SILVIO TACE SULLA SCONFITTA E NEL PDL CRESCE LA VOGLIA DI RIVOLUZIONARE IL PARTITO
IL PDL ALZA IL TIRO MA SENZA ROMPERE: NON SE LO PUO’ PERMETTERE
E ora Silvio Berlusconi teme la tempesta perfetta.
Per questo si è tenuto alla larga da ogni commento sulla debacle amministrativa, sebbene il suo umore venga descritto come nero davvero.
Non una parola, non una nota.
Anche perchè, non avendoci messo la faccia in campagna elettorale, non è stato difficile sottrarsi nel giorno più difficile.
Lascia ad Alfano il compito di dare a Enrico Letta una rassicurazione( “Il governo di larga coalizione — dice il ministro dell’Interno in un’intervista al Foglio vive obiettivamente oltre il perimetro delle battaglie amministrative parziali) e un avviso (“Letta dia una missione al governo invece di discolparsi con Repubblica”).
Significa che il Pdl alzerà il tiro, ma senza rompere.
La verità è che la botta fa male, e non poco.
Mai il Pdl ha registrato una sconfitta di questa entità . Ovunque. È stato un cappotto.
E se — paradossalmente ma neanche troppo — la sconfitta più pesante era la più annunciata, quella di Roma, il termometro della disfatta è Brescia, Treviso, tutto il nord diventato per il Pdl una terra straniera.
Per non parlare della Sicilia, patria di Alfano, dove il segretario del Pdl sono anni che colleziona sconfitte ai limiti dell’umiliazione.
Ma più della dissoluzione di un partito che, di fatto, non esiste quando non è chiamato al solito e ventennale referendum sul suo Capo, può la paura.
Perchè è proprio vero che al peggio non c’è mai fine.
Lo spiega un ex ministro: “Berlusconi non può e non vuole far cadere il governo, perchè a questo punto è chiaro che un’altra maggioranza coi grillini la fanno in una notte. Ma sa anche che il voto dà più potere alla sinistra, che ha già lanciato un’Opa sul governo e le procure faranno il resto”.
Eccola, la tempesta perfetta.
È la classica situazione in cui indietro non si può tornare e avanti è difficile andare.
Come un ritornello, il Cavaliere ha ripetuto ai suoi che sui provvedimenti del governo il Pdl sarà intransigente — Imu, Iva Equitalia — e che non accetterà un compromesso al ribasso, nè lascerà al Pd il bandolo dell’iniziativa.
Ma al tempo stesso ha raffreddato gli animi di quei falchi che vorrebbero alzare il tiro fino a rompere con Letta.
La parola d’ordine è minimizzare, separare il voto amministrativo dal governo, non cedere ai nervi, che pure sono scoperti.
Per questo tutto lo stato maggiore del Pdl si limita, almeno ufficialmente, a dichiarare l’ovvio. Cioè che senza Berlusconi il Pdl non esiste, e che le amministrative hanno una dinamica diversa da quelle delle politiche.
Mariastella Gelmini affida all’HuffPost un distillato di buonsenso: “E’ chiaro che l’astensionismo penalizza più noi, e ci penalizza il secondo turno rispetto al primo. Fattori a cui aggiungere il fatto che la Lega dimezza i voti al nord e una questione settentrionale tutta da reintepretare e che richiede risposte. Ma più di tutto è mancato, senza Berlusconi, un messaggio comunicativo forte”.
Già , senza Berlusconi. Il Pdl pare una pentola in ebollizione.
Con mezzo partito che a questo punto vuole una “rivoluzione”.
Per i falchi come Denis Verdini e Daniela Santanchè così non si può andare avanti.
Con Alfano che cumula tre incarichi — ministro, vicepremier, segretario del Pdl — il partito è acefalo.
Sono parole che annunciano settimane complicate quelle con cui Daniela Santanchè inonda i media per un pomeriggio: “Dobbiamo capire cosa dobbiamo cambiare al nostro interno. Questa volta non è colpa di Berlusconi se non abbiamo vinto ma più del partito e dei suoi dirigenti”. Dall’altro lato, la nomenklatura vicina ad Alfano — Cicchitto, Gasparri e i vari artefici della sconfitta di Roma – invoca la costruzione di un partito vero, come ai tempi delle primarie.
Come sempre il dibattito è destinato a durare, e non poco. Perchè nel partito acefalo se tocchi una casella cade tutto.
Anche se stavolta assicurano che il Cavaliere è determinato a cambiare, se non altro perchè si è stufato di cacciare quattrini.
Saranno i costi a dettare la riorganizzazione, e non viceversa.
Alessandro De Angelis
(da Huffingtonpost.it)
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