Giugno 1st, 2017 Riccardo Fucile
MONTA LA RIVOLTA: DA UNA PARTE DI MAIO E TONINELLI, DALL’ALTRA FICO E TAVERNA: “DOVE SONO FINITE LE PREFERENZE, VOGLIONO UN MOVIMENTO DI NOMINATI PER FARCI FUORI”
A metà pomeriggio Matteo Renzi è al Nazareno, alla prima riunione della nuova segreteria. “Senza i Cinque stelle — è il senso del ragionamento – salta tutto. Non possiamo andare avanti col tedesco solo con Forza Italia. Stiamo a vedere, di qui a lunedì si capirà in commissione”.
Qualcosa già si capisce. Dalla Camera, Ettore Rosato aggiorna in tempo reale: “Lì dentro c’è casino, sono divisi.
Da un lato c’è Di Maio, dialogante, insieme a Toninelli, dall’altro c’è Fico. Vediamo se reggono”. Il segretario invita ad “essere flessibili”, aiutando l’ala dialogante del Movimento. Altrimenti, addio voto.
Il “casino” nei Cinque stelle, in verità , è infernale. Monta col passare delle ore, sin dalla riunione di ieri sera alla Camera, con l’aria condizionata che sembrava un frigorifero. E le urla, degli ortodossi: “Dove sono finite le preferenze? Qua c’è la logica del Porcellum”. È un “mega-Porcellum”, dice la pasionaria Paola Taverna. Parte dagli ortodossi, con una fila di parlamentari che si rivolge a Roberto Fico (leggi qui dichiarazioni di Fico), che arroventa la chat interna.
Un parlamentare la mostra all’HuffPost. Leggendola si capisce che “non reggono”. Uno sfogatoio: “Che facciamo, rinneghiamo le nostre battaglie?”, “occhio che con i collegi uninominali e il listino corto molti di noi rischiano di rimanere fuori”.
C’è di tutto in questo “inferno”.
Principi, calcoli, convenienze, la faida interna perchè, se saltasse tutto, sarebbe una botta seria per Di Maio.
È il vicepresidente della Camera che, ospite di In Mezz’ora, aprì al modello tedesco in nome dell’urgenza della legge elettorale, sottolineata da Mattarella. Posizione che, senza alcun testo, è stata benedetta da un mini plebiscito sul blog di Grillo.
Al momento, la linea è: “Se la legge resta così come è, non la votiamo”, dicono un po’ tutti, ortodossi e dialoganti, perchè la logica del Porcellum sarebbe una tomba.
Al Pd fanno trapelare “stupore”, ma la verità è che la vedono nera, nerissima. Il grande patto “teutonico”, ora che si è passati dalle parole ai testi scritti, vacilla.
E vacilla proprio sul punto cruciale che cementa il patto con Berlusconi, la logica dei capolista bloccati (leggi qui il Porcellinum).
Toninelli propone un emendamento per il cosiddetto voto disgiunto, che renderebbe il sistema più simile alla Germania . Parlando con i giornalisti al Quirinale, Renzi si mostra disponibile senza entrare troppo nel merito: “Siamo flessibili, vediamo… anche sul voto disgiunto… Però parlatene bene con Rosato. Se ne occupa lui” dice il segretario del Pd.
Calma, calma e gesso. Ci sono due punti fermi, al Nazareno, in questa complessa trattativa. Primo: provarci, fino in fondo, perchè sennò si chiude la finestra elettorale. Secondo: se salta l’accordo coi Cinque Stelle, salta il tedesco.
Perchè andare al Senato solo puntando sull’asse con Forza Italia significa predisporsi al più classico dei Vietnam. Il pallottoliere suggerisce di evitare: senza Cinque Stelle, centristi di Alfano e a quel punto anche Mdp è difficile che qualcosa possa passare: “Al Senato — ragionano in segreteria — ci cappottiamo”. E poi sarebbe devastante, a livello di immagine, tentare una forzatura con Forza Italia e basta.
In serata, Ettore Rosato fa sapere in via riservata a tutti gli ambasciatori che “se salta tutto si riparte dal Rosatellum”, vero strumento di minaccia agli occhi dei Cinque Stelle. Con quanta convinzione, non è dato sapere.
Ma assieme a questa legge elettorale che ha numeri al Senato ancora più scarsi, torna lo schema dell’Incidente, come unica via per andare al voto e interrompere questa legislatura.
(da “Huffingtonpost“)
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Giugno 1st, 2017 Riccardo Fucile
TRA I PARLAMENTARI NON ALLINEATI SCOPPIA LA RIVOLTA CONTRO DI MAIO
Ieri sera faceva più caldo nella stanza della riunione, nonostante l’aria condizionata, che all’esterno di questa assemblea pentastellata particolarmente combattuta: “Dove sono finite le preferenze?”, urlano gli ortodossi.
Un senatore, per scherzo ma neanche troppo, fa questa battuta: “M5S si sta dividendo in due. Tre stelle da una parte e due dall’altra”.
Ovvero c’è una grande fetta di parlamentari a cui non piace la nuova legge elettorale nè l’accordone con i nemici storici Pd e Forza Italia.
In pratica hanno capito che la legge proposta dal Pd rinnega molte battaglie grilline e come se non bastasse con i collegi uninominali molti parlamentari, anche di primo piano, rischiano di rimanere fuori. Rabbia e sconcerto, grida fino a tardi e poi una cena tra i capigruppo e i big pentastellati durante la quale si è continuato a discutere animatamente.
