Aprile 28th, 2011 Riccardo Fucile
LA CORTE DI GIUSTIZIA DEL LUSSEMBURGO CONSIDERA LA PENA DELLA RECLUSIONE PER GLI IRREGOLARI IN CONTRASTO CON LA DIRETTIVA COMUNITARIA SUI RIMPATRI “NEL RISPETTO DEI DIRITTI FONDAMENTALI”…L’ORGANISMO INVITA I GIUDICI ITALIANI A NON APPLICARE LA LEGGE: QUESTO E’ IL RISULTATO DELLA POLITICA XENOFOBA DEL GOVERNO DEGLI ACCATTONI
Quasi isolati, a destra, lo avevamo sostenuto due anni fa.
Ora la Corte di Giustizia della Ue ha bocciato la norma italiana che prevede il reato di clandestinità , introdotto nell’ordinamento italiano nel 2009 nell’ambito del “pacchetto sicurezza” e che punisce con la reclusione gli immigrati irregolari.
La norma – spiegano i giudici europei – è in contrasto con la direttiva europea sui rimpatri dei clandestini.
Nell’esprimere il suo verdetto, la Corte, composta da un giudice per ognuno degli Stati membri dell’Unione, assolve alla più importante delle sue prerogative: garantire che la legislazione Ue sia interpretata e applicata in modo uniforme in tutti i paesi dell’Unione per rendere effettivo il principio che la legge è uguale per tutti.
A porre in evidente contrasto la legge italiana con la direttiva comunitaria, si legge in una nota diffusa dalla Corte, è la reclusione con cui l’Italia punisce “il cittadino di un paese terzo in soggiorno irregolare che non si sia conformato a un ordine di lasciare il territorio nazionale”.
Reclusione che compromette la realizzazione dell’obiettivo della direttiva Ue “di instaurare una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali”.
Compromette l’obiettivo della direttiva comunitaria, ad esempio, il caso di Hassen El Dridi, algerino condannato a fine 2010 a un anno di reclusione dal tribunale di Trento per non aver rispettato l’ordine di espulsione.
Sentenza che El Dridi impugnò presso la Corte d’appello di Trento, da cui partì la richiesta alla Corte di Giustizia di chiarire se la legge italiana fosse in contrasto con la direttiva Ue sul rimpatrio dei cittadini irregolari di paesi terzi.
Secondo i giudici europei, “gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo, una pena detentiva, come quella prevista dalla normativa nazionale in discussione, solo perchè un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio nazionale e il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare su detto territorio”.
In conseguenza della sentenza Ue, conclude la Corte del Lussemburgo, il giudice nazionale “dovrà quindi disapplicare ogni disposizione nazionale contraria alla direttiva – segnatamente, la disposizione che prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni – e tenere conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, che fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”.
La Corte afferma come gli Stati membri non possano applicare regole più severe di quelle previste dalle procedure della direttiva Ue sui rimpatri.
Una procedura graduale, divisa in più fasi.
La prima consiste nell’adozione di una “decisione di rimpatrio”, nell’ambito di tale fase va accordata priorità , spiega ancora la Corte, “a una possibile partenza volontaria, per la quale all’interessato è di regola impartito un termine compreso tra sette e trenta giorni”.
Nel caso in cui la partenza volontaria non sia avvenuta entro il termine stabilito, “la direttiva impone allo Stato membro di procedere all’allontanamento coattivo, prendendo le misure meno coercitive possibili”. Lo Stato può procedere al fermo soltanto “qualora l’allontanamento rischi di essere compromesso dal comportamento dell’interessato”.
Il trattenimento deve avere “durata quanto più breve possibile”, essere “riesaminato a intervalli ragionevoli”, deve cessare “appena risulti che non esiste più una prospettiva ragionevole di allontanamento” e la sua durata “non può oltrepassare i 18 mesi”.
Inoltre, ricorda la Corte di Giustizia, “gli interessati devono essere collocati in un centro apposito e, in ogni caso, separati dai detenuti di diritto comune”.
Il primo a commentare la bocciatura comunitaria della legge italiana è Antonio Di Pietro. “E’ ormai provato – afferma il leader di Idv – che siamo di fronte a una dittatura strisciante in cui vengono presi provvedimenti contro la Carta dei diritti dell’uomo, si dichiara guerra senza passare per il Parlamento e si occupano le istituzioni per fini personali”.
Per il Pd, si tratta di “un altro schiaffo al ministro Maroni”.
“Sin da quando Maroni presentò il reato nel pacchetto sicurezza – ricorda Sandro Gozi, responsabile per le politiche europee del partito – avevamo denunciato l’evidente violazione delle norme europee e sono due anni che chiediamo al governo di recepire la direttiva Ue sui rimpatri, che giace dimenticata da qualche parte alla Camera, surclassata da processo breve e testamento biologico”.
Laconico il commento di Rosy Bindi. “Sull’immigrazione le figuracce del governo italiano non finiscono mai – dice la presidente dei democratici -. La Corte di Giustizia europea mette a nudo le violazioni dei diritti umani, l’approssimazione e i ritardi di norme approvate solo per fare propaganda, dimostrando un’efficacia che alla prova dei fatti pari a zero. Del resto, cosa aspettarsi da un governo prigioniero delle parole d’ordine della Lega e incapace di affrontare con serietà e giustizia il fenomeno globale e inedito dell’immigrazione”.
