Aprile 18th, 2011 Riccardo Fucile
NEL 1990 OGNI FAMIGLIA IN MEDIA METTEVA DA PARTE L’EQUIVALENTE DEGLI ATTUALI 4.000 EURO, OGGI SOLO 1.700 EURO…lL REDDITO PRO CAPIRE IN VENTI ANNI E’ RIMASTO LO STESSO, CIRCA 17.000 EURO… IL 90,3% SE NE VA IN CONSUMI
Il reddito è fermo, i soldi a fine mese non bastano e così gli italiani non risparmiano più.
Le famiglie riescono a mettere da parte il 60% in meno rispetto a venti anni fa. Erano quattromila euro nel 1990, oggi sono solo 1.700 euro.
Vuol dire che in venti anni il risparmio complessivo è sceso di venti miliardi di euro.
Il mattone resta il bene rifugio: chi riesce a chiudere il bilancio in positivo investe sulla casa, della finanza non ci si fida più.
I numeri arrivano da uno studio della Confcommercio, sulla base di dati Istat, che ha fatto la radiografia del risparmio degli italiani dal 1990 ad oggi.
Venti anni fa per ogni 100 euro di reddito se ne risparmiavano 23, oggi le famiglie riescono a metterne da parte meno di dieci con una consistente riduzione della propensione al risparmio, praticamente più che dimezzata nell’arco di un ventennio.
Tutta colpa del reddito, rimasto nell’arco di questo periodo «stagnante e sostanzialmente invariato», dicono gli esperti di Confcommercio.
Nel 1990 il reddito pro capite, rapportato ai prezzi del 2010, era di 17.200 euro. In tutti questi anni non si è mai allontanato da quella cifra.
Solo un picco nel 2007, con 18 mila euro.
L’anno scorso è addirittura sceso a diciassette mila tondi.
Inevitabile l’effetto sul portafoglio.
Oggi il 90,3% delle entrate familiari se ne va in consumi (rispetto al 77% del 1990) e da parte si mette molto meno.
Così il risparmio annuo pro capite si è ridotto di quasi il 60% (4.000 euro nel 1990, 1.700 nel 2010).
Quasi venti miliardi di risparmio andati in fumo: dai 119,2 miliardi del ’90 ai 100,2 del 2010.
E siccome si guadagna di meno, si cerca di difendere quello che avanza.
Un terzo delle famiglie italiane (il 31,7%) ritiene «l’investimento in immobili la principale forma di utilizzo, soprattutto a fini cautelativi, del surplus monetario», si legge nello studio di Confcommercio.
Un altro 30% preferisce tenere i soldi fermi sul conto corrente, poi ci sono gli italiani che di risparmi non ne hanno proprio (uno su tre).
Solo il 10% investe in azioni o fondi.
Non un bel segnale, quest’ultimo, per chi gestisce il risparmio.
E probabile che sulla fiducia degli italiani abbiano pesato i crac finanziari degli ultimi anni (Par-malat, Cirio, obbligazioni Alitalia).
Di certo c’è che ora anche la Consob, l’authorityche vigila sui mercati, ha deciso che il sistema deve essere più trasparente e ha pubblicato le nuove regole sui prospetti informativi dei prodotti finanziari, a partire dalle obbligazioni bancarie. Quindi bando all’enfasi dei vantaggi, no al ridimensionamento dei rischi, stop ai trucchi grafici e alla terminologia ingannevole.
La Consob si è mossa dopo aver riscontrato un «recente incremento dei messaggi pubblicitari», promozioni che spesso si avvicinano a pub-blicità ingannevoli, e ieri ha pubblicato le sue raccomandazioni.
Con le nuove regole si invitano banche e finanziarie a limitare nelle promozioni espressioni tipo “garantisce” o “assicura” e a mettere un freno alle modalità grafiche che evidenziano solo i rendimenti massimi cercando di nascondere i rischi degli investimenti.
Bisognerà inoltre sempre specificare se il rendimento può cambiare nel corso dell’investimento, se ha una scadenza e se è al netto o al lordo dei costi.
