane alle spalle, come se fosse un Dio, lei parlava con dietro una scenografia che evocava il suo passato di procuratrice, quando si presentava, «ogni giorno con orgoglio davanti a un giudice con cinque parole: Kamala Harris, per il popolo».
Testa bassa verso l’obiettivo, come le ha insegnato la mamma, e pochi fronzoli, tanto che alla fine sul palco dello United Center non sono salite né Taylor Swift né Beyoncé. Le star c’erano ma nessuna, a parte un po’ Oprah Winfrey, ha rubato la scena rischiando di far passare i democratici come gli amici dei ricconi di Hollywood scollegati dalle preoccupazioni degli ordinary americans.
Se Harris sia riuscita, da vicepresidente poco popolare, e per molti con un profilo troppo di sinistra, a reinventarsi e convincere gli elettori che sarà «il presidente di tutti gli americani», e soprattutto di quella classe media dalla quale ha ricordato di venire, lo diranno i sondaggi dei prossimi giorni, ma lei e il suo team hanno superato la prova di una convention non facile, ribaltata e riorganizzata in meno di un mese.
Tanto Milwaukee era stata la celebrazione di un clan, quanto Chicago è stato uno sforzo corale. Da Pete Buttigieg a Gretchen Whitmer ai vecchi leoni come i Clinton e Bernie Sanders, tanti volti, tanti discorsi efficaci. Ma anche la conferma, a giudicare dall’affetto con il quale l’hanno accolto, che Harris ha fatto centro nello scegliere Tim Walz come compagno di squadra, a proposito di empatia e «normalità».
Altro obiettivo raggiunto, avere dimostrato, a chi ancora nutriva dei dubbi, che il ritiro di Biden era necessario: l’uscita di scena del presidente ha sciolto quel nodo allo stomaco di cui aveva parlato Michelle Obama (passaggio che infatti dicono non sia stato molto apprezzato alla Casa Bianca). I riferimenti a lui, a parte l’abbraccio della prima sera, sono stati frettolosi, come se lo avessero voluto archiviare con Trump, di cui però si è parlato incessantemente, in un’era «pesante» da chiudere in fretta, presentando Kamala come la candidata del cambiamento, non l’incumbent che in un certo senso è.
Via i toni cupi del Paese in lotta per la sopravvivenza della democrazia, avanti con la gioia — evocata praticamente da ogni oratore — e con il nuovo slogan: libertà, una parola che funziona e ribalta completamente la narrazione repubblicana. Loro, è il messaggio, vogliono imporvi come vivere e pensare, noi democratici vi diciamo di essere liberi nel rispetto degli altri. «Fatevi i fatti vostri», soprattutto quando si tratta dei diritti riproduttivi, è stata tra le frasi più ripetute.
Un tema minacciava di macchiare la festa democratica, le proteste pro Gaza, ma non ci sono stati cortei imponenti, e Harris, pur insistendo sul diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, non ha concesso nulla ai radicali, togliendo subito dal tavolo l’ipotesi di un embargo sulla vendita di armi a Israele.
Tutta la convention è stata molto «da terza Via», centrista. L’obiettivo sono chiaramente gli indipendenti e i repubblicani anti Trump, ma la strada per novembre è ancora in salita, i sondaggi sono buoni ma non ottimi, come hanno ripetuto qui tutti i big della campagna. Kamala sa che, come le diceva il papà, non può fermarsi (infatti ha continuato la campagna anche in questi giorni) se vuole convincere gli americani a «scrivere il prossimo grande capitolo della storia più straordinaria mai raccontata».
(da Il Corriere della Sera)
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Agosto 24th, 2024 Riccardo Fucile
SI E’ RITIRATO DALLA CORSA ALLA CASA BIANCA PER SOSTENERE TRUMP, MA FINO A POCO TEMPO FA LO CRITICAVA DURAMENTE… DIO LI FA E POI LI ACCOPPIA
Robert F. Kennedy Jr. si è ritirato dalla corsa alla Casa Bianca e ha deciso di unirsi alla campagna di Donald Trump per sostenere un suo secondo mandato.
Dopo l’annuncio, il noto complottista NoVax è stato presentato dallo stesso Trump durante un evento al Desert Diamond Arena di Glendale, in Arizona, probabilmente ignorando tutto ciò che lo stesso Kennedy Jr. aveva detto in passato.
Solo poco tempo fa, il 24 maggio 2024, aveva pubblicamente descritto Trump come uno dei peggiori presidenti americani della storia, aggiungendo che un secondo mandato del «truffatore» non sarebbe stato diverso dal primo.