Per Benedetto Della Vedova, capogruppo di Fli alla Camera, la bocciatura “non è, come molti vorranno fare apparire, una sentenza buonista. A essere stata bocciata è una norma demagogica e inefficiente, che aggrava l’arretrato giudiziario e il sovraffollamento carcerario, senza migliorare e al contrario intralciando le procedure di espulsione e rimpatrio degli immigrati irregolari”.
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Aprile 28th, 2011 Riccardo Fucile
DRAGHI ALLA BCE E OPA SU PARMALAT SONO SULLO SFONDO DEI MALUMORI…SALLUSTI AMMETTE MALUMORI, MA AMMONISCE: “SFASCIARE TUTTO PER CHE COSA?”…LA PADANIA USA IL SUO CHIODO FISSO: “BOMBE UGUALE PIU’ CLANDESTINI”
«Altro che Libia e clandestini: dietro lo strappo del Carroccio c’è la manina del ministro Tremonti che vuole vendicarsi della nomina di Draghi alla Bce e dell’Opa francese su Parmalat».
Alessandro Sallusti non è Bondi nè Verdini nè La Russa – il triunvirato di coordinatori del Popolo delle Libertà -, ma il Giornale da lui diretto, quotidiano della famiglia Berlusconi, è considerato un termometro affidabile per misurare gli umori in casa Pdl e soprattutto dalle parti del Cavaliere.
Umori, ma soprattutto malumori, dopo le ultime sortite leghiste sulla questione libica con l’invito esplicito di Maroni a portare il caso in Parlamento.
Che Tremonti non abbia gradito le manovre francesi attorno al latte italiano e l’avallo arrivato all’opa dal premier in occasione del vertice italo-francese dei giorni scorsi è cosa nota.
Ma per il Giornale il ministro dell’Economia non si sarebbe limitato ad una manifestazione di disappunto.
Avrebbe invece in corpo un risentimento tale da indurlo ad «aizzare» – questo il verbo utilizzato – gli amici della Lega contro il governo.
Da cui sarebbe sortito l’altolà di Bossi sui bombardamenti e l’invito di Maroni a portare in Aula la questione Libia.
Esplicito l’occhiello in rosso che sulla prima del quotidiano di via Negri introduce il titolo di apertura: «Giulio perde la testa».
Nel suo editoriale Sallusti riconosce che ci sono effettivi malumori in casa leghista, culminati nel titolo della Padania di mercoledì «Berlusconi in ginocchio a Parigi» ma si dice certo che Bossi «sa che il progetto federalista è realizzabile soltanto al fianco del Pdl» e ammonisce la Lega: «Sfasciare tutto per che cosa? Per vendicare Tremonti? Un po’ poco ed è difficile farlo digerire al popolo leghista».
La Lega, dal canto suo, torna ad insistere sulla questione immigrazione, che per il Giornale sarebbe solo un pretesto.
Anche oggi la Padania lo dice a caratteri cubitali: «Bombe uguale più clandestini».
Sottotitolo: «Il Carroccio non arretra e resta contrario all’intervento militare italiano, come anticipato da Bossi su la Padania».
E in un’intervista ad Affaritaliani.it il sindaco di Treviso, Gian Paolo Gobbo, che è anche il capo della Lega in Veneto, lo dice senza girarci troppo attorno: «Certamente ci sono due posizioni che sembrano inconciliabili…».
Ci può dunque essere la crisi? «Può darsi».
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Aprile 28th, 2011 Riccardo Fucile
IL PREMIER SI TRASFORMA IN “COREOGRAFO PER UNA NOTTE”, ORGANIZZA LO SHOW DI SGARBI E RACCONTA UNA PENOSA BARZELLETTA SU SARKOZY…OLTRE ALLE SEXYGAG STAVOLTA FA ANCHE UN TUFFO DA ROCKSTAR
Martedì 26 aprile, giornata faticosa, nervosa e irritante.
Un vertice lungo e umiliante con il presidente francese, ex amato ora odiato; una scalata in Borsa di Lactalis che stende il governo, ennesima lite con Giulio Tremonti; la bugia nazionale del nucleare e le bombe in Libia che accendono la Lega Nord.
Ma non immaginatevi un Berlusconi preoccupato.
Salutato Sarkò, liquidato Bossi e ignorato il superministro dell’Economia, il presidente del Consiglio ha ricevuto un invito galante, anzi curioso.
E corre con Vittorio Sgarbi, seguito da berline e blindati di scorta, verso gli studi Rai di via Tiburtina, periferia romana al confine con il centro.
Lì dove il sindaco di Salemi, moderno Bernini, ordina a operai e maestranze di alzare statue ad altezza d’uomo oppure di creare effetti speciali. In un cantiere promettente e ingarbugliato, a mezzanotte, Berlusconi libera la tensione e la rabbia francese, cerca l’ammirazione di ragazzi increduli, racconta le solite barzellette, sale sui ponteggi.
E quando è in alto, a un metro e mezzo dal suolo, pervaso dallo spirito di una rockstar, chiama i suoi uomini e si lancia come Jimi Hendrix.
Scarica subito il complesso di Sarkò, castigato dentro per un giorno orrendo: “Gli ho detto che mi sembra un maniaco, va sempre con la stessa donna… ”.
E poi rinforza l’autostima: “Dio mi rimprovera che con me fa solo il vicepresidente”.
