Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
SECONDO I DATI ISTAT LA PERCENTUALE DI GIOVANI CHE LASCINO L’ITALIA E’ PASSATA DALL’11,9% DEL 2002 AL 27,6% DEL 2011
L’Italia non è un Paese per laureati. O almeno, non lo è più.
Lo dice il rapporto Istat sulle migrazioni internazionali e interne della popolazione residente, secondo cui la percentuale di giovani dottori che lasciano il Belpaese è passata dall’11,9 per cento del 2002 al 27,6 per cento del 2011: più del doppio in appena dieci anni.
La meta preferita?
Il Regno Unito che accoglie l’11,9 per cento dei nostri cervelli. In coda Svizzera, Germania e Francia, ma anche mete più distanti come Stati Uniti, Brasile e Australia.
Al contrario, la quota di emigrati con titolo di studio fino alla licenza media è scesa dal 51 al 37,9 per cento.
A fuggire dall’Italia, insomma, sembrerebbero soprattutto i giovani con alte aspettative d’impiego.
Nulla di nuovo, in realtà .
Già negli Anni ’50, si legge nel testo di Goffredo Fofi L’Immigrazione meridionale a Torino (Feltrinelli Editore, 1964), i primi a lasciare il Meridione per le ricche città del Nord furono gli esponenti della piccola-media borghesia: sarti, artigiani, commercianti che potevano permettersi il sogno di una nuova vita.
Ora, in tempi di precariato e disoccupazione giovanile alle stelle, a partire sono sempre i figli della classe media: hanno un titolo di studio elevato, soldi sul conto corrente e, spesso, il sostegno delle famiglie.
Ma che cosa cercano i ragazzi in fuga dall’Italia?
Mariolina Eliantonio, 34 anni di Pescara, ricercatrice e insegnante presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Maastricht, non ha dubbi: lavoro, meritocrazia e senso civico.
«In Italia – spiega in una recente intervista a La Stampa – la carriera universitaria è impossibile, tutti sanno che le selezioni per i dottorati non sono trasparenti. E non parliamo dell’avvocatura, per anni non vedi un soldo. In Olanda, invece, ho trovato rispetto e solidarietà sociale. Qui lo Stato non è percepito come un’entità estranea che chiede tasse e non restituisce. Il senso di comunità è molto forte. Se tornerei indietro? Assolutamente no».
Le statistiche, d’altronde, le danno ragione.
L’Istat rileva che il numero di italiani che, sempre nel periodo 2002/2011, si è iscritto dall’estero nel registro dei residenti è diminuito da oltre 35mila a 22mila unità .
Anche in questo caso, però, risulta in aumento la quota dei laureati (dal 13,7 al 25,9 per cento), mentre diminuisce quella di coloro in possesso di titolo fino alla licenza media (dal 66,7 al 48 per cento).
Ciononostante, nel 2011 il saldo migratorio risulta negativo sia per gli individui in possesso di titolo di studio fino alla licenza media (-5 mila 200) sia per diplomati (-6 mila 300) e laureati(- 4 mila 800): gli italiani che lasciano l’Italia sono sempre in numero maggiore rispetto a quelli che rientrano.
Enrico Caporale
(da “la Stampa“)
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
SU 1.663 SOLO 35 HANNO I CONTI A POSTO, LE ALTRE SONO IN ROVINA
Quanto rendono i beni sequestrati alle mafie? Niente. 
Le aziende che una volta erano dei boss non ce la fanno a sopravvivere.
Le eccezioni sono rare, rarissime.
Una di sicuro è quella di Pontecagnano, sulla litoranea che da Salerno scende verso sud. È un albergo ad ore. Lì, gli affari vanno sempre bene. Come prima.
La “roba” strappata con tanta fatica a Corleonesi e Casalesi non produce quasi mai ricchezza, l’antimafia non riesce ancora a far soldi.
Al contrario genera perdite. Sempre garantite.
Fino a quando è un capo della ‘Ndrangheta a mandare avanti il business tutto va a gonfie vele, quando poi arriva lo Stato le imprese affogano nei debiti.
Un esempio? Il famoso “Cafè de Paris” di via Veneto, a Roma.
Era affollatissimo al tempo degli Alvaro di Sinopoli, a due anni dalla confisca uno dei locali simbolo della Dolce Vita rischia la chiusura.