Così il giorno dopo il capogruppo alla Camera Roberto Fico non dà l’intesa per scontata. Anzi dice “l’accordo non è affatto sancito. In queste ore si lavora ancora in commissione perchè l’emendamento Fiano (dal nome dell’esponente Pd che lo ha presentato ndr) crea delle nuove problematiche”.
Luigi Di Maio invece, intercettato alle tre del pomeriggio in Transatlantico dopo aver a lungo chiacchierato con Alfonso Bonafede proprio di legge elettorale, dice di non voler “lanciare un ultimatum al Pd, non c’è una rottura, in commissione troveremo insieme la soluzione e commenteremo il testo che arriverà in Aula”.
Ma i gruppi parlamentari sono in subbuglio e difficili da tenere insieme.
L’accordo è in bilico perchè sul piatto della bilancia c’è una base che potrebbe ribellarsi e una parte dei deputati e senatori che non esita a venir fuori allo scoperto: la paura è che i capolista bloccati, i listini corti e i collegi taglino fuori buona parte di loro.
E infatti, a un certo punto della riunione congiunta dei deputati e dei senatori, uno di loro sbotta: “Scusate, quindi votiamo una legge elettorale che garantisce i nominati?”. Ecco il nodo della questione.
“Vi ricordo che abbiamo fatto fatto un V-day contro i condannati in Parlamento, per il limite dei mandati e per le preferenze. E adesso?”, dice un altro. La chat dei parlamentari il giorno dopo è rovente: “Ieri sera sono venute fuori diverse riserve”, scrive un senatore. “Forse era meglio votare in assemblea prima di chiedere il parare della rete”, si legge ancora.
Paola Taverna, la senatrice pasionaria, in mattina lo dice ai microfoni di Radio Cusano: “Questa legge è quasi un mega porcellum, noi faremo degli emendamenti, io personalmente non mi sarei messa nemmeno lì seduta”.
E quando dice “lì seduta” intende il faccia a faccia che i 5Stelle hanno avuto con il Pd, nonostante fino a due giorni prima Danilo Toninelli lo aveva escluso categoricamente. “Abbiamo chiesto il sistema tedesco perchè ci permetteva di andare a votare con un filo di dignità , ora lo stanno ristravolgendo. L
a situazione — spiega Taverna – è molto confusa e ancora non sappiamo come stanno disegnando i collegi”. E un deputato spiega tecnicamente: “I collegi uninominali in alcune aree sono un rischio. Ci sono zone d’Italia con troppi parlamentari di peso in lizza, che potrebbero essere sconfitti nell’uninominale e ritrovarsi fuori dai giochi se collocati in una posizione non di primo piano”.
Danilo Toninelli, provando a placare gli animi, fa sapere che si sta lavorando per presentare alcuni emendamenti che riportino la legge a un sistema tedesco puro. Ciò significa, per esempio, la proposta del voto disgiunto, che — come succede in Germania — permette di scegliere un candidato uninominale e non necessariamente votare il partito che lo presenta.
“In questo modo almeno diamo una parvenza di preferenze”, dice qualcuno. Ma non tutti sono d’accordo. C’è poi il grande dilemma dei capolista bloccati. È anche qui che il partito si spacca.
C’è l’ala legata a Luigi Di Maio che si sente garantita, cioè immagina già di avere il posto nel listino e c’è poi l’ala ortodossa che invece teme di essere tagliata fuori, soprattutto se i listini sono corti.
Sui capolista bloccati i 5Stelle possono fare ben poco, piuttosto chiederanno una modifica per avere il listino più lungo e far entrare più parlamentari. “Se i problemi saranno risolti, bene — dice ancora Fico – diversamente continueremo a riunire il gruppo parlamentare per valutare il da farsi, ma non c’è niente di scontato”.
C’è sconcerto nei gruppi parlamentari, solo ieri sera è stato spiegato loro nel dettaglio in cosa consiste la proposta di legge elettorale su cui i 5Stelle si sono detti, almeno fino a ieri mattina, quasi del tutto d’accordo.
Adesso in chat prevalgono rabbia e stupore.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 1st, 2017 Riccardo Fucile
LO CHIAMANO TEDESCO, MA E’ UN SISTEMA PIU’ ITALIANO CHE MAI: VERRA’ FUORI UN PARLAMENTO DI NOMINATI PER UN MECCANISMO CHE DI TEDESCO NON HA NULLA
Lo chiamano “tedesco” questo Porcellinum con qualche crauto.
Una legge più italiana (con tutta la sua furbizia) che teutonica (con tutto il suo rigore). Che sostanzialmente non dà certezza al cittadino di esprimere il proprio rappresentante proprio come accadeva con la legge bocciata dalla Corte.
Perchè il punto centrale dell’accordone, tradotto nel maxi-emendamento presentato in commissione, è esattamente questo: vengono blindati i capilista bloccati di Camera e Senato, come ai tempi del Porcellum.
Questa è la sicurezza che mette nelle mani dei leader la selezione degli eletti (una parte nel caso dei partiti maggiori, quasi tutti nel caso di Forza Italia).
Per il resto è una lotteria.
E allora, andiamo con ordine, tra i cavilli di questa legge.
In Germania l’elettore può mettere sulla scheda per l’elezione del Bunderstag due “X”: una sul candidato del collegio uninominale, una sul simbolo del partito (con relativo listone proporzionale). Dunque ha il potere di scegliere.
Non è detto che debba votare il candidato collegato stesso partito.
Può succedere — esempio di scuola — che ha fiducia nel candidato del collegio perchè è serio, si occupa dei problemi dei territorio, e lo vota, mentre magari non vuole votare per mille motivi il capolista del proporzionale. Può scegliere.
E le sorti dell’uno dell’altro non sono legate dalla stessa scheda.
