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LA FALSA PARTENZA DEL CANCELLIERE TEDESCO MERZ CHE INCASSA LA FIDUCIA SOLO AL SECONDO VOTO: CHI HA TRADITO?

Maggio 7th, 2025 Riccardo Fucile

SOSPETTI CHE SI CONCENTRANO VERSO L’ALA DESTRA DELLA CDU, QUELLA DI SPAHN, CHE VOLEVA FINO A POCHI GIORNI FA TRATTARE CON L’AFD COME CON UN “PARTITO NORMALE”… LA SOLUZIONE CON L’AIUTO DELLA LINKE

Chi ha tradito? Chi ha fatto mancare il sì alle dieci, quando sono spariti ben 18 voti, e Merz è finito «sotto» di sei? I soliti sospetti portano subito alla Spd, alla vecchia guardia, quella tagliata fuori da tutti i posti di governo da Lars Klingbeil e ai giovani dell’ala sinistra. È questa la voce più accreditata al primo piano del Bundestag, dove si mischiano giornalisti e deputat
Ma la Spd non ci sta a prendersi le colpe. Ralph Stegner, mandato a
rappresentarla, alla domanda se non è chiaro, o almeno probabile che mancassero proprio i voti dalle sue file, risponde quasi rabbioso: «No, non vengono dalla Spd, chiaramente non siamo stati noi». Racconta, e sembra sincero, la riunione prima del voto, «non era assolutamente questo il clima da noi». Quando ti guardi in faccia, dice Stegner, si capisce cosa pensano i compagni. «Chi sta da tanto in politica, questi sentimenti li coglie».
Si sentiva la responsabilità a casa Spd, l’impegno per la democrazia: «È un partito che ragiona così».
E allora, se non è la Spd ad aver sabotato, di ora in ora crescono le accuse verso la compagine di Merz, la Cdu. Verso l’ala destra, quella di Spahn, che voleva fino a pochi giorni fa trattare con l’AfD come con un «partito normale».
Sanno bene che un ribaltone, qualsiasi patto con l’estrema destra è impossibile, guardano però male alle concessioni fatte da Merz alla Spd, al piano da mille miliardi, al rilancio dell’industria a debito, al cosiddetto «militarismo keynesiano».
E c’è forse un secondo gruppo di scontenti: deputati che hanno agognato così tanto di tornare al governo, e si sono visti la «quota Cdu» riempita da tecnici, da cloni o fiduciari di Merz. È da lì che è arrivato il «pizzino» — senza di noi non vai avanti — in un partito così disunito da voler rovinare la festa d’insediamento al proprio cancelliere, da voler lanciare un segnale che nel mondo esterno viene già letto come un allarme sul sistema-Germania?
Non lo sapremo mai probabilmente, chi ha tirato fuori i coltelli. Chi tra la Spd e la Cdu controlla peggio le proprie truppe. A mezzogiorno, Merz si è chiuso in ufficio, con la famiglia e i fedelissimi. Ha deciso di andare avanti, che bisognava votare lo stesso giorno: una battuta d’arresto era tollerabile ma lasciare la festa all’AfD, incassare una sconfitta che resta sulle prime pagine dei giornali no.
Bisognava cercare la Linke: il partito con cui la Cdu non parla. Serviva la maggioranza dei due terzi per chiedere un nuovo scrutinio subito, serviva un «largo fronte democratico». A sorpresa, il più duro della compagnia, il bavarese Alexander Dobrindt aveva il cellulare del capogruppo della Linke e l’ha convinta.
Si è tornati in aula il pomeriggio. Quando la presidente del Bundestag Julia Klöckner ha letto i risultati, Friedrich Merz ha annuito tre volte, sorridendo. È un uomo abituato alle sconfitte, e forse anche temprato per tornare a galla.
(da La Stampa)

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L’IMBOSCATA A MERZ SPIAZZA GIORGIA MELONI: LA SPONDA CON BERLINO DIVENTA PIÙ FRAGILE SU AUTO E MIGRANTI (IL CANCELLIERE TEDESCO È OSTILE AL LIMITE DEL 2035 PER IL PASSAGGIO ALL’ELETTRICO E FAUTORE DELLA LINEA DURA SULL’IMMIGRAZIONE)

Maggio 7th, 2025 Riccardo Fucile

LA BATTUTA D’ARRESTO DI MERZ NON HA FATTO PIACERE ALLA DUCETTA PERCHÉ L’INCIDENTE DI BERLINO, SUBITO RIMARCATO DALLA LEGA CHE HA PARLATO DI “FIGURACCIA”, HA DEPOTENZIATO IL LEADER TEDESCO

Stupita dall’imboscata. Come molti, Giorgia Meloni non immaginava un primo voto ostile a Friedrich Merz. Sa già che tutto si risolverà, ma resta la sorpresa. Nel pomeriggio, poi, il popolare tedesco diventa cancelliere. E la premier mette nero su bianco un comunicato che condensa opportunità e difficoltà del momento. Con due messaggi, uno politico e l’altro diplomatico.
Il primo: cooperiamo su automotive e immigrazione. Il secondo: rinsaldiamo la collaborazione tra Roma e Berlino. Un auspicio che a Palazzo Chigi coltivano soprattutto per provare a bilanciare l’attivismo di Emmanuel Macron.
Il comunicato precede la telefonata di queste ore, in cui Meloni consegna le proprie «congratulazioni» al nuovo capo dell’esecutivo tedesco e lo invita nella capitale per un bilaterale nei prossimi giorni (la prima tappa sarà come sempre a Parigi). Per il resto, l’intervento della premier indica le priorità strategiche: «Germania e Italia — sostiene — possono fare la differenza per il rilancio della competitività, in particolare del settore automobilistico, così come per la
costruzione di partenariati paritari con l’Africa e per il contrasto all’immigrazione irregolare»
Accanto a questo approccio, Meloni mette nero su bianco la convinzione che la collaborazione tra i due Paesi sarà «fondamentale» per raggiungere «insieme risultati importanti a Bruxelles, al tavolo del G7 e della Nato, sui principali dossier».
Quello che Meloni non dice è che la battuta d’arresto di Merz non ha comunque fatto piacere. Perché l’incidente di Berlino, subito rimarcato dalla Lega che ha parlato di «figuraccia », ha depotenziato il nuovo cancelliere. Costretto a trattare per ore con i Verdi, sottoposto alla pressione dell’ala merkeliana, colpito insomma proprio su due dossier cruciali: il green e l’immigrazione.
Meloni, che continua molto a puntare sulla sponda di Merz su questi argomenti — il tedesco è ostile al limite del 2035 per il passaggio all’elettrico e fautore della linea dura sui migranti — sa che la battuta d’arresto rappresenta un segnale di cui il nuovo cancelliere dovrà tenere conto
(da La Repubblica)

