Dicembre 2nd, 2024 Riccardo Fucile
BEFFA PENSIONI MINIME, IL RECUPERO DELL’INFLAZIONE VALE SOLO 1,8 EURO AL MESE… PREFERISCONO SPUTTANARE I SOLDI IN ALBANIA O NEL PONTE SULLO STRETTO
Altro che tre euro in più. Da gennaio le pensioni minime saliranno solo di 1,8 euro al mese. Un caffè al bar, magari macchiato, offerto dallo Stato. Una pessima notizia per i pensionati. E per Forza Italia che da sempre ha tra le sue bandiere il traguardo berlusconiano dei 1.000 euro. A questo giro si fermerà a 616,57 euro dai 614,77 euro attuali. A meno che, quando si entrerà nel vivo della discussione sulla manovra dal 9 dicembre, il braccio di ferro con il taglio del canone Rai spinto dalla Lega non veda vincitore il vice premier Antonio Tajani. Una partita ancora tutta da giocare.
Un caffè al mese
Il colpo alle cifre e alla discussione politica lo dà la Gazzetta ufficiale numero 278 dello scorso venerdì, laddove pubblica il decreto del ministero dell’Economia di concerto con il ministero del Lavoro firmato il 15 novembre dai ministri Giancarlo Giorgetti e Marina Calderone. Lì si dice che l’inflazione da recuperare nel 2025 sulle pensioni – inflazione di quest’anno (l’indicizzazione si muove sempre con un anno di ritardo) – sarà pari allo 0,8% appena.
Meno dell’1% auspicato quando la manovra è stata chiusa e inviata alla Camera e che avrebbe dato quel mini rialzo di 3 euro già molto discusso per la sua esiguità. I calcoli Istat si fermano allo 0,8% (l’indice dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati applicato è il Foi, quello senza tabacchi). L’aumento diventa un caffè al mese.
L’addizionale evita il taglio
E dire che il governo fa comunque uno sforzo in manovra, accostando a quello 0,8% di inflazione ora ufficializzato un’addizionale del 2,2%, arrivando così al 3% totale. Sforzo obbligato, visto che il prossimo anno scadeva l’addizionale in vigore quest’anno del 2,7%. Senza addizionale le minime sarebbero scese a 598 euro e con un’inflazione allo 0,8% sarebbero risultate alla fine inferiori a quelle di quest’anno, cioè tagliate. Uno smacco per il governo. In ogni caso, l’aumento assicurato per il 2025 pare davvero piccolo.
Cosa succede alle altre pensioni
Non va meglio alle altre pensioni. Dopo due anni di tagli pesantissimi – ci sono due ricorsi pendenti davanti alla Corte Costituzionale contro questi tagli – il governo ha deciso di tornare al criterio di indicizzazione più favorevole ed equo, quello Prodi applicato anche dal governo Draghi.
Funziona a scaglioni come l’Irpef. E dunque tutti gli assegni fino a quattro volte il minimo (circa 2.400 euro) avranno il 100% di rivalutazione, quindi tutta l’inflazione dello 0,8%. La parte di assegno tra 2.400 e circa 3 mila euro sarà rivalutata al 90%, pari allo 0,72% di inflazione. La porzione di pensione sopra 3 mila euro recupererà il 75% dell’inflazione, pari allo 0,6%.
Per fare qualche esempio, una pensione lorda da mille euro al mese aumenta di 8 euro. Un assegno da 1.500 prende altri 12 euro lordi. Che salgono a 20 euro per pensioni da 2.500. E 30 euro per assegni da 4 mila euro lordi.
Una magra consolazione per le pensioni medio-alte che in modo cumulato sono stati tagliate per 37 miliardi netti dal governo Meloni fino al 2032. Anche se quei tagli del biennio 2023-2024 sono finiti, gli assegni si sono abbassati per sempre. Comprese le pensioni non proprio d’oro, di 1.600-1.700 euro netti al mese. Si volta pagina. Ma solo mini aumenti.
