HA RAGIONE MACRON: L’EUROPA HA BISOGNO DI UN RAPPORTO ECONOMICO CON LA CINA
SEGUIRE PEDISSEQUAMENTE LA LINEA AMERICANA POTREBBE ESSERE UN BOOMERANG PER L’UNIONE EUROPEA
Inizialmente la presa di distanza dall’alleato americano da parte del presidente francese Emmanuel Macron era stata liquidata sbrigativamente a Washington. Ma con il passare dei giorni, l’irritazione sta lasciando spazio a qualche utile riflessione sia nei centri di ricerca della capitale, sia in ambienti vicini all’Amministrazione Biden.
Le implicazioni non riguardano solo la politica estera e di difesa occidentale, ma il rischio di una frammentazione dell’economia globale che gli Stati Uniti stanno sottovalutando.
Come è noto, a conclusione della visita a Pechino, Macron aveva invitato l’Europa a una posizione di non vassallaggio dagli Stati Uniti. La dichiarazione è stata interpretata come frutto di ambizioni personali o di una volontà di avvicinamento alla Cina attraverso il via libera alle mire di Pechino su Taiwan, cioè alla soppressione di una delle poche democrazie nell’area indocinese.
Analisti francesi attribuiscono invece la posizione di Macron a tre considerazioni: la prima è che conviene coinvolgere la Cina nella soluzione della crisi ucraina, rispetto alla quale Pechino è in condizione di beneficiare sia (strategicamente) da una continuazione del conflitto, sia (economicamente) da una sua conclusione. La seconda ragione è che senza la Cina non è possibile affrontare la crisi climatica globale. La terza è più direttamente economica e riguarda la contrarietà europea alla frammentazione dell’economia globale lungo aree di influenza americana o cinese.
La frammentazione è in corso: lo scorso anno gli Usa hanno bloccato le vendite alla Cina di semiconduttori ad alta performance e la Cina ha risposto con limitazioni alla vendita di terre rare. Le sanzioni alla Russia sono state accompagnate da tagli alle forniture di petrolio all’Ue.
Da alcuni mesi, il Fondo monetario propone analisi dei rischi legati alla frammentazione globale. Il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal commercio con la Cina e l’imposizione di limitazioni ai partner europei, sposterà l’offerta produttiva cinese verso altri Paesi creando di fatto una frammentazione tra l’Occidente e il resto del mondo. Per controllare l’export di tecnologia, oltre a tutto, sarebbero necessarie capacità di “polizia” su una scala senza precedenti e probabilmente irrealizzabile.
Anche queste pratiche spingerebbero altri Paesi in via di sviluppo ad avvicinarsi alla Cina anziché ai Paesi occidentali, a detrimento dell’attrattività delle democrazie. Sotto accusa non sono tanto i controlli agli investimenti e alle esportazioni di Cina, Russia e altre potenze che possono nutrire volontà strategiche aggressive o di penetrazione tecnologica, bensì la limitazione più generale degli scambi commerciali con la pretesa di favorire le produzioni locali.
Si tratta di una strategia che ha un richiamo populista ovvio, a cominciare dallo slogan “compra americano”, ma che non ha reali benefici economici perché favorisce produzioni meno avanzate, che possono essere importate a minor costo, sposta occupazione verso posti di lavoro meno pagati, e fa aumentare il prezzo di beni e servizi per i cittadini meno abbienti.
L’economia europea è impegnata in una trasformazione “verde” che non avrebbe possibilità di successo se la Cina non condividesse l’emergenza ambientale e continuasse a inquinare, legittimando comportamenti nocivi anche in India, Brasile o Indonesia. Allo stesso tempo, la sostituzione di motori a combustione con sistemi meno inquinanti richiede investimenti di dimensioni tali da non poter essere che globali. Infine, in uno scenario di frammentazione, se un’area inventasse un rimedio a basso costo per la riduzione dei danni ambientali, non avrebbe vantaggio a diffonderlo.
(da La Repubblica)
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