Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile
CROSETTO APRE ALL’ACCORDO. MA TAJANI E IL SOTTOSEGRETARIO MANTOVANO FRENANO… L’OPERAZIONE PRESENTA RISCHI PER LA SICUREZZA NAZIONALE: L’ITALIA SAREBBE IL PRIMO PAESE AD AFFIDARE A MUSK LE COMUNICAZIONI PIÙ DELICATE (MILITARI, DEI SERVIZI, DELLA DIPLOMAZIA, DELLA PROTEZIONE CIVILE) – IL SERVIZIO FINIREBBE SOTTO IL CONTROLLO DI UN PRIVATO, CHE IN TEORIA POTREBBE SPEGNERLO A SUO PIACIMENTO (COME IN ALCUNI CASI HA FATTO)
In un appunto riservato di alcuni mesi fa, la Farnesina avvertiva Palazzo Chigi dei
rischi di aprire le porte ai servizi satellitari di Elon Musk: «La proposta — scriveva il ministero degli Esteri al termine di un incontro nella sede del governo sul progetto Starlink per l’Italia — dovrà essere valutata in maniera più dettagliata in relazione […] all’opportunità di inquadrare l’eventuale collaborazione con Starlink all’interno di un accordo intergovernativo con gli Usa a garanzia degli obblighi di confidenzialità, continuità del servizio e rispetto delle prerogative di sovranità nazionale».
Tradotto: possiamo dare il via libera solo dopo aver siglato un’intesa con gli Stati Uniti che eviti a Roma di finire in balia degli umori o degli interessi del multimiliardario amico di Donal Trump. Un giorno, ad esempio, il fondatore di Tesla potrebbe negare il segnale, oppure gestire in modo sconveniente i dati sensibili del Paese. Serve, insomma, un garante: il governo americano.
È un passaggio illuminante nella sua chiarezza. Sufficiente a spiegare le tensioni e l’imbarazzo di queste ore nel cuore dell’esecutivo. Le spinte sono contrapposte, la confusione alimenta sospetti. La presidenza del Consiglio, innanzitutto: chi più spinge per un accordo con Musk è il generale Franco Federici, consigliere militare di Giorgia Meloni e segretario del Comint, il comitato interministeriale per le politiche sull’aerospazio. Qualche prudenza in più è di Alfredo Mantovano, che durante l’audizione al Copasir ha molto frenato sull’opzione Starlink, spiegando che non esiste nulla di concreto. La partita, però, non è soltanto legata alla sicurezza: è soprattutto politica.
Meloni vive settimane cruciali nel rapporto con Washington. Sente Musk costantemente, dunque preferirebbe non deluderlo (anche perché l’imprenditore flirta intanto pubblicamente con Matteo Salvini). La premier è consapevole dell’azzardo di un simile progetto, ma è tornata dalla missione di Mar-a-Lago convinta di poter costruire l’accordo-quadro a cui fa cenno il documento della Farnesina. O comunque, qualcosa di simile, una sorta di patto “light”.
Salvini, si diceva. Lui è schierato a prescindere con Musk e Trump, dunque con Starlink. Meloni lo sa. È irritata dall’atteggiamento del suo vice, tanto che potrebbe superare i dubbi che le sconsigliano di partecipare all’Inauguration Day del 20 gennaio e volare a Washington anche per non lasciare quel palcoscenico al leghista (una parola definitiva arriverà domani in conferenza stampa).
Attorno a Meloni si muove un altro big favorevole all’accordo, o comunque non ostile: è Guido Crosetto.
E però, resta la scelta strategica: affidarsi a Musk, oppure soprassedere? Anche dentro Palazzo Chigi non mancano resistenze. Cauto, riferiscono diverse fonti concordanti, sarebbe il capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio Gaetano Caputi, così come il ministro Adolfo Urso. E, si è detto, pure Tajani. Il leader di Forza Italia continua a invitare alla prudenza. E a porre un quesito che suona così: in quali mani finirebbero quei dati, e quale uso potrebbero farne? È giusto valutare attentamente.
Il momento, d’altra parte, è già delicato per l’esecutivo. L’addio di Elisabetta Belloni ha scosso Meloni. E si intreccia inevitabilmente con la gestione dei rapporti con la nuova amministrazione americana. Problemi ormai alle spalle della direttrice, che si prepara a un incarico europeo al fianco di Ursula von der Leyen: gestirà per lei il dossier dei migranti.