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STOP AL GAS RUSSO, L’UE ORA FA SUL SERIO: ECCO IL PIANO PER AZZERARE LE IMPORTAZIONI ENTRO IL 2027

Maggio 7th, 2025 Riccardo Fucile

I GOVERNI DOVRANNO PRESENTARE PIANI NAZIONALI ENTRO FINE ANNO…PER UNGHERIA E SLOVACCHIA SCATTA LO STOP ANCHE AL PETROLIO RUSSO

A prescindere da come finirà la guerra in Ucraina, l’Unione europea ha tutta l’intenzione di tagliare gli ultimi legami energetici che ancora la legano alla Russia. La Commissione europea ha svelato la propria strategia per affrancarsi una volta per tutte dai combustibili fossili di Mosca e che dovrebbe portare entro il 2027 a un divieto di tutte le importazioni di gas – sia via tubo che liquido – entro il 2027. In realtà, la roadmap presentata oggi a Bruxelles è una comunicazione non vincolante, che apre dunque alla possibilità che alcuni Stati membri – per esempio la Slovacchia di Robert Fico, tra i leader europei ideologicamente più vicini a Vladimir Putin – non cambino di una virgola le proprie forniture energetiche.
Piani nazionali entro fine anno
Per ovviare a questo problema, il commissario europeo all’Energia, il danese Dan Jorgensen, ha annunciato che a giugno arriverà una proposta legislativa vera e propria per vincolare gli Stati membri a presentare «entro fine anno» piani nazionali per «pianificare e monitorare l’eliminazione» delle importazioni da Mosca. Questi documenti dovranno contenere il volume delle importazioni di gas russo nell’ambito dei contratti esistenti, un calendario con le tappe per arrivare al 2027 e le opzioni di diversificazione per sostituire il gas russo. Sempre per il prossimo mese è attesa un’altra proposta legislativa della Commissione Ue per rafforzare trasparenza, monitoraggio e tracciabilità del gas russo da parte delle aziende nelle importazioni dei Ventisette. «La guerra in Ucraina ha brutalmente messo in luce i rischi del ricatto, della coercizione economica e degli shock dei prezzi. È ora che l’Europa tagli completamente i legami energetici con un fornitore inaffidabile», ha scandito la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.
Per Ungheria e Slovacchia stop anche al petrolio
A Ungheria e Slovacchia, i due Paesi Ue più dipendenti da Mosca, Bruxelles chiederà di mettere a punto un piano per azzerare non solo le importazioni di gas, ma anche quelle di petrolio. Budapest e Bratislava godono infatti, insieme alla Repubblica Ceca, di alcune deroghe dal sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia, che ha vietato le importazioni via mare di greggio russo da dicembre 2022 e di prodotti petroliferi raffinati da febbraio 2023. Nella roadmap pubblicata oggi dalla Commissione Ue si ricorda che nel 2022 il petrolio russo rappresentava il 27% delle importazioni Ue, mentre oggi è crollato al 3%.
Le opzioni per rescindere i contratti con Mosca
Nel documento pubblicato oggi, la Commissione europea indica anche una serie di opzioni legali pensate per aiutare le aziende europee a rescindere i contratti in essere con la Russia e il suo colosso energetico Gazprom. Tra gli escamotage suggeriti da Bruxelles ci sono la possibilità di invocare la «forza maggiore» per giustificare la rottura dei termini contrattuali senza incorrere in penali oppure l’introduzione di misure volte a impedire la firma di nuovi contratti. Si tratta di soluzioni pensate per superare i vincoli presenti negli attuali contratti con Gazprom, che spesso includono clausole vincolanti ribattezzate «take or pay», che obbligano le aziende a pagare fino al 95% dei volumi concordati anche in caso di rifiuto delle forniture energetiche.
Com’è andata finora con il piano RePowerEu
A maggio del 2022, pochi mesi dopo l’invasione russa in Ucraina, la Commissione europea ha lanciato il piano REPowerEU con l’obiettivo di tagliare drasticamente la dipendenza energetica da Mosca. Prima della guerra, la Russia forniva circa il 45% del gas importato dai Paesi Ue. Una quota che, secondo i dati forniti da Bruxelles, scenderà sotto il 13% nel 2025, rimpiazzata grazie alla transizione verso le rinnovabili, al risparmio energetico e all’aumento di importazione di Gnl da fornitori alternativi, primi su tutti Stati Uniti, Norvegia e Qatar. Pur facendo crollare le importazioni da Mosca, il piano
della Commissione europea non è stato esente da effetti collaterali (per esempio l’impennata dei prezzi del metano in tutta Europa) e contraddizioni (come l’aumento delle importazioni di Gnl da Mosca). Nel 2024, la quota di Gnl russo è aumentata del 5,5% rispetto all’anno precedente e Mosca è stato il secondo fornitore di gas liquefatto dell’Ue ((17,5%, dopo il 45,3% degli Stati Uniti). In seguito all’avvio dei negoziati di pace tra Mosca e Kiev, alcuni governi europei – tra cui quello italiano – hanno provato a suggerire un ritorno al gas a basso costo da Mosca. Una soluzione che la Commissione europea, almeno a giudicare dalla roadmap svelata oggi, non sembra avere alcuna intenzione di adottare.
(da agenzie)

