Giugno 11th, 2017 Riccardo Fucile
COME PREVISTO, GRILLO RIESCE A SFASCIARE IL M5S E DARE UNA MANO AL LEGHISTA BUCCI… CRIVELLO (PD) VA AL BALLOTTAGGIO CON IL CENTRODESTRA
Lasciamo perdere la tradizione di sinistra di Genova, acqua passata.
Per ragionare sul risultato previsto dai primi exit-poll bisogna partire dal dato più recente, quello relativo a due anni fa alle regionali.
Nella città di Genova i risultati erano i seguenti: M5S 27,6% (la candidata a governatrice Alice Salvatore superò il 29%).
Ora Pirondini è dato appena sotto il 20%.
Centrodestra due anni fa: Lega 16,7%, Forza Italia 10,1%, Fdi 3%, Lista Musso 3%, AP 0,9% per un totale intorno al 34%
Ora Bucci è dato tra il 32% e il 36%, quindi nulla di nuovo, risultato confermato.
Centrosinistra due anni fa: Pd 24,8%, altri di sinistra 2,8%, altra di sinistra 4,6 per un totale intorno al 32%.
Ora Crivello è dato tra il 32% e il 36%, diciamo leggero incremento.
C’era poi Sinistra Italiana al 4%, oggi appoggia l’ex grillino Putti, accreditato di un 3-4%%. L’altra ex Cinquestelle Cassimatis è data intorno all’ 1-2%
Considerazioni finali (se i risultati fossero confermati):
Il dato più eviente è il crollo del M5S che avrebbe perso un 9%, menre centodestra e centrosinistra sono più o meno stabili e appaiati.
Ago della bilancia saranno al ballottaggio gli elettori grillini (ovvero il 20% di Pirondini) e il 4-5% che ha votato a sinistra del Pd, ovvero per Putti o per l’ex Cassimatis.
Si conferma la nostra tesi: Grillo è riuscito nell’impresa di perdere a Genova in un contesto favorevole, spaccando il Movimento, semplicemente perchè non voleva vincere.
A questo punto manca la ciliegina finale: l’aiutino a Bucci nelle ultime due settimane, come da strategia nazionale.
E vedrete che non mancherà .
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Giugno 11th, 2017 Riccardo Fucile
TRA PESCHERECCI SEQUESTRATI DA GRUPPI ARMATI, SPARI AI NATANTI ITALIANI E FALSE ACCUSE ALLE ONG… E QUALCHE CAZZARO DI SEDICENTE DESTRA INNEGGIA A QUESTA ASSOCIAZIONE A DELINQUERE
Libia e Italia divise da un tratto di mare fuori controllo, tra polemiche contro le navi delle organizzazioni non governative e spari in mare delle motovedette libiche contro i natanti italiani, nonostante la formazione offerta dal nostro Paese.
L’ultima accusa contro di loro arriva dalla Guardia costiera del paese nordafricano, dopo il naufragio di un gommone con a bordo 130 persone. 80 sono state salvate, le altre tutte inghiottite dal mare.
La guardia costiera libica spiega che sono state intercettate “chiamate dalle navi delle organizzazioni non governative, sembrava aspettassero barconi. Le abbiamo fatte uscire dalle nostre acque”.
Ma se si leggere il comunicato (a differenza di certi cazzari rassisti nostrani) non si dice che le telefonate erano tra Ong e natanti, ma tra Ong.
“Sembrava aspettassero barconi” non vuol dire nulla, visto che è il motivo per cui sono lì. Da cui la forte smentita di Medici senza Frontiere: “agiamo solo su imput della Guardia costiera italiana”.
Un episodio che segue quello del 24 maggio, quando una motovedetta italiana della Guardia Costiera, la CP 288, è bersaglio di alcune raffiche di arma da fuoco da parte di una motovedetta della Guardia costiera libica a 13 miglia dalla costa libica.
E oggi il pericolo è per autorità , migranti, pescatori.
L’ultima raffica di mitra contro i pescatori si è registrata in gennaio, ma la paura ha spinto tantissimi pescatori a spostarsi dalle coste siciliane fino alla Grecia, al Mediterraneo Orientale.
Gli attori in gioco sono moltissimi.
Solo sotto il governo di Serraj ci sono due Guardie costiere: una più vicina al ministero della Difesa e un’altra più vicina al ministero dell’Interno, con la quale l’Italia — ricostruiscono diversi analisti — avrebbe rapporti più stretti.
C’è poi il governo di Tobruk, sotto il controllo del generale Haftar, che tiene in scacco lo spicchio di mare a est di Bengasi.
Il 14 maggio a 25 miglia dalla costa libica, di fronte a Derna, quindi in piene acque internazionali, il peschereccio Primo Ghibli, appartenente al distretto di Mazara del Vallo, è stato sequestrato dalle milizie.
Tenuto in ostaggio per due giorni al porto di Ras al Hilal è stato successivamente rilasciato, su pagamento di una “multa”.
“Almeno in questo caso sapevamo che chi ha sequestrato l’imbarcazione era vicino al generale Haftar che è un interlocutore — spiega Giovanni Tumbiolo, presidente del Distretto della Pesca e Crescita Blu — In altri casi si è trattato di cani sciolti”.