Fatta questa premessa, torniamo da queste parti.
Nella sua cosiddetta versione italiana, la “X” è unica. Ovvero sulla stessa scheda a sinistra ci sono i nomi del candidato di collegio, a destra la lista proporzionale. E questa è una differenza enorme. P
erchè l’elettore mette una sola “X”. Ma evidentemente non sceglie. Inevitabilmente elegge il capolista bloccato.
Perchè? Semplice: su richiesta del Pd, nel giubilo di Forza Italia e nella furba disattenzione dei Cinque Stelle si è deciso di iniziare l’assegnazione di seggi partendo dai capilista del proporzionale.
Quelli scattano sicuro, per primi. E chi ha vinto i collegi? Scatta dopo il capolista bloccato, o meglio – il “nominato” — secondo un meccanismo che pare una lotteria. Funziona così: vai a vedere se c’è un vincitore del collegio che ha superato il 50 per cento. E se non c’è, come probabile?
Ripeschi i numeri due e tre del listino bloccato. Poi vai a vedere se c’è, nell’ambito della stessa circoscrizione, un vincitore di collegio (anche che non ha raggiunto il 50 per cento). Una volta finiti, torni di nuovo alla lista proporzionale.
Ecco dunque il paradosso di questa legge: non c’è il meccanismo elettivo proprio di tutti i sistemi maggioritari che chi arriva prima vince.
Anzi, si può verificare il caso che uno arriva prima nel collegio ma non viene eletto perchè scatta solo il proporzionale.
Ed è evidente che questo tipo di legge autorizza a nutrire qualche dubbio di costituzionalità “nella parte in cui non è consentito all’elettore di esprimere una preferenza”.
Parole queste, della sentenza della Corte sul Porcellum.
Ricapitolando. Il collegio è “finto” e le liste bloccate, senza preferenze e senza primarie per legge.
L’unica cosa che evoca la Germania è il riparto nazionale dei seggi, ma non basta questo a parlare di “modello”.
È evidente che tipo di dinamica politica innesca una legge del genere. Chi corre nei collegi, di fatto, col suo impegno sorregge “nominati” e questo può incentivare a correre solo i candidati dei partiti che hanno chance, in questo caso Pd e Cinque stelle. Solo loro possono essere ripescati nella lotteria.
I partiti minori metteranno nei collegi le seconde file, perchè tanto non sono nelle condizioni di eleggerne più di tanto, blindando al contempo le prime file nella lista bloccata.
Un partito medio come Forza Italia — e questo spiega tante cose nella scelta del modello — di fatto nomina il gruppo parlamentare col proporzionale.
Ed è evidente la gigantesca differenza con la Germania — e con ogni democrazia matura – dove la volontà dell’elettore è tutelata.
Lì il candidato del collegio che arriva primo è sempre eletto, addirittura è eletto anche se il suo partito non ha superato il 5.
Qui, altra variante italica, la piramide della volontà popolare è rovesciata a vantaggio della volontà dei leader.
I quali hanno anche la facoltà di offrire a chi corre in qualche uninominale fino tre posti paracadute nel proporzionale.
Sempre nella logica dei “nominati”, scelte dai leader e dalle segreterie di partito. Come ai tempi del Porcellum, sia pur con qualche crauto attorno.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 1st, 2017 Riccardo Fucile
GIUNTA APPENDINO: TAGLI CHE COLPISCONO LE PERIFERIE, CONCESSIONI EDILIZIE CONTESTATE DALLA BASE DEL MOVIMENTO, PROBLEMI AL BILANCIO
«Vede questa riga del bilancio? Sono le risorse che possiamo spendere per le attività educative estive, come i laboratori nelle scuole per i ragazzi che restano in città . Vede la cifra? Con i tagli dello scorso luglio era stata portata a 5.404 euro, adesso è scesa a 1.303 euro. Secondo lei, che cosa possiamo farci con 1.303 euro?».
A Torino la sede della Circoscrizione 5 occupa una vecchia conceria costruita a fine Ottocento in via Stradella, un mirabile edificio in mattoni rossi coronato da una torre con l’orologio, che segnava la voglia di affermazione sociale dei primi proprietari, la famiglia Durio.
Nei grandi uffici, incupiti dalla boiserie d’un tempo, il presidente Marco Novello sfoglia l’elenco con i tagli decisi per il 2017 dalla sindaca Chiara Appendino. La cultura? Da 24.400 a 4.633 euro. Le iniziative sportive? Da 19.950 a 4.857 euro.*
«Nella narrazione della nuova amministrazione, questi contributi sono stati tagliati con la scusa che finivano in marchette agli amici. Non era vero, e non poteva esserlo, perchè tutto viene finanziato attraverso bandi pubblici.
E in quartieri tormentati come questi, con tanti anziani, anche solo proiettare un film in piazza o aiutare le persone disabili a fare sport può essere d’aiuto», racconta Novello, una lunga esperienza nel Pci, i corsi di amministrazione alle Frattocchie, il viaggio nella sinistra fino alla simpatia per il movimento di Giuliano Pisapia. Chiede Novello: «Ma lo sa perchè l’erba nelle aiuole non viene tagliata?».
Per comprendere la risposta a una domanda in apparenza semplice serve capire che cos’è successo in questo primo anno di guida della città da parte del Movimento 5 Stelle.
Un anno fa, alle elezioni comunali, i 125 mila abitanti dei quartieri raccolti nella Circoscrizione 5 – Madonna di Campagna, Vallette, Borgo Vittoria e altri ancora – erano stati decisivi per il successo di Appendino.