Nessuno ride.
Ma fa una riflessione seria per un secondo, mentre la serata diventa notte e si fa l’una in punto: “Sgarbi, questo programma a Mediaset non l’avresti fatto, costa troppo”, e indica la merce preziosa distesa sul pavimento, le luci, le quinte, il marmo vero o finto che sia.
E dice il giusto: sette milioni di euro per cinque o sei puntate, più il contratto di un milione per il critico d’arte.
Da settimane Vittorio Sgarbi monta e smonta il suo programma di Raiuno, che debutta il 2 maggio, che forse scivola al 18, che magari torna a settembre.
Non importa.
Sgarbi ha milioni di idee e di euro che il Cavaliere può mettere in ordine, anche in onore di un conflitto di interessi plateale: l’autore di una trasmissione del servizio pubblico chiede una consulenza al proprietario dei rivali di Mediaset. Stavolta il sindaco di Salemi può vantare una consulenza di Berlusconi in trasferta; eppure, spesso, va lui con i collaboratori nella villa di Arcore.
A domicilio.
In quelle stanze cercò l’approvazione per Francesca Lancini — ex modella e ora giornalista, autrice del romanzo Senza tacchi, una scommessa di Elisabetta Sgarbi, sorella di Vittorio, direttore editoriale di Bompiani — come spalla nel suo programma.
Un bellissimo volto femminile, una ragazza di talento che detesta le passerelle su cui sfilava.
L’ex ministro gioca questa carta per convincere il Cavaliere che invece suggeriva Piero Chiambretti ed Elenoire Casalegno.
A una casta cena di lavoro, con la tradizionale compagnia di Nicole Minetti, Barbara Faggioli e altre arcorine, ecco che Berlusconi conosce Francesca.
Forse al premier sarà piaciuta, ma la ragazza ha preferito mollare Sgarbi per continuare la sua carriera senza sprofondare in quel mondo che aveva rinnegato: “Non mi sento in grado di fare televisione, mi piace scrivere”.
Sgarbi s’infuria, e poi si consola con il suo collaboratore principale: il presidente del Consiglio
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 28th, 2011 Riccardo Fucile
RITORNA LO SPAURACCHIO DI UNA MANOVRA PER MARGINALIZZARE IL PREMIER CHE E’ CONVINTO DI RICUCIRE CON BOSSI LO STRAPPO ELETTORALE DELLA LEGA…MARONI COSTRETTO AD ALLINEARSI ALLA LINEA DURA, REGUZZONI ORA RISCHIA IL POSTO: PESANO ANCHE LE LOTTE INTERNE ALLA LEGA E L’ASSE CON TREMONTI
Il sospetto lo porta nuovamente a Giulio Tremonti.
Se è vero quello che circola con insistenza nel Pdl, il premier è a Tremonti che guarda come al regista di tutta “l’operazione Libia” messa in piedi dal Carroccio. Quello che sta “aizzando la Lega”.
Una manovra che “per ora non si capisce dove porta”, ripete Berlusconi ai suoi, ma che potrebbe avere come conseguenza ultima la caduta del governo e la sostituzione del Cavaliere con un altro premier.
Vista da palazzo Grazioli, la crisi in corso nella maggioranza sarebbe un tassello del piano messo a punto sull’asse Bossi-Tremonti per prendere progressivamente le distanze da Berlusconi.
E, in caso, di sconfitta di Letizia Moratti alle elezioni di Milano, staccare la spina e dar vita a un nuovo governo prima dell’estate.
Senza passare per nuove elezioni.
Certo, Tremonti ripete sempre che mai si presterebbe a un’operazione del genere.
E anche ieri, a chi gli chiedeva a bruciapelo se fosse arrabbiato, rispondeva sibillino: “Oggi no”.
È stato il giorno prima infatti, durante il vertice di villa Madama con Sarkozy, che il ministro dell’Economia ha misurato tutta la distanza che lo separa da Berlusconi.
Con quella benedizione politica all’operazione Lactalis-Parmalat di cui Tremonti era all’oscuro.
Anzi, a via XX Settembre è arrivata la voce che Berlusconi fosse stato messo a conoscenza dell’intenzione dei francesi di lanciare l’Opa già da due giorni, senza tuttavia averne fatto parola con il suo ministro dell’Economia.
Un sospetto rafforzato dall’ostilità alle norme anti-scalate di Tremonti già espressa nei giorni scorsi “dalle uniche due persone davvero vicine a Berlusconi: Fedele Confalonieri e il figlio Pier Silvio”.
Il risultato è stato efficacemente sintetizzato da Umberto Bossi sulla Padania: “Berlusconi ha fatto fare a Tremonti e Maroni la figura dei cioccolatai”.
Da qui l’ira del ministro dell’Economia.
Una conflittualità , quella tra il premier e Tremonti, alimentata anche da altri dossier ancora caldi, come quello sul Decreto Sviluppo in cottura al ministero dell’Economia.
Un provvedimento molto sponsorizzato dalla Lega (Calderoli lo ha anticipato a sorpresa sulla Padania), che tuttavia lascia freddo Berlusconi proprio perchè, ancora una volta, si tratta di misure “a costo zero”.
La partita sulla Libia sarebbe dunque soltanto un pezzo del “great game” in corso nel centrodestra.
Anche se niente affatto scontata nel suo esito.
