Marzo 2nd, 2016 Riccardo Fucile
RIZZI A LONGO: “CACCIABALLE”… NIENTE TELEFONATE, USAVANO TELEGRAM
«Longo? È uno che amplifica sempre tutto per farsi grande, è un cacciaballe anche nel millantare amicizie e poteri».
Fabio Rizzi, l’ex presidente della commissione sanità della Regione, parla così davanti al gip Rosaria Pastore.
L’interrogatorio di garanzia si tiene nel carcere di Monza, il consigliere leghista scarica il portaborse ma non rinnega «l’amicizia pluriventennale».
Ma Mario Longo, davanti al giudice, non ci sta ad essere dipinto come un millantatore: «Quando io parlo di Rizzi era perchè mi occupavo di odontoiatria per suo conto. Cito Rizzi perchè la politica decide».
I fondi per le elezioni
Nelle due ore davanti al magistrato Rizzi respinge le accuse, dice che l’imprenditrice Paola Canegrati «non ha bisogno di me per vincere gli appalti», aggiunge che lady sorriso «si muove in totale autonomia».
Ma conferma agli investigatori che la donna ha finanziato la sua campagna elettorale: «La conosco da quando sono stato in Senato nel 2011. L’ho incontrata per la prima volta a Torino quando Longo mi chiese un appuntamento con l’assessore della Regione Piemonte di allora. Lì ho conosciuto la Canegrati. Voleva sponsorizzare una parte della mia campagna elettorale. Comprai dei gadget per la mia campagna e per questi oggetti fu emessa fattura. Ma non la incontrai per stabilire alcunchè sulle sua partecipazioni agli appalti».
La tangente e il debito
I magistrati della Procura di Monza contestano a Rizzi e Longo una tangente da 50 mila euro pagata dalla Canegrati e transitata sui conti del faccendiere Stefano Lorusso (ieri l’ok del brooker all’estradizione).
Per l’accusa questo è uno dei punti fondamentali dell’indagine. Il portaborse giustifica il pagamento come «un contributo per degli eventi», anche se dice di non ricordare con precisione: «Ma ribadisco che i rapporti con la Canegrati erano solo per l’attività privata, senza percepire alcuna somma».
Longo racconta anche di aver affrontato «problemi economici per motivi familiari» e che la manager «mi aveva prestato dei soldi, ma nulla a che vedere con gli appalti, erano solo 7 mila euro».
Diversa e in contraddizione, invece, la linea di difesa davanti al magistrato dell’ex presidente Rizzi: «I 50 mila euro? Parte di questi soldi sono andati a me, ma non per la tangente: solo perchè avevo prestato dei soldi a Longo per i nostri rapporti in comune per la società “Lorimed”. Quella che sembra una tangente era solo una restituzione di un debito che Mario aveva da tempo con me».
Riforma? Niente soldi
Il leghista Rizzi dice di aver sbagliato «a non controllare i miei collaboratori, anzi i miei amici». Aggiunge, piangendo davanti al magistrato, di avere mai rubato un euro: «Nego di aver preso tangenti, dalla politica non ho mai preso una lira, anzi forse ci ho solo rimesso. Dalla riforma della Sanità non ho preso un euro. Non credo più nella politica, volevo uscirne».
Davanti al giudice Emanuela Corbetta compare la compagna di Longo, Silvia Bonfiglio. «La manager Canegrati – dice l’indagata – si era offerta di aiutare Mario per la lunga amicizia che la legava anche con suo papà : il loro rapporto non lo ritenevo “istituzionale”».
La donna nega di aver avuto un ruolo da “agent” nella società offshore More Than Lux: «Non parlo inglese, quindi non sarei capace di gestire una società estera».
La compagna di Rizzi, Lorena Pagani, racconta invece dei franchi trovati nel congelatore: «Erano il mio stipendio, avrei dovuto versarli in banca. Gli altri soldi? Dovevo restituire un prestito a Mario».
La fuga di notizie
All’affarista Sandro Pignataro viene chiesto conto delle accortezze della «cricca» per evitare le intercettazioni: «Longo aveva paura di essere intercettato e lo diceva chiaramente. Voleva che le conversazioni avvenissero tramite Telegram (un servizio di messaggistica, ndr)».