È andata peggio, infatti, al peschereccio Daniela L., imbarcazione del Distretto di Mazara definitivamente confiscata nel 2012.
All’epoca anche fu fermata la Giulia PG, altro peschereccio mazarese. Ancora non è chiaro quale gruppo abbia inizialmente abbordato il peschereccio.
Un altro incidente, nel gennaio di quest’anno, ha interessato tre pescherecci sempre del Distretto siciliano; tra essi il motopesca Principessa Prima ha subito un attacco armato a colpi di mitraglia. “Subito dopo il fatto sia il governo di Tripoli che quello di Tobruk — ricorda Tumbiolo — hanno dichiarato in modo identico il tentativo di attacco, la nave era accusata di pescare in una zona interdetta”.
Dal 2005, infatti, Gheddafi ha rivendicato una zona di pesca esclusiva: 62 miglia oltre le 12 canoniche che delimitano le acque territoriali di un Paese.
Secondo tutte le autorità libiche, ufficiali e non, quello specchio di mare sarebbe di loro appannaggio esclusivo.
E questo accade nonostante nessuna autorità frontaliera o internazionale abbia mai riconosciuto la zona protetta.
Con la caduta di Gheddafi, andare per mare è diventato più pericoloso. La frammentazione che c’è ora ha peggiorato ulteriormente la situazione:
“L’unica strada percorribile — spiega Tumbiolo — è la collaborazione attraverso l’istituto delle joint venture con il coinvolgimento degli attori storici, cioè i pescatori di Mazara del Vallo, gli unici che esercitano, nelle acque internazionali antistanti la Libia, da sempre, la pesca al gambero rosso. Il fine è quello di evitare i sequestri e, soprattutto, i colpi di mitra ai nostri pescatori”.
Non è la prima volta che l’Italia cerca di costruire una partnership insieme alla Libia. Il tentativo più ambizioso è stato il Trattato di amicizia Italia-Libia, siglato nel 2008 dal rais Muhammar Gheddafi insieme a Silvio Berlusconi.
Poi, tra il 2012 e il 2014, c’è stato un accordo bilaterale per fornire nuovi mezzi e formazione ai libici, sempre con l’intento di costruire forze dell’ordine affidabili
“Il governo di unità nazionale all’epoca aveva cercato di costituire un nuovo esercito — spiega il ricercatore dell’Ispi Arturo Varvellli -. Le milizie però sono state assimilate al ministero della Difesa e dell’Interno non come individui singoli ma come brigate. Non si forma così un esercito”.
Infatti le milizie avevano una “doppia affiliazione”: da un lato alla nascente forza nazionale, dall’altro al signore delle guerra a capo di una milizia.
Questa seconda affiliazione ha avuto la meglio sulla prima.
In particolare a Tripoli, sono diversi i gruppi che hanno fatto cartello intorno a Serraj. Ognuno controlla un pezzo di territorio oppure svolgono compiti da polizia speciale, qualcuno anche con l’obiettivo di fermare i migranti.
Ci sono le milizie di Abdul Ghani Al-Kikli, protagoniste di diversi conflitti a fuoco a febbraio. Le Brigate Nawasi, salafite ma di una corrente rivale ai Fratelli Musulmani, sono invece particolarmente attive nel combattere chi traffica droga e chi beve alcol. La polizia Rada, sotto il comando di Abdel Rauf Kara, controlla invece la zona dell’aeroporto di Mitiga.
Fuori dalla capitale il caos è a volte persino peggiore, come a Misurata, dove nessuna milizia locale ha preso il sopravvento.
A Sabratha, invece, Varvelli cita altri gruppi che si starebbero arricchendo grazie al traffico di esseri umani.
Ad al Zawiya, ormai da tempo, è emerso un trafficante su tutti. In Libia lo conoscono come al Bija e oggi è il referente della Guardia Libica in città .
Lo accusano di aver sequestrato navi ai pescatori tunisini e di essere parte del traffico di esseri umani. “L’importante per l’Italia in questo momento è dialogare non solo con una milizia se si vuole formare un’autorità nazionale forte — aggiunge Varvelli -. Il processo sarà certamente molto lungo”.
“La vera domanda a questo punto è se le Guardie costiera rispondono agli ordini dell’autorità nazionale”, si chiede Claudia Gazzini senior analyst sulla Libia per l’International crisis group.
Gli indizi che ha raccolto sul campo circa un mese fa non sono beneauguranti: “A Zuwara ho chiesto a un ufficiale della Guardia costiera se rispondeva agli ordini del governo centrale a Tripoli. Per tutta risposta si è messo a ridere”.
Il progetto italiano lanciato da Minniti in Libia non si ferma nemmeno alla costa. Vuole mettere ordine anche al caos che regna nel Sud, con l’obiettivo di impedire che nuovi migranti subsahariani possano entrare nel Paese.
Si iscrive dentro questa strategia anche l’accordo che il ministro dell’Interno Marco Minniti ha stretto con alcune tribù del Sud della Libia: tebu, touareg e gli Awlad Suleiman.