I numeri raccontano tutto. Su 1.663 società confiscate dal 1982 – anno primo della legislazione antimafia – solo 35 sono in attivo. E per un soffio. Praticamente soltanto il due per cento.
SULL’ORLO DEL FALLIMENTO TOTALE
Troppa burocrazia. Troppa indolenza. Troppo disinteresse.
E troppo il tempo che passa dal sequestro di un bene alla confisca, dalla sua destinazione all’assegnazione definitiva.
Cinque anni, sette, anche nove anni.
Terreni che sono ormai abbandonati. Aziende finite inesorabilmente fuori mercato. Dipendenti a spasso. Con banche che revocano i fidi, assicurazioni che non assicurano più, fornitori che chiedono il rientro immediato dei loro crediti. È il fallimento italiano della (vera) lotta alla mafia. Tutto funziona perfettamente se è nelle mani dei boss, tutto va in rovina se non ci sono loro.
È il crac delle confische, delle ricchezze portate via a uomini della Cupola o del Sistema, ristoranti, fabbriche, impianti minerari, fattorie, allevamenti di polli, supermercati, agriturismi, distributori di benzina, cantine, serre, trattorie, discoteche, residence, ottiche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli.
La punta più alta di confische in Sicilia: 621 le aziende espropriate ai boss. In Campania sono 332. E 216 in quella Lombardia che, da qualche anno, si rivela la prima regione lontana dai tradizionali territori dei clan ad avere ricchezze sporche nel suo ventre.
Cosa si può fare per proteggere questo tesoro e far guadagnare le imprese non più di mafia?
GLI INTERVENTI NECESSARI
«Tre cose», risponde Franco La Torre, presidente di Flare (la rete europea di associazioni contro il crimine organizzato) e figlio di Pio, il deputato del Partito comunista italiano ucciso nell’aprile del 1982 giù a Palermo per la sua grande battaglia per una Sicilia libera dai boss, artefice di quella legislazione antimafia che porta il suo nome e che ancora oggi – dopo trent’anni – resta un esempio in tutto il mondo.
Quali sono le tre cose da fare?
Franco La Torre: «La prima: la presenza di amministratori giudiziari competenti che siano in grado di fare il loro mestiere fino in fondo e di programmare piani a medio e a lungo termine per le aziende confiscate. La seconda: sostenere la legge d’iniziativa popolare – quella che ha lanciato la Cgil – per la tutela di tutti i dipendenti delle aziende sotto confisca e per garantire loro gli stessi diritti di tutti gli altri lavoratori dei settori in crisi. La terza: utilizzare il contante sequestrato e reinvestirlo nelle attività dove si registrano le sofferenze».
LA MAPPA DEI DISASTRI
L’elenco delle aziende che vanno o sono già andate in malora in pochi anni, o addirittura in pochi mesi, è infinito.
C’è una mappa dei disastri da una parte all’altra dell’Italia.
A Palermo c’è l’hotel San Paolo, in via Messina Marine, al confine fra Brancaccio e il porto di Sant’Erasmo, quasi di fronte alla “camera della morte” dove in piena guerra di mafia i boss torturavano i loro nemici di cosca.
Costruito da Giovanni Ienna per conto dei fratelli Graviano (i due, Giuseppe e Filippo, si nascondevano nella suite prima delle stragi del 1992), quest’albergo è famoso per un ascensore esterno di vetro dove i genitori accompagnavano i figli per far vedere Palermo dall’alto e perchè lì, nell’“ambiente” dell’hotel e degli amici dei Graviano – nel 1993 – è stato fondato il primo club di Forza Italia in Sicilia. L’albergo oggi accumula debiti spaventosi.
Una voragine
Stessa sorte per l’azienda agricola Suvignano di Monteroni D’Arbia, in provincia di Siena. I vecchi proprietari erano i costruttori Piazza di Palermo.
Un’estensione di 713 ettari, campi coltivati a grano e a orzo, uliveti, un bosco, 13 case coloniche, un’antica fornace, una villa padronale, un agriturismo, una riserva di caccia, 200 capi di suini e duemila pecore.