Ancora ieri sera Paolo Bonaiuti ammetteva con filo d’apprensione: “L’unica soluzione è in un incontro tra Bossi e Berlusconi. Se troveranno il modo di parlarsi faccia a faccia troveranno come sempre la quadra”.
Appunto, “se”. Perchè al momento Bossi non ha alcuna intenzione di facilitare la vita al premier, anzi ieri si è persino negato al telefono quando Berlusconi ha provato a rabbonirlo.
A fare le spese della rabbia leghista per la mancata consultazione prima della svolta bellica è stato ieri Marco Reguzzoni, spintosi troppo in là nella politica distensiva con il Pdl.
Tanto da aver provocato la sollevazione dell’ala maroniana dei deputati, che ora ne chiedono la rimozione da capogruppo.
A nulla è servito il vertice convocato ieri pomeriggio in tutta fretta a Montecitorio, che ha visto intorno al tavolo lo stesso Tremonti, Calderoli, Bonaiuti, Cicchitto e La Russa.
Una riunione dalla quale Bonaiuti è uscito rinfrancato almeno sul ruolo di Tremonti: “Anche Giulio sta lavorando per trovare una via d’uscita con spirito collaborativo”.
Cicchitto, capogruppo del Pdl, ha poi visto Reguzzoni per provare a ragionare su un possibile testo condiviso da Pdl e Lega. Un tentativo senza successo. “Per fortuna – si consola Cicchitto – grazie a questa opposizione che ci ritroviamo, continuiamo a reggere. Malgrado tutto”.
A offrire una sponda al governo stavolta c’è anche Giorgio Napolitano, che non accetta spaccature in politica estera mentre le forze armate italiane sono impegnate in una difficile missione di combattimento.
Due sere fa il capo dello Stato ha parlato con Bossi e oggi riceverà Berlusconi e Letta, proprio per ascoltare dal premier come intenda far fronte alla crisi politica della maggioranza.
In queste ore Berlusconi, trattenendo la rabbia per il calcio ricevuto dall’alleato, punta tutto sul rapporto personale con il capo del Carroccio: “Quando riuscirò a parlarci e potrò spiegare la mia posizione, Umberto capirà la mia assoluta buonafede”.
Certo, Berlusconi rivendica anche il suo diritto di avere l’ultima parola sulle grandi scelte nazionali, perchè “la politica estera si fa a palazzo Chigi e non a via Bellerio”.
Ma non è questo il momento di sbattere i pugni.
“Quanto sta accadendo – confida La Russa prima di telefonare al segretario alla Difesa americano Gates – è anche un problema interno alla Lega, dove convivono correnti diverse. E Maroni ha dovuto alzare la voce per non sembrare da meno degli altri”.
Francesco Bei
(da “la Repubblica“)
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Aprile 28th, 2011 Riccardo Fucile
A FINE GIUGNO FINIRANNO I SOLDI PER I COLLABORATORI DI GIUSTIZIA MENTRE NON SI HANNO NOTIZIE PER GLI INTERVENTI SULL’EMERGENZA IMMIGRAZIONE, I CUI COSTI VENGONO SCARICATI SUL DIPARTIMENTO GIA’ GRAVATO DAI TAGLI… SPARITI 19 MILIONI IN TRE ANNI: ECCO IL DETTAGLIO DEI TAGLI ALLA SICUREZZA
Immigrati e pentiti, Mantovano ammette “Il Ministero sta finendo i soldi”
“Mancano i fondi per la gestione dei pentiti, con lo stanziamento del 2011 si riuscirà appena a superare il semestre”.
A lanciare questo allarme è stato Alfredo Mantovano, il sottosegretario dell’Interno che nei giorni scorsi s’è dimesso (per poi ritirare le dimissioni) per contrasti con la politica governativa sull’immigrazione.
Mantovano, davanti a tutti i segretari nazionali dei sindacati di polizia che lo incalzavano chiedendogli quante risorse il governo fosse intenzionato a stanziare per l’emergenza immigrazione, ha risposto così: “Sappiate che il problema della mancanza dei fondi c’è. Io lo sto vivendo in prima persona come presidente della Commissione pentiti: rischiamo di non arrivare alla fine dell’anno”.
È la prima volta che un governo, da quando i “pentiti” sono diventati un’arma fondamentale per l’aggressione alle mafie, si trova in crisi di liquidità addirittura per la gestione dei collaboratori di giustizia.
“Sì, è vero – ha confermato Alfredo Mantovano – il problema c’è, ma stiamo lavorando per risolverlo. Cercheremo di attingere al Fug, il Fondo unico giustizia”.
I pentiti sono circa 900, i loro familiari intorno ai tremila, un’ottantina i testimoni di giustizia e 300 i loro parenti.
Per capire il perchè dell’allarme del sottosegretario dell’Interno, basta osservare il trend delle spese per collaboratori di giustizia (in discesa negli ultimi anni dopo il picco di 70 milioni del 2006): 53 milioni nel 2009, 49 milioni nel 2010, 34 milioni nel 2011.
Un taglio nell’ultimo triennio di 19 milioni.
“È facile immaginare – commenta Enzo Letizia, segretario dell’Associazione funzionari di polizia – che non si possa arrivare alla fine dell’anno con il 35 per cento di risorse in meno rispetto a tre anni fa”.