(da agenzie)
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Dicembre 2nd, 2024 Riccardo Fucile
SI TRATTA DI SOLDI SOTTRATTI AL FONDO PER LO SVILUPPO E COESIONE, CHE HA L’OBIETTIVO DI REALIZZARE OPERE INFRASTRUTTURALI SOPRATTUTTO AL MERIDIONE… IL PD ATTACCA: “È UN RISARCIMENTO ALLA LEGA DOPO LO STOP DI FORZA ITALIA AL TAGLIO DEL CANONE RAI”
Un «saccheggio» del Sud per accontentare Matteo Salvini. Le opposizioni tuonano contro
il blitz del governo all’ultima riunione del Cipess che, come anticipato ieri da Repubblica, ha dato una spinta al progetto del Ponte sullo Stretto caro al leader della Lega. Un assist confezionato da Palazzo Chigi, che ha convocato d’urgenza il Comitato per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile.
Il motivo di tanta fretta? Assegnare subito le risorse del fondo di sviluppo e coesione (fsc) 2021-2027 ai ministeri. E garantire così al segretario del Carroccio tre miliardi in più (da 11,6 a 14,7 miliardi) per il collegamento tra la Calabria e la Sicilia.
L’emendamento alla manovra presentato dal capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, per ridisegnare le coperture finanziarie del Ponte. Attraverso la riscrittura, il totale dei fondi potrà appunto aumentare. E uno dei bacini da cui attingere è proprio l’fsc a disposizione del dicastero delle Infrastrutture, che con il nuovo finanziamento (2,3 miliardi) potrà ora contare su un totale di 9,2 miliardi. Quasi tutti, nello specifico 6,1 miliardi, saranno dirottati sul Ponte.
I dem leggono l’assist di Palazzo Chigi a Salvini come un risarcimento dopo lo stop di Forza Italia al taglio del canone Rai chiesto dai leghisti. «Siamo alla follia di un governo che vive solo di scambi di potere», aggiunge Boccia. E il responsabile economico del partito, Antonio Misiani, parla di un governo che «sta realizzando un pozzo senza fondo».
Tra le critiche finisce anche l’ex ministro per la Coesione, Raffaele Fitto, che ha assegnato le risorse del fsc. «Prima decidono da soli cos’è meglio per tutto il Mezzogiorno e poi gli addebitano il conto da pagare, tutto con la compiacenza del “bravissimo” Fitto», accusa il deputato Ubaldo Pagano.
È invece Angelo Bonelli, co-portavoce di Avs, ad accusare la premier: «Giorgia Meloni ha piegato nuovamente la testa di fronte all’ennesima follia di Salvini, tutto questo è inaccettabile». Sempre Bonelli denuncia l’effetto del blitz dell’esecutivo: «Si prosciuga il fondo per lo sviluppo e coesione: parliamo di una cifra pari a 6 miliardi che serviva per il trasporto pubblico, per le scuole, la sanità e la manutenzione del territorio».
Soprattutto al Sud, che è destinatario dell’80% dei fondi. Solitamente le risorse sono distribuite in diversi ambiti, ma Salvini punta a concentrare la maggior parte delle somme sul Ponte. Anche i 5 stelle attaccano il governo: «È uno sciacallaggio che penalizza ulteriormente le regioni meridionali», chiosa il vicecapogruppo alla Camera, Agostino Santillo. La Lega tira dritto. Il prossimo passaggio è il via libera all’emendamento alla legge di bilancio.