Qui, al ballottaggio, la giovane sindaca aveva quasi doppiato Piero Fassino, ottenendo un vantaggio che il voto del centro non era riuscito a erodere e le aveva permesso di mettere fine a 23 anni di egemonia del centro-sinistra.
Da candidata, Appendino aveva battuto a tappeto questi quartieri e, anche dopo le elezioni, non ha smesso di incontrare i residenti, per ascoltare le necessità di periferie dove la disoccupazione morde, gli spazi pubblici sono spesso abbandonati, l’immigrazione crea disagi e necessità .
Nelle urne gli slogan sulla Torino delle code davanti alle mense dei poveri, contrapposta alla scintillante città del turismo, avevano fatto presa, ribaltando un pronostico che dava Fassino favorito.
Eppure, a distanza di un anno, se si interrogano i torinesi sui motivi del successo di Appendino – è il sindaco più amato d’Italia, secondo il “Sole 24 Ore” – le sorprese non mancano. E disorientano parecchio, se si ripensa al voto di un anno fa, con Appendino vincente nelle periferie impoverite e Fassino arroccato nei quartieri tirati a lucido del centro.
Una risposta che si ascolta spesso sul perchè la sindaca sta facendo bene, infatti, è legata alla sua capacità di evitare contrapposizioni fratricide e di collaborare con i nemici di un tempo, come il padre-padrone del Pd torinese, Sergio Chiamparino, o come Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico, ex ministro del governo di Mario Monti, oggi presidente della Compagnia di San Paolo, la ricca fondazione che custodisce la quota più cospicua (il 9,8 per cento) nel capitale della maggiore banca italiana, Intesa Sanpaolo.
Agli occhi di molti osservatori, è stato proprio questo atteggiamento concreto, non ideologico, a permetterle di portare a casa risultati come il boom del Salone del Libro, sopravvissuto alla fuga a Milano dei grandi editori e rilanciato affidandone la guida a un altro ex ministro, il dalemiano Massimo Bray.
Lo stesso pragmatismo che le ha permesso di bussare alla porta delle due istituzioni che con i loro quattrini reggono la struttura culturale e sociale della città , la Compagnia di San Paolo e la Crt, l’altra fondazione bancaria torinese, socia di Unicredit, per chiedere sostegno a iniziative di varia natura.
Il saper rompere le righe rispetto ai diktat del suo partito, rappresentare gli umori più sociali del movimento, contrapposti al populismo di altri esponenti, l’intelligenza e il sapersi rivolgere con il sorriso ai cittadini le vengono riconosciuti in modo unanime.
Eppure, basta guardare oltre i bagliori del Salone per comprendere come il successo personale della sindaca sia offuscato da infiniti problemi, grandi e piccoli.
I piani di analisi sono almeno due.
Il primo riguarda le aspettative che ne avevano accompagnato l’elezione, il secondo i conti del Comune, che in queste settimane appaiono più traballanti che mai e che la giunta ha affrontato travolgendo i princìpi con cui aveva vinto le elezioni. Partiamo dal primo.
Una possibile lettura dei fatti, poco politica, riguarda l’ansia della città nei confronti del futuro. Sotto la guida degli ultimi sindaci, un’idea Torino l’aveva seguita, ed era creare nuove opportunità con il turismo, l’università e i centri di trasferimento tecnologico nati attorno al Politecnico.
La strategia ha funzionato solo a metà , come certifica la drammatica disoccupazione giovanile, ma il punto è che la città si era abituata ad avere un piano d’azione, mentre la sindaca non è sembrata finora proporne uno nuovo.
Un piccolo esempio lo fa Marco Razzetti, presidente dell’Aniem Piemonte, associazione che raccoglie 80 aziende di costruzioni.
A settembre era andato dall’assessore all’urbanistica Guido Montanari per presentare un’iniziativa chiamata Toc Toc. Racconta Razzetti: «Oggi c’è un elevato numero di persone che faticano a pagarsi un affitto ma che, con un piccolo sostegno, conservano tutte le possibilità di tornare pienamente nel ciclo lavorativo. Penso ai padri divorziati che ci hanno raccontato le cronache. Abbiamo deciso di lanciare un concorso per la ristrutturazione di un edificio in stato di degrado da destinare a abitazioni agevolate per queste persone, facendo un piano di fattibilità che prevede il contributo di team multidisciplinari. Credendo nei vantaggi del partenariato pubblico-privato, chiedevamo al Comune di contribuire con un immobile in disuso da anni, di circa 1.500 metri quadri: non per averlo definitivamente, sia chiaro, ma per sottoporlo come caso concreto ai progettisti. Non abbiamo avuto risposta e, alla fine, abbiamo deciso di procedere interamente con fondi privati».
Su scala più ampia, qualche segnale sul fatto che Appendino fatichi a darsi obbiettivi di respiro più ampio arriva anche dall’associazione degli industriali di Torino, che per l’8 giugno ha convocato un forum per sottoporre alla sindaca riflessioni e proposte.
Il presidente Dario Gallina, imprenditore plastico, dosa le parole: «Ci interessa poco la nostalgia del passato, vogliamo guardare avanti con proposte concrete, senza fermarci all’ovvia constatazione che i soldi non ci sono. Perchè anche un tempo chiudere i bilanci non era facile e perchè se il Comune non ha risorse, possiamo cercare di mobilitare i privati, dandoci una strategia di più lungo periodo».
Quella strategia oggi manca? Gallina taglia corto: «Vogliamo riprendere il percorso definito dai piani strategici».
Per comprendere, però, come la cogestione di Appendino con gli altri poteri cittadini non vada giù alla base basta leggere i messaggi su Facebook di Vittorio Bertola, il consigliere grillino che era con lei in Comune ai tempi puri dell’opposizione, poi scaricato.