In rosso permanente anche gli 80 distributori di benzina sparsi fra il beneventano, l’avellinese, il casertano e il basso Lazio, tutti sequestrati ai Salzillo, quelli del “petrolio della camorra”.
E ancora, tanti altri beni-azienda in perdita totale. La Delfino srl di Gioia Tauro, rottami e rifiuti nel regno dei Piromalli e dei Molè. La Pio Center di Bovalino, un pezzo di sanità calabrese fra Locri e Reggio nelle grinfie dei Nirta.
E poi Villa Santa Teresa di Bagheria, sequestrata all’ingegnere Michele Aiello, il re Mida della Sanità privata in Sicilia, quello che è sospettato di aver fatto da prestanome al vecchio Bernardo Provenzano e che ha contributo a trascinare in un gorgo giudiziario e a Rebibbia il governatore della Sicilia Totò Cuffaro.
Uno dei casi più clamorosi resta sempre quello della Riela Group di Catania, all’epoca della confisca – nel 1999 – la quattordicesima azienda più florida di tutta la Sicilia con un fatturato di 30 milioni di euro.
Quando i titolari erano Lorenzo Riela e suo figlio Francesco (condannato all’ergastolo per omicidio), legati tutti e due ai Santapaola, i dipendenti erano 250. Oggi sono 12.
I Riela hanno provato a riprendersi la loro società di trasporti con vari prestanome. E facevano tutto dal carcere con la complicità di amministratori giudiziari.
Ma come è possibile che una “famiglia” si possa riappropriare del bene che gli è stato sottratto dallo Stato?
IL RUOLO DELLO STATO
«Questa della Riela Group è forse l’esempio più negativo in assoluto», dice Enrico Fontana, presidente di Libera Terra Mediterraneo, il consorzio delle cooperative che gestisce le proprietà agricole confiscate in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia.
E spiega: «Lo Stato ci deve mettere la faccia. Non basta sequestrare e poi gestire burocraticamente un bene, ma quel bene bisogna farlo diventare un buon esempio. La verità è che queste aziende che erano delle mafie non si possono considerare come tutte le altre, è necessario trattarle come aziende speciali. A parte le difficoltà di carattere finanziario – i lavoratori vengono messi in regola, si pagano i contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare al nero – queste imprese operano in contesti estremamente difficili. Dal sequestro in poi l’intervento su ognuna di queste aziende deve essere fatto con grande attenzione al mercato».
Ma come può un amministratore giudiziario nominato da un Tribunale fare impresa come un vero imprenditore?
Il più delle volte la gestione si rivela una sciagura. Di quelle 1663 aziende confiscate in via definitiva dal 1982 quasi la totalità sono destinate alla disfatta, alla liquidazione e alla cancellazione dai registri camerali e tributari. C’è da fare tanto.
Lo Stato deve cambiare marcia. Non serve solo applicare la legge e poi abbandonare le aziende, lasciarle in mezzo ai guai economici, prigioniere degli istituti di credito, sotto ricatto, sotto minaccia della concorrenza della porta accanto, i boss ancora sul mercato.
L’anno scorso Unioncamere e Libera hanno sperimentano un sistema di governance delle aziende confiscate.
Un monitoraggio per capire quali sono le emergenze più immediate e soprattutto capire come intervenire.
La lista degli interventi necessari: istituire strumenti di finanza agevolata e di incentivazione fiscale, introdurre facilitazioni contributive per il mantenimento dei dipendenti, prevedere un welfare per ricollocare i lavoratori in caso di chiusura del-l’attività , sostenere con aiuti la nascita di cooperative, destinare una quota del Fondo nazionale di garanzie per le piccole e medie imprese anche alle associazioni che gestiscono beni confiscati alla criminalità . È proprio tutto nero (e in rosso) il mondo dell’imprenditoria dal passato mafioso?
LE POCHE ESPERIENZE VIRTUOSE
«L’esperienza più virtuosa è quella della Calcestruzzi ericina», ricorda ancora Enrico Fontana mentre racconta «le perfette coincidenze» avvenute una decina e passa di anni fa a Trapani, dopo che avevano sequestrato l’impianto al capo mandamento della provincia Vincenzo Virga. Un prefetto attentissimo (Fulvio Sodano), un amministratore giudiziario molto preparato e appassionato, una cooperativa con soci capaci.
Ne è venuto fuori un piccolo grande miracolo.