Cosa ha detto realmente Kennedy Jr. contro Donald Trump
Il duro attacco a Donald Trump e al suo secondo mandato è presente sull’account ufficiale di Robert F. Kennedy Jr. su Twitter/X. Non c’è dubbio che sia proprio lui, ora celebrato dai repubblicani, ad aver accusato Trump di aver truffato i lavoratori americani, scelto collaboratori tra i lobbisti, infiammato le tensioni razziali e non protetto gli americani. Kennedy ha anche sostenuto che l’America abbia assistito alle peggiori rivolte e saccheggi mai visti dagli anni ’60 sotto la sua presidenza.
Proseguendo, Kennedy accusava Trump di essersi vantato di aver armato l’Ucraina più di quanto fatto la presidenza Obama e di aver destabilizzato le relazioni con la Russia, incolpandolo in parte per l’invasione dell’Ucraina. Inoltre, lo criticava per aver bombardato la Siria, per aver ucciso il generale iraniano Soleimani e per non aver mantenuto la promessa di porre fine alla guerra in Afghanistan.
La campagna durante la pandemia
Kennedy Jr. si è contraddistinto durante la pandemia di Covid-19 per le sue teorie del complotto e il costante sostegno all’area No Vax. Nel tweet, accusa Trump di aver inventato i lockdown e di aver causato la «chiusura di milioni di piccole imprese». Lo accusa, inoltre, di non aver risolto la «crisi degli oppioidi» e di aver nominato alla guida del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti (HHS) persone controllate dalle grandi case farmaceutiche.
«Se pensi che un secondo mandato di Trump sarebbe diverso, ti stai abbandonando a un pio desiderio» conclude Kennedy Jr. nel suo lungo tweet
In un tweet del 19 maggio 2024, Kennedy Jr. pubblicò e mise in vendita a 30 dollari per la sua campagna presidenziale una maglietta con la scritta “Vote for Trump Fauci 2024 – Give us another shot!”. Considerate le sue posizioni No Vax e l’odio verso Fauci, era evidente che non si trattasse di un endorsement nei confronti di Trump. Infatti, nel tweet Kennedy attaccava il candidato repubblicano, accusandolo di essere responsabile dell’operazione Warp Speed per lo sviluppo dei vaccini anti Covid. La maglietta non è attualmente in vendita nel sito, evidentemente rimossa
Le teorie del complotto e la vocazione No Vax
Il nipote di John Fitzgerald Kennedy, figlio di Bob, è noto per essere uno dei guru No Vax più influenti, grazie soprattutto al peso del suo nome. Nel 2015 aveva paragonato le vaccinazioni pediatriche all’Olocausto, mentre durante la pandemia aveva diffuso, tramite la sua associazione, svariate fake news e teorie complottiste sui vaccini. Nel 2021, attraverso la sua associazione, promosse un documentario rivolto alle comunità afroamericane per convincerle a non vaccinarsi, non solo contro la Covid.
Kennedy Jr. è un grande sostenitore di Andrew Wakefield, l’inventore della bufala antiscientifica che collega i vaccini all’autismo e considerato un «ciarlatano». Nel 2020, entrambi parteciparono a un evento online in cui vennero promossi trattamenti contro la Covid su basi antiscientifiche, arrivando persino a sostenere teorie assurde come quella secondo cui i sintomi del virus sarebbero stati causati dalla caduta di plutonio proveniente da satelliti distrutti. Nel 2023, Kennedy Jr. dichiarò che il Sars-CoV-2 sarebbe stato «mirato per attaccare i caucasici e i neri», colpendo di meno «ebrei ashkenaziti e cinesi».
E ancora: nel 2022, Kennedy Jr. dichiarò che «Anna Frank stava meglio dei No Vax oggi» e paragonò l’obbligo vaccinale alla Germania nazista. Queste affermazioni suscitarono forti critiche, tanto che sua moglie, l’attrice Cheryl Hines, prese pubblicamente le distanze su Twitter/X: «Le opinioni di mio marito non riflettono le mie. Sebbene ci amiamo, abbiamo opinioni diverse su molti argomenti attuali».
Durante un’intervento su Twitter/X del 2023, con la presenza di Elon Musk, ha attribuito l’aumento delle sparatorie di massa ai farmaci antidepressivi: «Prima dell’introduzione del Prozac, nel nostro Paese non si era verificato quasi nessuno di questi eventi e non li avevamo mai visti nella storia dell’umanità, in cui delle persone entrassero in un’aula scolastica piena di bambini o di sconosciuti e iniziassero a sparare alla gente».
(da Open)
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