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IL “WALL STREET JOURNAL” CONFERMA: GIORGIA MELONI AVEVA RICEVUTO DA TRUMP IL VIA LIBERA ALLA NON ESTRADIZIONE DI MOHAMMAD ABEDINI, UNICA CONDIZIONE CHE LA PARTITA SI CHIUDESSE PRIMA DEL 20 GENNAIO, CON BIDEN ANCORA ALLA CASA BIANCA

Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile

L’IRAN AVEVA IMPOSTO LO SCAMBIO DEGLI OSTAGGI E ASPETTAVA L’OK DELLA MELONI PER LIBERARE CECILIA E ATTENDERE IL RITORNO IN IRAN DI ABEDINI CHE AVVERRA’ A BREVE

La premier italiana Giorgia Meloni è tornata dal viaggio a Mar-a-Lago fiduciosa nella comprensione da parte di Donald Trump della necessità di liberare Mohammad Abedini Najafabadi, l’iraniano fermato a Malpensa su richiesta degli Stati Uniti, per ottenere la liberazione della giornalista Cecilia sala a Teheran.
Lo riporta il Wall Street Journal. “Giorgia Meloni – scrive il quotidiano – sapeva che il rilascio di Abedini come parte di uno scambio di prigionieri rischiava di irritare gli Stati Uniti, incluso il presidente entrante Donald Trump, che dovrebbe rinnovare la sua politica di ‘massima pressione’ sull’Iran.
Meloni è volata in Florida sabato per incontrare Trump e spiegargli che liberare Sala era un interesse nazionale italiano e che l’Italia avrebbe dovuto respingere la richiesta di estradizione degli Stati Uniti per Abedini. I dirigenti italiani sono tornati dalla Florida fiduciosi che Meloni si fosse assicurata la comprensione di Trump”.
La “Stampa” aggiunge che a Trump dell’estradizione di Abedini in realtà non importasse nulla, purchè lo scambio avvenisse prima del suo insediamento. A questo punto l’Italia ha potuto cedere al ricatto del governo iraniano che ha ottenuto quello che voleva.

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I PRESUNTI DATI RECORD SULL’OCCUPAZIONE SONO UN’ILLUSIONE OTTICA: IL TASSO DI OCCUPAZIONE CI POSIZIONA ALL’ULTIMO POSTO IN EUROPA

Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile

I DISOCCUPATI DIMINUISCONO PERCHÉ QUEI LAVORATORI DIVENTANO INATTIVI (IL LAVORO NON LO CERCANO PIU’)… QUELLO CHE PREOCCUPA È SOPRATTUTTO L’ANDAMENTO DELLA FASCIA D’ETÀ 25-34 ANNI

Il tasso di disoccupazione ha toccato il livello più basso da quando esistono le serie storiche, scendendo al 5,7%. È un dato senza dubbio positivo, ormai saldamente inferiore alla media europea e a paesi come la Francia, la Spagna, la Danimarca. Festeggiare questo dato non deve però distrarci dal vero nodo critico italiano, ossia il tasso di occupazione, che, sebbene sia a livelli record per il nostro paese (62,4 per cento), ci posiziona all’ultimo posto in Europa.
La distanza con i paesi che ci superano per disoccupazione è lampante. In Spagna il tasso di occupazione è del 66,6 per cento, in Francia del 69,4 per cento, in Danimarca del 77,3 per cento, ma anche la Grecia, da sempre pecora nera d’Europa negli ultimi trimestri ci ha superato di circa 1,5 punti percentuali.
Ma come stanno insieme un tasso di disoccupazione sotto la media europea e uno di occupazione all’ultimo posto? Il convitato di pietra di questa analisi è il numero di inattivi, ossia le persone che non solo sono senza lavoro, ma che non lo cercano neanche. Un indicatore che ci vede al primo posto in Europa, con il 33,7 per cento di persone inattive tra i 15 e i 64 anni rispetto a una media del 24,4 per cento.
Troppo spesso dimentichiamo che i disoccupati possono diminuire anche se diventano inattivi, non solo se trovano un lavoro. Ed è quello che è successo in Italia nell’ultimo anno, nel quale il tasso di disoccupazione è calato a vantaggio sia di quello di occupazione che di quello di inattività.
Quello che preoccupa è soprattutto l’andamento della fascia d’età 25-34 anni. Considerando, infatti, gli ultimi dodici mesi, vediamo come il numero di occupati sia diminuito di 38mila unità, quello dei disoccupati di 76mila ma quello degli inattivi è invece aumentato di ben 156mila persone. E non è solo un tema demografico legato alla riduzione della popolazione in questa coorte anagrafica, lo dimostra il fatto che il tasso di occupazione è calato di 1,1 punti mentre quello di inattività è cresciuto di 2,3 punti.
È importante considerare nel loro insieme tutti questi dati, e non per sminuire i buoni risultati del mercato del lavoro italiano che indubbiamente mostra una tendenza positiva a partire almeno dal 2021. Se prendiamo l’ultimo anno vediamo come, in numeri assoluti, gli inattivi siano cresciuti tanto quanto gli occupati, mentre se consideriamo la crescita percentuale gli inattivi crescono quasi il doppio.
(da editorialedomani.it)