Tutto nasce nel 1996 quando al boss tolgono la Calcestruzzi e quattro anni dopo gliela confiscano.
Qualcuno ha provato a boicottarlo l’impianto, la mafia ha provato a riconquistarlo.
Ma poi le cose hanno preso un’altra piega.
Per la prima volta – la vicenda non ha precedenti – l’Unipol ha concesso un mutuo ventennale di 700 mila euro senza garanzie e poi è cominciata l’avventura.
«Noi ci siamo ingranditi, è la prova che se tutti lavorano bene ce la possiamo fare », dice Giacomo Messina, il presidente della nuova Calcestruzzi. Quando era di Vincezo Virga i dipendenti erano 11, dopo tanto tempo e con l’antimafia i dipendenti sono diventati 14. Hanno assunto un ingegnere ambientale, una donna per le pulizie, hanno assunto anche un nuovo autista. E allargato gli uffici. E realizzato un nuovo stabilimento per il recupero degli scarti edilizi. Un piccolo gioiello.
Un’anomalia nel panorama dell’Italia che non vuole arricchirsi con i soldi della mafia.
Come quell’albergo confiscato alla camorra sulla strada che porta verso i templi di Paestum. Una clientela molto particolare. Quasi tutte coppie della zona. Molti impiegati, qualche professionista, ogni tanto si vede anche un pensionato. All’Hotel Mare ci vanno per fare l’amore. Nei dintorni di alberghi così – del genere daily use – ce ne sono almeno una dozzina. Ma l’Hotel Mare è l’unico sequestrato alla camorra. Non ci sono angosce a fine mese.
Sempre in attivo.
Attilio Bolzoni
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
TOTONOMI SUL LISTONE E SI PENSA GIA’ AL DOPO BERSANI… SPUNTA IL NOME DI BARCA PER IL RUOLO DI SEGRETARIO
Non c’è solo il nome di Pietro Grasso tra i giudici che il Pd vuole candidare: dai piani alti filtra anche quello del giudice anti-Gomorra, Raffaele Cantone, cui potrebbe essere proposto di entrare nel listone bloccato insieme a quelle personalità che non vengono sottoposte al vaglio delle primarie che metteranno a confronto 1500 sfidanti in giro per le province tra domani e domenica.
E si registra gran movimento intorno al «listone», un elenco di 120 nomi che verrà reso noto dopo le primarie, dove confluiranno una ventina di capilista, esponenti delle correnti, ma anche una quarantina di persone decise dal segretario.
Che per la scelta di volti nuovi farà tesoro degli incontri riservati in questi mesi con storici, economisti, intellettuali ed esperti di comunicazione.
Tra i nomi «sugli scudi» c’è sempre quello di Fabrizio Barca, ministro della coesione territoriale, molto stimato da Bersani, che ha già provato a coinvolgerlo, senza esito, nella sfida per la conquista del Campidoglio.
Ma che lo ritiene adatto, se non entrerà nel listone come candidato, a ricoprire ruoli di governo o di partito ai più alti livelli.
Non sorprende dunque che, per l’apprezzamento di cui gode Barca anche nel mondo di Sel, comincino a circolare voci di una sua possibile ascesa ai vertici, al punto che c’è chi ritiene sia un nome spendibile perfino per la corsa ad una futura segreteria unificata dei due partiti, Pd-Sel.
Ma è sul problema più impellente ora, quello del «listone», che si concentrano le attenzioni: si vocifera di un corteggiamento ad altri ministri come Balduzzi o Profumo, ma non ci sono conferme a riguardo.
Poi c’è il nodo dei big che hanno ottenuto la deroga al limite dei tre mandati: mentre la Bindi corre in Calabria e la Finocchiaro a Taranto, Franco Marini è esonerato dalle primarie ed entrerà nella quota bloccata, così come, forse, anche Beppe Fioroni e Gianclaudio Bressa.
Sempre nel «listone bloccato» dovrebbero entrare altre personalità come Marco Rossi Doria, sottosegretario del governo Monti, l’ex segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, il politologo Carlo Galli.
E potrebbero trovare spazio anche alcuni parlamentari renziani come gli ambientalisti Realacci, della Seta e Ferrante o l’ex ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni. Di certo ne faranno parte i componenti dello staff di Bersani per le primarie: lo storico Miguel Gotor, la portavoce Alessandra Moretti e Roberto Speranza.