Claudio Giardullo, segretario del Silp-Cgil, ricostruisce l’incontro con Mantovano: “Sono stato io a porre il caso dell’immigrazione perchè è inaccettabile che il governo la consideri una emergenza europea, e poi scarichi i costi solo sul dipartimento di Pubblica sicurezza. Volevo sapere se Palazzo Chigi fosse intenzionato a prevedere risorse specifiche perchè con i tagli di Tremonti abbiamo già raschiato il fondo”.
Franco Maccari, del Coisp: “Mantovano ha fatto una battuta, “coi pentiti, ha detto, fra un po’ dovremo fare come per gli immigrati, e chiedere che gli altri Stati europei se ne prendano un po’ per uno”.
Enzo Letizia: “Il sottosegretario ci ha riferito che le risorse finanziarie per i pentiti non sono sufficienti per arrivare alla fine del semestre. Per quanto riguarda l’emergenza Libia, ci ha detto che “siamo solo all’inizio””.
Giuseppe Tiani: “Mantovano era amareggiato, ad un certo punto ha commentato: “Ragazzi, anche con il fondo dei pentiti fra un po sarò costretto a dire i fondi sono finiti, prendeteveli voi che non so più come fare”.
Non sono mancate le reazioni nel mondo della giustizia e in quello politico.
Pier Giorgio Morosini, gip antimafia a Palermo: “Al di là della politica dei proclami e degli annunci rispetto all’azione antimafia, i fatti concreti per dimostrare che si fa davvero sul serio si manifestano anche attraverso una oculata politica di gestione dei fondi da dedicare a tutte le strutture di sostegno dell’azione anticriminalità . Il caso dei fondi per i collaboratori di giustizia è uno dei punti più importanti e delicati di questa politica di reperimento delle risorse in vista del contrasto alle mafie. Ai ministri della Giustizia e dell’Interno vorrei dire: meno proclami e più azioni concrete”.
Per il leader dell’Italia del valori, Antonio Di Pietro, il taglio al comparto sicurezza e giustizia “non può essere solo una esigenza di ristrettezze economiche, ma è una precisa scelta ideologica e programmatica del governo finalizzata non alla lotta al crimine, ma a rendere più difficile la lotta al crimine. Tagliare i fondi per i pentiti significa mettere il bastone tra le ruote agli operatori di giustizia sia sul piano della repressione che della prevenzione. È come togliere il bisturi al chirurgo”.
Le parole di Maroni secondo cui questo è il “governo che più di ogni altro ha combattuto la mafia” vanno ribaltate: questo è il governo che più di ogni altro ha tagliato fondi per la lotta alla mafia.
Ecco gli altri tagli alla sicurezza che stanno creando difficoltà al Dipartimento di Polizia.
Acquisto automezzi: 40 milioni nel 2009, 45 nel 2010, e 31 nel 2011. Manutenzione automezzi: 60 milioni nel 2009, 59 nel 2010, 41 nel 2011.
Fondo funzionamento Dia: 18 milioni 2009, 17 milioni nel 2010, 15 nel 2011. Missioni interno (pedinamenti, appostamenti, cattura latitanti): 20 milioni nel 2009, 22 nel 2010, 15,5 nel 2011.
Missioni estero (indagini all’estero): 9 milioni nel 2009, 9 nel 2010, 6 nel 2011. Fondo riservato traffico stupefacenti (pagamento fonti): 800 mila nel 2009, 800 mila nel 2010, 500 mila nel 2011.
Fondo riservato lotta alla delinquenza: 1 milioni nel 2009, 1 milione nel 2010, 600 mila nel 2011.
Affitti: 154 milioni nel 2009, 152 nel 2010, 84 nel 2011).
E nonostante questo, Maroni e Co. hanno ancora il coraggio di prendersi il merito degli arresti di latitanti mafiosi, invece che vergognarsi.
Merito esclusivo di magistrati e forze dell’ordine costretti a lavorare in condizioni sempre peggiori.
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Aprile 28th, 2011 Riccardo Fucile
E’ LA CONCESSIONARIA SERVIZI ASSICURATIVI PUBBLICI, UNA NOMINA CHE VALE SOLDONI…MASI DIVENTERA’ AMMINISTRATORE DELEGATO, ANCHE SE L’ASSEMBLEA E’ STATA RINVIATA ALL’11 MAGGIO… CHI SERVE IL SOVRANO PUO’ SEMPRE CANTARE “AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA”
Era data per certa, ma la nomina ad amministratore delegato di Consap (Concessionaria servizi assicurativi pubblici) per Mauro Masi – che avrebbe così chiuso il suo mandato alla Rai – è stata rinviata.
L’assemblea della concessionaria avrebbe dovuto mettere ai voti le nomine dei nuovi vertici oggi ma è slittata in seconda convocazione l’11 maggio, dopo che la prima, fissata per le 12,30, è andata deserta.
Sicuramente in quella data sarà approvato il bilancio.
Il nodo delle nomine al vertice, con l’attuale dg della Rai Mauro Masi indicato come amministratore delegato e Maria Grazia Siliquini, ex Fli poi passata ai Responsabili, come presidente della Concessionaria, non è detto che venga sciolto in quella occasione.
Gli attuali vertici, il presidente Andrea Monorchio e l’ad Raffeale Ferrara possono rimanere in carica per ulteriori 45 giorni dalla data dell’assemblea.