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Aprile 18th, 2011 Riccardo Fucile
“QUESTA RIFORMA NON GARANTISCE CERTEZZA DELLA PENA, MA SOLO CERTEZZA DELL’IMPUNITA'”…”E’ UN ULTERIORE SFREGIO AI PRINCIPI DI RAGIONEVOLEZZA E DI UGUAGLIANZA DI FRONTE ALLA LEGGE”
«L’opinione pubblica reclama certezza della pena, ma questa riforma garantisce certezza d’impunità !».
Quasi un «grido» quello di Giuliano Vassalli, quando nel 2005 fu varata la ex Cirielli, che dimezzava i termini della prescrizione.
Lo ricordano oggi più di 60 studiosi di diritto penale, firmatari di un appello proposto da Giorgio Marinucci, contro la «prescrizione breve» per gli incensurati, una «ennesima legge ad personam» ma soprattutto «un ulteriore sfregio ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza di fronte alla legge». Perciò oggi, come nel 2005, scendono in campo, «senza distinzioni politiche».
Nomi del calibro di Alberto Crespi, Antonio Pagliaro, Carlo Fiore, Carlo Federico Grosso, Franco Coppi, Mario Romano, Emilio Dolcini, soltanto per citare alcuni delle tante firme all’appello di Marinucci.
Le critiche alla «prescrizione breve», dunque, varcano i palazzi del Parlamento e del Csm.
Ieri l’opposizione ha confermato che al Senato ci sarà battaglia mentre la maggioranza, con Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri, conferma di non essere preoccupata di un possibile stop del Quirinale ma, semmai della «campagna di mistificazione sulle ricadute di questo provvedimento».
Ma all’aspetto delle ricadute sui processi, altre criticità si aggiungono.
Come spiegano proprio gli oltre 60 studiosi di diritto penale.
Che non tacquero nel 2005 e non intendono tacere oggi.
Oggi come allora «gridano» lo sdegno per una norma “figlia” di una legge (la ex Cirielli) che «abolì norme centrali del sistema penale».
Al di là dell’obiettivo «neppure mascherato» di evitare persino la pronuncia di una sentenza di condanna di primo grado per gli incensurati, «evitando così – ad personam – il marchio di una condanna, pur non definitiva, che suonerebbe come conferma di un’accusa sgradita», i firmatari dell’appello ironizzano sulla «saggezza» di chi, ora, fa un nuovo sconto sulla prescrizione agli incensurati, accentuando la distinzione tra loro e i recidivi.
E smentiscono il relatore del ddl alla Camera, Maurizio Paniz, secondo cui dal 2005 nessuno avrebbe mai contestato la Cirielli sotto questo profilo.
Tra i molti che hanno criticato l’ancoraggio della prescrizione «alla qualità personale dell’imputato e non più all’oggettività del reato» ci fu anche Giuseppe Frigo, attualmente giudice costituzionale eletto dal Parlamento in quota Pdl, e con lui tanti (Marinucci, Padovani, Pulitanò e altri) segnalarono l’incostituzionalità di una disciplina «che mescola irrazionalmente gli atti interruttivi della prescrizione, espressione del persistente interesse punitivo dello Stato, con la qualità personale dell’agente (incensurato, recidivo, delinquente abituale ecc)».
Ma anche la magistratura non è rimasta a guardare.
Nell’appello si ricorda un’ordinanza con cui il Tribunale di Prato denunciò alla Consulta la ex Cirielli perchè, facendo dipendere la diversa durata della prescrizione non dalla gravità oggettiva del fatto ma dallo status soggettivo dell’imputato, determina «un ritorno al diritto penale d’autore».
La Corte non si pronunciò non perchè la questione fosse infondata ma solo perchè era irrilevante nella fattispecie (il delitto si era comunque prescritto).