Stesso dicasi per lo staff ristretto di Renzi, Giuliano Da Empoli, Roberto Reggi e Simona Bonafè.
Ma in centinaia si cimenteranno sul campo, a partire dai 200 parlamentari uscenti (un altro centinaio si è ritirato) che se la vedranno con figure popolari, come la ex olimpionica Josefa Idem che corre a Ravenna, o molto radicati sul territorio, come il fratello del sindaco di Bari Alessandro Emiliano.
A Torino gareggia anche l’ex ministro del lavoro Cesare Damiano, che potrebbe avere poi un ruolo da capolista, ma anche Pietro Marcenaro, Fabrizio Morri.
Nel Lazio un affollamento di parlamentari, da Marianna Madia a Stefano Fassina da Roberto Morassut a Matteo Orfini, da Walter Tocci a Vincenzo Vita e due renziani, Giachetti e Lorenza Bonaccorsi.
In Abruzzo si candida la ex presidente della Provincia aquilana, Stefania Pezzopane, a Reggio Calabria la Bindi è in lista con altri sei candidati, a Bologna corre il renziano Salvatore Vassallo, la ex portavoce di Prodi, Sandra Zampa e un’altra dozzina di candidati tra cui il presidente dei famigliari delle vittime dell’attentato dell’80, Paolo Bolognesi.
Fatte le primarie, delle liste si parlerà il 3 gennaio quando si dovrà procedere alle compensazioni con le correnti, prima della Direzione dell’8 gennaio chiamata a mettere il timbro sulle candidature.
Carlo Bertini
(da “La Stampa“)
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
SUFFICIENTI 30.000 FIRME PER PRESENTARE UNA LISTA ELETTORALE TRA QUELLE NON RAPPRESENTATE IN PARLAMENTO…ULTERIORE SCONTO DEL 60% PER I PARTITI COSTITUITI IN GRUPPO ALLA DATA ODIERNA IN UNA DELLE DUE CAMERE
Il Senato approva il decreto taglia firme, che diventa legge. 
Con l’approvazione del testo si riduce del 75% il numero delle firme necessarie ai partiti non presenti in Parlamento per presentare le liste elettorali.
Dopo la verifica del numero legale, su richiesta della Lega, il presidente del Senato Renato Schifani ha dato inizio alla votazione del provvedimento.
La norma, approvata dall’aula per alzata di mano (con l’astensione della Lega) riduce le firme necessarie per la presentazione delle liste alle prossime elezioni politiche per movimenti e partiti non presenti in Parlamento.
Basteranno quindi trentamila firme per la presentazione di una lista elettorale di una nuova forza politica.
Inoltre, una ulteriore riduzione del 60% è prevista per i partiti che — alla data di entrata in vigore del decreto — sono costituiti in gruppo parlamentare almeno in una delle Camere, come ad esempio l’Udc.
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
IL SONDAGGIO DEL SETTIMANALE “STERN”: MAI COSI’ IN ALTO DAL 2006… L’SPD FERMA AL 27%, CALANO VERDI, LIBERALI E PIRATEN
Impennata record della Cdu/Csu di Angela Merkel, che schizza con un balzo di tre punti al 41%, il valore più alto registrato dal marzo 2006.
Lo rivela un sondaggio del settimanale «Stern», dal quale emerge che la Spd del suo sfidante Peer Steibrueck continua a rimanere bloccata al 27%, con i Verdi in calo di un punto al 13% e con la Linke ferma all’8%.
Sempre precarie le prospettive del partito liberale, che con il 4% attuale non rientrerebbe al Bundestag dopo le elezioni per la Cancelleria del settembre 2013.
Ancora peggio vanno le cose per i Piraten, che con il 3% vedono allontanarsi sempre di più la possibilità di una rappresentanza nel parlamento nazionale, dopo essere riusciti quest’anno a farsi eleggere in tre parlamenti regionali.
Se il quadro attuale venisse confermato dal voto tra 9 mesi, l’unica opzione di governo possibile a Berlino sarebbe una riedizione della Grosse Koalition tra Cdu/Csu e Spd sotto la guida della Merkel.
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