«A me la strategia politica del sindaco sembra evidente: posizionarsi in quell’area moderata di piccolo progressismo borghese, condito da omaggi ai salotti eleganti e buone relazioni con i poteri economici cittadini, in cui negli ultimi vent’anni è stato il Pd; un’area che da sempre ha in mano la città e che può permettere al M5S e ai suoi eredi di rimanere in sella per i prossimi vent’anni», ha scritto Bertola a maggio.
La questione dei princìpi, in politica, non è di poco conto. E qui le ombre si infittiscono. Gabriele Ferraris, un giornalista che tiene un seguitissimo blog culturale, ha raccontato passo dopo passo le contorsioni della giunta sul tema della trasparenza sulle nomine.
Arrivati al potere per sciogliere il coagulo di interessi che accusavano il Pd di alimentare, i Cinque Stelle avevano sventolato la bandiera dei bandi aperti e dei curriculum inviati per mail. Promesse spesso tradite, con nomine fatte quando il curriculum del nominato era arrivato fuori tempo massimo, bandi mai lanciati e altri disattesi.
In uno dei casi più importanti, quello per il nuovo direttore del Museo del Cinema, una procedura pubblica aveva portato all’individuazione di un candidato – Alessandro Bianchi – che la giunta ha ritenuto troppo vicino al Pd. Così lo scorso gennaio, mesi dopo l’inizio della procedura, l’assessore Francesca Leon si è presentata in consiglio per rimangiarsi il risultato, dicendo che lo statuto del Museo andava ripensato. E senza spiegare perchè, allora, la gara era stata fatta.
Ma c’è di più, e qui si arriva al bilancio del Comune e al motivo per cui l’erba non viene tagliata.
Durante la campagna elettorale, il Movimento aveva compattato il voto dei commercianti cavalcando la protesta contro i supermercati che fanno chiudere i piccoli negozi. Eppure nel primo bilancio previsionale firmato da lei, quello per il 2017, sono previste entrate da oneri per urbanizzazione per 44 milioni di euro. «Una colata di cemento», l’ha definita La Stampa. Una larga fetta di questi oneri è legata a centri commerciali e supermercati.
L’elenco dettagliato ne prevede nove e due delle aree più grandi, in corso Bramante e verso il confine con Grugliasco, vedranno nascere due enormi centri – il primo realizzato da Esselunga, il secondo da Dimar – realizzati “in deroga”, e cioè senza una variante al piano regolatore e senza la cosiddetta “Valutazione ambientale strategica”. Perchè la deroga? L’Espresso lo ha chiesto al sindaco, senza ottenere risposta.
Certamente Appendino ha ereditato un bilancio non facile, come ammettono tutti, a causa dei debiti fatti in passato per gli investimenti che hanno cambiato il volto della città . Sta procedendo a una riorganizzazione, che non si sa quali risultati darà . Ma alcune scelte sorprendono.
Una parte consistente di questi oneri di urbanizzazione, 36,6 milioni, nel bilancio è previsto che copra spese correnti, di natura ordinaria: «Il fatto è che queste entrate non sono per nulla certe. Il giorno in cui è stato votato il bilancio, il 3 maggio, ne erano stati versati per 3,4 milioni.
Facendo un parallelo con gli anni passati, temo che nell’intero anno non supereremo i 20-25 milioni», dice Stefano Lo Russo, capogruppo del Pd ed ex assessore all’urbanistica.
Le voci correnti che dovranno essere finanziate da queste entrate straordinarie sono varie, dal contratto di servizio con l’azienda elettrica alla manutenzione ordinaria di molti edifici, impianti sportivi, scuole.
Ecco il motivo per cui nelle aree verdi di competenza delle circoscrizioni, i giardinetti più piccoli e le aiuole, l’erba non viene tagliata. Risponde alla sua domanda iniziale Marco Novello, il presidente della Circoscrizione 5: «I lavori sono già assegnati ma per iniziare serve la “determina di impegno di spesa”. Che senza copertura, non si può firmare».
Se il bilancio 2017 appare traballante, e le periferie rischiano di scontare il prezzo più pesante in termini di decoro e servizi, non è comunque detto che sia questo il guaio maggiore relativo ai quattrini legati alle aree vendute.
L’autunno scorso, infatti, era emerso un caso spinoso, che ha portato addirittura a un esposto in Procura. Appendino aveva messo nel bilancio di assestamento del 2016 un’entrata di 19,7 milioni legata alla cessione a un nuovo compratore di un’area dove sorgeva la vecchia fabbrica Westinghouse, senza dire che 5 milioni – in realtà – dovevano essere risarciti a un primo compratore, che li aveva versati come caparra, per poi ritirarsi.
Quel debito di 5 milioni, dunque, doveva essere iscritto a bilancio, cosa che non è avvenuta e ha spinto i revisori a sollevare una riserva.
Quando gli uffici finanziari del Comune fecero emergere la questione, si tentò di mettere una toppa: alla sindaca venne recapitata una lettera da parte del creditore dei 5 milioni, la società di gestione immobiliare Ream, controllata dalle fondazioni bancarie. La firmava il presidente di Ream, Giovanni Quaglia, che dava rassicurazioni sulla possibilità di una dilazione del versamento al 2017.
Anche nel bilancio previsionale di quest’anno, però, di questo vecchio debito non c’è traccia: una successiva lettera di Quaglia, recapitata il 21 aprile, rassicurava la sindaca di aver accettato un ulteriore rinvio del pagamento, al 2018.
Due osservazioni: la dirigente del Comune che sollevò la questione dei debiti fuori bilancio è stata destinata ad altro ufficio.