(da agenzie)
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Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile
MENTRE ERA RICOVERATO, HA CONTRATTO UNA POLMONITE… LA RABBIA DELLA FIGLIA: “MIO PADRE STAVA BENE. MI SONO ACCORTA CHE AVEVA LA FEBBRE E GLI HANNO DATO IL PARACETAMOLO”
Un uomo di 76 anni, Giuseppe Barbaro, è morto ieri, lunedì 6 gennaio, all’ospedale Villa Sofia di Palermo dopo 17 giorni di ricovero, in attesa di essere operato per una frattura. Sulla sua morte indaga la Procura di Palermo: i parenti hanno presentato un esposto assistiti dall’avvocato Andrea Dell’Aira.
Nel corso dei giorni trascorsi in ospedale sarebbero sorti problemi non legati alla frattura ma che secondo i familiari sono addebitati ai sanitari. Secondo la figlia dell’uomo, suo padre stava bene, mentre per il primario la causa del decesso potrebbe essere stata una polmonite.
Nell’esposto si legge che «i sanitari hanno omesso di considerare le condizioni cliniche del paziente – ricoverato per una frattura scomposta alla spalla sinistra – con evidenti sintomi ipernatriemia (alti livelli di sodio nel sangue) associata a disidratazione e peso corporeo ben al di sotto della media senza curare una idonea assunzione di liquidi e cibo ed omettendo di diagnosticare tempestivamente l’insorgere – durante la permanenza in nosocomio – di una polmonite bilaterale (lo stato febbrile veniva segnalato dalla figli e solo allora somministrato paracetamolo) e mantenendo lo stesso presso il reparto di Pronto soccorso dal 21 dicembre al 24 dicembre 2024, salvo trasferirlo al reparto ortopedia il 24 dicembre dove le condizioni del paziente divenivano sempre più scadenti e defedate (e senza mai 2 programmare alcun intervento chirurgico)».
La figlia ha denunciato che il padre «era stato legato con strumenti di plastica alle caviglie ed al braccio destro e manifestava segni di dissociazione e confusione mentale». Adesso si attende il provvedimento che dovrebbe portare al sequestro della salma e il trasporto all’istituto di medicina legale dove sarà eseguita l’autopsia per stabilire le cause della morte. Nei giorni scorsi il presidente della Regione Renato Schifani aveva fatto un sopralluogo proprio nel reparto di Ortopedia dove erano state segnalati diversi disservizi e pazienti in attesa di interventi chirurgici per fratture.
«Mio padre Giuseppe Barbaro è arrivato al pronto soccorso di Villa Sofia con la frattura alla spalla che si era provocato cadendo in casa il 21 dicembre. Fino al 24 è rimasto al pronto soccorso in una lettiga, in corridoio. La frattura veniva semplicemente fasciata e immobilizzata con indicazione di necessità di riduzione chirurgica da programmare ‘appena possibile’. Godeva di buona salute e non soffriva di altre patologie», racconta la figlia.
«Ci è stato detto che non c’era posto in ortopedia e solo il 24 è stato portato in reparto. I medici ci hanno riferito che c’era un turno e che presto sarebbe stato operato. Durante i giorni antecedenti al trasferimento in reparto abbiamo più volte fatto notare che mio padre non poteva alimentarsi autonomamente per via della fasciatura alla parte superiore sinistra del corpo. Gli infermieri rispondevano che lo avevano in carico come ‘autonomo’ e quindi non potevano far nulla. Sia il 22 che il 28 già manifestava segni di dissociazione e confusione mentale. Mi ha chiamato dicendo di essere legato al letto e il giorno dopo ho visto che era bloccato con fasce di plastica alle caviglie e al braccio destro. Solo quando ho protestato veniva finalmente slegato».
«Mi sono accorta – conclude – che aveva la febbre e solo allora gli è stato somministrato del paracetamolo. Il 30 dicembre l’alimentazione attraverso la flebo. Intanto il valore di sodio saliva fino a raggiungere 178. I medici ci hanno comunicato l’esistenza di diversi focolai pneumologici, segni di polmonite bilaterale. Il 3 gennaio mi hanno detto che non si riuscivano a far rientrare i valori del sodio e che era lecito aspettarsi un esito infausto. Nonostante questo mio padre non è stato trasferito in terapia intensiva ed è morto il 6 gennaio».