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COSA SUCCEDE TRA INDIA E PAKISTAN: “IL MONDO NON PUO’ PERMETTERSI UN’ALTRA GUERRA”

Maggio 7th, 2025 Riccardo Fucile

IL RISCHIO DI UN CONFLITTO NUCLEARE… I BOMBARDAMENTI E LE MORTI DEI CIVILI

L’attacco dell’India al Pakistan e al Kashmir pakistano di martedì 6 maggio rischia di portare a una nuova guerra. Il Pakistan ha dichiarato di aver abbattuto cinque caccia di New Delhi in quello che è stato il peggiore scontro negli ultimi vent’anni tra i due nemici dotati di armi nucleari. L’India aveva annunciato di aver colpito nove siti «terroristici» pakistani. Alcuni erano collegati all’attacco da parte di militanti islamici nei confronti di turisti indù che ha ucciso 26 persone nel Kashmir ad aprile. Ilsamabad ha dichiarato che l’attacco ha fatto otto vittime.
L’ostilità regionale
Secondo Reuters l’esercito indiano ha attaccato il quartier generale dei gruppi di militanti islamici Jaish-e-Mohammed e Lashkar-e-Taiba. Il ministero della Difesa ha sostenuto di aver usato «una notevole moderazione nella selezione degli obiettivi e nei metodi di esecuzione». I missili indiani, secondo Islamabad, hanno colpito tre postazioni. Cinque aerei sono stati abbattuti, anche se l’India non conferma. «Tutti questi scontri sono stati condotti come misura difensiva»,
ha dichiarato il portavoce militare di New Delhi Ahmed Sharif Chaudhry. Il Pakistan si riserva il diritto di rispondere in modo appropriato all’aggressione indiana. Nei giorni scorsi si sono verificati bombardamenti lungo la linea di confine del Kashmir. Secondo l’India tre civili sono morti nei raid del Pakistan.
Lo scontro militare
«Il mondo non può permettersi uno scontro militare» tra India e Pakistan, ha affermato il portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite. Antonio Guterres «invita entrambi i Paesi a dare prova di moderazione militare», ha aggiunto Stéphane Dujarric in una nota. Il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif ha affermato che l’India ha condotto attacchi «vigliacchi» e su X ha avvertito che il suo Paese «ha tutto il diritto di rispondere con la forza a questo atto di guerra imposto dall’India». E che «l’intera nazione» è al fianco delle forze armate pakistane su «come affrontare il nemico». India e Pakistan hanno combattuto due guerre dal 1947 per il controllo del Kashmir, territorio a maggioranza musulmana che entrambe le parti rivendicano integralmente. L’ultimo cessate il fuoco risale al 2003 ed è stato rinnovato nel 2021.
Il rischio di un’escalation
Alcuni analisti consultati da Reuters hanno affermato però che il rischio di un’escalation è maggiore rispetto al recente passato a causa della gravità dell’attacco indiano, che Nuova Delhi ha definito «Operazione Sindoor». Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha definito la situazione «vergognosa» e ha aggiunto: «Spero che finisca presto». I canali televisivi indiani hanno mostrato video di esplosioni, incendi, grandi colonne di fumo nel cielo notturno e persone in fuga in diverse località del Pakistan e del Kashmir pakistano. La provincia pakistana del Punjab ha dichiarato lo stato di emergenza. Ospedali e servizi di emergenza sono in stato di massima allerta. Un portavoce militare pakistano ha dichiarato all’emittente Geo che due
moschee erano tra i siti colpiti dall’India. Il ministro della Difesa pakistano ha dichiarato a Geo che tutti i siti erano civili e non campi di miliziani.
Operazione Sindoor
Un portavoce dell’Ambasciata indiana a Washington ha detto a Reuters che le prove indicavano «un chiaro coinvolgimento di terroristi pakistani in questo attacco terroristico», riferendosi alle uccisioni di turisti di aprile. Due dei tre sospettati di quell’attacco erano cittadini pakistani. Il Pakistan ha negato di avere alcun coinvolgimento nelle uccisioni di aprile. Diverse compagnie aeree, tra cui la più grande compagnia aerea indiana, IndiGo, Air India e Qatar Airways, hanno cancellato i voli in India e Pakistan. In precedenza nel 2019 l’India aveva effettuato un attacco aereo in Pakistan dopo la morte di 40 paramilitari indiani in Kashmir. Anche nel 2016 c’era stata una rappresaglia dopo la morte di 18 soldati.
Una considerevole risposta
«Data la portata dell’attacco indiano, che è stato di gran lunga superiore a quello visto nel 2019, possiamo aspettarci una considerevole risposta da parte del Pakistan», ha detto a Reuters Michael Kugelman, analista dell’Asia meridionale con sede a Washington e scrittore per la rivista Foreign Policy. «Tutti gli occhi saranno puntati sulla prossima mossa dell’India. Abbiamo avuto uno sciopero e un contrattacco, e ciò che verrà dopo sarà l’indicazione più forte di quanto sia grave questa crisi», ha concluso.
Gli scontri
Nel 1947 ci fu la prima guerra per il Kashmir. L’India a maggioranza indù e il Pakistan a maggioranza musulmana nacquero nell’agosto del 1947 dopo la cessione del controllo coloniale da parte degli inglesi. L’India ha rivendicato il Kashmir quando il sovrano indù della regione ha aderito a Delhi. Il Pakistan ha sempre considerato il sostegno popolare della maggioranza musulmana nella
regione come base della sua rivendicazione. I combattimenti sono andati avanti fino al 1949, quando i due paesi si sono accordati per una spartizione del territorio. Nel 1965 la seconda guerra causata dallo sconfinamento delle truppe pakistane in India. I combattimenti si estesero oltre il Kashmir in molte aree di confine abitate, dando vita a battaglie campali che coinvolsero sia forze terrestri che aeree, e ad alcune delle più grandi battaglie di carri armati della storia.
La cronologia
Altri scontri si sono verificati nel 1971, quando nacque il Bangladesh. Nel 1999 la guerra di Kargil portò agli scontri tra truppe pakistane e indiane. Nel frattempo entrambe le nazioni si serano dotate di armi nucleari. Il 2016 ha visto l’attacco di Uri contro basi di militanti islamici. Infine, nel 2019 l’attacco di Pulwama. L’India lo ha condotto nei confronti di un campo di addestramento militare vicino alla città pakistana di Balakot. In risposta a un attentato suicida con autobomba nella zona di Pulwama, in Kashmir. Il Pakistan ha lanciato un’incursione di rappresaglia nello spazio aereo indiano che ha portato a uno scontro a fuoco tra le due forze aeree e alla cattura di un pilota indiano. La situazione si è calmata dopo il suo rilascio, avvenuto alcuni giorni dopo.
(da Open)