Perchè? Anche a questa domanda dell’Espresso non è stato risposto.
Intanto il primo febbraio scorso Quaglia è stato nominato all’unanimità presidente della Fondazione Crt, da un consiglio in cui siedono anche i rappresentanti del Comune.
Quaglia è un politico di lungo corso, già consigliere di amministrazione di Unicredit e di una società del gruppo autostradale della famiglia Gavio, vicino al regista storico della Fondazione, Fabrizio Palenzona.
Chi segue i fatti da vicino, sostiene che la nomina non sia stata pilotata da Appendino. La sindaca, però, su un incarico così “old style”, non ha avuto nulla da dire. Molto politico. Poco Cinque Stelle.
(da “L’Espresso“)
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Giugno 1st, 2017 Riccardo Fucile
L’EPIC FAIL DEL COLLABORATORE DI RENZI PER I SOCIAL
Alessio De Giorgi non risponde. Al telefono, ma soprattutto sui social, dove in tanti gli chiedono spiegazioni.
L’oggetto della discussione è la pagina delle gaffe, dei paragoni forzati, degli strafalcioni in difesa del segretario PD.
Matteo Renzi News negli ultimi anni è diventata popolarissima, quasi 70 mila like.
Una pagina gestita in modo professionale con circa dieci aggiornamenti al giorno, video e foto di altissima qualità .
Dall’elezione di Emmanuel Macron che paragonò le percentuali che portarono all’elezione del segretario del Partito Democratico a quelle incassate dal Presidente francese, passando per la comparazione con l’ex capitano giallorosso, Francesco Totti.
Le critiche degli oppositori e gli elogi dei renziani. Il Partito Democratico ha da sempre precisato: “La pagina Facebook “Matteo Renzi News” non è riconducibile in alcun modo alle strutture di comunicazione del partito”.
Tuttavia sembra essere proprio De Giorgi, ben inserito nella struttura comunicativa del Pd suoi social network e chiamato da Renzi a Palazzo Chigi nelle settimane decisive prima del referendum, a gestire la pagina finita al centro delle polemiche.
Lorenzo Borga, collaboratore del Il Foglio e de La Voce.info raccoglie in un articolo sulla vicenda una serie di prove incrociate.
A smentire è lo stesso De Giorgi che su Facebook ripete di non essere uno degli amministratori della pagina.
Nella stessa conversazione, però, un commento da parte della pagina “Matteo Renzi News”. Sembrerebbe che De Giorgi abbia risposto alla conversazione dimenticandosi di essere collegato a Facebook proprio dall’account che dice di non amministrare “Matteo News”.
Di lì in poi sono partiti gli attacchi su twitter e Facebook, a cui lo stesso De Giorgi ha risposto opponendo il suo silenzio.
A prendere le parti dell’ex direttore di Gay.it è un altro esponente della struttura comunicativa del Pd, Francesco Nicodemo, che su Facebook parla di “character assassination in atto nei confronti di Alessio De Giorgi”.
(da agenzie)
argomento: Renzi | Commenta »
Giugno 1st, 2017 Riccardo Fucile
L’ALLEANZA TRA UE E SOCIAL NETWORK PER COMBATTERE L’INTOLLERANZA … LE CATEGORIE PIU’ COLPITE SONO IMMIGRATI E MUSULMANI
Più monitoraggi, più velocità di risposta, e soprattutto più messaggi rimossi.
L’alleanza tra Unione europea e principali social network contro l’intolleranza su internet funziona, almeno questo indicano i numeri.
A un anno dal lancio della particolare iniziativa, è possibile vedere un incremento costante nella cancellazione di post e discorsi di istigazione alla violenza dal web.
Una mano pesante che non ha risparmiato l’Italia, ai primi posti in Europa per tasso di censura di contenuti multimediale ritenuti inappropriati e offensivi, e con gli operatori della rete che solo nella Penisola hanno fatto un lavoro imponente portando il tasso di messaggi cancellati dal 3,6% di dicembre all’81,7%.
E’ la Commissione europea a stilare un secondo bilancio semestrale di questa speciale task-force creata con Facebook, Twitter, Youtube e Microsoft. I risultati sono ritenuti «incoraggianti», ma l’esecutivo comunitario invita a fare di più.
In sei mesi più censure, e 212 denunce alla polizia
L’iniziativa contro i messaggi e i discorsi di odio su internet è stata avviata a giugno dello scorso anno, dopo che la Commissione ha finalizzato gli accordi con i quattro operatori web per un codice di condotta sul web.
Un primo stato della situazione è stato compiuto a dicembre, e a distanza di sei mesi si è condotto un secondo resoconto.
Da dicembre 2016 a maggio 2017 sono state ricevute 2.575 denunce di post ritenuti offensivi.
Di questi 1.522 sono stati rimossi. Praticamente sei messaggi su dieci (59%) hanno violate il codice di condotta voluto dall’Ue e dai social media.
Facebook ha rimosso il 66,5% dei 1.273 contenuti pubblicati oggetto di contestazione (il tasso di cancellazione era del 28,3%, al termine della prima indagine di dicembre), YouTube ha censurato il 66% dei 658 casi rilevati (nel periodo giugno-dicembre 2016 le rimozioni furono del 48,5% ), e Twitter ha ripulito il 37,5% dei 664 «cinguettii» oggetto di contestazione (anche per Twitter le cancellazioni aumentano, rispetto al 19,1% registrato a dicembre).
L’attività di pulizia del web ha portato anche a 212 denunce alla polizia, a testimoniare l’attenzione e la capacità di intervenire in modo sempre più efficace.