(da agenzie)
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Dicembre 2nd, 2024 Riccardo Fucile
SE IL RICORSO IN CASSAZIONE DEL GOVERNO VERRA’ BOCCIATO, IL CENTRO POTRA’ ESSERE DESTINATO A OSPITARE I DETENUTI DI QUELLA NAZIONALITA’
Per il momento tocca ancora ai giudici, il 4 dicembre c’è la Cassazione e a febbraio, con decisione prevista ad aprile, sarà la volta della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Saranno loro a decidere se il governo Meloni può stabilire un elenco rigido di Paesi sicuri, trattare le richieste d’asilo dei loro cittadini con la procedura accelerata (leggasi sommaria) e nel frattempo rinchiuderli nei centri di permanenza (leggasi detenzione) anche in Albania, per poi rimpatriarli (sempre che il Paese di destinazione sia d’accordo).
Il governo ostenta fiducia, finché può non abbandonerà il progetto di portare i migranti oltre Adriatico a Shëngjin e Gjader, tanto più che in Europa non era stato accolto troppo male anche da forze distanti dall’italian far right.
Può costare fino a un miliardo di euro, difficilmente inciderà davvero sui grandi numeri degli sbarchi, sia pure come cinica “deterrenza”, ma a quanto pare funziona benissimo sul piano della propaganda, almeno agli occhi dell’elettorato conservatore.
Anche quando si trasforma in conflitto istituzionale con la magistratura che fin qui ha negato la convalida dei “trattenimenti” automatici dei migranti. Un nemico fa sempre comodo, il giudice “comunista” (cit. Salvini) come lo straniero. Ma nell’ipotesi che l’avventura coloniale dovesse finire male si discute già, nelle sedi del governo, di un piano alternativo, che permetterebbe di salvare almeno in parte i soldi investiti.
L’idea sarebbe quella di portare in Albania gli albanesi, cioè i detenuti con passaporto di Tirana condannati in Italia. Andrebbero a scontare la pena al di là del mare, più vicino ai parenti, in un penitenziario costruito a Gjader sulle macerie del centro di permanenza.
Sono tanti gli albanesi nelle celle italiane: al 31 ottobre erano ben 1.947, quasi il 10 per cento degli stranieri (oltre 19 mila: solo i marocchini, tunisini e romeni sono più numerosi) che sono poco meno di un terzo del totale (62 mila). Tra loro ce n’erano ben 1.382 condannati in via definitiva, quindi almeno potenzialmente interessati.
Esiste dal 2002, del resto, un accordo italo-albanese che consente il trasferimento reciproco di detenuti da un Paese all’altro: Roberto Castelli, il ministro della Giustizia dei governo Berlusconi II e II (2001-2006), si vantava dei charter per Tirana.
Sul trasferimento dei detenuti, del resto, c’è la Convenzione di Strasburgo del 1983 a cui l’Italia aderisce: ha permesso di portare nel carcere di Verona Chico Forti, condannato per omicidio in Florida e accolto come un capo di Stato da Giorgia Meloni all’aeroporto militare di Pratica di Mare. Ci sono poi accordi bilaterali con diversi Paesi, quelli con l’Albania sono stati rinnovati nel 2017 e arricchiti anche di recente.
Dev’essere però il detenuto a chiedere il trasferimento, o almeno deve acconsentire. Non è facile perché le carceri italiane sono poco degne di un Paese civile, ma quelle albanesi ancora meno. Parliamo di poche decine di trasferimenti negli ultimi anni, in crescita grazie alla pressione del ministro della Giustizia Carlo Nordio sull’omologo albanese Ulsi Manja. Qui invece si lavora per costruire un meccanismo tendenzialmente automatico, almeno pro quota, ammesso che sia possibile. Ma è tutto di là da venire.