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IL PARADOSSO DEL GOVERNO DEI PATRIOTI: L’ILVA CHE VERRÀ NON PARLERÀ ITALIANO

Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile

VENERDÌ SCADE IL TERMINE PER LE OFFERTE PER COMPRARE L’INTERO COMPLESSO SIDERURGICO DI ACCIAIERIE D’ITALIA: SI SONO FATTI AVANTI SOLO COLOSSI STRANIERI, DALL’INDIANA VULCAN STEEL AGLI AZERI DI BAKU STEEL… I GRUPPI ITALIANI PREFERISCONO LO “SPEZZATINO”, OSSIA L’ACQUISTO DI SINGOLI ASSET

L’Ilva che verrà non parlerà italiano. A pochi giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle offerte vincolanti, fissata per venerdì, l’acquisizione del complesso siderurgico sembra un affare per colossi stranieri. La corsia preferenziale che il governo, così come specificato nel bando, intende assegnare alla vendita in blocco non incontra l’interesse dei gruppi italiani del settore.
Da Marcegaglia ad Arvedi, fino a Sideralba, la preferenza è per lo “spezzatino”, ossia l’acquisto di singoli asset. Salvo sorprese, il governo dei patrioti dovrà trattare con colossi extraeuropei, anche se non è da escludere la formazione di cordate con la partecipazione di aziende italiane, che potrebbe materializzarsi dopo la presentazione delle offerte vincolanti.
Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, ha già chiarito di non essere favorevole a una partecipazione azionaria dello Stato. Piuttosto, Palazzo Chigi utilizzerà il golden power per ottenere dalla nuova proprietà precise garanzie su investimenti, transizione energetica, risanamento ambientale e tutela dell’occupazione
Dopo le manifestazioni di interesse del settembre scorso, serve per raccogliere e valutare le offerte. Non è un termine perentorio, quindi non esclude la possibilità di interloquire anche con società che dovessero affacciarsi successivamente.
Le aziende che, al momento, sembrano intenzionate a rilevare l’intero complesso siderurgico, con gli stabilimenti di Taranto, Genova, Novi Ligure e Racconigi, sono extra Ue. Si va dal gruppo indiano Vulcan Steel, guidato da Naveen Jindal, il cui fratello maggiore, con cui non ha legami societari, ha investito a Piombino, agli azeri di Baku Steel.
Da alcuni giorni, poi, si parla con insistenza di un interesse del fondo di investimento americano Bedrock. Secondo indiscrezioni, in cordata con gli americani potrebbe esserci il gruppo Arvedi. A presentare un’offerta dovrebbe essere anche la canadese Stelco, il cui controllo è passato al colosso statunitense Cleveland-Cliffs. Potrebbero sfilarsi, almeno in questa fase, gli ucraini di Metinvest.
La cessione dell’ex Ilva fa gola ai colossi stranieri del settore soprattutto per le risorse pubbliche disponibili per gli interventi di decarbonizzazione e transizione energetica nello stabilimento di Taranto.
Tra i fattori che scoraggiano l’acquisto in blocco, soprattutto da parte degli operatori italiani, ci sono la portata degli investimenti – si calcola che sarebbero necessari 6 miliardi di euro – e gli alti costi dell’energia che già oggi rendono l’acciaio prodotto in Italia più caro rispetto a quello di altri Paesi europei.
(da agenzie)