(da “Il Sole 24 Ore“)
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Aprile 18th, 2011 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DELLA CAMERA HA RICEVUTO UNA DELEGAZIONE DELL’ASSOCIAZIONE, GUIDATA DAL PRESIDENTE PALAMARA CHE DICE: “SIAMO PREOCCUPATI PER QUESTA FIBRILLAZIONE ISTITUZIONALE, NOI NON SIAMO UN SOGGETTO POLITICO”
“Il rispetto reciproco tra le istituzioni è la premessa indispensabile per la salvaguardia dello stato di diritto e per la leale collaborazione tra i poteri dello Stato”: lo ha detto il presidente della Camera Gianfranco Fini ricevendo a Montecitorio i vertici dell’Anm.
“Nell’architettura costuituzionale voluta dai padri costituenti la magistratura, non solo ordinaria, rappresenta il vero pilastro a salvaguardia dei principi di legalità a difesa di tutti i cittadini”.
Nel giorno dopo le polemiche dovute agli attacchi ai giudici da parte del premier che ha accusato lo stesso Fini di aver stretto un ‘patto’ con le toghe, il presidente della Camera si è rivolto così alla delegazione della Giunta esecutiva centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, guidata dal presidente Luca Palamara, e dal segretario generale Giuseppe Cascini, che è andata a incontrarlo a Montecitorio.
Nel corso dell’incontro, durato circa quaranta minuti, Fini ha soprattuto ascoltato con attenzione la preoccupata fotografia sulla “fibrillazione istituzionale” denunciata dall’Anm.
“Quanto sta accadendo non è un problema di rapporto tra Berlusconi e i magistrati ma di fibrillazione delle istituzioni”, ha detto il presidente dell’Anm al termine del colloquio con la terza carica dello Stato, esprimendo forte preoccupazione per una situazione che riguarda, ha precisato, “tutte le istituzioni alle quali ci siamo rivolti e anche quelle alle quali non ci siamo rivolti: mi riferisco esplicitamente a istituzioni cui la Costituzione fa esplicito riferimento come il ministro della Giustizia”.
Secondo il presidente dell’Anm “ci sono due situazioni che rischiano di aumentare le nostre preoccupazioni. La prima sono le elezioni amministrative: a questo riguardo ribadiamo che diciamo no al tentativo di trascinarci sul terreno dello scontro politico. La seconda questione sono le vicende giudiziarie del presidente Berlusconi, che rischiano di produrre riforme disomogenee dettate da situazioni contingenti”.
Palamara ha sottolineato la scelta dell’Anm del “percorso istituzionale” che ha già portato il sindacato delle toghe a incontrare il capo dello Stato e il presidente del Senato prima di Fini, e ha aggiunto: “Abbiamo voluto rappresentare di fronte alle istituzioni lo stato di forte preoccupazione che vive la magistratura. La magistratura non vuole essere trascinata sul terreno dello scontro, non siamo un soggetto politico”.
“Abbiamo siglato il patto…”, ha infine ironizzato Palamara, riferendosi alle accuse lanciate dal presidente del Consiglio sul ‘complotto’ ordito da Fini e dalle toghe contro di lui.
“Fuori i nomi, se si hanno le prove si tirino fuori i documenti altrimenti sono affermazioni calunniose”, ha aggiunto il presidente dell’Anm rispondendo a ‘Il Giornale’ che scrive di un testimone in grado di confermare le accuse.
Uno dei soliti “attendibili” testimoni del produttore di fango Sallusti.
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Aprile 18th, 2011 Riccardo Fucile
CONSEGNATA AI GIUDICI UNA MEMORIA DIFENSIVA CON CUI LA MINETTI PRENDE LE DISTANZE DAI DUE…IN 12 PAGINE LA CONSIGLIERA REGIONALE SI DIFENDE DALL’ACCUSA DI AVER INDOTTO ALLA PROSTITUZIONE LA MAROCCHINA E ACCUSA IL GIORNALISTA E L’IMPRESARIO
Erano Emilio Fede e Lele Mora a portare le ragazze ad Arcore.
Lo sostiene Nicole Minetti in una memoria difensiva, consegnata – tramite il suo legale Daria Pesce – ai pm, nell’ambito del filone di inchiesta appena chiuso sul caso Ruby, in cui la consigliera regionale della Lombardia è indagata insieme agli stessi Fede e Mora per induzione e favoreggiamento della prostituzione di trentadue ragazze e di Karima el Morhoug detta Ruby.