Per il governo è stato già un brutto colpo vedere i 12, poi 8 stranieri portati in Albania e ritrasferiti subito in Italia dopo le mancate convalide. Per non dire di poliziotti, agenti penitenziari, medici e infermieri distaccati con le opportune diarie oltre Adriatico per fare poco o nulla, quindi costretti a rientrare dopo il secondo schiaffone dei giudici. La rinuncia definitiva al progetto di esternalizzare le frontiere sarebbe una sconfitta clamorosa per Meloni e i suoi. Una soluzione per non buttare tutto al vento dovranno trovarla. Nel frattempo, da ieri, in Albania è in corso una due giorni di mobilitazione in occasione del Network Against Migrant Detention.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Dicembre 2nd, 2024 Riccardo Fucile
OGGI SALIRÀ SUL PALCO DEL CONVEGNO “IMAGINE ITALY”, DI ERICSSON , PER MODERARE PANEL CON I MANAGER DELLE AZIENDE PARTECIPATE, NOMINATI DAL GOVERNO DELL’EX COMPAGNA MELONI
L’intervista di giovedì sera a Paolo Del Debbio per riparare il veto di Mediaset all’ospitata
a Belve è servita anche a un altro obiettivo: tornare in pubblico come moderatore di eventi.
Così sabato Andrea Giambruno, ex compagno della premier Giorgia Meloni, ha presentato nelle Marche la biografia di Donald Trump scritta dall’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e oggi tornerà sul palco a Roma per moderare un convegno tra manager privati e pubblici nominati dal governo Meloni, amministratori e anche esponenti di governo: Giambruno sarà il presentatore unico di Imagine Italy, l’evento annuale organizzato da Ericsson Italia, la multinazionale della tecnologia che quest’anno dedicherà i panel al 5G.
Al Palazzo delle Esposizioni il “giornalista e autore televisivo” (così viene indicato nella locandina) modererà panel con alcuni dei principali manager di aziende partecipate nominati dal governo della ex compagna: ci sarà uno speech dell’amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani, un intervento del sindaco di Roba Roberto Gualtieri mentre dalle 16 in poi modererà un confronto sul 5G e la logistica con l’ad di Terna Giuseppina Di Foggia, il ceo di Rete ferroviaria Italiana Gianpiero Strisciuglio e Nicola Carlone, comandante generale delle Capitanerie di Porto.
Di 5G parleranno anche manager di aziende pubbliche e private attive su dossier che coinvolgono lo Stato, come Tim e Open Fiber o Infratel, la società del ministero delle Imprese titolare dei bandi per la rete in fibra vinti dai due gruppi delle Telecomunicazioni.
Oltre al presidente di Ericsson Andrea Missori, l’ospite d’onore sarà il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini che chiuderà il convegno. Il segretario della Lega ha ottimi rapporti con Giambruno e già a fine agosto i due avevano duettato alla festa di Affaritaliani.it a Ceglie Messapica.
Già sabato a Porto Sant’Elpidio ha presentato il libro di Sangiuliano. Durante l’incontro l’ex ministro, che si è dovuto dimettere per la mancata nomina da consulente dell’ex amante Maria Rosaria Boccia, Sangiuliano si è sfogato: “Il peggio non è alle spalle, sono oggetto di violenza”.
Con l’evento di oggi l’ex compagno della premier vuole riprendere l’esposizione pubblica a tutto tondo. Ci aveva provato accettando l’invito di Francesca Fagnani a Belve su Rai 2 ma, come ha raccontato Il Fatto, l’ospitata è saltata per il veto di Mediaset che ha riparato con l’intervista a Del Debbio. Giambruno avrebbe anche dato un aut aut all’azienda: o mi fate tornare in video o me ne vado. Nelle ultime settimane si è aperta una trattativa con i piani alti del Biscione per un addio.