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MORTE RAMY, LA PROCURA DI MILANO VALUTA L’ACCUSA DI OMICIDIO VOLONTARIO CON DOLO EVENTUALE PER I CARABINIERI COINVOLTI

Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile

I VIDEO E LA DIFFERENZA CON I VERBALI

L’ipotesi di reato è contestata è ancora quella di omicidio stradale. Ma in Procura a Milano, seppure solamente a livello teorico, prende corpo la valutazione di poter aggravare l’accusa in quella di omicidio stradale con dolo eventuale per i carabinieri coinvolti nell’incidente stradale del 24 novembre in cui è morto il diciannovenne egiziano Ramy Elgaml.
Per quanto – si apprende – il cambio di capo d’incolpazione non è stato ancora formalizzato nel fascicolo che vede iscritti il vicebrigadiere di 37 anni al volante della gazzella dell’Arma e Fares Bouzidi, l’amico tunisino ventiduenne della vittima.
Da un’ipotesi di reato colposa si passerebbe ad una dolosa con pene molto più gravi in caso di condanna. L’ipotesi dell’omicidio con dolo eventuale – secondo gli inquirenti milanesi – potrebbe avere fondamento nel caso in cui si ritenesse che l’autista della pattuglia di servizio, seppure non avesse come obiettivo quello di speronare lo scooter, abbia accettato il rischio che ciò si potesse verificare ugualmente.
(da agenzie)

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CASO RAMY. ILARIA CUCCHI SCRIVE AL COMANDANTE DEI CARABINIERI LUONGO: “CERTE PERSONE NON MERITANO LA DIVISA”

Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile

“LE CHIEDO LA SOSPENSIONE DEI CARABINIERI CHE ANNO FATTO UNA RICOSTRUZIONE INCOMPATIBILE CON QUELLE IMMAGINI”

«Ci sono persone che non meritano di indossare la divisa». È questo uno dei passaggi più duri della lunga lettere inviata dalla senatrice di Avs Ilaria Cucchi al comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Salvatore Luongo in seguito alla diffusione del video dell’inseguimento del 19enne Ramy Elgaml da parte di due militari dell’arma. Nel video le dichiarazioni dei carabinieri – «chiudilo, chiudilo… no, mer** non è caduto» – sembrano suggerire l’intenzione di far cadere il giovane poi morto in un scontro da cui invece si è salvato l’amico alla guida dello scooter, Fares Bouzidi. Quest’ultimo sostiene che ci sia stato un urto tra la volante e il motorino che ha causato la caduta. I carabinieri invece hanno dichiarato al gip che lo scooter sarebbe caduto autonomamente, pur ammettendo il contatto.
Scrive Ilaria Cucchi: «Oggi ho visto le terribili immagini trasmesse dal tg che documentano gli ultimi istanti della folle corsa dello scooter da lui condotto verso la morte. Di fronte ad esse io non posso e non voglio trarre sentenza perché ritengo che questo sia compito della Magistratura e certo non mio. Lo lascio fare ad altri che, pur essendo Ministri della Repubblica, cedono alle lusinghe di una facile ed “ignorante” propaganda. Io Le chiedo scusa se mi permetto, ma, come cittadina, le chiedo la sospensione e conseguente destituzione dei carabinieri che hanno messo negli atti ufficiali una ricostruzione dell’accaduto che mi pare proprio incompatibile con quanto documentato dalle immagini».
«Sono ben lontana, mi creda, dall’invocare la condanna dell’autista della gazzella coinvolta direttamente nell’incidente. Ritengo tuttavia, che, fin da ora, chi ha ricostruito i fatti in modo così diverso dalla realtà e chi avrebbe ordinato ad un testimone di cancellare il filmato dell’incidente girato col suo cellulare, non meriti più di indossare la vostra onoratissima divisa. Mi piacerebbe incontrarla per raccontarle di persona quanto fanno male quei comportamenti alla credibilità dell’Istituzione che Lei oggi rappresenta – sottolinea Cucchi -. Vorrei farle capire quanto hanno reso difficile la vita della mia famiglia che ne è rimasta irrimediabilmente logorata. Vorrei farla parlare con i medici che hanno curato mia madre fino alla sua morte prematura avvenuta non prima di aver ottenuto giustizia. Vorrei farla parlare con i medici che hanno in cura mio padre ma forse sarebbe sufficiente che lo incontrasse».
Ilaria ricorda la vicenda del fratello Stefano Cucchi, ucciso dalle percosse di due carabinieri mentre era sottoposto a custodia cautelare nel 2009: «Quattordici anni di processi (ora 16). Oltre 160 udienze. Cinque anni con imputati ingiustamente accusati: gli agenti della Polizia Penitenziaria. Vorrei tanto incontrarla per raccontarle quanto male facciano alle persone ed all’Arma quelle ricostruzioni addomesticate, quelle verità nascoste, quei depistaggi. Peggio dei fatti dai quali ci si vuole difendere in modo così terribilmente sbagliato – scrive ancora Ilaria Cucchi- Sono una solo una normale cittadina ferita che ha un disperato bisogno di poter continuare a credere in quella divisa che per me è sacra. Qualcuno che ha perso il senso della realtà mi considera un’eroina. Ma eroi sono tutti i carabinieri, suoi sottoposti, che ogni giorno si sacrificano per la collettività. Li tuteli, per favore. Faccia in modo che tutti noi li possiamo portare nel cuore, sempre, senza ombre – conclude la senatrice di Avs -. Lo faccia, la prego».
(da agenzie)