“Ho i miei dubbi che questa strategia possa funzionare. L’autorità del governo centrale si ferma a Sebha. Oltre si passa di volta in volta sotto l’autorità di milizie autonome”, commenta Gazzini.
Per di più, al Sud come sulla costa, i traffici illeciti sono diventati l’ossatura fondamentale dell’economia libica. Difficile che possa essere riconosciuta l’autorità che vuole eliminare la principale fonte di sostentamento della regione. Ovunque nel Paese.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 11th, 2017 Riccardo Fucile
VOGLIONO TESTIMONIARE IL RIFIUTO ALLE LOGICHE DELL’ODIO E DEL RAZZISMO… “UN MESSAGGIO DI GRANDE VALORE: L’ACCOGLIENZA NASCE DAL CUORE, DAL SENTIRSI INSIEME AGLI ALTRI IN QUALSIASI MOMENTO DELLA VITA”
Hanno invitato al loro matrimonio gli immigrati di Napoli, per testimoniare il rifiuto delle logiche dell’odio, della separazione e del razzismo.
Protagonisti dell’iniziativa, la prima del genere a Napoli, due giovani sposi.
Lei, 23 anni, si chiama Nunzia Ricigliano ed è estetista. Lui, che di anni ne ha 27, si chiama Marco d’Avanzo e lavora come spedizioniere, dopo aver perso il posto ad Edenlandia, dove ha conosciuto la futura sposa.
La cerimonia è fissata per domani alle 12 nella Chiesa del Santissimo Crocifisso e Santa Rita, in via Scipione Rovito 25, nella zona dell’Arenaccia.
Con i parenti e gli amici della coppia ci saranno senegalesi, ivoriani, nordafricani, bengalesi.
Musulmani e cattolici accomunati dalla voglia di porgere gli auguri ai due ragazzi e di dare un segnale concreto di dialogo ed umanità .
«L’idea – racconta la futura sposa – è venuta a mio padre, che lavora come ambulante nella zona di Piazza Garibaldi. Conosce tanti ragazzi, prevalentemente africani, che vendono lì la propria mercanzia. Sa bene quanto dura sia la loro vita e quanti sacrifici sopportino. Mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto che partecipassero alle nozze anche loro ed ho detto sì».
L’iniziativa poi si è allargata ed è cresciuta, perchè il papà di Nunzia, che si chiama Antonio, è anche un’attivista dell’associazione «3Febbraio», che da tempo in città sostiene i migranti nelle loro rivendicazioni e si sforza di garantire loro un sostegno, anche per affrontare le molteplici difficoltà che la burocrazia frappone agli stranieri che vivono in città , specie a quelli che non hanno i documenti in regola.
«Gianluca Petruzzo, Pierluigi Umbriano ed altri attivisti dell’associazione – prosegue Nunzia nel suo racconto – hanno contattato altri migranti ed hanno chiesto loro di partecipare al matrimonio. Non so quanti di essi, effettivamente, saranno in chiesa con noi domani mattina. Spero che possano essere davvero tanti, perchè sarebbe il più bel regalo di matrimonio che mio marito ed io riceveremo».
Auguri agli sposi in più lingue e religione, dunque.
Con la benedizione del sacerdote e con quella – laica – degli attivisti dell’associazione «3Febbraio», che commentano: «Persone come Nunzia e Marco, le quali si ricordano dei nostri fratelli e sorelle immigrati anche nel momento della loro gioia più personale, ci incoraggiano e lanciano un messaggio di grande valore. Non cambieranno così le sorti del mondo, ma in questo modo danno un esempio che la prima accoglienza nasce dal cuore, nasce dall’umanità e dal sentirsi sempre insieme agli altri in qualunque momento della vita».
(da “Il Corriere della Sera”)
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Giugno 11th, 2017 Riccardo Fucile
“IL NUOVO GOVERNO NON HA FUTURO”… CORBYN PREVEDE NUOVE ELEZIONI
Theresa May è una ‘dead woman walking’, ‘un morto che cammina’.
La definzione è di George Osborne, ex ministro delle Finanze conservatore, durante una intervista televisiva.
L’ex Cancelliere dello Scacchiere Tory ha anche commentato le indiscrezioni pubblicate dal Mail on Sunday secondo cui il ministro degli Esteri sarebbe pronto a sostituire la May a Downing street e ha detto che Johnson “sta facendo da anni una campagna elettorale permanente. Non sono sicuro che quella del Mail on Sunday sia una notizia”, ha aggiunto.
Osborne è scettico anche sulla tenuta dell’accordo che May si appresta a siglare con gli unionisti nord irlandesi del Dup, i quali vorranno negoziare ogni misura con i conservatori e terranno il governo sulla corda.
Caos e incertezze sulla tenuta del nuovo governo potrebbe presto portare a nuove elezioni anticipate entro quest’anno o nei primi mesi del 2018.
A sostenerlo il leader laburista Jeremy Corbyn, per il quale l’ipotesi è “alquanto possibile”.
Non si può andare avanti così, ha affermato Corbyn intervistato da Andrew Marr sulla Bbc. L’annunciata alleanza tra Conservatori e Unionisti Democatici irlandesi è per Corbyn una “coalizione del caos” e per questo il Labour “è pronto e in grado di formare un governo”.