Il primario: «Ha contratto una polmonite»
«Il paziente è stato ricoverato per una frattura all’omero non c’era alcun tipo di urgenza-emergenza. È successo che ha contratto una polmonite in quanto paziente anziano e defedato. È stato valutato da pneumologi, cardiologi, anestesisti e le condizioni cliniche peggiorate dalla polmonite non ci hanno permesso di eseguire l’intervento», spiega Davide Bonomo, primario del reparto di Ortopedia di Villa Sofia. «Non possiamo operare un paziente in condizioni non idonee ».
(da agenzie)
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Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile
L’AMBASCIATORE STEFANINI: “DA 125 ANNI WASHINGTON NON CONQUISTA TERRITORI, PREFERISCE IL SOFT POWER. TRUMP VUOLE RIBALTARE IL PRINCIPIO. PER IL NUOVO PRESIDENTE NON È INCONCEPIBILE INVADERE IL TERRITORIO DI UN ALLEATO NATO”
L’uomo che si vanta di aver guidato l’America per quattro anni senza coinvolgimenti in
guerre, minaccia di ricorrere alla forza, militare ed economica, per convincere Panama a dare agli Usa il controllo del Canale e la Danimarca a cedere la Groenlandia a Washington mandando in soffitta decenni di dottrina politica Usa che predilige l’autodeterminazione all’espansione territoriale.
A tredici giorni dall’insediamento alla Casa Bianca e all’indomani della certificazione del Congresso della vittoria elettorale, Donald Trump convoca i reporter a Mar-a-Lago.
Il presidente-eletto è un fiume in piena e fra citazioni errate, imprecisioni e annunci, sembra delineare quella che sarà la sua politica – estera e interna – quando tornerà allo Studio Ovale in un mondo che dice «è già cambiato», e tutti i leader lo hanno riconosciuto. Cita, ad esempio, il recente blitz di Giorgia Meloni a Mar-a-Lago: «È venuta perché voleva vedermi».
Quella che dipinge Trump è un’America muscolare, minacciosa, e pronta a mettere a soqquadro il mondo per garantire quella che il tycoon chiama la “Golden Age del business e del buon senso”, l’era che nelle sue aspettative si aprirà dal 20 gennaio.
Tremano i vicini, osservano gli europei, sobbalzano i danesi che non solo vedono atterrare a Nuuk Donald jr a bordo dell’Air Trump One («sono qui da turista» dice nel suo podcast Triggered), ma sentono dalla viva voce del padre che la Groenlandia è questione di sicurezza nazionale e quindi in un modo o nell’altro deve finire sotto guida Usa. Se Copenaghen si oppone, avverte Trump, ci sono sempre le tariffe da imporre. La premier Mette Frederiksen replica: «Non riesco a immaginare che si arrivi a questo» dice riferendosi alle minacce economiche e militari. Il futuro della Groenlandia deve essere deciso dai 57 mila abitanti dell’isola, la linea danese.
Il destino di Nuuk è accomunato da quello di Panama. Trump affonda il coltello, dice cose che aveva già pronunciato, ma annuncia che le «discussioni sul Canale sono già in corso». Trump lo rivuole sotto bandiera americana, gli Usa lo lasciarono a Panama per 1 dollaro, è il riferimento all’accordo che fu stipulato da Jimmy Carter (ieri il suo feretro è arrivato ai Navy Archives di Washington). Ma ora, dice il presidente-eletto, ci «sono le mani della Cina, la sua Marina paga meno di noi».
Ai vicini di casa – Messico e Canada – Donald Trump consegna parole al vetriolo, sprezzanti. Trudeau, dimissionario premier canadese, resta il «governatore» di uno Stato «da cui non prendiamo nulla, ma che ci costa miliardi di dollari in protezione». Ora Ottawa, «deve pagarci per la sicurezza».
Il Messico è «veramente in crisi». E qui Trump annuncia che cambierà il nome del Golfo del Messico in Golfo dell’America. Sulla sicurezza e le spese arriva anche l’affondo contro gli alleati della Nato, struttura che lui ha salvato – parole sue – perché, dopo le sue minacce di non difendere gli alleati morosi, «tutti hanno cominciato a versare più contributi».
Il 2% però – la quota di spese militari in relazione al Pil negoziata nel 2014 – è ora insufficiente e Trump ripete che «dovrebbe essere al 5%». «Tutti possono permettersi questa spesa» e quindi «se non paghi noi non ti proteggiamo».