“Che esisteva la Consap, la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici, fino a ieri nessuno lo sapeva – ha spiegato un dirigente – oggi sembra che sia il paradiso che tutti conoscono… L’assemblea di stamattina è andata deserta, non c’era l’azionista (il Tesoro di Tremonti, ndr) quindi se ne riparlerà l’11 maggio, in seconda convocazione. E anche in quel caso, se non ci dovesse essere accordo, il Tesoro potrebbe lasciare aperta l’assemblea per un altro mesetto”. Parlando con i dirigenti della Consap si avverte “sconcerto, e indignazione” per nomine di questo tipo “al di fuori di ogni logica istituzionale – dicono – delle schifezze che la Corte dei conti non permetterà mai”.
E adesso si aspetta di conoscere che cosa pensa della vicenda l’attuale presidente, il professor Andrea Monorchio, il ragioniere dello Stato passato alla storia per i suoi ripetuti ‘no’ alle eccessive spese statali.
Nel Cda della Rai del 4 maggio, a quanto si apprende da fonti parlamentari, il direttore generale avrebbe dunque potuto rassegnare le proprie dimissioni ma con lo slittamento dell’assemblea Consap è di nuovo tutto in gioco.
Qualora l’assemblea degli azionisti della Consap nomini Masi amministratore delegato per il ruolo di direttore generale di Viale Mazzini, sarebbe in pole position Lorenza Lei, attuale vicedirettore, alla quale il Cda potrebbe affidare o l’interim o nominarla alla carica.
Con la nomina Consap si chiuderebbe per Masi il mandato da direttore generale della Rai, iniziato ad aprile 2009 e spesso al centro di polemiche e critiche da parte dell’opposizione.
L’ultimo fatto risale al 23 aprile con l’invio, da parte di Masi, di una lettera di richiamo, in tema di par condicio , a Bianca Berlinguer, direttore del Tg3, e a Mario De Scalzi, direttore ad interim del Tg2, per le trasmissioni Potere di Lucia Annunziata (Tg3), Ballarò (Tg2) di Giovanni Floris e Annozero (Tg2) di Michele Santoro.
In periodo di par condicio infatti i talk show e i programmi di approfondimento sono ricondotti sotto la responsabilità delle testate giornalistiche.
Anche in quest’ultimo caso le reazioni dell’opposizione alla lettera di richiamo sono state dure.
Per il presidente di Viale Mazzini, Paolo Garimberti, sceso in campo dopo le denunce dei consiglieri di opposizione: “Perdere conduttori e trasmissioni di successo sarebbe un errore”.
Al centro di polemiche anche Maria Grazia Siliquini.
Dopo essere confluita in Fli per poi tornare nel Pdl di recente nominata nel Cda delle Poste, la deputata dei Responsabili il 15 aprile ha annunciato in una lettera a Silvio Berlusconi, a Giulio Tremonti e all’ad di Poste Massimo Sarmi, di voler rinunciare alla designazione a componente del Cda di Poste.
“Ringrazio il governo e in particolare il presidente Silvio Berlusconi per l’onore che ha voluto riservarmi con la designazione a componente del consiglio di amministrazione di Poste Italiane», scrive Siliquini.
“Ma – prosegue – in considerazione del delicato momento che vive l’attuale legislatura e delle importanti riforme avviate, comunico di non poter accettare l’incarico, per continuare a svolgere l’attività parlamentare”.
Infatti dopo pochi giorni ecco che accetta la nomina a presidente di Consap, evidentemente più lucrosa di un posto nel Cda alle Poste.
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Aprile 28th, 2011 Riccardo Fucile
PERPLESSITA’ SULLA MORATORIA PERCHE’ NON INDICA UNA RINUNCIA DEFINITIVA AL NUCLEARE…SECONDO MOLTI GIURISTI L’USCITA DEL PREMIER POTREBBE PESARE SULLA CORTE
Berlusconi potrebbe aver parlato troppo presto.
Di più: il bluff svelato dal premier potrebbe influire sulla stessa decisione della Cassazione e salvare il referendum sul nucleare.
Il potere di far saltare un quesito infatti non è nelle mani del parlamento, nè tantomeno del governo, ma di un giudice: l’Ufficio centrale presso la Corte di cassazione. A loro spetta la soluzione del rebus.
Procediamo per tappe.
La sentenza 68 del 1978 della Corte costituzionale è chiara: una nuova legge non provoca l’annullamento automatico di un referendum, ma può impedirne lo svolgimento solo se abbandona “i principi ispiratori della disciplina preesistente” che si vuole abrogare.
Altrimenti il referendum si tiene ugualmente, seppure sulle nuove disposizioni normative.
“In tal modo – spiega Gaetano Azzariti, costituzionalista alla Sapienza – si vuole impedire che un legislatore smaliziato possa modificare solo formalmente una legge, per evitare il pronunciamento popolare”.
Per questo spetta alla Cassazione valutare la nuova normativa alla luce dei quesiti referendari.
Sul caso nucleare, già la formulazione dell’emendamento del governo solleva dei dubbi tra i giuristi, visto che rinviando a “ulteriori evidenze scientifiche” e a futuri “sviluppi tecnologici” non comporta una rinuncia definitiva alla scelta nucleare, che “è invece – sostiene Azzariti – il principio ispiratore dell’iniziativa referendaria”.
Insomma l’emendamento governativo bloccherebbe il piano nucleare,
riservandosi però la possibilità di tornare sulla decisione.