Islamici e migranti i più odiati
Gli immigrati (17,8% del totale dei post contestati) e i musulmani (17,7%) sono le categorie più colpite dall’incitamento all’odio su internet.
Sono loro l’oggetto della maggior parte di conversazioni e commenti cattivi, probabilmente per effetto della crisi migratoria e degli attacchi terroristici.
Certo è cambiato il sentimento intollerante dominante: fino a dicembre era l’antisemitismo il principale fenomeno degli internauti (23,7% dei messaggi pubblicati contestati), un dato attualmente sceso (8,7%).
Va detto che rispetto all’indagine condotta a dicembre, la voce «xenofobia» che monitorava i messaggi nei confronti dei migranti non era prevista. Così come non era prevista la categoria dei messaggi di odio sulla base degli orientamenti sessuali, che comunque rappresenta il 12,7% dei discorsi denunciati su internet, la quarta categoria per discriminazione.
Aumenta il tempo di reazione
Nel complesso il risultato è «positivo», se si considera il tempo di reazione e di intervento. A distanza di sei mesi le squadre di tecnici e informativi sono diventate più veloci nel ripulire internet dai messaggi di incitamento all’odio.
Nel 54,1% le compagnie oggetto del codice di condotta europea per l’uso responsabile del web si sono occupate dei casi segnalati nell’arco delle 24 ore successive alla denuncia. Sei mesi fa il dato si fermava al 40%.
A questo si aggiunge un altro 20,7% di contestazioni gestite in due giorni. In sostanza, allo stato attuale, l’Ue è in grado di occuparsi del 74,8% dei post intolleranti nell’arco di quarantotto ore.
Ue: sulla strada giusta
«Le compagnie stanno rimuovendo il doppio di discorsi di odio, e più velocemente rispetto a sei mesi fa», rileva Jourova, convinta del fatto che i numeri contenuti nel resoconto sia «un importante passo avanti nella giusta direzione» e la dimostrazione che l’Ue può produrre risultati concreti. Ma non basta. Facebook, Twitter, Youtube e Microsoft «devono fare di più». L’Ue intende vincere la battaglia contro l’odio.
Italia, Paese di cattivi utenti e bravi censori
L’Italia ha un problema con internet, il suo utilizzo e, probabilmente, con gli italiani. I social network sono il posto dove si concentra e si addensa l’odio della popolazione, che a giudicare dai dati non fa mistero della proprie pulsioni intolleranti.
L’Italia è in termini percentuali il quinto Paese dell’Ue per tasso di messaggi rimossi dal web. Nella penisola è stato rimosso l’81,7% dei «pensieri» condivisi on-line negli ultimi sei mesi.
Peggio hanno fatto solo ungheresi (94,5%), lettoni (90,5%), ciprioti (84,8%) e francesi (82%).
Il dato italiano sorprende se messo a confronto con il primo rapporto della Commissione: il tasso di rimozione dei contenuti su web è schizzato dal 3,6% di dicembre all’81,7% attuale.
Il dato positivo dell’Italia sta nel grande lavoro svolto dagli operatori incaricati di monitorare il traffico di messaggi on-line.
(da “La Stampa”)
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Giugno 1st, 2017 Riccardo Fucile
NON SI ERA MAI VISTO UN FUNZIONARIO DELLO STATO CHE FA PROPAGANDA A UN PARTITO POLITICO
Il comandante dei vigili urbani di Roma Diego Porta è stato nominato in quel ruolo nel novembre 2016 dalla Giunta Raggi.
Alla fine del mese scorso invece ha fatto il suo esordio sul blog di Beppe Grillo e sui canali ufficiali del MoVimento 5 Stelle su Facebook in qualità di esperto di polizia locale nel programma sulla sicurezza del MoVimento 5 Stelle.
In una nota la consigliera comunale Pd Michela De Biase sottolinea la “curiosa” circostanza: “E’ una novità assoluta nel panorama della propaganda politica romana e italiana. Mai prima d’ora, il responsabile di una istituzione come quella dei caschi bianchi romani si era prestato nel sostegno ad una iniziativa politica di parte. Il canale video delle attività parlamentari del M5S su cui il comandante Porta utilizza per fini politici le sue competenze e le conoscenze acquisite nel ruolo svolto è un palese conflitto d’interessi istituzionale. E’ come se il comandante della Polizia di stato o il comandante generale dei carabinieri in corso di attività di servizio si prestassero a promuovere il programma di un partito politico. Ne verrebbe meno il principio di imparzialità necessario alle personalità che rivestono incarichi di primo piano nelle istituzioni dello stato. La scelta di partecipare direttamente alla competizione politica, considerato e anche il ruolo apicale rivestito, da un funzionario di primo piano dell’amministrazione capitolina entra in conflitto con il codice di comportamento dei dipendenti pubblici. Ha tal proposito il partito democratico ha predisposto una interrogazione urgente alla Sindaca Raggi”.
(da “NextQuotidiano”)
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Giugno 1st, 2017 Riccardo Fucile
LA CORDATA PREVEDE DI LASCIARE A CASA 5.000 LAVORATORI… PER LA DIFESA DI SALUTE E AMBIENTE ANDRANNO SOLO 25 MILIONI, CONTRO I 150 DELLA CONCORRENTE ACCIAITALIA
Nella drammatica procedura di vendita dell’Ilva di Taranto il peggio sembra essere davanti. E non solo per le migliaia di esuberi in arrivo.
La gara indetta dai tre commissari governativi, Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi si è conclusa venerdì con la preferenza per la cordata Am Investco Italy (Am), formata dal gigante europeo ArcelorMittal (85%) e dall’italiana Marcegaglia (15%).