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MATTARELLA RIFILA L’ENNESIMO SCHIAFFONE ALL’AUTONOMIA, RIFORMA SIMBOLO DEL CARROCCIO: “È INDISPENSABILE GARANTIRE IN TUTTO IL NOSTRO PAESE SERVIZI E COLLEGAMENTI ADEGUATI E CONDIZIONI DI PIENEZZA DI CITTADINANZA PER TUTTI I CITTADINI”

Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile

“PICCOLI PAESI COME QUESTO SONO UNA RICCHEZZA NON SOLO STORICA E DI MEMORIA. PERCIÒ AVVERTONO QUANTO IL VINCOLO NAZIONALE SIA ESSENZIALE PER CIASCUNO DI LORO”

Nella giornata del Tricolore, Sergio Mattarella s’è fatto sentire a difesa dell’unità territoriale e contro la desertificazione […] che incombe sulle nostre zone interne, sulle isole minori, sulle aree collinari e montane.
Gliene ha dato lo spunto Giovanni Burtone, suo vecchio compagno di militanza politica attualmente sindaco di Militello in Val di Catania dove il presidente della Repubblica ieri s’è recato in visita. […] Burtone s’è lasciato andare a uno sfogo contro l’abbandono in cui versano le comunità interne, specie per quanto riguarda i trasporti, la sanità pubblica, le comunicazioni.
A quel punto Mattarella ha preso la parola. «Non era previsto che intervenissi», è stato l’incipit, «ma non ho resistito»: il tema lo tocca in modo particolare. Nei suoi viaggi per l’Italia il presidente constata di continuo le difficoltà degli amministratori di ogni colore politico
Le risorse vengono dirottate altrove, con una preferenza per le grandi città. Ma così facendo, avverte Mattarella, si viene a colpire il tenore di vita della gente che risiede all’interno, vale a dire «13 milioni di nostri concittadini». E non solo.
L’Italia a torto considerata minore «rappresenta il 60 per cento del nostro territorio» ed è «parte essenziale dell’attrazione che il nostro bel Paese esercita nel mondo per la sua cultura, la sua storia, la sua arte, il suo modello di vita». Prestarvi attenzione è un investimento sul futuro. Conservare questi territori «nella loro genuina consistenza è un’opera preziosa di carattere nazionale che non si può fare», ammonisce il capo dello Stato, se le zone montane «vengono impoverite, indebolite, abbandonate». Come sta succedendo.
(da agenzie)