E come possono influire ora le dichiarazioni di Silvio Berlusconi?
“La valutazione della Cassazione – chiarisce Roberto Borrello, costituzionalista a Siena – è strettamente tecnica, ma le parole del presidente del Consiglio esplicitano la intentio legislatoris e possono dare un’indicazione importante al giudice”.
“La Corte – conferma il costituzionalista Massimo Luciani – può decidere di valorizzare proprio l’interpretazione soggettiva fornita ora dal legislatore”.
Sulla stessa linea Azzariti, secondo il quale “la Cassazione può senz’altro avvalersi delle affermazioni di Berlusconi”.
Più cauto Michele Ainis, costituzionalista a Roma Tre: “Le intenzioni del premier non entrano nel giudizio della Corte, ma lo sgambetto a un istituto di democrazia diretta come il referendum è grave sul piano della correttezza costituzionale”. Certo i tempi sono stretti, la Cassazione dovrà attendere che l’emendamento diventi legge dello Stato con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale.
La decisione potrebbe arrivare alla vigilia dei referendum, ma non mancano i precedenti: “Come nella decisione – ricorda Azzariti – relativa al referendum sulla Cassa del Mezzogiorno”.
La Cassazione, spiegano i giuristi, può di decidere anche in 48 ore.
A prescindere dal referendum, il destino del nucleare non è però segnato.
Se la Cassazione blocca i quesiti, il governo può ripristinare quando vuole la norma che dà il via libera al nucleare.
E se si tiene il referendum, si raggiunge il quorum e vincono i Sì?
Secondo la dottrina passati cinque anni o comunque dopo il rinnovo del parlamento la nuova rappresentanza popolare può riproporre le norme abrogate (vedi il finanziamento ai partiti).
Una cosa è certa, se il referendum viene annullato dalla Cassazione e il governo torna al nucleare, la montagna di firme raccolte dai promotori diventano carta straccia e si dovrà ricominciare da capo.
Vladimiro Polchi
(da “La Repubblica“)
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Aprile 28th, 2011 Riccardo Fucile
INTESA, UNICREDIT, MEDIOBANCA E CASSA DEPOSITI PRESI IN CONTROPIEDE: RISORSE INSUFFICIENTI PER RILANCIARE, APPENA 1,5 MILIARDI DISPONIBILI…LA REPLICA DEL VOLO ALITALIA STAVOLTA RESTA A TERRA
La cordata tricolore pronta a scendere in guerra per salvare Parmalat dai francesi rischia di alzare bandiera bianca prima di aver sparato un solo colpo. L’Opa da 3,3 miliardi di Lactalis ha spostato l’asticella a un livello (finanziario) inarrivabile persino per il Ghota del sistema bancario italiano e per l’arsenale in cassa alla Cdp.
Il pressing del governo (“Parmalat non andrà ai francesi!”, pontificava giusto un mese fa Umberto Bossi) è servito a poco: semplicemente – dicono fonti attendibili – non ci sarebbero i soldi per sfidare Parigi a colpi di rilanci in Borsa.
L’ultima travagliata riunione alla vigilia di Pasqua tra Intesa-Sanpaolo, Unicredit, Mediobanca e la Cassa Depositi e prestiti – calcolati i mezzi a disposizione – era arrivata con fatica a ipotizzare un’Opa-bonsai da 1,5 miliardi sul 29,9% di Parmalat, una cifra lontana anni luce dai 5 necessari ora per conquistare Collecchio.
La famiglia Besnier è stata più veloce e più coraggiosa e ora – bontà sua – è pronta al bel gesto: l’offerta di una quota nella società (si parla del 10%) al nascituro Fondo di investimento strategico salva-imprese voluto da Giulio Tremonti.
Condita magari con un pacchetto di regole sulla governance che consenta al governo di salvare (almeno in apparenza) l’onore in Zona Cesarini.
La sconfitta è bruciante anche perchè Roma ha provato a replicare il modello Alitalia mettendo in campo la sua formazione migliore.
Prima Gianni Letta e Giulio Tremonti hanno lavorato ai fianchi Lactalis blindando con il milleproroghe il tesoretto di Parmalat (1,4 miliardi), varando in fretta e furia il decreto salva-imprese e schierando in campo la Cdp.
Poi è scesa in campo IntesaSanPaolo, già deus ex machina dell’operazione salva-Magliana, per mettere assieme una cordata tricolore pronta a scalare Collecchio, un’impresa in cui è stata affiancata – grazie alla moral suasion del Tesoro – da Mediobanca e Unicredit.
L’Invencible Armada tricolore, pero, alla prova dei fatti, si è rivelata una sorta di armata Brancaleone.
I Ferrero, l’asso nella manica “industriale” di Cà de Sass, si sono sfilati subito dalla partita.
Cdp ha bocciato l’ipotesi Granarolo.
In campo sono rimaste solo banche e Cassa depositi.
Ma alla resa dei conti, quando si è trattato di mettere i soldi sul tavolo per contrastare Lactalis, i soldi non sono arrivati: Cdp era pronta a mettere 500 milioni, Intesa 2-300, Unicredit e Mediobanca, tirate un po’ per la giacchetta, qualcosa come un centinaio a testa.
Spiccioli rispetto alla montagna di quattrini cavati dal cilindro (grazie a finanziamenti bancari) dai Besnier.
Che succederà ora?