Sondaggio anti May.
La maggioranza dei britannici vuole le dimissioni della premier Theresa May. E’ quanto emerge da un sondaggio di YouGov per il Sunday Times, secondo cui il 48% degli intervistati è in favore di una sua uscita da Downing Street dopo le elezioni dell’8 giugno mentre il 38% continua a sostenerla.
Alla domanda su chi preferiscono come premier, se la scelta è fra May e il laburista Jeremy Corbyn, gli elettori si spaccano esattamente in due, col 39% dei consensi per ognuno.
Da un sondaggio di Survation emerge che il preferito per la successione è Boris Johnson.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 11th, 2017 Riccardo Fucile
LA FRANCIA STUPISCE IL MONDO SCONFIGGENDO POPULISTI E XENOFOBI… IL DNA DI IN PAESE FATTO DI RIVOLUZIONI E CONSERVAZIONE, DI MONARCHI E BARRICATE, DI MOMENTI MAGICI IN CUI IL POPOLO S’INCONTRA CON UN UOMO, DA BONAPARTE A DE GAULLE
Se l’elezione di Emmanuel Macron all’Eliseo era imprevedibile fino a qualche mese fa, sorprenderà meno il successo del «macronismo» stasera: una probabile ampia maggioranza all’Assemblea che darà al neopresidente la forza per mettere in pratica il progetto riformista e, al tempo stesso, sottrarrà ogni alibi per giravolte al ribasso.
Il risultato delle legislative è la logica conseguenza del velocissimo cambiamento di sensibilità politiche e aspirazioni collettive che ha attraversato la Francia nell’ultimo anno, in controtendenza rispetto al vento populista che soffiava in Europa.
Questo cambiamento si specchia nella figura di Macron e si concretizza in un nuovo blocco sociale, trasversale ai partiti e ai confini ideologici fra destra e sinistra.
La rappresentazione vittoriosa del «macronismo» è la «conservazione progressista», un ossimoro che tiene insieme gaullisti popolari e sinistra riformista, establishment e start up, intellettuali e donne (finalmente a rappresentanza paritaria), giovani diplomati e «bobos».
Torna l’ottimismo in economia, si allontanano gli incubi – a dimostrazione che la psicologia sociale spinge la politica – e si concede carta bianca al nuovo esecutivo – con premier gaullista, all’insegna dell’unità nazionale – su problematiche che in altre stagioni avrebbero visto la gente in piazza (per il jobs act alla francese) e sventolii di bandiere dei diritti (per le draconiane misure anti terrorismo).
Fuori dal nuovo blocco rimane, simbolicamente e fisicamente, il popolo di campagne e periferie, la Francia delusa e arrabbiata, che ha voltato le spalle alla sinistra e non crede più nemmeno a Marine Le Pen.
E fuori è lo «zoccolo duro» della destra, i Rèpublicains, che rischia di perdere ancora pezzi perchè in tanti, come gli ex premier Juppè e Raffarin, sono considerati «macroncompatibili», oltre alla specie mai estinta dei saltatori sul carro del vincitore.
La Francia dunque, come altre volte nella Storia, dimostra capacità di sorprendere, di cambiare all’improvviso la traiettoria del proprio destino, quando gli osservatori e molti francesi sembravano convinti del contrario.
È un percorso a scatti che si può spiegare con il Dna di un Paese che è fatto di rivoluzioni e conservazione, di monarchi e imperatori che si alternano alle barricate, di momenti magici in cui il popolo s’incontra con un uomo – da Bonaparte a de Gaulle, per citare i più eclatanti.
È un percorso a scatti che, dal dopoguerra, poggia sulla solida base neutrale di alti funzionari – gli «enarchi», usciti dalle grandi scuole dell’amministrazione – spesso all’altezza del compito che il nuovo potere gli impone, con spirito di servizio e consapevolezza dei privilegi (grandi ma non ostentati).
Anche la rivoluzione di Macron non sarebbe tuttavia possibile senza un sistema elettorale maggioritario che addirittura ne esalta la dinamica e le dimensioni.
Basterà studiare la carta dei collegi uninominali per constatare come i candidati di En Marche – molti dei quali giovani, espressione della società civile, mai prima d’ora impegnati in politica – saranno premiati innanzi tutto dalle regole di voto oltre che dal consenso.
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 11th, 2017 Riccardo Fucile
REPUBBLICANI AL 20,9%, CAPORETTO PER IL FRONT NATIONAL AL 13,1% CHE SAREBBE RIDOTTO A SOLI 4 DEPUTATI… MELENCHON ALL’11% , SOCIALISTI AL 9%
Trionfo per Emmanuel Macron, nettamente in testa alle legislative francesi con il 32,6% e soprattutto, secondo le proiezioni dell’istituto Elabe per Bfm-tv, con un bottino in seggi che va da 415 a 445.
Una maggioranza schiacciante visto che l’Assemblèe Nationale ha in tutto 577 deputati.
Crollo del Front National secondo le prime proiezioni dell’istituto Elabe per BFM TV. Il partito di Marine Le Pen, che considerava un risultato negativo non arrivare a 15 deputati per poter formare un gruppo parlamentare, ne otterrebbe fra 1 e 4.