(da il Fatto quotidiano)
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Dicembre 2nd, 2024 Riccardo Fucile
LA SIRIA E’ IL CROCEVIA DI ALLEANZE E TRADIMENTI, NEL TUTTI CONTRO TUTTI…ERDOGAN VUOLE ELIMINARE ASSAD, LA RUSSIA DA LI’ CONTROLLA LA NATO, GLI AYATOLLAH E ISRAELE PROIETTANO I LORO INTERESSI REGIONALI
Scrivere della Siria, decifrarla, impone una disciplina prudente, una specie di permanente modalità di ‘’stand by’’. La realtà delle alleanze e dei tradimenti costringe a una vigilanza che impari a sviluppare a poco a poco, bisogna scrivere e riscrivere molte volte prima che i fatti sfocino nel senso. Qui la Storia non è vissuta come un libro ma come un corpo, passioni ferite odio memorie torture arcaismi in nome di Allah…ti sembra di avere bene in pugno il filo giusto, islamisti Erdogan Stati Uniti Iran il regime di Bashar Israele, e ti accorgi che devi invece fiutare i dintorni, i margini di interessi e sottigliezze invisibili, un permanente mito di Sisifo. Non c’è niente che ti faccia cadere in errore quanto un luogo in cui sono state massacrate cinquecentomila persone, un Paese incastrato tra un regime morto-vivente e islamisti in armi, terra incognita diventata lo schermo su cui le grandi e le micro potenze proiettano le loro ansie e i loro interessi, dove si cristallizzano con una brutale accelerazione le opposizioni globali e locali innescate da due date fatidiche, il 24 febbraio 2022 e il sette ottobre di un anno fa. Alla fine viene il dubbio: e se la spiegazione fosse in una situazione hobbesiana di ognuno per sé e tutti contro tutti? Spunti di risposta, le alleanze e le complicità dipendono sempre da cosa si vuole.
Allora da chi si deve partire se non da Erdogan il turco? Uno che si dichiara e poi si ritrae, si avvicina e poi fa un passo indietro, urla o si eclissa, vago o categorico. Tutti lo indicano da tre giorni come il burattinaio, l’incendiario che si spera diventi, quando gli converrà, pompiere. L’inferno siriano ribollente di odi miopi e in perenne subbuglio gli si addice da tempo. Le legioni islamiste che in tre giorni hanno preso Aleppo, e tra poco Homs e Hama vecchi bastioni del fondamentalismo ribelle agli Assad (e forse anche Damasco e il Palazzo), non sono forse una sua creatura? Non li ha con volpina preveggenza costruite lui prelevando dal caos siriano al qaida, scaglie esplose di guerra civile, sigle finte, mercenari arruolati nella pentola bollente e indecifrabile del Caucaso, spingendole a camuffarsi da moderati, da fondamentalisti ragionevoli? Ha garantito la riproduzione in piccolo della futura Siria modello sharia a Idlib, una Tortuga islamista di tremila chilometri quadrati e quattro milioni di abitanti con comodo posto di frontiera a Baba-al-Hawa che produce opportune tangenti sugli aiuti internazionali. Una legione straniera per i vecchi sogni di Erdogan: eliminare con un po’ di ritardo il detestato Assad, e come al tempo delle primavere arabe diventare il padrone per un secondo dominio ottomano. O Aleppo potrebbe essere il vero bottino, capitale di una énclave turca, un Donbass siriano da cui tenere a bada l’antico problema dei curdi.
Verosimile, realistico? Erdogan è un inesauribile creatore di trame, alla fine diventano così intricate che lui stesso non riesce più a svincolarsene, ne diventa passivo prigioniero. Un piccolo dubbio per il sultano: e se i suoi legionari di ‘’al sham’’ giocassero con lui una doppia trama di inganni, e non avessero certo rinunciato alla rigorosa ‘’lebensraum’’ islamista per far da strofinacci alla grandeur turca? In fondo obbediscono solo a dio, cioè a se stessi, visto che si considerano dio. E poi qualcuno dimentica nella confusione dell’oggi lo Stato islamico: non è scomparso, è acquattato nel deserto di Badiya, il caos è come sempre una perfetta occasione.
La Russia ha aiutato Assad a sopravvivere, non per simpatia autarchica verso l’ex oculista londinese. Per la guerra lunga in Ucraina ha ridotto i suoi contingenti ma non può rinunciare al pulviscolo di basi aeree e navali con cui minaccia e controlla il fianco sud est della Nato. E’ troppo importante per la sua pretesa potenza globale per barattarla con Erdogan. Deve, se è ancora possibile, salvare per l’ennesima volta Bashar con l’aiuto dell’indebolito Iran.
