LA PIAZZA DELLA TAVERNA
LA PIAZZA DEL “NON MOLLARE”, DELLA RABBIA ANTICASTA CHE LANCIA LA SENATRICE ALLA GUIDA DEL M5S… 4.000 PERSONE IN PIAZZA SANTI APOSTOLI TRA INSULTI AI GIORNALISTI E RITORNO AL PASSATO CHE NON PUO’ TORNARE
Che sia la sua giornata lo si capisce solamente guardando la scaletta. Sale sul palco Luigi Di Maio, il fu capo politico. Poi è il turno di Alfonso Bonafede, capo delegazione al Governo. Ma a chiudere è lei, Paola Taverna, tra il boato della folla. Dopo di lei solo il reggente Vito Crimi, il cui intervento rimane impresso come fosse scritto sulle acque di un ruscello.
“Questa è la sua piazza, è lei che l’ha organizzata”, dice il portavoce del ministro nel retropalco. Aggiunge: “Ormai mi sembra chiaro che dopo Luigi ci sia lei, l’unica che potrebbe contenderle il posto è Chiara Appendino, ma non sono paragonabili”.
Il Movimento 5 stelle ritorna a piazza Santi Apostoli. Qui si concluse quella che Alessandro Di Battista definì malauguratamente sette anni fa “la marcia su Roma”. Un’altra era geologica, con il Movimento a urlare contro il potere che non gli apriva il portone del Governo, con gli insulti ai giornalisti, con le contumelie alla casta, con i cartelli contro i poteri forti e le maschere di Guy Fawkes. 2013, oggi, se un alieno fosse capitato entrambe le volte da queste parti non noterebbe differenze.
Un deputato malignamente fa notare la differenza con la chiusura di campagna elettorale delle Europee: “Lì eravamo quattro gatti, qui ci saranno sette, ottomila persone”.
Magari arriveranno alla metà , con buona pace dell’ex capogruppo della Camera Ciccio D’Uva che dà i più classici numeri dell’organizzazione (“Siamo 10mila!”), nonostante sia della Questura, seppur solo quella interna a Montecitorio.
Pallottoliere a parte, Paola Taverna arringa alla folla che sbandiera stendardi del tenore “Fanno tutti schifo” come fosse già la capofila di quel che verrà .
E proprio sulla continuità , sul recupero di quel che doveva essere e non è stato, martella pesantemente: “La nostra forza da quando siamo entrati in Parlamento non è cambiata, siamo una forza che non si può abbattere”. E ancora: “Qualche battaglia l’abbiamo anche persa, ma cinquant’anni di politica che ci ha distrutto non si cambiano in due anni, ma passo dopo passo”.
La gente in piazza dice un secco No alle alleanze. Qualcuno lo ha anche scritto con pennarelli su fogli bianchi, in un caleidoscopio di colori che si intersecano con il giallo di quelli solertemente distribuiti dall’organizzazione.
“Questi sono delle m…e”, taglia corto un affabile signore, testa rasata e tatuaggio sul collo. Non vuole alleanze con gli altri partiti: “Sti str…i andassero aff…”. Vicino a lui c’è chi prova ad allargare il campo, barba sale e pepe e occhiali a schiacciare la chioma dello stesso colore: “Devi sapere che io stavo in Democrazia Proletaria quando contestavamo il Pci…”.
Purtroppo o per fortuna il resto della saga è interrotto dall’Inno di Mameli. È salito Luigi Di Maio sul palco, la sua comunicazione avverte solerte della coincidenza non casuale con l’inaspettato riflesso patriottico.
L’ex capo politico si concede un discorso non memorabile (“Difendiamo Bonafede e la sua riforma, dobbiamo punire i furbi e mandare avanti gli onesti”) e un bagno di folla finale. Un timido “Luigi, Luigi” lo saluta alla fine, il giro tra gli attivisti lo sommerge.
Questa è la piazza della Taverna, ha organizzato lei, chiedete a lei” rispondono all’unisono parlamentari e staff a qualunque domanda gli si ponga.
Il No alle alleanze risuona quasi all’unanimità . Arriva Federico D’Incà , ministro per i Rapporti con il Parlamento. Un deputato lo indica: “Lui sarà arrivato con il cartello Sì alle alleanze”. Non salirà sul palco, e come lui nemmeno Roberto Fico e Stefano Patuanelli, i più governisti tra i colonnelli 5 stelle.
La piazza trasuda livore contro Matteo Renzi e contro i giornalisti. Sui più noti una sassaiola di insulti. Chi prova a fermarsi e ragionare viene sommerso dalle contumelie, preoccupante reflusso anti democratico che affiora a ogni pie’ sospinto.
Paolo viene da Napoli. Spiega che non ce l’ha fatta, ha lasciato un contratto di sei mesi in un’azienda di pulizie: “Mi pagavano due euro l’ora. Ho cercato di parlare con tutti, ho parlato con la Catalfo, il ministro del Lavoro, mi farà sapere”.
Ha cinquant’anni e non ce l’ha fatta. Per un momento diventa simbolo del motivo per cui a San Giovanni, sette anni fa, i tre/quattromila di oggi sarebbero stati una goccia in un oceano.
Promesse di scatolette aperte e ripulite in un battibaleno andate a infrangersi contro il muro della realtà , due anni di Governo senza la rivoluzione ossessivamente vagheggiata. Paolo c’è, tanti come lui sono rimasti a casa, guardando un live di Salvini o tenendo spenti chissà per quanto social e televisioni.
È un grande ritorno al passato per recuperare quel poco di futuro che resta. È la piazza della Taverna. Come sigla conclusiva parte un grande classico: “Non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini punto e basta”. Da quando il Movimento si è fatto potere non si era più sentito.
(da “Huffingtonpost”)
Leave a Reply