Secondi i Republicains con il 20,9 (80-100), dal Front National con il 13,1% (1-4), dalla France Insoumise (sinistra radicale) con l’11% (10-20) e dal Partito socialista con il 9%.
Primo turno e ballottaggio: come funzionano le elezioni
Il voto avviene nei 557 collegi uninominali e maggioritari, con il sistema del doppio turno. In ogni collegio vince un solo candidato (sono in tutto 7.877): vince al primo turno se raggiunge il 50% più uno dei voti, quando abbia votato almeno il 25% degli iscritti alle liste elettorali; vince al secondo turno, altrimenti, tra tutti i candidati che al primo turno hanno ottenuto almeno il 12,5% delle preferenze degli iscritti alle liste.
(da agenzie)
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Giugno 11th, 2017 Riccardo Fucile
“E’ SOLO MISERIA INTERIORE TRAVESTITA DA ISTANZA SOCIALE”
C’è rabbia e rabbia: “L’odio che provavo quando avevo vent’anni era una rivolta contro chi non si accorgeva di me e il furore del punk è servito a esprimerlo e a costringerli a prendermi in considerazione. Il rancore dei movimenti populisti, invece, è il sentimento di chi difende i deboli a scapito dei debolissimi, la disperazione di chi guadagna sette euro all’ora sfogato contro chi ne guadagna cinque, una miseria interiore travestita da istanza sociale. Nell’uno c’era l’anima, nell’altro ci sono solo viscere”.
Enrico Ruggeri è cresciuto nel crepuscolo, figlio di due nobili decaduti che hanno reagito al precipitare nella scala sociale all’opposto, la madre reinventandosi concertista e maestra, il padre contemplando il tramonto: “Mio papà si è dedicato con metodo e costanza a dilapidare un patrimonio accumulato da chissà quante generazioni. Non ha mai lavorato. Ogni volta che gli servivano dei soldi, svendeva qualcosa. Ha continuato così fino a quando non ci è rimasto più quasi nulla. Col senno di poi, non posso che ringraziarlo: mi ha trasmesso l’aristocratico disprezzo per il denaro tipico dei ricchi, più la collera e la determinazione tipiche dei poveri”.
E la musica?
Passava i pomeriggi ad ascoltare arie classiche a occhi socchiusi. Io ero troppo piccolo per apprezzare, però avvertivo il piacere che provava e qualcosa inconsciamente operò dentro di me.
Lei cosa preferiva?
Ogni mercoledì correvo in edicola a comprare “Ciao 2001”, una rivista che raccontava mondi lontanissimi dentro i quali aspiravo di vivere. Ognuno aveva il suo giornalista di riferimento. Il mio era Manuel Insolera. Mi fece scoprire Iggy Pop e i New York Dools, David Bowie e i Roxy Music, i Mott The Hoople e tutto il rock decadente.
Perchè fu così importante?
Perchè era una musica che si contrapponeva agli ascolti obbligatori della Milano degli anni sessanta: il progressive, il cantautorato intellettualistico, tutte le formazioni comunisteggianti e poi gli Inti Illimani, il gruppo che dovevi amare per forza.
Era opprimente?
Vigeva la dittatura culturale della sinistra extraparlamentare: in piazza urlavano slogan che inneggiavano a Stalin e Mao Tse-tung, indossando la divisa d’ordinanza della ribellione come tanti piccoli soldatini: le barbe lunghe, l’eskimo, le camice a quadri. Si professavano vicini al proletariato. Erano per la maggior parte figli dell’alta borghesia.
C’era anche una dimensione tragica nella politica, però.
Quando assassinarono Kennedy, avevo sei anni. Fui scosso dalle immagini di quel proiettile che gli fece esplodere la testa. Ma erano cose lontane, come la maggior parte dei drammi del mondo. Poi, il 12 dicembre del 1969, scoppiò una bomba a Piazza Fontana, a un chilometro da casa mia. Morirono persone che incontravo nel tram, bambini che giocavano sotto il mio cortile. Improvvisamente, la storia irruppe nella vita della mia generazione e la cambiò per sempre.
Lei però non diventò un gruppettaro.
Nella Milano degli anni settanta, l’estrema sinistra era in cima all’establishment. Niente sfuggiva al controllo della sua dottrina, dal modo di parlare, a quello di essere. Se non osservavi i suoi comandamenti, venivi tagliato fuori. Una volta, cercarono di picchiarmi perchè avevo i capelli corti e gli occhiali Ray Ban, un accessorio che ai loro occhi faceva di me un fascista. Mi salvai solo perchè l’amico che era con me prese gli occhiali e mostrò loro che erano da vista.
Si ribellò?
Da Londra, arrivò il punk. M’innamorai di questi tipi che urlavano il loro essere come gli veniva, con immediatezza. Fu sconvolgente. Per anni, avevamo pensato che per suonare dovevamo aver studiato al conservatorio, essere dei super virtuosi, possedere chitarre che non potevamo permetterci di comprare. Da un giorno all’altro, vedemmo salire sul palco persone che suonavano peggio di noi, ma che avevano cose da dire.