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URSULA VON DER LEYEN: “LA RUSSIA E’ UNA MINACCIA PER TUTTA L’EUROPA”

Maggio 7th, 2025 Riccardo Fucile

STOP AL GAS DI MOSCA PER SEMPRE

Ursula von der Leyen dice che la Russia è una minaccia permanente per l’intera Europa. E che Vladimir Putin vuole che l’Ucraina accetti l’inaccettabile. Per questo l’embargo nei confronti del gas di Mosca deve continuare anche in caso di pace con Kiev. La presidente della Commissione Europea parla alla plenaria dell’Europarlamento di Strasburgo. E pronostica: «La guerra in Ucraina finirà prima o poi. E il modo in cui finirà plasmerà il nostro continente per le generazioni future. È in gioco il futuro degli ucraini, ma anche il nostro. Un cattivo accordo potrebbe incoraggiare Putin a tornare a colpire. Sarebbe una ricetta per maggiore instabilità e insicurezza».
La pace giusta e duratura tra Mosca e Kiev
Al contrario, «una pace giusta e duratura potrebbe inaugurare una nuova era di prosperità per l’Ucraina e aiutarci a costruire una nuova architettura di sicurezza per l’Europa», sostiene von der Leyen. Ma nella pace di Donald Trump c’è poca fiducia: «Abbiamo tutti visto come negozia la Russia. Bombardano. Fanno i prepotenti. Seppelliscono le promesse sotto le macerie. Putin vuole costringere l’Ucraina ad accettare l’inaccettabile. Quindi il compito che ci aspetta è aiutare l’Ucraina a restare forte, sfidare le intimidazioni di Putin e avviare colloqui di pace basati sulle proprie condizioni». Secondo von der Leyen è necessario «completare l’eliminazione graduale dei combustibili fossili russi. E terzo,
accelerare il percorso di adesione dell’Ucraina alla nostra Unione».
Il gas russo
Il discorso poi tocca il tema dell’energia: «”Alcuni continuano a sostenere che dovremmo riaprire il rubinetto del gas e del petrolio russi. Sarebbe un errore di proporzioni storiche. E faremo sì che non accada». La presidente della Commissione ha rimarcato la necessità di tagliare la dipendenza dai combustibili fossili di Mosca. Che restano «una fonte chiave di finanziamento per la macchina da guerra russa».
Poi ha evidenziato che «c’è una netta maggioranza al Parlamento europeo a favore di questa iniziativa» e «anche la presidenza polacca si sta impegnando a fondo in tal senso. La Russia ha dimostrato ripetutamente di non essere un fornitore affidabile. Putin ha già tagliato i flussi di gas verso l’Europa nel 2006, 2009, 2014, 2021 e durante tutta la guerra. Quante volte ancora prima che imparino la lezione? La dipendenza dalla Russia non è dannosa solo per la nostra sicurezza, ma anche per la nostra economia. I nostri prezzi dell’energia non possono essere dettati da un vicino ostile».
Il risparmio energetico
La buona notizia, aggiunge Ursula, «è che abbiamo fatto progressi incredibili dall’inizio della guerra. Grazie al risparmio energetico e alle rinnovabili, abbiamo già ridotto il nostro import di gas dalla Russia di 60 miliardi di metri cubi all’anno. E grazie ai nostri partner, abbiamo diversificato le nostre attività”, ha aggiunto, ricordando le forniture di gas e gnl ricevute durante la crisi da Stati Uniti, Norvegia, Giappone e Repubblica di Corea».
Nello stesso periodo «siamo passati dal 45% al 13% delle nostre importazioni di gas provenienti dalla Russia. Siamo passati da uno su cinque barili di petrolio a uno su cinquanta: una riduzione di dieci volte. E potremmo andare ancora molto oltre. Dall’inizio della guerra abbiamo ampliato notevolmente la nostra
infrastruttura gnl. Anche gli Stati membri che dipendono maggiormente dal gas russo dispongono già di sufficienti alternative».
(da agenzie)

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SI PARTE: DA OGGI 133 CARDINALI IN CLAUSURA, NEL POMERIGGIO LA PRIMA VOTAZIONE PER ELEGGERE IL NUOVO PAPA… L’EX SEGRETARIO DI STATO PAROLIN E’ IL GRANDE FAVORITO, CON UN PACCHETTO DI UNA QUARANTINA DI VOTI

Maggio 7th, 2025 Riccardo Fucile

A PENALIZZARLO LA GESTIONE DEL CASO BECCIU, GLI AMERICANI E GLI ULTRACONSERVATORI CHE NON LO AMANO PER VIA DELL’ACCORDO TRA SANTA SEDE E CINA MENTRE I BERGOGLIANI LO CONSIDERANO TROPPO MODERATO … IN ASCESA PIZZABALLA, TAGLE PERDE TERRENO A FAVORE DI UN ALTRO FILIPPINO PABLO VIRGILIO DAVID