La memoria difensiva, in tutto una dozzina di pagine, riguarda solo il secondo capo d’imputazione, cioè il favoreggiamento della prostituzione di Ruby.
E spiega nel dettaglio quanto accaduto la notte tra i 27 e 28 maggio del 2010, quando Minetti si presentò alla questura di Milano per farsi affidare la giovane marocchina, all’epoca minorenne, che era stata fermata per furto. Affidamento durato pochi minuti, giusto il tempo di “consegnare” la ragazza ad un’altra brasiliana, Michelle Conceicao.
L’avvocato Pesce ripercorre i vari passaggi dell’inchiesta e cerca di dimostrare, in particolare, l’inconsistenza dell’accusa di prostituzione minorile, cioè di aver portato Ruby nella residenza del premier.
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Aprile 18th, 2011 Riccardo Fucile
GOVERNO PDL-LEGA: GRAZIE ALLE ADDIZIONALI LOCALI ALL’IRPEF PREVISTE DALLA LEGGE SUL FEDERALISMO, VOLUTA DALLA LEGA E AVALLATA DAL PDL…UNA RIFORMA INCOMPIUTA CHE NON GIUSTIFICA CERTO ENTUSIASMI FUORI LUOGO: SI PARLA DI MAGGIORI TASSE PARI A 1000 EURO A TESTA
Il numero segreto del federalismo è 10 miliardi di euro.
E’ questo il conto che i cittadini onesti, quelli che pagano le imposte sui redditi, potrebbero ritrovarsi a saldare per garantire quel principio di autonomia delle comunità locali che sta alla base della riforma più importante del governo in carica.
Qui non si tratta di tasse e imposte che già si pagano a Roma e che, con la rivoluzione architettata dai ministri Roberto Calderoli e Giulio Tremonti, verranno almeno in parte dirottate su città , Province e Regioni.
I 10 miliardi sono una cosa diversa. Sono il prezzo della libertà .
Sono i quattrini che i sindaci e i presidenti delle Regioni potranno chiedere in più alle persone che abitano nei loro municipi, nei loro territori.
Per questo si chiamano “addizionali”: sono maggiorazioni che Comuni e Regioni possono introdurre sull’Irpef, l’imposta sui redditi.
Le addizionali, in realtà , esistono già dal 1998.
Negli ultimi anni, però, il loro incremento era stato bloccato per legge, facendo storcere il naso agli autonomisti più convinti, al fine di impedire che gli enti locali avessero sul fisco una mano troppo pesante.
Con la riforma ormai giunta al dunque gli aumenti sono stati nuovamente autorizzati, in virtù del principio fondamentale che dovrebbe valere per ogni federalismo: il poter godere della libertà di spendere le risorse che gli amministratori hanno il coraggio di chiedere – sotto forma di imposte o di tasse – ai loro elettori.
L’autonomia responsabile, come la chiamano gli esperti.
I sindaci che non l’avevano ancora fatto in passato potranno così esigere fino a un tetto massimo dello 0,4 per cento del reddito delle persone fisiche.
Da parte loro i governatori regionali potranno invece inasprire il balzello (ma solo a partire dal 2013) con quote variabili fra l’1,4 e il 3 per cento, a seconda delle fasce di reddito dei contribuenti.
Quale sia l’effetto ipotizzabile di questo “liberi tutti” ha provato a calcolarlo l’ufficio studi della Cgia di Mestre, l’associazione degli artigiani e delle piccole imprese della provincia veneziana.
Nel 2010 le addizionali regionali in vigore, quelle congelate da tempo, hanno garantito un gettito fiscale di 7,1 miliardi per le casse delle Regioni e di 2,7 miliardi per quelle dei Comuni.
Se d’ora in poi sindaci e governatori ricorreranno a questa possibilità nella misura massima consentita, nel 2015 il flusso complessivo delle addizionali salirà a 19,7 miliardi.