Poi parla del ruolo di Donato Castiglioni: «Era il tuttofare della Lega nel Varesotto. Sosteneva di poter essere informato sui bandi, sulle relazioni, sull’andamento». Mentre i carabinieri hanno effettuato nuovi sequestri di documenti al Pirellone, spunta un’inchiesta bis sulle fughe di notizie e sui presunti contanti della cricca con gli «007».
Longo, intercettato, aveva detto di «avere letto con largo anticipo le intercettazioni» (probabilmente dell’inchiesta su Mantovani) grazie ai «Servizi segreti».
Mentre la segretaria di Rizzi aveva avuto informazioni «dalla Procura».
Federico Berni e Cesare Giuzzi
(da “Il Corriere della Sera”)
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Marzo 2nd, 2016 Riccardo Fucile
IL GESTORE DELLA BUVETTE HA STABILITO REGOLE SEVERE MA NON TUTTI I DEPUTATI L’HANNO PRESA BENE
Buvette, mezzogiorno di fuoco. 
Entra Maurizio Lupi, sorridente. “Una spremuta e un tramezzino, per favore”. “Emh, presidente, mi scusi… dovrebbe prima fare lo scontrino”.
La temperatura cala vertiginosamente, un attimo e l’ex ministro esplode: “Ma siete impazziti? Ma io consumo e poi pago, come in tutti i bar del mondo!”.
Benvenuti a Montecitorio, dove da lunedì scorso infuria la guerra degli scontrini, una caccia senza quartiere agli “scrocconi”.
Un autentico corpo a corpo tra avventori e dipendenti. La scintilla? Una stringente direttiva diramata dalla società Compass group che gestisce il bar dei deputati.
Tutto ha inizio qualche settimana fa. I vertici della spa sono in visita a Montecitorio. Si imbattono in qualche movimento un po’ sospetto: un onorevole che “dimentica” lo scontrino, qualche avventore distratto che forse paga, forse no.
“Eh già – fa dell’autoironia il verdiniano Luca D’Alessandro – saranno stati i soliti di Ala, ahahahah”.
C’è poco da ridere, la contromossa della Compass è racchiusa in una lettera ai dipendenti che recita più o meno così: “Senza ricevuta non fate consumare nessuno”. E se i camerieri disattendono l’ordine? Sanzioni disciplinari.
E siamo a lunedì. Dario Franceschini chiede un cornetto alla crema. “Ministro, mi perdoni, servirebbe lo scontrino”. La risposta è uno sguardo affilato e silente. Incidente sfiorato.
Il copione si ripete ieri.
I lavori d’Aula sono fiacchi, c’è tempo per un caffè. Entra la dem Alessia Morani. Ha voglia di una macedonia. “Quella va benissimo, grazie”. Ma viene respinta. “Mi scusi! Faccio subito lo scontrino”.
Qualche secondo e si affaccia il montiano Mariano Rabino. Quasi pattina sui marmi della buvette, dice al volo alla cassiera: “Mi segni una banana…”.
Si può fare, in questo caso non serve la ricevuta. C’è chi la prende bene, come la democratica Colomba Mongiello. “Mi hanno richiamata, sì. E vabbè, pure per questo dobbiamo passare alla storia!”. La consola Dario Ginefra: “Ah Colo’, e vorrà dire che c’è qualcuno che fa il furbo…”.
Non tutti la prendono con filosofia. Non Lupi, che si riaffaccia per il tè delle cinque. Forse scherza, forse no.
Comunque si catapulta al bancone. “Cavolo, non ho fatto lo scontrino! Questo signor Compass mi ha veramente rotto i c… Che follia, ne parlerò con i questori. E quando c’è confusione che facciamo, una fila chilometrica alla cassa?”.
La Compass, a dire il vero, ha pensato anche a questo. Due casse, quando è previsto il pienone. E se qualcuno protesta, entrano in campo i “sensibilizzatori” della Camera, i dipendenti di Montecitorio rimasti alla buvette come garanti dello standard del servizio.