Quel mondo la prese male?
Quando mettemmo su il primo concerto punk a Milano con i Decibel, i centri sociali organizzarono una manifestazione contro. Finì con le cariche della polizia in strada. L’iconografia dei punkettoni non aderiva al copione del musicista impegnato, che serviva la causa, benchè fosse chiaro che la furia del punk fosse l’urlo di persone oppresse. Ci volle del tempo perchè il punk venisse accolto e assorbito anche in quell’ambiente.
Nel frattempo, voi andaste a Sanremo.
Il festival era considerato l’epicentro del sistema. Parteciparvi, un tradimento. Sotto casa, mi scrissero con la vernice: “Venduto”. Erano anni tremendi. Gli autonomi arrivarono a contestare Francesco De Gregori, accusandolo di essere un borghese. Per non parlare di Lou Reed.
Lou Reed?
Era il 13 aprile del 1974, salì sul palco dopo Angelo Branduardi, che scappò piangendo per gli insulti che si prese. Suonò ‘Sweet Jane’ e ‘Coney Islan Baby’, poi cominciò ad arrivargli addosso di tutto: sputi, urla, pietre, buste d’acqua. Era vestito di nero. Gli urlavano: ‘Nazista”. A lui che era ebreo.
È un episodio meno noto, questo.
Ce ne furono tantissimi, così: per anni, una piccola minoranza di stronzi impedì lo svolgersi regolare di concerti. Durò fino a quando nel 1979 non arrivò Iggy Pop, che ebbe la sfacciataggine di prendere i volantini che gli lanciarono, abbassarsi i pantaloni e pulirsi il culo. Dal pubblico, partì un’esultanza liberatoria, dello stesso genere di quella che accolse il giudizio di Fantozzi su ‘La corazzata Potà«mkin’.
Era la fine degli anni settanta, non solo sul calendario.
Gli anni ottanta irruppero lavando via tutti i residui dell’ideologismo. Cominciarono a girare un sacco di soldi. Furono anni d’oro anche per l’industria musicale. Andavo in banca e sul conto mi ritrovavo ogni settimana sempre più soldi. Non sapevo nemmeno come spenderli. Avevo vinto Sanremo. Tutto andava bene. Aveva bisogno di una grande cazzata. Cominciai a farmi di cocaina.
Una droga nello spirito di quei tempi.
Ho sempre odiato l’hashish, l’eroina, le droghe che ti rilassano. Erano le sostanze degli insoddisfatti, di chi desiderava l’esperienza che l’avvolgesse e lo facesse tornare alla placenta della madre. Io no. Io volevo dormire tre ore a notte. Avere la forza di andare a cena, poi a un concerto e dopo fare una paio di centinaia di chilometri in macchina per andare a una festa e ricominciare da capo il giorno successivo. Volevo vivere più possibile. Avevo fame di vita. Non volevo addormentarmi.
Quando smise?
Non so quante volte salii sul palco senza nemmeno sapere in quale nazione mi trovassi. Non sentivo nulla. Volevo essere sempre sveglio, godermi tutto, eppure non riuscivo a provare il piacere di esserci. Mi faceva schifo trovarmi a notte fonda in compagnia di gente che di giorno disprezzavo, solo perchè dovevamo farci insieme. In Brasile assaggiai una coca purissima e capii la merda che avevo tirato. Avevo compiuto quarant’anni. Quando tornai, mi dissi: “Che cazzo stai facendo?”. E smisi.
Oggi cosa la irrita?
L’egemonia delle tweet star, la sottile dittatura del nuovo buonismo, la corrente che trascina tutti nell’obbligo di esprimere la propria opinione, anche su argomenti di cui non sa niente.
Qual è la musica che sente più vicina adesso?
Potrei parlati per ore dei Led Zeppelin, di Crosby, Stills, Nash & Young, di Billy Cobham. Ho ascoltato talmente tanti capolavori che non m’interessa più nulla di quello che si fa oggi.
Nemmeno il rap?
Poteva diventare il nuovo punk: aveva una dimensione sociale, la forza di rivendicazioni vere, la lava dell’emarginazione. In Italia, si è trasformato nella musica per undicenni, la colonna sonora dei bimbiminkia.
I suoi Decibel si sciolsero di fronte alla foga degli adolescenti.
Ascoltavamo i Velvet Underground e il nostro riferimento artistico era Andy Warhol: non potevamo sopportare che delle ragazzine ci aspettassero fuori dagli alberghi per tirarci addosso dei peluche rosa. Quando accadde, capimmo che qualcosa non andava.
C’è chi non desidera altro.
Noi c’infilavamo nei garage a suonare perchè avevamo bisogno di testimoniare la nostra esistenza, sentivamo un desiderio folle di sfuggire all’anonimato e mostrare ciò che fremeva dentro di noi. Oggi i ragazzi di smaniano per partecipare a un talent, desiderano avere il successo e la fama, più che sentire il bisogno di esprimersi.
È sbagliato?