Quello che entro il 20 gennaio Trump vuole è la liberazione degli ostaggi. Il suo inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, ha preso brevemente la parola nella conferenza stampa.
Ha annunciato la missione a Doha per oggi e detto che «speriamo di avere qualcosa di annunciare». Non è sceso in dettagli ma ha detto che «siamo vicini a qualcosa che può realizzarsi prima dell’inaugurazione».
E qui Trump è nuovamente intervenuto traducendo nel suo linguaggio quanto detto da Witkoff. «Se gli ostaggi non saranno liberi prima della inaugurazione, si scatenerà l’inferno in Medio Oriente». Quindi ha puntato il dito contro Hamas, avvertendo che l’inferno in pratica si rovescerà sui loro miliziani.
(da agenzie)
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Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile
L’EX CAPA DEI SERVIZI, ELISABETTA BELLONI, APRE LE VALVOLE SU GIORGIA MELONI E L’ADDIO AL DIS: “A MAGGIO SCADEVA IL MIO MANDATO, QUANDO HO AVVERTITO CHE GIÀ COMINCIAVANO A CIRCOLARE VOCI SUL MIO FUTURO E SUL MIO SUCCESSORE HO RITENUTO FOSSE ARRIVATO IL MOMENTO DI LASCIARE. GLI ULTIMI MESI POTEVANO DIVENTARE UNO STILLICIDIO”
«Una cosa ci tengo a dirla ed è l’unico motivo che mi fa rompere il riserbo che mi sono imposta in tutti questi mesi: non vado via sbattendo la porta». Il piglio e la determinazione di Elisabetta Belloni non sembrano scalfiti. «Il tritacarne in cui sono finita in questi giorni mi impone di chiarire quanto è successo e soprattutto di sgomberare il campo da illazioni che fanno male non tanto a me quanto al Paese, soprattutto in un momento così delicato».
La direttrice del Dis ha presentato le dimissioni e il 15 gennaio andrà via.
Per questo il primo chiarimento lo ha avuto con la premier Giorgia Meloni. Un rapporto, il loro, che è sempre stato segnato dalla stima e dalla franchezza, tanto che fu proprio la premier a volerla sherpa del G7 nonostante fosse anche il direttore della struttura che coordina i servizi segreti. E con la quale, sottolinea adesso, ha condiviso ogni passaggio del proprio percorso, fino all’uscita.
Le date sono importanti e allora vale la pena tornare all’11 dicembre quando l’Italia passa il testimone della presidenza del G7 e dunque termina anche l’incarico di Belloni. Lei, che in ogni momento cruciale nella storia del Paese è sempre stata indicata come la possibile candidata, spiega di aver capito che anche con il nuovo anno «sarei tornata sulla graticola».
Prima dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale fu proprio quello di Belloni il nome accreditato dal centrodestra come presidente della Repubblica. E anche dopo la caduta del governo Draghi ci fu chi la inserì nella rosa dei possibili capi del nuovo esecutivo.
È accaduto di nuovo a dicembre, quando il ministro al Pnrr Raffaele Fitto è stato nominato vicepresidente della Commissione europea e le indiscrezioni davano come ormai imminente la designazione di Belloni al suo posto.
Prima di una girandola di altre voci che accreditavano però la contrarietà del ministro degli Esteri Antonio Tajani e il suo cattivo rapporto con il sottosegretario Alfredo Mantovano, titolare della delega ai servizi segreti. Prese di posizione che avrebbero alla fine convinto tutti sulla necessità di fare una marcia indietro suonata come una vera e propria bocciatura. È stato soprattutto questo a disturbarla e convincerla che per lei «gli ultimi mesi di mandato sarebbero stati un vero e proprio stillicidio».
Le tensioni dell’ultimo anno non può smentirle, sa bene di aver scatenato nel corso della carriera invidie e avversioni. «Ma io sono un funzionario dello Stato, faccio il mio lavoro e non è obbligatorio piacere a tutti o andare d’accordo con tutti. Purché questo non metta in discussione i risultati, come infatti non è avvenuto. Però a maggio scade il mio mandato, quando ho avvertito che già cominciavano a circolare voci sul mio futuro e soprattutto sul mio successore ho ritenuto fosse arrivato il momento di lasciare. E ne ho parlato con i miei interlocutori istituzionali, prima fra tutti la premier Giorgia Meloni e il sottosegretario Mantovano. È con loro che, sin dagli inizi di dicembre, abbiamo tracciato la strada per una transizione tranquilla e senza scossoni».