Qualcuno spera ancora di ribaltare le sorti della partita con un Vietnam giuridico destinato a scoraggiare Parigi.
Ma le aperture ai francesi di Silvio Berlusconi – in cuor suo forse contento della dèbacle di Tremonti – rendono improbabile questo scenario.
Magari la Consob alzerà un po’ di fuoco di sbarramento facendo leva sulla scarsa trasparenza dei conti Lactalis (che non deposita bilanci) mentre Enrico Bondi potrebbe mettere i bastoni tra le ruote azionando i meccanismi del concordato.
Ma ben difficilmente questo basterà a fermare Lactalis che dopo l’Opa – più o meno verso fine giugno – potrebbero alzare il tricolore (ma blu, bianco e rosso) su Collecchio grazie a un’operazione (va detto) trasparente e che alla fine premia tutti gli azionisti.
Il paradosso è che una parte del conto finale per l’operazione che porterà l’ex impero dei Tanzi in mani transalpine lo pagheranno anche gli italiani.
I Besnier hanno stanziato in tutto per la scalata circa 4,5 miliardi.
Quasi un miliardo e mezzo se lo ritroveranno in tasca grazie alla liquidità raccolta con le cause a banche e revisori da Bondi (forse oggi un po’ pentito di non averla spesa in acquisizioni o girata ai soci).
Qualche altro centinaio di milioni lo recupereranno riquotando la società a Piazza Affari dopo l’offerta mentre un assegno (per il 10% della Parmalat potrebbero essere 4-500 milioni) lo incasseranno pure – quasi una beffa – dal Fondo salvaimprese destinato a salvaguardare l’italianità delle aziende tricolori.
Una mission, visti i risultati della partita di Collecchio, quasi impossible.
Ettore Livini
(da “La Repubblica“)
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Aprile 28th, 2011 Riccardo Fucile
IL NUOVO CD DI GEORGE AARON SI CHIAMERA’ “FUTURE AND FREEDOM”…”SCRIVERE L’INNO DEL PARTITO? NE HO PARLATO CON BOCCHINO”
«Future and freedom». Futuro e libertà .
Si chiamerà così l’album in uscita di George Aaron, nome d’arte di Giorgio Aldighieri, pop singer vicentino che furoreggiava negli anni Ottanta quando andavano di moda mascara e ciuffoni biondi e che oggi, pur continuando a cantare, è coordinatore provinciale del circolo berico di Fli.
Di giorno l’impegno politico e le pubbliche relazioni per incrementare il popolo dei finiani, di sera i saltelli e gli acuti sul palco, spesso insieme ai colleghi di un tempo ed amici di oggi Den Harrow, Paul Young e P.Lion.
Così si racconta Aaron (bisnipote del baritono veronese Gottardo Aldighieri), all’attivo 10milioni di dischi nel mondo con singoli come «Somebody» e «She’s a devil».
Politica da una parte, musica dall’altra: quale è l’impegno e quale il divertimento? «Prendo entrambi con la massima serietà . Sono vissuto sempre nella musica, ma sento la voglia di impegnarmi nella società civile, dunque le due cose convivono. Per un artista come me, poi, poter continuare a sognare dentro una forza politica che guarda al domani come Fli, viene assolutamente naturale».
A cosa sta lavorando ora?
« Il mio ultimo singolo «Love will tear us apart» è già disponibile su I-tune: un brano di Joy Division quasi punk che ho voluto rileggere in una versione più moderna. In un primo momento l’ho fatto solo per me, nel mio studio, ma facendolo ascoltare ad altri è piaciuto, dunque sarà inserito nel mio prossimo album. Un album che ho deciso di intitolare proprio «Future and freedom» e che avrà tutte canzoni inedite: scritte, arrangiate e suonate da me. E con atmosfera musicale un po’ alla Duran Duran».
Un album destinato ad essere l’inno di Fli, dunque. Ha mai chiesto al presidente Fini di scrivere la musica del partito?
«Ne ho parlato con Bocchino. D’altra parte, loro sanno che, anche per una convention o qualche appuntamento del partito, io sono disponibile a curare la musica. Fini è un mio estimatore, ha tutti i miei dischi degli anni Ottanta!».
Essere di destra l’ha penalizzata nella sua carriera musicale?
«Sì. Avevo tantissime difficoltà ad entrare in Rai. Detto questo, io ho sempre avuto la fortuna o sfortuna di essere seguito di più all’estero, prima che in Italia, e questo mi ha svincolato dal problema. A Luglio vado in tournèe in Messico, poco tempo fa mi hanno richiamato in Finlandia».
Lei, però, continua con le serate anche nel Belpaese.
«Sì, certo. Ma c’è una percezione diversa, fra Italia ed estero, della musica anni Ottanta: qui il pubblico è legato a quel periodo soprattutto per questione di ricordi, di atmosfera, di malinconia. All’estero, invece, la dance di quegli anni è considerata un genere musicale senza tempo, indipendente dal periodo e dal contesto storico in cui è nato».
E’ rimasto amico di qualche suo collega di quegli anni?
«Certamente. Ho un legame molto forte con Gazebo (un tempo suo «rivale» sul palco) e con Den Harrow. C’era meno competizione negli anni in cui abbiamo debuttato, dunque questo ci ha facilitato i rapporti».
Silvia Maria Dubois
(da “Il Corriere Veneto“)
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