Non ha niente a che fare con la musica. I talent show sono solo uno sfoggio di vocalità muscolare. Il lessico è quello della pura competizione. “Tu ce la farai”. “Avrai successo”. “Dimostra quello che vali”. Se Jannacci, De Andrè, Battiato, Liguabue, Vasco Rossi, Guccini o Paolo Conte avessero partecipato a un’edizione qualsiasi, avrebbero perso.
(“Sono stato più cattivo” è il titolo del libro autobiografico di Enrico Ruggeri, uscito per Mondadori di recente)
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 11th, 2017 Riccardo Fucile
LEADER LATITANTI NELLA CAMPAGNA ELETTORALE
Nella sua ultima esternazione-video, venerdì da Facebook, Matteo Renzi si è congedato così: «Un grande in bocca a lupo a tutti candidati-sindaco, soprattutto a quelli del Pd…». Un Renzi insolitamente ecumenico che augura buona fortuna anche ai candidati degli altri partiti è una roba non si vede tutti i giorni.
Un tono distaccato ribadito nelle sue ultime parole: «Domenica si vota… Cos’è? 8-23? Di solito è 7-23… Guardate su Internet, per evitare che vi dia un’informazione sbagliata…». Il Renzi che ostenta ecumenismo ed affetta ignoranza sulle modalità di voto è l’espressione più plateale del dato più caratteristico delle elezioni amministrative: l’esibita, fortissima distanza che (quasi) tutti i leader e tutti i partiti hanno assunto verso questa consultazione che pure interessa dieci milioni di italiani.
Una “fuga” di leader, partiti e candidati “politici” senza precedenti negli ultimi decenni.
Big assenteisti
Timore, oramai, di mischiarsi in mezzo alla gente?
Timore di mettere anticipatamente la “faccia” su risultati sgraditi?
Le risposte non possono essere univoche, ogni leader coltiva paure e speranze diverse, ma alcuni dati sono eclatanti.
Per certi versi clamorosi. Il primo riguarda le liste presentate: su un totale di 3.939, ben 2.902 sono civiche e per arrivare al primo partito, bisogna scalare assai.
Il Movimento Cinque Stelle ha presentato 181 liste, il Pd 134, la Lega 123, Forza Italia 108, Fratelli d’Italia 73 e così via.
E il secondo dato eclatante riguarda la partecipazione dei leader alla campagna elettorale: Matteo Renzi non si è visto nelle principali “piazze” – Genova, Palermo, le città venete – un’assenza senza precedenti. Con ragioni in parte inconfessabili: a Genova, la città politicamente più significativa di questo test elettorale, il candidato sostenuto dal Pd, Gianni Crivello, di fatto è stato “indicato” dalla “Ditta”, in particolare da quella parte del partito che sta un po’ dentro e un po’ fuori.
Quanto a Silvio Berlusconi, da tempo, centellina energie e presenze, preferisce farsi vivo con comizi-telefonate e dunque i suoi forfait non fanno più notizia.
Il rush finale di Grillo
Interessante invece la parabola di Beppe Grillo: dopo aver evitato qualsiasi apparizione pubblica, negli ultimi giorni di campagna elettorale il comico-capopartito si è fatto vedere in Piemonte, a Taranto dove si era avventurato in solitudine già nel gennaio 2013, e in Sicilia.
A Palermo il suo comizio allo Zen è stato affollatissimo, con un’affluenza fuori dell’ordinario, come ha raccontato «Radio Radicale». E alla fine Grillo si è fatto vedere anche nella sua città , Genova, della quale sembrava essersi «dimenticato».
Test difficile nella città dove si è prodotto l’episodio più eclatante di “autoritarismo” pentastellato, con la cancellazione della votazione tra gli iscritti, che avevano scelto come candidata-sindaco, Marika Cassimatis, non gradita però da Grillo che l’ha destituita platealmente e senza il bisogno di motivazioni, con Luca Pirondini.
Alla fine il comico-leader ha deciso di metterci la faccia e in piazza Matteotti ha provato ad esorcizzare una presenza non straripante di folla: «Il nostro successo è inversamente proporzionale alla presenza nelle piazze: se non venite in piazza, ci votate di nascosto».
E Grillo ha anche detto chiaro quel che alcuni dei suoi vociferavano per giustificare la “latitanza” del capo: «Genova è la mia città , il mio modo di volervi bene è stare qua», ma «non voglio che vinca Luca perchè poi so cosa succede: sarete tutti davanti al mio cancello a Sant’Ilario a rompere…».
I partiti «circondati»
L’altro dato, in linea ma in progressione rispetto a precedenti consultazioni amministrative, è la liquefazione dei partiti tradizionali: nei principali Comuni Pd, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, centristi, Mdp di Bersani sono presenti con propri simboli, ma risultano letteralmente circondati da liste civiche.
E spesso i partiti tradizionali rinunciano a presentarsi con candidati “propri” e preferiscono esponenti della società civile.
Per il Pd anche in città “rosse”. Come a Piacenza e Parma. Ma anche a Padova dove il candidato sostenuto dal Pd è un imprenditore che non ha nulla a che fare col partito.
E a Genova Gianni Crivello si è presentato con queste parole: «Sono molti anni che non ho una tessera di partito…».