Già, gli ayatollah di Teheran: possono rinunciare davvero alla Siria alauita, perdere il controllo dell’autostrada che è la vena che pulsa ossigeno e armi per i fedelissimi di Hezbollah che cercano di sopravvivere ai castighi israeliani e sfruttare il cessate il fuoco per riorganizzarsi?
Mosca e Teheran, due alleati che non hanno complici di riserva, che non possono lasciar fare, non mischiarsi di nulla, dottrinari obbligati a un fatalismo violento, meticoloso. E incerto.
Perfino l’onnipotente Israele ha difficoltà ad adattare le sue dottrine alla realtà siriana di oggi. C’è la tentazione a rinunciare alla coesistenza, in fondo consolidata routine con gli Assad e assistere soddisfatti al crollo di un altro pezzo del maledetto impero sciita, perfino agevolarla, nello spirito del nuovo Medio oriente del dopo Hamas. Israele dal ‘67 occupa un pezzo di iSria, il Golan, annesso come zona di sicurezza contro le tentazioni iraniane. Se i jiadisti conquistano la Siria non sono forse un vicino più pericoloso di Bashar? Dopo Gaza chi garantisce che Erdogan ne terrà a bada i furori ?
Gli americani che hanno truppe in Siria nelle zone curde nominalmente per tener d’occhio lo stato islamico, ai tempi di Obama lasciarono morire per omissione la prima rivoluzione siriana, quella laica e civile, del 2011. Che errore commetteranno questa volta nella pigrizia dell’interminabile interregno tra Biden e Trump?
(da lastampa.it)
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Dicembre 2nd, 2024 Riccardo Fucile
TRA I DENUNCIATI CI SONO FRONTALIERI CHE NON AVEVANO DICHIARATO DI AVER TROVATO LAVORO IN SVIZZERA, IMPRENDITORI CHE FALSIFICAVANO I CONTI PER CONTINUARE A INCASSARE IL REDDITO E 12 GIOCATORI D’AZZARDO CHE IL SUSSIDIO SE SPUTTANAVANO SCOMMETTENDO ONLINE
Percepivano il reddito di cittadinanza senza averne titolo: sono 29 le persone denunciate
dai militari della Guardia di Finanza del Comando provinciale di Varese. Secondo gli investigatori hanno incassato indebitamente oltre 330mila euro; l’accusa è di truffa ai danni dello Stato.
Tra i denunciati dai militari delle Fiamme Gialle ci sono frontalieri che non avevano dichiarato di aver trovato lavoro in Svizzera, imprenditori che falsificavano i conti per continuare a incassare il reddito e 12 giocatori d’azzardo che il sussidio lo scommettevano online puntandolo su vari eventi sportivi.
Attività vietata da una sentenza della Corte di Cassazione dello scorso marzo che indica quelle legate al gioco “spese voluttuarie”. A questi ultimi i finanzieri sono arrivati seguendo i conti di gioco di cui i denunciati erano intestatari. I 29 sono stati segnalati all’Inps per il recupero delle somme indebitamente incassate.
(da agenzie)
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Dicembre 2nd, 2024 Riccardo Fucile
L’EPICA GAFFE DI TOMMASO FOTI NEL 2021, QUANDO RIVOLGENDOSI A DRAGHI DISSE: “NOI SIAMO AL SUO FIANCO RISPETTO AL BUON ESITO DELLA CAMPAGNA VAGINALE”
Tutto nelle mani di Tommaso Foti, il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera. Giorgia Meloni sembra avere ormai scelto. Al posto di Raffaele Fitto, che si è dimesso per diventare vice-presidente della commissione Ue, la premier è intenzionata a non spacchettare le deleghe (Pnrr, Coesione, Sud, Affari Ue), soluzione che sembrava essere la più probabile all’inizio della scorsa settimana.