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IL CYBER-PASTICCIO DI NORDIO: LA PROCURA DI ROMA SOSPENDE L’UTILIZZO DELLA NUOVA APP SUL PROCESSO PENALE TELEMATICO PERCHÉ IL SOFTWARE “EVIDENZIA NUMEROSI MALFUNZIONAMENTI”

Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile

LA STESSA DECISIONE È STATA PRESA DAI TRIBUNALI DI ROMA, MILANO, BARI E TORINO – IL PROCURATORE CAPO DELLA CAPITALE, FRANCESCO LO VOI, INVITA A DEPOSITARE ATTI E DOCUMENTI CARTACEI

Milano, Roma, Bari e Torino sospendono App, Napoli di fatto era già andata in quella direzione, Genova e Reggio Calabria potrebbero intraprendere la stessa strada. È il bilancio pessimo del primo giorno nei Tribunali alle prese con App, l’applicazione per la gestione del processo penale telematico, che sta creando molti più problemi di quelli che intendeva risolvere.
Con un decreto di fine dicembre il ministro Nordio ha allargato il ventaglio degli atti per cui diventa obbligatorio il deposito telematico, ma gli uffici giudiziari non ce la fanno: non sono pronti, non ci sono abbastanza pc, non ci sono risorse umane e informatiche. E il software è pessimo, spiega una fonte del Fatto: “Gli ingegneri lo hanno scritto senza sapere come funzionano i codici e le procedure del processo”.
E così il presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia ha disposto la sospensione dell’utilizzo di App, vista la “situazione pessima” riscontrata già ieri in aula. Il tutto “fino alla data del 31 marzo 2025”.
La decisione è stata presa anche perché “il provvedimento (del governo, ndr) è destinato a incidere in maniera significativa sulle attività dell’udienza preliminare e del giudizio dibattimentale, suscettibile di generare problematiche in grado di ripercuotersi sull’attività processuale e sul lavoro di magistrati e personale con un rallentamento delle risposte giudiziarie”. Una scelta che a breve potrebbe essere seguita dalla stessa Procura milanese diretta da Marcello Viola.
A Napoli è un continuo susseguirsi di riunioni tra i capi degli uffici giudiziari per affrontare l’emergenza. Il presidente del Tribunale Elisabetta Garzo, all’esito dei gruppi di lavoro dicembrini che avevano evidenziato sin da subito “molteplici ed evidenti criticità che non consentono un agevole utilizzo del predetto applicativo (App, ndr)”, si era attrezzata per tempo, disponendo sin dal 3 gennaio un provvedimento da leggersi come una sorta di “doppio binario”: fino al 31.03.2025 “in ordine ai procedimenti per i quali è avvenuta la lettura del dispositivo prima del 31.12.2024, il provvedimento definitorio sia reso in forma analogica; negli altri casi la redazione degli atti e dei verbali avvenga in modalità analogica, limitatamente alle ipotesi in cui non sia possibile la redazione telematica tramite App”.
Così ieri le udienze si sono svolte, ma questo non significa che le cose funzionino al meglio. E anche ieri il presidente Garzo e il procuratore Nicola Gratteri si sono visti per fare il punto e studiare le migliori soluzioni possibili: il decreto del 3 gennaio potrebbe essere ‘rafforzato’.
Da Reggio Calabria la presidente del Tribunale, Maria Grazia Arena, dice: “Abbiamo avuto grosse difficoltà, non possiamo rischiare la nullità di processi”. Così ieri anche lei ha firmato il decreto che consentirà a pm e avvocati di redigere e depositare gli atti con modalità analogiche e non telematiche fino al 31 marzo.
Le aule in cui si celebrano le udienze preliminari e i dibattimenti dovrebbero essere dotate di postazioni pc “per consentire la consultazione tempestiva, nel contraddittorio dell’udienza delle produzioni telematiche reciproche delle parti”. Peccato, però, che i computer con cui accedere all’App non ci sono nelle aule, mentre in quelli negli uffici sono stati “già riscontrati numerosi bug di sistema”.
(da il Fatto Quotidiano)

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LA SALUTE RIDOTTA A PRIVILEGIO

Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile

IN RAPPORTO AL PIL I FONDI SONO DIMINUITI E CALERANNO ANCORA

ll diritto alla tutela della salute è il più importante tra i tutti i nostri diritti, ma al tempo stesso è il più fragile e il più evanescente. È il più importante non solo perché è l’unico che i Padri costituenti hanno definito «fondamentale», ma perché la nostra salute ci consente di esercitare gli altri diritti sociali e civili. Ma è anche il più fragile perché, a differenza di altri diritti come il lavoro o l’istruzione, nessuno può esercitarlo in autonomia: servono strutture, tecnologie e professionisti qualificati in grado di erogare la migliore assistenza basata sulle migliori evidenze scientifiche. Ovvero è un diritto che dipende dall’efficienza del Servizio sanitario nazionale (Ssn), la più grande “opera pubblica” mai costruita in Italia per garantire universalità, equità e uguaglianza nell’accesso alle prestazioni. Infine, è il diritto più evanescente, perché la «Repubblica» che, secondo l’articolo. 32, tutela la nostra salute si identifica oggi con la leale collaborazione tra governo e Regioni. Che si è ormai involuta in un conflitto istituzionale tra poli indeboliti, con compromessi al ribasso che si ripercuotono a cascata su tutti gli attori del Ssn e soprattutto sulle persone più vulnerabili e svantaggiate. E in questa evanescenza delle responsabilità pubbliche, quando il Ssn arranca il cittadino-elettore, non riuscendo a identificare le responsabilità, è incapace di orientare il suo voto per proteggere il suo diritto fondamentale. È il governo che ha stanziato poche risorse? Sono le Regioni icapaci di programmare l’assistenza sanitaria? Sono le Asl e gli ospedali che non riescono ad erogare adeguatamente servizi e prestazione sanitarie?
Già nel marzo 2013 la Fondazione Gimbe aveva lanciato l’allarme dando il via alla campagna “Salviamo il nostro servizio sanitario nazionale”, affermando che la perdita del Ssn non sarebbe stata annunciata dal fragore improvviso di una valanga, ma si sarebbe manifestata come il silenzioso scivolamento di un ghiacciaio, attraverso anni, lustri, decenni. Un fenomeno che, lentamente ma inesorabilmente, avrebbe eroso il diritto alla tutela della salute. E se per anni il tema della sostenibilità del Ssn è rimasto tra gli addetti ai lavori, dopo lo stress test della pandemia il ghiacciaio è talmente scivolato a valle che la crisi della sanità pubblica oggi preoccupa 60 milioni di persone. Dati, narrative e sondaggi confermano all’unisono che il fiore all’occhiello del Paese Italia si è avvizzito, compromettendo i diritti delle fasce socio-economiche più deboli, degli anziani fragili e del Mezzogiorno. Ma i problemi, di fatto, investono la quotidianità di tutte le persone: interminabili tempi di attesa, pronto soccorso affollati, impossibilità di trovare un medico di famiglia, diseguaglianze regionali e locali, migrazione sanitaria, aumento della spesa privata e impoverimento delle famiglie sino alla rinuncia alle cure. Intanto, altrettanto in sordina, si è deteriorato il valore del Ssn nella percezione pubblica: la salute non è più un bene supremo da tutelare, ma una merce da vendere e comprare. Un’involuzione che spiana la strada a una sanità regolata dal libero mercato, con prestazioni accessibili solo a chi potrà pagare di tasca propria o disporrà di costose polizze assicurative. Che, in ogni caso, non potranno mai garantire una copertura globale come quella offerta dal Ssn.
Inevitabilmente, il tema del finanziamento alla sanità è diventato terreno di scontro politico senza esclusione di colpi. Da un lato il governo celebra con proclami populisti «investimenti record». Dall’altro l’opposizione denuncia tagli e anela a un finanziamento pubblico di almeno il 7 per cento del Pil, obiettivo tanto ambizioso quanto irrealistico. Una stucchevole querelle che va ripetutamente in scena di fronte a quei 4,5 milioni di “spettatori” che nel 2023 hanno già rinunciato alle cure. Proprio quegli indigenti a cui la Repubblica dovrebbe garantire cure gratuite. Ma, considerato che «i numeri possono essere torturati sino