Per non parlare di Palermo, dove Leoluca Orlando ha chiesto (ed ottenuto) che il Pd rinunciasse a presentare il proprio simbolo, confluendo in una della liste pro-sindaco.
E a Verona il sindaco uscente Flavio Tosi ha candidato la propria fidanzata, Patrizia Bisinella, senatrice che a Roma appoggia il governo Gentiloni, o comunque non vota la sfiducia.
Liste «pazze»
Una complessiva deriva anti-partitica che ha dato la stura a liste dai nomi originali. Dai «110 e Lodi» del capoluogo lombardo, a «Rinascimento sia» (Lucca), dalle «Giovani Stelle» di Cassano Magnago, il paese natale di Umberto Bossi.
Fino a «Forza Schiappa», lista di sostegno a Mondragone di un candidato che ovviamente di cognome fa Schiappa.
(da “La Stampa”)
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Giugno 11th, 2017 Riccardo Fucile
A RAPALLO NASCONDE L’ACCORDO DI POLTRONE IN ATTO CON LA LEGA
«Non è casuale», dice Davide Casaleggio ad alcuni giornalisti nella stradina che conduce dalla pizzeria Bella Napoli di Rapallo all’auto che lo riporterà a casa, «che Napolitano parli e il giorno dopo finiscano le negoziazioni, e il Pd esegua».
All’uscita della pizzeria il suo commensale, Beppe Grillo, aveva detto seccamente «Napolitano ordina e il Pd esegue». Purissima teoria del complotto.
Grillo è fissato da tre giorni su questa idea: che ci sia stato un tandem occulto dietro gli eventi alla Camera di giovedì, Giorgio Napolitano e Carlo De Benedetti sarebbero i due responsabili dell’affossamento della legge elettorale.
Anche se si è sicuramente parlato di molto altro alla fine di un pranzo al quale ha partecipato praticamente tutta la Casaleggio associati (assieme a Davide c’erano anche due suoi fidi esecutori, Luca Eleuteri e Maurizio Benzi, più un ex dipendente, Pietro Dettori, che è anche la cinghia di trasmissione col Movimento – più il consigliere regionale lombardo del M5S Stefano Buffagni).
Questo per dire chi e come decide, nel Movimento. Un’azienda. Lo spartito devono suonarlo le webstar di Roma; con esiti variopinti.
Casaleggio fa sua una metafora, usata da Matteo Giudici, il presidente dei giovani industriali liguri: «L’aragosta si costruisce il suo carapace, ma poi a un certo punto innova e lo abbandona».
Il Movimento deve cambiare anch’esso il suo carapace?
«È tutta l’Italia che deve cambiare carapace», risponde il vero capo del Movimento. Il quale ieri ha trascorso la mattinata ospite d’onore al convegno dei giovani industriali. Doveva parlare dopo una tavola rotonda tra giganti di Internet e tecnologie, il leader italiano di Facebook, il vicepresidente esecutivo di Huawei, l’amministratore delegato di Microsoft, il direttore italiano del Research lab di Ibm.
Ma si era in ritardo e così – al presidente di una piccola srl milanese – è stata data la precedenza. Un segno di grande attenzione dai giovani imprenditori. Anche se non si può dire che il suo eloquio li abbia scaldati.
Una fotografia chiave del convegno lo narra meglio di mille parole. Quando Emma Bonino, alla fine di un discorso di alto livello, europeista senza retorica, dice: «Da noi c’è qualcuno che vuole uscire dall’euro… ah no, c’è anche qualcuno teorico della doppia moneta. Salvini… e simili», ed è chiarissimo che sta parlando del Movimento.
Poi conclude ispirata: «Amate l’Europa, è questa, l’Europa, senza ma e senza però».
I giovani industriali si alzano in piedi totalmente conquistati. Standing ovation a partire dal loro presidente, Alessio Rossi (che pure aveva offerto alla Raggi «portiamo cento imprenditori a investire a Roma». La sindaca s’è limitata a un laconico «certo», eppure l’invito sembrava ghiotto, per la città ).
C’è una sola persona in sala che non batte le mani, non muove un muscolo, non si alza in piedi: Davide Casaleggio.
Anzi, ostenta nei gesti (che parlano più delle parole) una postura distante da Emma e vicina alla Lega; con la quale i contatti sono ormai a uno stato molto avanzato.
Era questo lo schema al quale lavoravano in Casaleggio prima del pasticcio, che loro stessi giudicano causato dai loro uomini a Roma: fretta massima, legge elettorale, dialogo con il Carroccio.
Ora però bisogna prepararsi ai 3000, non ai cento metri. Grillo è convinto che «a Genova perderemo», e del resto il comizio finale di venerdì è stato un mezzo flop, trecento persone a sentire lui e Di Maio.
Il giovane di Pomigliano sarà lui il candidato? A Rapallo Grillo poteva rincuorarlo dalla botta del fallito accordo elettorale: non l’ha fatto. «Vedremo», ha detto rabbuiato, e non scherzava. I malumori su Di Maio sono in effetti fortissimi nel gruppo parlamentare. Era invece una battuta «sceglieremo con gli algoritmi».
Quando una materia brucia, Grillo la esorcizza facendo il comico
(da “La Stampa”).
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