La scelta è fatta, le ultime voci accreditano per lei un futuro nello staff della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: «Sarebbe un onore ma anche su questo voglio essere chiara nel dire che non c’è nulla di deciso. Al mio futuro comincerò a pensare il 16 gennaio”
(da corriere.it )
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Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile
LA LEGA NON SI OPPORRA’, MA RESTA IL NODO ZAIA, PRONTO A CORRERE DA SOLO
Il governo domani impugnerà la legge della Regione Campania che consente il terzo
mandato al governatore Vincenzo De Luca. La decisione, a meno di sorprese dell’ultima ora, è presa al più alto livello politico, quello della premier Giorgia Meloni. Irritata per il tergiversare del ministro degli Affari regionali, il leghista Roberto Calderoli, ieri la presidente del Consiglio ha rassicurato i suoi, tanto che è già pronto il comunicato per impugnare alcune leggi regionali, compresa quella campana sul terzo mandato.
Il ministro Calderoli nell’appunto preparato per il Consiglio dei ministri convocato per domani alle 18, (appunto che raccoglie i pareri sulla legge De Luca anche dei ministeri Interno e Riforme) lascia la porta aperta alla possibilità di non impugnare.
Forse anche per evitare polemiche interne al suo partito: la Lega non è contraria al terzo mandato perché il governatore Luca Zaia preme per ricandidarsi ancora in Veneto. Ma sono soprattutto i dirigenti locali del Carroccio a chiedere il via libera alla norma De Luca, che costituirebbe un precedente per aprire a ipotesi di nuova mandato di Zaia. In realtà la Lega nazionale è molto più cauta e in queste ore silente sull’argomento.
Fratelli d’Italia e Forza Italia, invece, sono per impugnare la norma e questo dovrebbe essere l’approdo finale: non a caso a Palazzo Chigi il comunicato per il Consiglio dei ministri del 9 gennaio è già pronto con la previsione di impugnativa della norma della Campania e la nomina a commissario per il dopo alluvione in Emilia Romagna di Fabrizio Curcio, ex capo della Protezione civile.
«Ma attenzione, la scelta non è dovuta al momento contingente e in vista delle prossime regionali — dicono da via della Scrofa — semplicemente la legge sul tetto dei due mandati nasce contestualmente all’avvio dell’elezione diretta dei governatori e dei sindaci. E va rispettata a meno che non si voglia cambiare anche la norma elettorale». Il capogruppo dei meloniani alla Camera Galeazzo Bignami ne fa anche una questione di «ricambio generazionale»: «È necessario favorire un ricambio — dice — credo che su questo tema possa esserci un percorso comune con il centrosinistra». Anche la segretaria dei dem Elly Schlein ha sconfessato il “suo” governatore De Luca dicendosi contraria a una sua ennesima ricandidatura a presidente della Campania.
Restano le tensioni, comunque, soprattutto nel campo del centrodestra. Il governatore Zaia minaccia anche una corsa solitaria della Lega in Veneto «se ci saranno imposizioni dall’alto sul successore»: non è un mistero che FdI, che nella Regione veleggia a cifre intorno al 30%, chieda al tavolo del centrodestra di indicare il prossimo governatore. In pole per questo ruolo il senatore e sottosegretario all’Agricoltura Luca De Carlo.
Forza Italia invece spinge per lo stop al terzo mandato perché convinta di poter chiedere al centrodestra di esprimere il candidato governatore in Campania. Ieri il segretario Antonio Tajani ha ribadito la linea del no all’eliminazione del tetto dei due mandati al vertice dei forzisti convocato per fare il punto sulla linea politica del partito nei prossimi mesi.
(da agenzie)
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Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile
UN ALTRO ESPONENTE DELLA FOGNA RAZZISTA, FILO PUTINIANO, ANTI-UE E NO VAX… COSI’ FINISCONO LE DEMOCRAZIE, INCAPACI DI ELIMINARE I PARTITI CHE NON RISPETTANO LA COSTITUZIONE
Nessuno si illuda che Herbert Kickl possa essere facilmente addomesticato. Ha vinto le elezioni di settembre promettendo di diventare il “Volkskanzler”, come a suo tempo Adolf Hitler, e di “orbanizzare” l’Austria, picconando l’Unione europea, delirando contro i vaccini anti-Covid, difendendo la Russia, diffamando i profughi.