Il cardinale Parolin entra in Conclave da favorito, nonostante sia al centro di non poche tensioni, perde terreno il filippino Tagle, crescono le chance dell’arcivescovo di Marsiglia Aveline.
In Cappella Sistina i pronostici possono sfarinarsi ma due settimane di congregazioni generali hanno delineato alcune linee di tendenza frutto di calcoli e sensazioni, segnali inequivocabili e sommovimenti più nascosti.
All’inizio i voti saranno come biglie piuttosto sparpagliate, solo di scrutinio in scrutinio verranno calamitate dai candidati più forti fino a superare la fatidica soglia di 89 voti, i due terzi dei 133 elettori presenti.
Nel 2013, per dire, il Conclave che elesse Francesco iniziò, la prima sera, con il cardinale Scola che prese solo 30 voti, nonostante i sostenitori gliene attribuissero alla vigilia una cinquantina, Bergoglio, che pochi avevano visto arrivare, 26, Ouellet, altro porporato dato per papabile sicuro, 22, lo statunitense O’Malley 10, 4 il brasiliano Scherer, che aveva il sostegno della Curia romana, e poi – lo ha ricostruito Gerard O’Connel nel libro The Election of Pope Francis – cinque cardinali presero due voti ognuno (tra di loro l’arcivescovo di New York Dolan) e ben tredici cardinali presero ognuno un voto (tra di essi uno era con ogni probabilità destinato a Bergoglio ma sulla scheda venne fuori il nome Broglio).
Oggi Parolin partirebbe con un pacchetto di una quarantina di voti o anche più. È da tempo il cardinale più evidentemente papabile, tutti lo conoscono e ne apprezzano la statura diplomatica, garantirebbe una transizione ordinata dopo gli anni effervescenti di Bergoglio.
Può averlo scalfito la gestione del caso Becciu, gli americani e gli ultraconservatori non lo amano per via dell’accordo tra Santa Sede e Cina, i bergogliani lo considerano troppo moderato.
Potrebbe entrare Papa e uscire cardinale, come accadde a Scola nel 2013, o invece entrare Papa e uscire Papa, come avvenne a Joseph Ratzinger nel 2005. Se la fumata bianca uscirà giovedì, si ragiona Oltretevere, sarà Papa Parolin.
Alla sua destra c’è il drappello dei cardinali marcatamente conservatori, una quindicina o al massimo ventina di porporati che potrebbero unirsi dietro la bandiera dell’ungherese Peter Erdo ma poi puntare su un candidato più carismatico come il Patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa, che, nonostante l’età un po’ giovane per diventare Papa, 60 anni, gode di consensi trasversali e geograficamente ampi. Il suo appeal, nel corso delle congregazioni generali, si è consolidato.
Aveline e Romero
Così come è ricorso con crescente insistenza il nome dell’arcivescovo di Marsiglia Jean-Marc Aveline.
C’era il dubbio che non parlasse italiano, lui ha usato l’italiano, bene, sia per intervenire al chiuso delle riunioni dei cardinali che celebrando messa domenica a Santa Maria dei Monti. Pastore e teologo, volto bonario e scaltrezza politica, potrebbe intercettare il favore di quei tanti cardinali – un’ottantina – che cercano una continuità con Francesco, magari con un carattere più accomodante.
Nello stesso campo si trova, da tempo, lo spagnolo Cristobal Lopez Romero, arcivescovo di Rabat, in Marocco, che ha però una geografia di rapporti un po’ diversa (salesiano, ha trascorso molti anni in America latina prima che Francesco lo nominasse vescovo in Africa).
Profilo per certi versi simile quello del filippino Pablo Virgilio David, le cui quotazioni si sono impennate negli ultimi giorni, tanto da mettere in ombra l’altro filippino forte presente al Conclave, Louis Antonio Tagle. Se i 18 cardinali africani non necessariamente sarebbero in grado di allargare il consenso attorno al pur autorevole arcivescovo di Kinshasa, Fridolin Ambongo, i 21 asiatici potrebbero invece muovere a falange dietro David trovando sponde anche in America Latina e in Europa.
Le alleanze
E unire le forze con un’altra area presente nel Conclave che è quella dei 60 cardinali che hanno partecipato alle assemblee sinodali volute da papa Francesco. Se non possono essere considerati un gruppo compatto, una buona parte di loro è convinta che si debba andare avanti sulla strada riformista tracciata da Bergoglio. Potrebbero inizialmente unirsi dietro la bandiera del maltese Mario Grech, segretario del Sinodo, e poi convergere su un altro candidato dal profilo pastorale.
Rimane forte, intanto, ma discreto come è nel suo carattere, Robert Francis Prevost, il pragmatico agostiniano statunitense con grande esperienza in America latina e nella Curia romana. Stimato a tutte le latitudini, se il voto si incartasse, potrebbe emergere come l’uomo capace di mettere d’accordo tutti o quasi.
(da agenzie)

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LA FRODE DEI CANNOLI SICILIANI E COME STIAMO USANDO I SOLDI DELLA TRANSIZIONE DIGITALE