a farli confessare», chi ha ragione? Il Fondo sanitario nazionale (Fsn) in termini assoluti negli anni è sempre cresciuto, fatta eccezione per il 2013 quando la spending review del governo Monti impose tagli drastici per risanare la finanza pubblica del Paese. Ovvero, se l’unità di misura sono i miliardi di euro, l’ultimo governo in carica potrà sempre affermare di aver aumentato il finanziamento della sanità. Viceversa, in rapporto al Pil, il Fsn si è ridotto progressivamente dal 6,6 per cento del 2012 al 6,06 per cento del 2023, fatta eccezione per gli anni della pandemia quando il crollo del Pil nel 2020 ha dato l’illusione di un’inversione di tendenza. E, secondo quanto disposto dalla manovra 2025, il Fsn dal 2027 scenderà sotto la soglia psicologica del 6 per cento, per poi precipitare al 5,7 per cento nel 2029. In altre parole: basta cambiare unità di misura per passare dalle «cifre record» al «minimo storico».
Se dunque la politica intende realmente preservare e rilanciare un Ssn basato su princìpi di universalismo, uguaglianza ed equità è indispensabile un rifinanziamento progressivo della sanità pubblica accompagnato da coraggiose riforme di sistema. Ma dove reperire le risorse in un Paese stretto tra crescita economica stagnante, interessi sul debito pubblico e vincoli europei? E con politiche sull’evasione fiscale che, parafrasando Faber, vanno «in direzione ostinata e contraria»? Serve una combinazione integrata di strategie. Introdurre tasse di scopo su prodotti che danneggiano la salute (sigarette, alcol, cibi e bevande zuccherati, gioco d’azzardo), spostando una quota delle imposte sui consumatori con nuove politiche di prevenzione e promozione della salute. Redistribuire i redditi: tassare i milionari e gli extra-profitti delle multinazionali. Potenziare le partnership pubblico-privato con una governance rigorosa e trasparente. Ridurre gli sprechi: prestazioni inutili, inefficienze amministrative e organizzative o addirittura frodi. Senza usare l’alibi degli sprechi per non aumentare il finanziamento pubblico.
Perdere il Ssn non significa solo compromettere la salute delle persone, ma soprattutto mortificarne la dignità e ridurre le loro capacità di realizzare ambizioni e obiettivi: ecco perchè la Fondazione Gimbe invoca un nuovo patto politico e sociale che vada oltre gli avvicendamenti di governo e le ideologie partitiche. Un patto che riconosca nel Ssn un pilastro della nostra democrazia, uno strumento di coesione sociale e un motore per lo sviluppo economico del Paese. Un patto che chiede ai cittadini di diventare utenti responsabili e consapevoli del valore del Ssn e a tutti gli attori della sanità di rinunciare ai privilegi acquisiti per salvaguardare il bene comune. Se non si agisce in fretta il disastro sanitario economico e sociale è dietro l’angolo. Medici e infermieri demotivati abbandoneranno sempre più il Ssn, lasciando scoperti reparti ospedalieri e persone senza medico di famiglia. L’accesso alle costose innovazioni farmacologiche sarà un privilegio per pochi. Sempre più persone saranno costrette a pagare di tasca propria, sino a rinunciare alle cure concretizzando il più crudele dei paradossi: un Paese che abbandona proprio gli indigenti. Ecco perché garantire il diritto alla tutela della salute non è solo un dovere costituzionale, ma anche un imperativo morale ed economico. Il Ssn non è un lusso, ma un investimento sulle persone e sul futuro del Paese che necessita di consistenti risorse e coraggiose riforme, ma ancor prima richiede una visione.
Ovvero, la politica deve rispondere con onestà a una domanda molto semplice: quale sanità vuole lasciare in eredità alle future generazioni? Perché senza una rapida inversione di rotta nelle politiche allocative del Paese, senza riforme in grado di ammodernare la sanità pubblica, senza restituire valore sociale al Ssn, il “ghiacciaio” continuerà inesorabilmente a scivolare.
E noi tutti assisteremo impotenti al dissolversi del Ssn. Con buona pace dell’articolo 32 che tutela il più importante, ma anche il più fragile ed evanescente dei nostri diritti.
Nino Cartabellotta
(da lespresso.it)