Sono loro, in abiti borghesi, a intervenire quando un deputato dà in escandescenze: “Onorevole, sono le nuove disposizioni, cerchiamo tutti di collaborare”.
La copertura politica all’operazione arriva dai piani alti di Montecitorio: “Non vedo la novità – dice il questore Gregorio Fontana (FI) – lo scontrino è obbligatorio da tempo. Funziona così in qualsiasi esercizio pubblico. E sarebbe spiacevole se qualcuno si scagliasse contro i dipendenti. Capisco la fretta, ma basta un pizzico di collaborazione”.
Dietro al pasticcio, come al solito, ci sono i conti. Quelli della società non tornano: sulla base dei bilanci della Camera degli anni precedenti, la Compass prevedeva di incassare mezzo milione di euro l’anno, mentre le proiezioni indicano un calo del 30% e un “buco” di centomila euro. Nessuno si spiega perchè.
E in questo vuoto interpretativo si incunea l’antipolitica, che stavolta veste i panni anonimi del commesso di lungo corso: “So’ cambiati i tempi: zero sedute notturne, lavori dal martedì al giovedì. Per il resto qua è il deserto…”.
L’ultima parola spetta però a Pasquale Laurito. Con la sua Velina Rossa denuncia “le guardie “naziste”” che vigilano sugli scontrini.
Esagera, perchè è dai tempi della presidenza di Gianfranco Fini che sul bancone spicca una targhetta: “Per favore, prima lo scontrino”.
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica“)
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Marzo 2nd, 2016 Riccardo Fucile
APPELLO DI CRUZ PER UN FRONTE ANTI-TRUMP, MA RUBIO NON VUOLE DESISTERE
Il Super Tuesday consegna un risultato limpido: sono Hillary Clinton e Donald Trump i due front-runner nella corsa alla Casa Bianca.
Tra i democratici l’ex first lady conferma il dominio negli Stati del Sud, ma non cancella le speranze del rivale Bernie Sanders, che prevale in quattro Stati e mantiene un solido appeal nei confronti dell’elettorato.
Sul fronte repubblicano il magnate travolge i rivali in quasi tutte le contese: esce con le ossa a pezzi Marco Rubio, terzo in quasi tutti gli Stati, mentre Ted Cruz può consolarsi con le vittorie in due Stati importanti: Texas e Oklahoma.
I risultati Stato per Stato.
Il Super Tuesday metteva in palio 595 delegati per i repubblicani, quasi la metà dei 1.237 necessari per la nomination. Ce n’erano 865 per i democratici, più di un terzo del ‘numero magico’ di 2.383 necessario per aggiudicarsi la candidatura.
Sul fronte democratico Hillary Clinton ha vinto in sette Stati (Georgia, Virginia, Arkansas, Alabama, Tennessee, Texas e Massachusetts), mentre Bernie Sanders prevale in 4 Stati (Vermont, Oklahoma, Minnesota e Colorado).
Tra i repubblicani, Donald Trump prevale in sette Stati (Georgia, Virginia, Arkansas, Alabama, Tennessee, Massachusetts e Vermont), lasciando la vittoria a Ted Cruz in 2 Stati (Texas e Oklahoma) e a Marco Rubio in uno Stato (Minnesota).
L’incubo per il partito repubblicano è sempre più reale: il successo di Donald Trump al Super Tuesday posiziona il magnate newyorkese in un vantaggio assoluto rispetto ai suoi deboli avversari.
The Donald non è più un monito, una minaccia, una protesta: è a tutti gli effetti il front-runner del Grand Old Party, il personaggio impresentabile eppure maledettamente reale che oggi inchioda il partito ai suoi fallimenti, e l’America al suo declino culturale.
A meno di sorprese ormai improbabili — tipo la candidatura di Michael Bloomberg come indipendente — e mosse tardive ma decise dell’establishment repubblicano, sarà Trump a sfidare il candidato democratico — Hillary Clinton, con tutta probabilità – nelle elezioni dell’8 novembre.
Ted Cruz non intende mollare e si candida come unico anti-Trump: “Quanto più a lungo rimane diviso il campo repubblicano, tanto più probabile è la nomination di Donald Trump. La nostra campagna è l’unica che ha battuto, può battere e batterà Trump”.