Maggio 7th, 2025 Riccardo Fucile

PRETENDIAMO I SOLDI DEL PNRR, POI NON LI SPENDIAMO O LI SPENDIAMO MALE… COME AL SOLITO SIAMO FANALINO DI CODA IN EUROPA

Per vendere una bottiglia di Prosecco in tutto il mondo, bisogna avere un sito di e-commerce. Per visitare un malato che non può uscire di casa, serve la telemedicina. Per mostrare il mondo agli studenti, occorrono lavagne interattive, per rendere la pubblica amministrazione efficiente occorre mettere i dati in rete. Si chiama «transizione digitale», e in pratica significa trasformare
qualsiasi processo produttivo, gestionale o amministrativo usando la tecnologia, così da renderlo più produttivo. Chi non si adegua – ci ricorda la Commissione europea – si ritroverà a vivere in un Paese meno inclusivo e trasparente ma soprattutto più povero perché solo la trasformazione digitale può «garantire un’economia resiliente e competitiva». Una fetta importante del Pnrr è proprio dedicata a questo passaggio, a condizione di spendere i soldi entro giugno 2026. Gli obiettivi
L’Italia si è data obiettivi ambiziosi: internet ultraveloce per tutti; 7 italiani su 10 «digitalmente abili», cioè almeno in grado di fare semplici ricerche sul web, mandare email, comprendere le informazioni che internet ci fornisce; altrettanti che abbiano attivato l’identità digitale attraverso Spid e carta di identità elettronica. Il 75% degli enti pubblici devono migrare nel «cloud», e cioè mettersi nelle condizioni di poter archiviare e condividere i dati via internet in modo da poter anche erogare online l’80% dei servizi pubblici essenziali: dal voto elettronico, al fascicolo sanitario fino al pagamento delle imposte.
I soldi disponibili
Dei 194 miliardi del Pnrr l’Italia ne ha programmati 46,8 per la transizione digitale. Si tratta di decine di migliaia di progetti, che contengono in tutto o in parte processi di innovazione: da quelli più costosi, come i 623 milioni investiti nel sistema di cyber-sicurezza contro gli attacchi hacker, alla posa dei cavi sottomarini che portano la fibra ottica nelle isole minori (costo: 45 milioni di euro); fino ai 444 euro mensili che serviranno a pagare ciascuno dei 9.700 giovani del «Servizio civile digitale» che avranno il compito di aiutare gli anziani e chiunque voglia impratichirsi con le nuove tecnologie.Siamo il Paese che investe di più: più della Spagna (40 miliardi), il triplo della Germania (13,4 miliardi), addirittura sei volte la Francia (8,1), e la Polonia (7,3). Ma attenzione: sono soldi che vanno fatti fruttare, perché se circa la metà è a fondo perduto, il resto è a debito (seppur a interessi agevolati), che dovremo restituire entro il
2054. Domanda: li stiamo spendendo bene?
L’analisi della Corte dei conti europea
Nel corso del 2024 la Corte dei conti europea è andata a vedere come cinque Paesi tra cui l’Italia (gli altri sono: Danimarca, Francia, Lussemburgo e Romania), spendono i soldi del Pnrr. A marzo 2025 i magistrati contabili hanno pubblicato le loro conclusioni: «Nel complesso, il contributo alla transizione digitale è stata un’occasione mancata per rispondere efficacemente alle principali esigenze digitali». Per l’Italia sono stati esaminati sei progetti-campione. Il primo è quello dei 480 milioni di euro per la digitalizzazione delle Pmi gestito da Simest, la controllata di Cassa Depositi e Prestiti (vedi Dataroom del 15 maggio). In pratica, le aziende chiedono allo Stato i fondi necessari a realizzare i loro piani di innovazione, e se hanno le carte in regola possono incassare subito il 50% di quanto richiesto. Il problema è che poi nessuno controlla. Dice la Corte dei conti: Simest paga «indipendentemente dal fatto che il progetto venga o meno eseguito come previsto». Come funziona il meccanismo si capisce meglio con un esempio.
Carburante e cannoli
A marzo 2022 i titolari di un distributore di carburante con annesso bar-ristorante-tabaccheria di Gela, chiedono a Simest 300mila euro per sviluppare una piattaforma e vendere così on line e in tutto il mondo prodotti per auto e prelibatezze della tradizione siciliana. Un sito di e-commerce che mette insieme cannoli e filtri per auto dovrebbe essere quantomeno sospetto. A Simest invece piace moltissimo, e infatti senza batter ciglio versa sul conto corrente dell’azienda le prime due tranche da 90 e 60mila euro. Il saldo sarebbe arrivato a progetto concluso. A febbraio 2025 succede invece che i titolari dell’azienda finiscono indagati dalla procura di Gela per malversazione di fondi pubblici: stando alle verifiche della guardia di finanza avrebbero usato i soldi della transizione digitale per pagare i debiti. E del sito non c’è traccia. «Al di là del
caso specifico, per il quale vale la presunzione di innocenza – spiega il procuratore Salvatore Vella – l’impressione è che lo Stato abbia fretta di spendere i soldi del Pnrr. Ma quando si fanno le cose in fretta, spesso si fanno male e senza le dovute cautele».
Errori di calcolo e ritardi
Fra i progetti esaminati dalla Corte dei conti europea c’è quello che punta a connettere alla rete ultraveloce 8,5 milioni di abitazioni. Ma c’è un errore di calcolo, e a dicembre 2023 l’obiettivo si riduce a 7 milioni (-18%). «È emerso chiaramente – scrivono i magistrati – che il numero effettivo di unità collegabili era inferiore alle stime iniziali». Altri due progetti, invece, finora hanno prodotto risultati limitati, e la relazione li definisce «nettamente inferiori all’obiettivo principale della misura». Entrambi fanno parte del piano per mettere «in cloud» la Pubblica amministrazione, e la sostanza è che ad aprile 2025 ben seimila enti (su 12mila) non sono ancora passati al sistema. Infine il progetto per rafforzare le sinergie tra imprese ed enti di ricerca: doveva essere chiuso già nel 2023, ma si è reso necessario posticiparne la conclusione al 2026.
Finora spesa meno della metà
I bandi che al loro interno hanno almeno una parte di progetti di digitalizzazione muovono complessivamente 66,5 miliardi di euro. Dal ministero per il Pnrr ci fanno sapere due cose. La prima è positiva: il 95% delle misure sono già state avviate. La seconda lo è meno: finora abbiamo sborsato 26 miliardi, significa che il 59% delle risorse – pur essendo legate a opere in corso – deve ancora essere speso. Di questa enorme mole di finanziamenti fanno parte anche gli 11,4 miliardi di euro gestiti direttamente dal Dipartimento della trasformazione digitale di Palazzo Chigi e assegnati al 90%. Dentro ci sono i 69mila progetti per la digitalizzazione della Pa finanziati con 3 miliardi di euro: a oggi la tabella di marcia concordata con l’Europa è stata rispettata ma sta di fatto che, a un anno dalla scadenza, la metà dei progetti non è conclusa,
mentre il 15% deve ancora partire. Anche l’avanzamento del piano da 3,5 miliardi per portare internet veloce nelle aree remote è al 50%.
La lentezza non è una virtù
Dei cinque obiettivi, l’unico finora raggiunto è quello dell’identità digitale: oltre 50 milioni di carte di identità elettroniche emesse e 39 milioni di Spid attivati. Buoni progressi anche sul fronte dell’ attivazione del fascicolo sanitario elettronico e, per quanto riguarda le imprese, sulla diffusione delle competenze di base e della gestione dei dati. Ma il Digital decade report 2024 descrive l’Italia come un «potenziale inespresso». Questi i numeri: oltre la metà degli italiani ancora non ha le competenze digitali di base, e appena il 4% è specializzato in tecnologie per la gestione dei dati. Questo ci pone «come uno degli Stati Membri con i livelli più bassi di competenze», ovvero quintultimi in Europa: peggio solo i lettoni, i polacchi, i bulgari e romeni. Addirittura maglia nera assoluta per numero di laureati in materie tecnologiche. Infine solo il 5% delle aziende adotta le tecnologie informatiche più avanzate: siamo ultimi tra i Grandi, e sotto la media Ue, che è dell’8%. Questo al momento è lo stato dell’arte.
Milena Gabanelli e Andrea Priante
(da corriere.it)