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IL TRUMPETTO DEL CANADÀ: VI PRESENTIAMO PIERRE POILIEVRE, IL CAPO DEL PARTITO CONSERVATORE CANADESE CHE VUOLE PRENDERE IL POSTO DI JUSTIN TRUDEAU COME PREMIER

Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile

TURBO-LIBERAL, HA PROMESSO UN GIRO DI VITA SULLA CRIMINALITÀ, DENUNCIANDO IL WOKISMO DEL PRIMO MINISTRO BELLOCCIO E PROMETTENDO UN TAGLIO CHOC DELLA BUROCRAZIA. IN PRATICA, LO STESSO PROGRAMMA DEL DUPLEX MUSK-TRUMP

Le dimissioni del Primo Ministro canadese Justin Trudeau dalla leadership del partito, avvenute lunedì, hanno riacceso i riflettori sul suo rivale conservatore, Pierre Poilievre.
Perché è importante: Le dimissioni di Trudeau hanno fatto partire la caccia al suo sostituto all’interno del Partito Liberale, che secondo i sondaggi è in forte ritardo rispetto al Partito Conservatore in vista delle elezioni generali previste per ottobre.
Cosa si dice: Poilievre è intervenuto prontamente nella polemica politica su Trudeau, scrivendo in un post su X che i liberali volevano “ingannare gli elettori sostituendo un altro volto liberale per continuare a fregare i canadesi”. “L’unico modo per rimediare a ciò che i liberali hanno rotto è… eleggere conservatori di buon senso”, ha aggiunto.
Qual è il background di Poilievre?
Poilievre, 45 anni, è alla guida del Partito conservatore canadese dal 2022 ed è attualmente candidato a primo ministro.
Nato e cresciuto a Calgary, si è laureato in relazioni internazionali all’Università di Calgary, come si legge nella biografia del suo sito web. Poilievre è stato eletto per la prima volta come membro del Parlamento per il Partito Conservatore nel 2004. In precedenza è stato ministro di gabinetto nel governo del predecessore di Trudeau, Stephen Harper. Sua moglie, Anaida Poilievre, è un’ex consulente politica. La coppia si è sposata nel 2017 e ha due figli.
Quali sono le sue idee politiche
La biografia di Poilievre lo descrive come un “conservatore da sempre, campione del libero mercato”. In un’intervista rilasciata venerdì, Poilievre ha promesso di portare avanti “il più grande giro di vite sulla criminalità nella storia del Canada”, ha definito il governo Trudeau “radicale” e ha denunciato il “wokeismo”.
“Taglieremo la burocrazia, taglieremo i consulenti, taglieremo gli aiuti esteri, ridurremo il welfare aziendale alle grandi imprese”, ha aggiunto.
In precedenza, Poilievre ha proposto di tagliare l’imposta federale sulle vendite delle nuove case con un valore inferiore a 1 milione di dollari per far fronte alla carenza di alloggi nel Paese.
Poilievre ha anche inveito contro la carbon tax del governo Trudeau, che avrebbe dovuto aiutare il Paese a ridurre le emissioni di gas serra.
L’intrigo: Sebbene le politiche di Poilievre riecheggino quelle del presidente eletto Trump, esse divergono notevolmente dagli obiettivi MAGA di Trump in materia di immigrazione
Mentre Trump ha ripetutamente attaccato gli immigrati e promesso deportazioni di massa, Poilievre ha insistito sul fatto che “il partito conservatore è a favore dell’immigrazione”.
Qual è il suo rapporto con Trump?
Sebbene Poilievre sia aperto a lavorare con Trump, il politico canadese non ha voluto sostenerlo completamente.
In risposta ai ripetuti suggerimenti di Trump secondo cui il Canada potrebbe diventare il 51° Stato americano, Poilievre ha giurato il mese scorso che una cosa del genere “non accadrà mai”.
Poilievre ha dichiarato al Jordan B. Peterson Podcast che potrebbe concludere un “grande accordo” con Trump per aumentare le esportazioni di petrolio e gas del Canada verso gli Stati Uniti e “rendere entrambi i Paesi più sicuri, più ricchi e più forti”.
(da agenzie)

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