Esclusi man mano i vari nomi dal toto-ministri (su tutti, la numero 1 del Dis Elisabetta Belloni), Foti potrebbe giurare già oggi, seguendo uno schema già collaudato da Meloni quando si è trattato di sostituire Gennaro Sangiuliano alla Cultura con Alessandro Giuli. Fuori un ministro di FdI, dentro un suo collega di partito in tempi il più rapidi possibili.
Meloni ha incontrato Foti a Palazzo Chigi mercoledì, lo stesso giorno in cui la premier ha pranzato col presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale. In quelle ore si è deciso per il cambio di strategia: non più deleghe distribuite a ministri e sottosegretari – per il Pnrr si era pensato ad Alfredo Mantovano – ma tutto in capo a un unica persona e senza bisogno di rimpasti, come peraltro avrebbe suggerito lo stesso Fitto.
(da agenzie)
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Dicembre 2nd, 2024 Riccardo Fucile
UN ANONIMO PARLAMENTARE DA 5 CINQUE LEGISLATURE CHE HA UNA QUALITA’: ESEGUE GLI ORDINI DELLA MELONI (IL CHE E’ TUTTO DIRE)
Tutti gli indizi portavano a Tommaso Foti e le indiscrezioni delle ultime ore sono state
confermate: sarà lui, attuale capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, a prendere il posto di Raffale Fitto, che proprio oggi si insedierà come vicepresidente della Commissione europea. Foti, 64 anni, deputato da sei legislature, in Parlamento dal 1996 (salvo pausa di cinque anni), dovrebbe mantenere l’intero pacchetto delle deleghe del predecessore, il che gli consentirà di guidare il superministero che unisce Affari europei, Sud, Coesione e soprattutto la gestione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, lo snodo cruciale sul quale si sono concentrate le attenzioni e le preoccupazioni del Quirinale.
Oggi Foti è a Roma, cosa che non avviene mai di lunedì: il giuramento è previsto alle 12. Il deputato avrebbe così convinto anche chi si era detto scettico sull’opportunità di affidare il ministero del Mezzogiorno a un emiliano, cresciuto lontano dalle complesse dinamiche (non solo politiche) meridionali.
Foti era destinato al governo già dalla sua formazione, nell’ottobre del 2022: furono le indagini per corruzione, archiviate nel febbraio di quest’anno, a spingere Giorgia Meloni a lasciarlo alla Camera, con un ruolo comunque di vertice. La presidente del Consiglio lo stima molto, e, a differenza di Fitto, che ha un curriculum da perfetto democristiano, può giocare la carta dell’appartenenza alla storia della destra, fin dai tempi del Fronte della Gioventù. Agli occhi della premier non guasta poi che abbia un po’ di dimestichezza con l’inglese – vera bestia nera per molti dirigenti della galassia Meloni – e che dunque potrà andare in Europa a trattare sul Pnrr. A Bruxelles ritroverà comunque Fitto, che dal vertice della Commissione avrà competenza sulle pratiche riguardanti la Coesione territoriale.
Fino alla fine, a Palazzo Chigi e nelle interlocuzioni con Il Quirinale, si è valutato se mantenere il ministero con l’insieme delle deleghe, o spacchettarlo, e concentrare le forze di un solo ministro sul lavoro da completare per non perdere i fondi europei del Pnrr. Tra i nomi circolati quelli della sottosegretaria Wanda Ferro, di Francesco Filini, entrambi di FdI, e – in caso di spezzatino – Matilde Siracusano, sottosegretaria ai rapporti con il Parlamento, di Forza Italia. A questo punto dovrebbe prevalere lo schema deciso e condiviso da Meloni e Fitto: ministero unico affidato a un politico, non a un tecnico.