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POVERI E DISOCCUPATI IMPIEGATI DALLA REGIONE SICILIA PER SISTEMARE CHIESE E PARROCCHIE: “MAI STATI PAGATI”

Maggio 7th, 2025 Riccardo Fucile

AL LAVORO DA TRE MESI SENZA VEDERE UN QUATTRINO, E’ COSI’ CHE LA REGIONE SOVRANISTA PENSA DI AIUTARE I CITTADINI A CUI E’ STATO TOLTO IL REDDITO DI CITTADINANZA?

Disoccupati, persone in povertà assoluta, ex percettori di Reddito di cittadinanza. Arruolati con un bando della Regione Sicilia, stanno lavorando da tre mesi per ristrutturare chiese e parrocchie a Catania, ma senza aver mai visto un centesimo. “Parlavano di piccola movimentazione, invece siamo finiti a scavare pietra lavica, un lavoraccio. Sia uomini che donne, alle quali non è stato risparmiato nulla: hanno costruito anche le colonne in cemento armato. Ma la paga non è mai arrivata”, raccontano quelli impiegati alla parrocchia di Santa Maria Ausiliatrice.
Eppure si tratta dei cosiddetti “cantieri di lavoro per disoccupati”, finanziati da fondi destinati proprio all’occupazione e all’inclusione sociale. Insomma, a loro. Tanto che la politica siciliana ha parlato spesso di “ossigeno”.
“L’ossigeno glielo stanno levando a questi poveretti, una vergogna”, dice invece Ottavio Prato, pastore della Chiesa Cristiana Evangelica “Gesù Cristo è il Signore” di viale Lainò, dove il 12 febbraio 15 disoccupati hanno iniziato a lavorare come manovali edili per pavimentare accesso e parcheggio antistanti la Chiesa. “Un anticipo l’ho dato io coi soldi della Chiesa, che dovevo fare?”, racconta. “I soldi ci sono, ma dalla Regione non è arrivata neanche la prima tranche del pagamento”. E nemmeno risposte, come già aveva dichiarato a La Sicilia Gianluca Giacona, parroco della Divina Maternità della Beata Maria Vergine in Cibali, altro ente interessato dai lavori. “Dalla Regione ci dicono solo che per loro è tutto in regola”, aveva raccontato.
Contattata dal Fatto Quotidiano, l’assessore regionale alla Famiglia, Politiche sociali e Lavoro Nuccia Albano fa sapere che no, “la Regione non è in ritardo nei pagamenti alle parrocchie”. Che la causa di tutto è l’avvio dei cantieri, previsto nel 2024 e slittato al 2025. Andiamo con ordine. La ripartizione delle somme disponibili è del 5 febbraio 2024, per 65 enti di culto ammessi ai
finanziamenti del Piano di Azione e Coesione 2014-2020 destinati ai “cantieri di lavoro presso gli Enti di culto della Sicilia”. Tra gli obiettivi dichiarati, “favorire l’inserimento lavorativo e l’occupazione dei disoccupati di lunga durata e dei soggetti con maggiore difficoltà di inserimento lavorativo” e la “riduzione della povertà e dell’esclusione sociale”.
“Tra i manovali c’era anche un senzatetto, che infatti ho ospitato qui in Chiesa”, racconta il pastore Prato. “C’è anche chi percepiva il reddito di cittadinanza (ora Assegno di inclusione, ndr), sospeso proprio per il lavoro in cantiere. Così adesso non hanno né la paga né il sussidio”.
Tanto che alcuni sono tornati al centro per l’impiego: “A dire che rinunciavo “per mancanza dello stipendio”. Ma non l’hanno mica voluto scrivere che me ne volevo andare perché non mi pagavano e ho dovuto lasciar perdere”, ha raccontato al Fatto un lavoratore. L’esperienza dei cantieri di lavoro, è stato detto ad alcuni, dovrebbe invece consentire di ricevere il Supporto formazione e lavoro, l’indennità introdotta dal governo Meloni per gli indigenti “occupabili”. Salvo problemi burocratici, ovviamente. “Il pagamento è bloccato e al centro per l’impiego non sono in grado di risolvere: cornuto e mazziato”, lamenta chi è rimasto a zero euro nonostante malta, cemento e mansioni per le quali, denuncia, “non abbiamo nemmeno ricevuto la ‘formazione d’aula’ prevista dal bando”.
Per i disoccupati arruolati dal centro per l’impiego di Catania per 72 giornate di lavoro da 7 ore, sabati compresi, è stato previsto un compenso di 38,93 euro al giorno. Che a tre mesi dall’inizio dei lavori nessuno ha ancora visto. Perché? “I decreti dei cantieri, emessi a ottobre del 2024, prevedevano 60 giorni quale termine ultimo di inizio dei lavori. Solo dopo la comunicazione dell’avvenuto avvio, si sarebbe potuta erogare la prima tranche”, spiega al Fatto l’assessore. “Ma gli stessi enti di culto hanno chiesto una proroga di ulteriori 60 giorni che noi abbiamo concesso per agevolarli e non revocare i cantieri”. Si parte a
febbraio, dunque. E siccome “le risorse erano state regolarmente impegnate nel 2024, ma non pagate per via del ritardo di inizio da parte degli enti di culto, l’erogazione della prima tranche potrà avvenire a brevissimo nel 2025 dopo il riaccertamento dei residui extraregionali, ormai imminente”, conclude l’assessore Albano, precisando che “i nostri uffici forniscono puntualmente risposte e indicazioni su tutti i chiarimenti richiesti dagli enti di culto”. Ricontattati dal Fatto, gli enti di culto respingono al mittente. “Quale proroga? Per noi i lavori potevano iniziare anche prima”, spiegano alla Chiesa Cristiana Evangelica. Così all’Istituto Maria Ausiliatrice, dove non ricordano di aver chiesto proroghe. In ogni caso, aggiunge il pastore Prato, “quanto gli ci vuole per il “riaccertamento”? Ormai siamo a maggio”. Perché a restare col cerino in mano, ribadiscono, sono cittadini in estrema difficoltà. Ed è ai suoi cittadini che la Regione avrebbe dovuto chiarire eventuali contrattempi, se di questo si è trattato, fin dall’inizio.
(da ilfattoquotidiano.it)