E a novantun anni esatti dalla nomina di Hitler a cancelliere della Germania, l’ex ghost writer di Jörg Haider e leader di un partito nato dalle ceneri di quello nazista, ha ricevuto ieri a l’incarico per formare un governo in Austria.
Il presidente della Repubblica, Alexander Van der Bellen, visibilmente scuro in volto, ha affidato ieri mattina la responsabilità di mettere insieme un nuovo esecutivo al leader della Fpö.
Per tre mesi il capo dello Stato, che si è sempre comportato da ineccepibile custode dei valori costituzionali e democratici, aveva tentato di scongiurare questo momento. Ma il fallimento dei negoziati per una coalizione delle forze moderate, da parte del cancelliere uscente Karl Nehammer, ha reso quest’epilogo inevitabile.
«Non è stata una decisione facile», ha ammesso il capo dello Stato. Van der Bellen, a lungo membro dei Verdi, poi eletto come indipendente alla presidenza della Repubblica, ha tracciato alcune linee rosse, nel tête-à-tête con Kickl,
Il risanamento delle finanze pubbliche, il rilancio dell’esangue economia austriaca, ma anche, «nel contesto geopolitico », le «conseguenze della guerra d’aggressione russa all’Ucraina».
Van der Bellen ha rivelato di aver parlato con Kickl anche della «libertà di stampa», picconata regolarmente dalla Fpö, in linea con i “camerati” dell’internazionale sovranista.
Nelle stesse ore in cui Van der Bellen incontrava il leader dell’ultradestra, centinaia di manifestanti hanno protestato davanti alla Hofburg scandendo «tutti insieme contro il fascismo». Una protesta indetta dall’organizzazione degli studenti ebrei “Jöh”. Altri cortei per scongiurare un esecutivo guidato da Kickl sono previsti nei prossimi giorni.
Non è la prima volta che il partito austriaco di ultradestra fondato nell’immediato dopoguerra da ex SS riesce ad andare al governo.
Ma è la prima volta che esprime un cancelliere, e con un leader molto più estremista dei suoi immediati predecessori come Heinz-Christian Strache o persino di una delle figure più carismatiche della sua storia, Jörg Haider. Ma alle elezioni del 29 settembre, con Kickl candidato cancelliere, la Fpö aveva incassato il miglior risultato della storia, sfiorando il 29% dei voti, ed era arrivata prima.
Secondo indiscrezioni raccolte da Repubblica , nei mesi successivi di negoziati complicati con i socialdemocratici e liberali sarebbe stata la potente fazione dei popolari della Övp in Bassa Austria, e soprattutto la leader regionale Johanna Mikl- Leitner, a spingere per un accordo con l’estrema destra e a sabotare i tentativi del cancelliere uscente e suo compagno di partito Karl Nehammer di assemblare un’alleanza delle forze democratiche. In Bassa Austria, roccaforte storica dei popolari, i due partiti già governano insieme.
(da La Repubblica)
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Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile
DAL SOCIALISTA MATTEOTTI AL LIBERALE EINAUDI: SENZA RISORSE NON PUO’ ESSERCI NESSUN PROGRAMMA DI GOVERNO
Il socialista Matteotti e il liberale Einaudi condividevano l’idea che le tasse non solo
fossero necessarie perché senza risorse non può esserci nessun programma di governo e non può essere raggiunto nessun obiettivo, ma fossero lo strumento per ridurre le diseguaglianze: non tanto tramite forme di redistribuzione diretta, che pure possono essere necessarie, quanto tramite un’offerta robusta di beni pubblici, di infrastrutture materiali e sociali, che consentano anche a chi ha meno risorse individuali non solo di farcela, ma di migliorare le proprie condizioni e di partecipare pienamente alla società.
Per questo erano a favore della progressività nella tassazione basata su regole e meccanismi trasparenti e fortemente avversi ad ogni forma di elusione, trattamento di favore, contrattazione, secondo il principio da ciascuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo i suoi bisogni. Compito dello Stato, tramite le sue norme ed una amministrazione efficiente, è garantire non solo la prima parte di questo principio, ma anche il passaggio alla seconda: trasformando, appunto, le tasse in beni pubblici, in risorse accessibili secondo il bisogno.