(da agenzie)
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Dicembre 2nd, 2024 Riccardo Fucile
VINCONO I SOCIALDEMOCRATICI, SI VA VERSO UN PARLAMENTO FRAMMENTATO
«Con questo voto decidiamo se restare a Ovest o svoltare a Est: sono le più importanti degli ultimi 100 anni. Se vireremo a Est ci sarà un esodo massiccio di persone», avvertiva ieri a urne ancora aperte l’economista romeno Radu Georgescu. Stesso nome ma orientamento opposto rispetto al Georgescu sovranista indipendente dell’ultradestra filorussa che ha vinto a sorpresa la settimana scorsa il primo round delle presidenziali.
Ma Radu può aspettare a fare le valige: i primi risultati prefigurano una rivincita dei socialdemocratici che restano la prima forza del Paese pur con un’avanzata delle formazioni di estrema destra anti-Kiev in queste elezioni parlamentari, «consultazione sandwich» tra il primo e il secondo turno delle presidenziali, domenica prossima.
Il Psd del premier uscente Marcel Ciolacu, reduce contro ogni previsione da una pesante sconfitta la settimana scorsa, ora risulta in vantaggio con il 24% delle preferenze. Lo rincorrono a distanza, indietro di 6 punti, i sovranisti anti Ue dell’Alleanza per l’unità dei romeni (Aur) di George Simion in forte ascesa. Seguono i liberali del Pnl, partner del Psd nell’attuale esecutivo, attestati intorno al 14%, l’Unione democratica magiara di Romania (Udmr) che rappresenta gli interessi della comunità ungherese nel Paese, quasi all’11%, davanti al giovane partito centrista Usr (poco sopra il 9%) di Elena Lasconi che, con la sua proposta anticorruzione, è la sfidante di Georgescu al ballottaggio dell’8 dicembre.
Sempre che la Corte costituzionale non decida di annullare il voto e re-indire la consultazione, come chiesto da due candidati che hanno accusato di frode il partito di Lasconi e la campagna di Georgescu. In caso di sospensione, si prevedono proteste antisistema contro i partiti tradizionali, accusati di voler manipolare la corsa.
In questo clima di incertezza e caos politico, appesantito dall’ombra di interferenze sul voto attraverso TikTok volano sospetto di consensi per Georgescu, i romeni sono andati a votare numerosi: l’affluenza è stata del 52%, la più alta da vent’anni. Ma non è bastata ad arginare l’avanzata delle varie forze di estrema destra, tutte contrarie all’invio di aiuti militari all’Ucraina: insieme arriverebbero a contare sul 30% dei voti, mentre erano sotto al 10% nelle elezioni del 2020.
Tra loro anche Sos Romania guidata dell’attivista Diana Sosoaca, e il recente Partito della gioventù (Pot) a cui è vicino Calin Georgescu: dovrebbero aver superato entrambi la soglia del 5% e riuscire ad entrare in Parlamento.
Il premier Ciolacu gongola: «I romeni hanno inviato un segnale importante: proseguire sulla strada europea ma anche proteggere la nostra identità nazionale». Si profila un emiciclo frammentato e negoziati difficili per formare il governo.
Il risultato del PSD è piuttosto sorprendente e si pensava che i partiti di destra potessero andare meglio: questo anche perché pochi giorni fa c’erano state le elezioni presidenziali, dove il più votato era stato a sorpresa Călin Georgescu, candidato nazionalista e filoputiniano, che andrà al ballottaggio con Elena Lasconi dell’USR. Il leader del PSD Ciolacu era invece arrivato terzo.
Le elezioni parlamentari sono più importanti delle presidenziali, perché decidono il governo (anche se comunque il presidente ha un ruolo attivo in politica, nomina il primo ministro e rappresenta il paese all’estero). Di solito il compito di formarlo viene assegnato al partito che riceve maggiori consensi, quindi in questo caso toccherebbe di nuovo al PSD.
(da agenzie)
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