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LA PROCURA DI CALTANISSETTA HA INTERCETTATO GIANNI DE GENNARO PER CERCARE DI SVELARE I MISTERI DI ARNALDO LA BARBERA, L’EX CAPO DELLA SQUADRA MOBILE DI PALERMO, ACCUSATO DI ESSERE DIETRO IL DEPISTAGGIO DELLA STRAGE DI VIA D’AMELIO, IN CUI MORÌ PAOLO BORSELLINO

Maggio 7th, 2025 Riccardo Fucile

LA BARBERA È RITENUTO IL MANOVRATORE DEL FALSO PENTITO VINCENZO SCARANTINO, MA ANCHE IL “LADRO” DELL’AGENDA ROSSA DEL GIUDICE … GLI INVESTIGATORI HANNO RITROVATO DEGLI ESTRATTI CONTO: QUASI 115 MILIONI DELLE VECCHIE LIRE VERSATI IN CONTANTI ALL’EX CAPO DELLA MOBILE

Parlando dell’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, l’ex funzionario Gioacchino Genchi ha detto: «Per lui la legge era un accessorio, come lo era la pistola, l’auto di servizio, la radiotrasmittente… cioè, lui si poneva uno stadio al di sopra delle legge».
Al processo per il depistaggio della strage di via d’Amelio, che ha visto imputati tre poliziotti del Gruppo d’indagine denominato “ Falcone e
Borsellino”, Genchi non ha utilizzato mezzi termini: «Arnaldo La Barbera rispondeva al dipartimento della Pubblica sicurezza, che in quel momento era rappresentato dal prefetto Luigi Rossi e da altri uomini». In udienza, cinque anni fa, l’ex funzionario oggi avvocato fece il nome dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. «Forse – ha aggiunto – De Gennaro gli ha fatto avere una casa, non so bene a che titolo, una casa che forse è andata a una delle figlie ».
Da queste accuse di Gioacchino Genchi sono nate le nuove indagini della procura di Caltanissetta sull’ex vertice della polizia di Stato, per provare a fare luce sul comportamento di La Barbera, oggi ritenuto il gran regista del falso pentito Vincenzo Scarantino, ma anche il ladro dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Le indagini, com’è noto, hanno avuto una prima svolta l’anno scorso, nella perquisizione a casa dei familiari di La Barbera, a Verona: in una cantina sono stati trovati degli estratti conto che parlano di quasi 115 milioni delle vecchie lire versati in contanti all’ex capo della Mobile fra il settembre 1990 e il dicembre 1992.
Soldi elargiti da chi? La Barbera aveva collaborato con il Sisde, ma nel 1988, quando era capo della squadra mobile di Venezia. L’incarico dei Servizi era proseguito in Sicilia? Per quale missione? Oggi, dopo il caso Prestipino, sappiamo che la procura di Caltanissetta ha intercettato Gianni De Gennaro per cercare di svelare i misteri di La Barbera.
Le strade dei due superpoliziotti si erano incrociate già nella primavera 1989. In quei giorni, La Barbera fa un blitz a San Nicola L’Arena, per arrestare il latitante Gaetano Grado. Con lui si trova anche il cugino, il pentito Salvatore Contorno. Scoppiano non poche polemiche sui giornali, arrivano anche le lettere del Corvo, che accusano il giudice Falcone e De Gennaro, allora capo della Criminalpol, di aver pilotato il ritorno di Contorno dagli Stati Uniti alla Sicilia per stanare i latitanti corleonesi, trasformando il pentito in un killer di
Stato. Accuse false, ma intanto la commissione parlamentare antimafia convoca in seduta segreta De Gennaro e La Barbera.
La Barbera era davvero un investigatore inserito in una squadra di poliziotti fidatissimi di Giovanni Falcone. De Gennaro e La Barbera si ritrovano sulla stessa linea anche quando vengono chiamati a deporre nell’aula del tribunale di Palermo dove l’ex capo della squadra mobile Ignazio D’Antone è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Un processo che si è concluso con una condanna a 10 anni di carcere, nonostante la difesa di La Barbera e De Gennaro.
Le carte sequestrate dai carabinieri del Ros a casa dei familiari di Arnaldo La Barbera hanno raccontato anche altro: c’è traccia di due assegni consegnarti nel 1993 e nel 1997 a Luigi De Sena, che fu dirigente di polizia e poi uomo chiave del Sisde, il servizio segreto civile. Il 9 dicembre 1993, La Barbera gli fece un assegno di 18 milioni delle vecchie lire. Il primo ottobre 1997, un altro assegno, di 4 milioni di lire. Perché quei soldi?
(da La Repubblica)

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