Cruz ha quindi lanciato un appello all’unità e rivolgendosi al partito repubblicano e agli elettori ha detto: “Da domani c’è una scelta”.
Appello che però non viene raccolto da Marco Rubio, il quale minimizza in tv il suo flop nel Super Tuesday sottolineando di aver vinto abbastanza delegati per rimanere in corsa nella maratona per la Casa Bianca e promettendo di rifarsi nelle prossime tappe, a partire dalla sua Florida a metà marzo.
Neanche Ben Carson ha intenzione di lasciare la contesa, malgrado non abbia più speranze di vittoria: “La posta in gioco – ha detto – è troppo alta… credo seriamente nell’America e nella possibilità di poter tornare ai valori fondanti del Paese”.
Sia Cruz sia Trump hanno lanciato messaggi fondati sull’unità ma per motivi diversi. Il primo ha invitato rivali del GoP in corsa per la Casa Bianca ed elettori a unire le forze per fermare l’avversario numero uno; il secondo si è presentato come un “unificatore e quando il partito repubblicano è unito nessuno ci batterà “.
Mentre restano le divisioni, tuttavia, a rivendicare il ruolo di “unificatore del partito” è proprio l’uragano Donald.
“Io sono un riunificatore: quando avremo finito le primarie, andrò contro una sola persona, e questa sarà Hillary Clinton”. Così Trump ha promesso, nella notte del Super Tuesday, che una volta vinta la nomination si impegnerà per riunificare il partito repubblicano.
Un messaggio rivolto all’establishment del Grand Old Party che oscilla tra il sentimento di panico e la rivolta all’idea che il miliardario newyorkese diventi il proprio candidato alla Casa Bianca.
Per i vertici repubblicani, insomma, la beffa è doppia: oltre a digerire la forza di Trump, ora devono anche ascoltare le sue lezioni su come unificare e rilanciare il partito.
Eppure, come spiegano diversi commentatori, The Donald non è che lo specchio di tutti gli errori e le debolezze che da decenni segnano il percorso del Grand Old Party. Per Robert Kagan, Trump è un “Frankenstein del GoP, il mostruoso risultato dell’ostruzionismo selvaggio condotto dal partito, della sua demonizzazione delle istituzioni politiche, del suo flirtare con l’intolleranza e il fanatismo e della sua “sindrome da squilibrio mentale venata di razzismo” sul presidente Obama.
L’idea è che l’esercito di arrabbiati che supporta Trump non sia arrabbiato ‘soltanto’ per la stagnazione dei salari, ma per tutto ciò che i repubblicani hanno additato come motivo di rabbia negli ultimi sette anni.
Secondo Martin Wolf, editorialista del Financial Times, c’è di più: i repubblicani stanno pagando gli errori fatti decenni addietro, dall’impeachment del presidente Clinton negli anni Novanta alla risposta opportunistica del partito al movimento per i diritti civili negli anni Sessanta.
Trump, secondo Wolf, è il frutto del matrimonio tra plutocrazia e populismo di destra. Il fenomeno Trump – scrive ancora Wolf – non riguarda solo la storia di un partito, ma di un intero Paese e anche del mondo: “Quando crearono la repubblica americana, i padri fondatori erano consapevoli dell’esempio di Roma. Nei Federalist Papers Alexander Hamilton scriveva che la nuova repubblica avrebbe avuto bisogno di un ‘leader energico’. E notava che la stessa Roma, malgrado l’attenta duplicazione dei magistrati, dipendeva nel momento del bisogno dal potere assoluto, sebbene temporaneo, di un uomo chiamato ‘dittatore'”. Sperabilmente Trump non diventerà il ‘dittatore’ d’America, ma l’èlite repubblicana farebbe bene a farsi le domande più scomode e trovare possibili soluzioni. E gli americani, come popolo, dovrebbero iniziare a chiedersi che tipo di essere umano vogliono mettere alla Casa Bianca. La scelta – conclude Wolf – avrà implicazioni profonde non solo per gli Usa, ma per tutto il mondo.
(da “Huffingtonpost“)
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