A regime il grosso andrà sempre ai governatori (16,6 miliardi, più del doppio del livello del 2010), mentre i sindaci dovranno accontentarsi di un semplice ritocco di 400 milioni (fino a 3,1 miliardi).
Queste tabelle sintetizzano quale potrà essere l’effetto per persone con tre diversi livelli di reddito delle due addizionali: comunale e regionale.
Un milanese che guadagna 25 mila euro lordi l’anno e che nel 2010 aveva pagato in tutto 263 euro potrà arrivare a 850 nel 2015.
Così suddivisi: 100 al sindaco Letizia Moratti, alla quale finora non aveva versato nulla, e 750 al governatore Roberto Formigoni, che fino adesso gli aveva chiesto 263 euro.
Per rimanere agli esempi elaborati dalla Cgia di Mestre, i più fortunati – si fa per dire – sono i cittadini di Roma e Palermo con un reddito di 15 mila euro l’anno.
A loro, che già pagano addizionali al top, il federalismo riserva la magra consolazione di chiedere un conto pari a zero, almeno sul fronte delle addizionali Irpef.
A Bari, Firenze e Milano, invece, l’opzione di aumentare l’imposta riaperta per sindaci e presidenti regionali potrebbe costare parecchio: oltre mille euro l’anno in più per quei contribuenti che dichiarano un reddito di 50 mila euro.
Questi numeri danno spazio a diverse considerazioni.
La prima è che non è fin d’ora scontato che tutti gli amministratori applichino le addizionali previste.
Certo, il drastico taglio negli ultimi anni delle risorse distribute da Roma agli enti locali rende l’ipotesi probabile, almeno in molti casi.
Chi vorrà farlo, però, dovrà assumersi la responsabilità di chiarire agli elettori quali siano i suoi obiettivi.
Tremonti ha lasciato la possibilità di aumentare le addizionali a chi, ad esempio, ridurrà l’Irap, l’imposta sulle attività produttive, molto mal vista dagli imprenditori e da quei lavoratori autonomi che sono tenuti a pagarla. Assecondare i desideri di una parte così influente dell’elettorato, tuttavia, vorrebbe dire trasferirne il costo a chi, come i lavoratori dipendenti e gli autonomi onesti, è già oggi costretto a versare allo Stato più del 50 per cento dei propri guadagni, come ha calcolato Giuseppe Bortolussi nel libro “Tassati e mazziati”, da poco giunto in libreria.
La seconda considerazione è che i 10 miliardi di sacrifici che la riforma potrà chiedere ai contribuenti italiani in nome dell’autonomia fiscale sono, per certi versi, una cifra troppo modesta, almeno agli occhi dei federalisti più convinti. “A ben vedere stiamo parlando del 5 per cento dei 200 miliardi di costi che, nel complesso, le Regioni arriveranno con ogni probabilità a sostenere nel 2015”, dice Gilberto Muraro, professore di Scienza delle Finanze a Padova, che vede proprio nei troppi limiti all’autonomia degli enti locali la grande delusione della riforma Calderoli-Tremonti, colpevole di lasciare il grosso del gettito fiscale di ogni territorio eccessivamente vincolato alle scelte del governo centrale.
“Purtroppo dobbiamo parlare di una riforma incompiuta: per questo motivo è preoccupante l’attesa quasi miracolistica che la Lega ha creato attorno al federalismo, come se da un giorno all’altro le regioni settentrionali dovessero ritrovarsi a nuotare nell’oro e quelle meridionali a cavarsela con le proprie forze”, dice Muraro.
Per l’economista, al contrario, gli effetti della riforma rischiano di essere fin troppo lenti: “Credo che, al massimo, darà qualche frutto se riuscirà a creare nel Mezzogiorno una classe politica più adeguata e onesta, permettendo alle regioni del Nord di ridurre progressivamente il costo dell’assistenzialismo”, spiega.
Per toccare con mano questi paradossi può essere utile qualche calcolo.
A elaborarli è stata una fonte ufficiale, la Ragioneria dello Stato, su richiesta della Commissione tecnica per l’attuazione del federalismo (detta Copaff).
