GIORGIA MELONI MESSA ALL’ANGOLO DA MACRON E SCHOLZ
LA PREMIER NON RIESCE A NASCONDERE IL LIVORE, IN EUROPA L’ARROGANZA NON PAGA
«Se pensano di isolarmi, sbagliano di grosso». Sabato pomeriggio, piscina di Borgo Egnazia. Giorgia Meloni, nel momento di riposo ritagliato fra la fine del G7 e la conferenza di pace di Lucerna, è contrariata. Di più: chi l’ha sentita, dice di avere colto un’autentica furia. La premier ha preso come un’offesa le parole di Olaf Scholz che l’hanno collocata senza mezzi termini «all’estrema destra dello spettro politico» e fuori da qualsiasi alleanza per il governo dell’Europa. Un risentimento, quello della premier, amplificato dal fatto che il cancelliere tedesco ha sferrato il suo attacco ancora sotto gli ulivi pugliesi, senza neppure attendere di tornare in patria. «Sono venuti a tramare a casa mia ma l’Italia, a Bruxelles, avrà quel che le spetta», ripete la prima ministra ai suoi pontieri europei alla vigilia della cena dei 27 capi di governo nella capitale belga.
Nel mirino di Meloni c’è Scholz ma anche Emmanuel Macron, che durante il vertice non ha mancato di far notare le proprie distanze dalla leader della destra italiana in tema di diritti, cominciando a scavare il fossato. Insieme, Scholz e Macron si sono riuniti con Ursula Von der Leyen, proprio a Borgo Egnazia. Altro dettaglio urticante, per la presidente del Consiglio.
Macron, Scholz: è stato il colpo d’ala delle “anatre zoppe”, di partner frettolosamente ritenuti fiaccati dal vento di destra spirato nelle urne. Ma capaci di macchiare, se non di rovinare, il G7. In grado di spingerla di nuovo verso l’irrilevanza.
Meloni non ci sta. Ha sentito alcuni colleghi di governo, in Svizzera ha parlato a lungo con il ministro degli Esteri, e vicepresidente del Ppe, Antonio Tajani. A lui ha detto che la maggioranza-fotocopia della precedente, dai popolari ai verdi, non garantisce a Ursula von der Leyen la matematica certezza della rielezione in Parlamento. È convinta che a Ursula servano anche i voti di FdI per liberarsi dal rischio dei franchi tiratori.
Ma a questo punto Meloni è davanti a un bivio. Cosa farà stasera a Bruxelles? Tenterà di aggregarsi a una coalizione Ursula, pur di strappare qualche casella di peso, oppure cederà a un azzardo sovranista, salto nel buio, sfida a Bruxelles e Washington? Deve decidere come muoversi, come gestire il veto esplicito dei socialisti e liberali sul suo nome. Deve valutare se mettersi di traverso, rallentando un accordo lampo su von der Leyen, oppure dare il via libera — nonostante gli europeisti non la vogliano come alleata — alzando il prezzo delle richieste italiane.
La situazione ideale, in realtà, sarebbe questa: Macron o settori del Ppe che prendono tempo, facendo slittare le scelte sui top jobs a dopo le legislative francesi. In quel caso, la premier avrebbe il vantaggio tattico di poter eventualmente sfruttare una vittoria di Marine Le Pen — e l’ulteriore indebolimento del Presidente francese — per favorire soluzioni diverse alla guida della Commissione, a partire da Antonio Tajani. Se invece il francese dovesse prevalere, come sembra, allora chiederebbe un buon portafoglio in cambio di un accordo su Ursula. Quale? Uno non solo di peso, ma soprattutto “identitario”. La prima opzione sarebbe quella di entrare nel gioco delle alte cariche, reclamando l’Alto commissariato per la politica estera. Che, però, al momento sembra opzionato dai liberali. E dunque la premier potrebbe pretendere un commissario ad hoc per i flussi migratori. Vorrebbe affidarlo a Elisabetta Belloni, che da capo del Dis ha gestito il G7 come sherpa, proponendola per un commissariato ad hoc che si occupi dei flussi migratori. Da creare per l’occasione. L’alternativa è quella di ottenere almeno gli Affari interni, che comunque gestisce quel capitolo tanto caro a Palazzo Chigi. Il problema è che von der Leyen faticherebbe molto a convincere i socialisti ad assegnare una poltrona così delicata e politicamente sensibile e caratterizzata a un governo di “estrema destra”, come l’ha bollato Scholz. Piano B: un commissario influente sul fronte economico. Un nome in pole è sempre quello di Raffaele Fitto, ma è possibile mandarlo a Bruxelles rinunciando al suo contributo da ministro sul Pnrr? Difficile, anche se l’ipotesi resta sul tavolo. L’altro sogno è la Concorrenza, decisiva per le procedure di infrazione, a partire dai balneari. Ma è complesso immaginare che l’Europa consegni questo dossier a Roma. Più facile che conceda il mercato interno, da affidare a un profilo tecnico. Si è parlato dell’ex ministro Daniele Franco (che era il candidato di Roma per la Bei), ma qualche possibilità in più l’avrebbe Roberto Cingolani, che dovrebbe però lasciare la guida di Leonardo. E si torna al punto di partenza: senza questo scalpo, può Meloni regalare il proprio consenso a Ursula?
(da La Repubblica)
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