L’ITALIA HA RICEVUTO MOLTI SOLDI DALL’UE MA NON È IN GRADO DI GESTIRLI. TANTO CHE LA MAGGIOR PARTE DEI PROGETTI DEL PNRR RESTERÀ INCOMPIUTO
LE CAUSE DEL FALLIMENTO DELLA “MESSA A TERRA”, IL PIANO MATTEI E IL FLOP DELLA CONFERENZA PER LA RICOSTRUZIONE DELL’UCRAINA
Gli “addetti ai livori” fiutano un graduale riposizionamento dei grandi poteri finanziari internazionali nei riguardi del governo italiano. L’iniziale apertura di credito, dovuta all’attenzione di Giorgia Meloni per la tenuta dei conti pubblici, sembra essere via via sfumata dopo i primi mesi a Palazzo Chigi.
Giornalisti, analisti finanziari e osservatori hanno consegnato, fuori dai nostri confini, un’immagine dell’Italia in chiaroscuro.
Le prime bordate sono arrivate dalla banca d’affari Goldman Sachs, che lunedì ha bocciato i Btp e promosso i Bonos spagnoli, lanciando un nuovo allarme sui nostri conti pubblici. Idem, l’agenzia di rating Moody’s, che ha minacciato un declassamento dei titoli tricolore a causa dell’elevato indebitamento e delle aspettative di crescita modeste.
Quello che è chiaro, agli occhi degli esperti, è che, ai tempi della trattativa sul Recovery Fund, l’allora premier, Giuseppe Conte, strappò per l’Italia una quantità di denaro fin troppo imponente per la tradizionale capacità di spesa di Roma.
I progetti legati al Pnrr, che dovrebbero essere conclusi entro il 2026, resteranno per gran parte incompiuti. Le cause sono almeno tre: la prima è la decisione di centralizzare a Palazzo Chigi, con la creazione di un ministro ad hoc, la gestione del Piano, sottraendolo alla cabina di regia fissata al Mef da Draghi e l’ex ministro dell’economia, Daniele Franco. Una decisione che ha di fatto azzerato il lavoro già fatto, riportando i dossier preparati e discussi dagli uffici tecnici al punto di partenza
La decisione di smontare quanto costruito da “Mariopio” è frutto di un pregiudizio nei confronti dei tecnici del Mef (che già Casalino definì “pezzi di merda”), considerati troppo “de’ sinistra” ed eccessivamente proni alle richieste di Bruxelles.
Una polemica già sollevata ai tempi dei governi Berlusconi quando a Via XX settembre sedeva, come ministro, Giulio Tremonti.
La seconda ragione è che portare i progetti dalla carta ai cantieri non è mai stato facile per l’Italia. A riprova di tale difficoltà c’è la cronica incapacità di tutti i governi, nessuno escluso, a spendere fino all’ultimo centesimo i fondi europei erogati all’Italia.
Nel periodo 2016-2022 siamo riusciti a sfruttare solo il 47% di quanto stanziato dall’Ue.
Assenza di una catena di comando, eccesso di burocrazia, forse difficoltà di pianificazione a livello territoriale: tutti vecchi vizi che affliggono la pubblica amministrazione e la sua capacità di spesa. E dunque, a ricasco, anche la messa a terra del Pnrr.
La terza causa: l’aumento dei tassi deciso dalla Bce ha creato una nuova pressione sul debito pubblico italiano, imponendo un maggior rigore finanziario proprio nel momento in cui sarebbe necessario spendere e investire, anche in risorse umane, in personale tecnico, in infrastrutture.
Senza contare che la Banca centrale europea ha ridotto del 65% l’acquisto dei bond italiani, mostrando un chiaro cambio di passo tra la gestione Draghi e quella di Christine Lagarde a Francoforte.
Il nuovo corso ha dato fiato alla corrente speculativa sull’Italia. Se Moody’s e Goldman Sachs hanno già calato la scure sull’Italia, presto arriveranno anche i giudizi di Standard & Poor’s e Fitch. E ieri il “Wall Street Journal”, house organ della principale piazza affari dell’occidente, ha rifilato una gomitata al governo Meloni sui diritti civili.
A questo va aggiunto l’evidente scetticismo internazionale per le iniziative diplomatiche della Meloni. Un esempio su tutti, la conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina, alla quale la premier italiana aveva invitato praticamente tutti i principali leader occidentali, e che si è trasformata in un inutile bilaterale a cui ha preso parte soltanto il premier ucraino Denys Shmyhal.
A ottobre la Ducetta presenterà il famigerato Piano Mattei all’Unione europea. Un progetto ambizioso, coltivato da Palazzo Chigi, volto alla sovranità energetica, puntando a rendere l’Italia grimaldello degli approvvigionamenti europei. Sarà interessante capire se a Bruxelles, ma anche a Parigi e Berlino, accetteranno di lasciare a Roma il potere di apertura e chiusura dei rubinetti.
A rendere incerto l’esito del piano Mattei ci sono anche le richieste dei paesi africani, che parlano una lingua comune: il cash. E l’unico Paese che sta riversando valanghe di denaro sul continente è la Cina, che già esercita, insieme alla Russia, grande influenza sui fragili governi africani. Anche l’accordo già siglato tra Eni e Congo, inaugurato due giorni fa, in ragione della instabilità dell’area centrafricana, non è da considerare blindato, visto ciò che sta accadendo in Sudan e potrebbe creare un effetto domino destabilizzante per tutti i Paesi limitrofi.
Il cul de sac in cui si è andata a infilare la Ducetta, molto dipende anche dalle sue personali scelte. Si è circondata di ministri non così autorevoli, e incapaci di governare la complessa macchina dello Stato, dell’alta burocrazia e degli uomini chiave all’interno dei ministeri.
La ragione è soprattutto psicologica, visto che il cerchio magico della premier, che teme traditori e nemici, tende a circondarsi dei soliti amici fidati, spesso inadatti al ruolo per il quale vengono scelti.
(da Dagoreport)
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