I calcoli mostrano l’applicazione della riforma della sanità secondo la ricetta voluta da Calderoli e Tremonti.
Risultato: con le nuove regole le Regioni del Nord avrebbero avuto meno risorse per la sanità di quelle che avevano ottenuto nel 2010; quelle del Sud ne avrebbero avute di più.
La reazione dei governatori del Nord, e di Formigoni in particolare, pare sia stata immediata: non se ne fa nulla, le regole appena decise vanno cambiate. Così i tecnici di Tremonti hanno dovuto rimettersi al lavoro.
(da “L’Espresso“)
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Aprile 18th, 2011 Riccardo Fucile
BERLUSCONI DOVEVA RIPULIRE LA CITTA’ IN POCHI GIORNI, MA E’ LA SOLITA BALLA: NAPOLI E’ SOMMERSA DAI RIFIUTI…E DEI PROMESSI TERMOVALORIZZATORI NON C’E’ NEMMENO L’OMBRA
“Fare il gallo sulla monnezza”.
Una tipica espressione dialettale napoletana che indica, sostanzialmente, chi si pavoneggia accampando meriti e capacità che non ha.
Sono giorni che a Napoli la parte del gallo, almeno nelle chiacchiere dei bar, la fa Silvio Berlusconi. Già .
Il premier ha promesso tre anni fa di risolvere l’emergenza rifiuti, e ha fallito. Sulle montagne di sacchetti il Cavaliere ha costruito prima la sua campagna elettorale e poi quella mitologia del “governo del fare” che ha avuto il suo acme nel dopo terremoto dell’Aquila.
Nonostante gli sforzi, Napoli e provincia sono di nuovo invase dalla spazzatura e dai miasmi.
Domenica scorsa Cavani mandava in delirio il San Paolo, ma attorno allo stadio 2 mila tonnellate di schifezze rimaste a terra ingolfavano vicoli e strade.
Per i tifosi tornare a casa non è stato una passeggiata: Poggioreale e la zona orientale sono il solito schifo, 400 tonnellate appestano Pianura e Secondigliano, altrettante il centro storico e il Vomero.
Nulla è cambiato, nella città che fa della coazione a ripetere (l’errore) la sua vera e unica fede.
Eppure il 27 marzo 2008, prima di diventare presidente del Consiglio, Berlusconi non aveva usato mezze misure. “Se non riuscirò a portare Napoli e la Campania alla loro bellezza entro due mesi, quell’immondizia lì sarà colpa mia”.
Il 4 aprile spiegò che in caso di elezioni avrebbe avuto due priorità : accrescere il potere d’acquisto delle famiglie italiane e ripulire le strade di Napoli e della Campania.
“Accelereremo al massimo la realizzazione dei termovalorizzatori”, disse quel giorno.
Il Cavaliere, grazie anche a quelle promesse, fece il pieno di voti.
Il giorno dopo le elezioni, su un cumulo di via Foria, spuntò un cartello: “Berlusco’, mo so cazzi tuoi!!!”.
Berlusconi apre nuove discariche, disegna un piano con Bertolaso, firma ordinanze per velocizzare le operazioni, mette in campo l’esercito e inizia a pulire. I risultati si vedono subito.
Peccato che siano un pannicello caldo.
I buchi aperti ieri oggi sono infatti già pieni: c’è una capacità residua di poco superiore al milione di tonnellate, pari a otto mesi di autonomia.
Poi sarà ancora disastro.
Lo sversatoio di Chiaiano chiuderà a metà del prossimo mese, quello di Sant’Arcangelo Trimonte è sotto sequestro perchè le pareti continuano a franare. A San Tammaro c’è ancora spazio ma i lavori di ampliamento non sono ancora terminati.
La Campania rischia di non avere più discariche funzionanti, tanto che si prepara ad allestire nuove e costose carovane di rifiuti verso altre destinazioni.
Qualche giorno fa un carico da 25 mila tonnellate di Giugliano è stato spedito persino in Sicilia.