Un’idea di Stato, quindi anche di tassazione, cui l’Italia è arrivata solo con la Costituzione repubblicana, come ha ricordato Ruffini ieri su questo giornale parlando della attualità del pensiero di Matteotti sul fisco e anche delle sue critiche al sistema fiscale italiano del tempo, frammentato e diseguale. Critiche che valgono, con qualche aggiornamento, anche oggi, nonostante la grande innovazione introdotta con l’imposta personale progressiva (Irpef) nel 1973, che avrebbe dovuto ricomprendere, appunto in un’ottica di progressività, tutti i redditi. Sappiamo, infatti, che non è così. Alcuni redditi – di capitale, ma anche la casa – sono tassati a parte e diversamente, oltre a poter essere oggetto di piccole o grandi elusioni (la riforma del catasto auspicata da Matteotti, ad esempio, ancora latita). Ultimamente anche il reddito da lavoro autonomo gode di un trattamento diverso, e di maggior favore, da quello dipendente che, come ai tempi di Matteotti e Einaudi, continua ad essere quello su cui grava maggiormente il prelievo fiscale. Purtroppo nella situazione odierna il principio «da ciascuno secondo le sue possibilità a ciascuno secondo i suoi bisogni» appare solo parzialmente realizzato e anzi indebolito sia nella prima che nella seconda parte.
Anche i beni comuni, le infrastrutture materiali e sociali, infatti, sono disponibili tra i gruppi sociali e i contesti territoriali in modo non solo disomogeneo, ma che spesso si sovrappone alle disuguaglianze, aggravandole anziché compensarle. Ciò rende sensibili alla parola d’ordine dell’abbassamento delle tasse, non della loro distribuzione più equa ed uso più efficiente ed efficace. Una riduzione peraltro non facilmente praticabile neppure da chi se ne fa campione, come ha certificato proprio pochi giorni fa l’Istat, segnalando come la pressione fiscale nell’ultimo anno sia aumentata, anche se non per tutti nello stesso modo, nonostante tutti i proclami al contrario e nonostante il grave peggioramento di servizi pubblici essenziali come la sanità. La conseguenza è che, mentre le diseguaglianze rischiano di aumentare, i ceti su cui più gravano le tasse hanno un accesso sempre più ridotto e/o di peggiore qualità ai beni che queste dovrebbero finanziare.
(da La Stampa)
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Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile
SI CONCLUDE LO “SCAMBIO DI PRIGIONIERI”
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è arrivato a Palazzo Chigi per discutere di come gestire il caso di Mohammad Abedini, l’iraniano arrestato a Milano due giorni prima dell’arresto della reporter Cecilia Sala, su richiesta degli Stati uniti, e che sarebbe accreditato come l’oggetto dello scambio per ottenere la liberazione della giornalista, avvenuta questa mattina.
Il vertice a Chigi, riferisce l’Ansa, sarebbe stato convocato per accelerare i tempi della liberazione dell’ingegnere.
La corte d’appello di Milano deve decidere sulla sua estradizione il prossimo 15 gennaio, ma il ministro Nordio può decidere di respingere la richiesta e liberare l’ingegnere in qualsiasi momento. E a quanto si apprende l’intenzione del governo sarebbe di chiudere tutta la vicenda nelle prossime ore, forse entro la giornata di oggi.
(da Open)
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Gennaio 8th, 2025 Riccardo Fucile
IRAN: “SPERIAMO ORA VENGA LIBERATO ABEDIMI”… FONTI USA CONFERMANO: “SARA’ LIBERATO”
Il finale era già scritto e l’accelerazione non deve sorprendere: al presunto “sgarbo” nei
confronti degli Stati Uniti ha posto rimedio il viaggio di Meloni a lustrare le pantofole a Trump che a sua volta ha interesse ad avere una “sovranista devota” in Europa. Meloni doveva rimediare alla figuraccia di non aver fatto rientrare in tempo in Italia la giornalista e a Trump dell’estradizione dell’ingegnere iraniano non fregava nulla, purchè lo scambio di prigionieri avvenisse prima del suo insediamento (se qualcuno doveva fare una brutta figura era Biden).
Quindi di fatto l’Italia ha ceduto al ricatto dell’Iran scambiando una giornalista con un presunto criminale e tutti sono felici e contenti e possono rivendicare meriti. Non a caso il governo iraniano auspica “il pronto rientro in patria” di Abedimi e fonti Usa confermano che l’ingegnere “sarà liberato”.
Ufficialmente sarà la magistratura a farlo, così la faccia è salva. A differenza di casi passati, per i sovranisti cedere ai ricatti “è stato un grande successo”.
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