Un paradosso, visto che anche Palermo è al collasso.
E i termovalorizzatori? Tranne Acerra, non pervenuti.
La raccolta differenziata? Ai minimi termini.
Eppure le promesse elargite dal Cavaliere sono da leggenda: a maggio 2008 dice che in Campania “ci saranno quattro termovalorizzatori sicuri”.
Il 4 luglio: “Entro il 20 luglio non ci saranno più giacenze in strada con l’assoluto impegno di non farle più”.
Il 9 luglio 2008 rettifica: “Napoli sarà una città pulita entro il 23 di questo mese. Presto inizieranno i lavori dell’inceneritore di Salerno”.
Il 18 luglio: “Commissarieremo i Comuni che non adempiranno nei tempi previsti alla raccolta differenziata. Per risolvere il problema definitivo occorrono tre anni”. Il primo settembre Berlusconi continua a giurare e a garantire. “L’emergenza rifiuti non si verificherà più. Il sistema di smaltimento è stato organizzato. A giorni ci sarà l’appalto per il termovalorizzatore di Napoli, c’è un incremento della differenziata”.
Non contento, dopo un mese annuncia “un quinto impianto. Gli altri quattro? Saranno attivati in pochi mesi”.
Come no: a parte quello di Acerra, l’inceneritore di Salerno è l’unico per il quale è stata indetta la gara d’appalto, e non sarà in esercizio prima del 2015.
Per quello previsto a Napoli Est l’unico atto ufficiale è la designazione di un “responsabile”.
Per gli altri, zero carbonella.
Per quanto riguarda la raccolta differenziata Napoli non arriva al 20 per cento.
L’emergenza è una follia che non si ripeterà più”, ha spiegato il Cavaliere del fare in media una volta al mese negli ultimi 36 mesi.
Il 10 dicembre 2008: “Le strade di Napoli saranno pulite come quelle di Tokyo”.
Il 26 marzo 2009, all’inaugurazione dell’impianto di Acerra: “E’ una data storica, si esce definitivamente dall’emergenza”.
Il 4 giugno una promessa dedicata a Palermo, dove spuntavano le prime collinette di spazzatura: “In nove giorni la città tornerà pulita”.
Berlusconi ama dare numeri precisi e scadenze che, matematicamente, non vengono rispettate.
“I rifiuti? Un problema risolto al 95 per cento”, ha detto il 6 ottobre 2010 mentre infuriava la battaglia di Terzigno e la monnezza risaliva verso i primi piani delle case.
Il 22 ottobre: “La situazione tornerà alla normalità entro 10 giorni. Sulle cave sorgeranno boschi e parchi”.
Il 28 ottobre: “Fra tre giorni a Napoli non ci saranno più rifiuti”.
Il 2 novembre è ancora caos, e il premier inizia a dare la colpa alla Iervolino: “Il governo ha risolto, le colpe sono della giunta di sinistra”.
Dimenticando che lui stesso ha dato pieni poteri alla provincia, guidata dall’amico Luigi Cesaro.
Il 27 novembre: “Ieri ho detto che in due settimane il problema sarà risolto”.
Il 3 dicembre: “Domani sarò a Napoli per la questione dei rifiuti”.
Il giorno dopo il premier resta a Roma, ma promette che “nel giro di qualche giorno la città tornerà ad essere pulita”.
Il 14 dicembre, monnezza ovunque: “Pensiamo che nei prossimi due giorni Napoli sarà pulita”.
L’ultima battuta è del 29 dicembre 2010, operazione Capodanno pulito: “Scenderò in campo io personalmente per risolvere il problema in pochi mesi”. Ora, di fronte alla nuova emergenza, Berlusconi è in silenzio.
Al suo posto parla Stefano Caldoro, che il 2 aprile ha detto che si uscirà “definitivamente dalla crisi fra tre anni”.
Nei bar si ricorda cosa disse Totò all’onorevole Trombetta: “Ma mi faccia il piacere!”.
Emiliano Fittipaldi e Claudio Pappaianni
(da “L’Espresso“)
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