Ha superato ai punti AcciaItalia (AI), messa in piedi dall’indiana Jindal con Giovanni Arvedi, la Delfin di Leonardo Del Vecchio e la pubblica Cassa depositi e prestiti. ArcelorMittal ha vinto nonostante ad aprile l’Antitrust Ue abbia avvisato il governo italiano che il gruppo rischia una stangata in caso di acquisizione dell’Ilva.
I commissari hanno però ottenuto garanzie vincolanti su Taranto. L’aggiudicazione spetta al ministero dello Sviluppo, che deciderà a breve.
Ieri davanti ai leader sindacali — convocati dal ministro Carlo Calenda — i commissari hanno svelato l’entità degli esuberi: sui 15mila dipendenti totali, il piano di ArcelorMittal ne prevede 4.800 dal 2018, che saliranno a 5.800 nel 2023.
Jindal, invece, parte da 6.400 esuberi subito per calare a 3.200 nel 2024. “Numeri inaccettabili” per i sindacati. “Nessuno ci ha mai coinvolti nelle valutazioni dei piani industriali e ambientali”, attacca Maurizio Landini (Fiom).
La mancanza di trasparenza è preponderante.
ArcelorMittal promette di portare la produzione dalle attuali 6 milioni di tonnellate annue a 9,5 importando lingotti da laminare (le “bramme”) prodotti dallo stabilimento di Fos (Marsiglia), storico rivale dell’Ilva, e con la normale produzione alimentata dagli altiforni a carbone.
Jindal punta a 10-11 milioni di tonnellate grazie al pre-ridotto, semilavorato con cui si può colare acciaio senza bruciare carbone e con impatto ambientale minore.
Stando a quanto filtra, la prima ha vinto soprattutto per il prezzo (1,8 miliardi) e perchè promette di coprire i parchi minerari, da cui si alzano le poveri che uccidono i Tarantini.
Eppure qualcosa non torna. Nelle scorse settimane sulla scrivania dei commissari è finita la relazione chiesta ai tecnici sui piani industriali e ambientali presentati dalle due cordate, di cui il Fatto è in possesso.
Emerge una stroncatura totale di quella che ha vinto, cioè Am Investco Italy.
Si parte dagli investimenti.
Per i tecnici quelli previsti sono “incoerenti” con i volumi di produzione dichiarati. Nel piano di riaccensione degli altiforni (Afo), per esempio, non è menzionato il rifacimento dell’Afo2, per cui servirebbero 115 milioni. Ha vita residua al massimo fino alla fine del 2018 ma non compaiono neanche i 20 milioni necessari per estenderla.
Il riavvio dell’Afo5 dovrebbe invece avvenire nel 2023. “Con questi due altiforni fermi — spiegano i tecnici — non si possono garantire 6Mt/anno di acciaio prodotto in loco (Taranto, ndr) dal 2018 al 2023”, come promesso.
Anche perchè le risorse per il rifacimento di Afo1 non risultano “adeguate”: ci sono 45 milioni di euro per 3 anni, ma ne servono 95.
L’impatto sull’occupazione, poi, è notevole: “L’assenza di Afo2 comporta un esubero di circa 2.000 persone rispetto a quanto indicato nel piano”. Problemi anche sulla qualità della produzione: “Il documento non prevede investimenti sulla riattivazione della linea di produzione dei tubi”. E questo scenario “non è compatibile con i livelli di produzione di acciai di elevata qualità dichiarati”.
Va peggio sul lato commerciale.
Per i tecnici, infatti, importare bramme da fuori “comprime la marginalità di Ilva (i profitti, ndr) che è data appunto dal produrre bramme non dalla rilaminazione”. Questo obiettivo “è incorente con l’autonomia che si dice di voler assicurare a Ilva, perchè non può risultare autonomo un soggetto che dipende funzionalmente per più del 25-30% da bramme prodotti da terzi”.
Per Acciaitalia (Jindal & Co.) i giudizi sono opposti: non ci sono appunti critici rilevanti sul suo piano, che punta a spegnere l’Afo2 dopo averne prolungato la vita residua al 2022, quando verrà riattivato l’Afo5 e spento il complesso di “Taranto1 (gli Afo 1,2 e 3)” per introdurre il sistema ibrido: è “cadenzato in modo coerente” e la “tempistica ipotizzata è tecnicamente plausibile e valida”. Niente rilievi negativi sulle risorse.
Nelle analisi dei tecnici la cordata guidata da ArcelorMittal esce male anche sul lato ambientale. “Il piano — si legge — è coerente con quello del ministero dell’Ambiente ma senza miglioramenti”.
Promette poi di investire 25 milioni in salute, sicurezza e ambiente, contro i 150 di Acciaitalia e non menziona l’impatto dell’importazione delle bramme da fuori.
Tutte le tecnologie proposte puntano “ad abbattere l’emissione di anidride carbonica, un aspetto importante ma che non ha effetto sulla diminuzione di gran parte dei fattori inquinanti pericolosi e di allarme sanitario/sociale derivanti dall’uso del carbone”. L’impegno più forte è quello di coprire tutti i parchi minerari primari secondo il piano di Ilva già approvato dal ministero (AcciaItalia vuole modificarlo per coprirli solo in parte, entro il 2021) ma promette di completare l’operazione nel 2023, cioè in 5 anni. Secondo il piano originario ne servivano al massimo due.
Francesco Casula e Carlo Di Foggia
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 1st, 2017 Riccardo Fucile
ALTRE CINQUE PRIGIONI CESSERANNO ATTIVITA’ ENTRO L’ESTATE, GRAZIE A UNA COSTANTE DIMINUZIONE DEL TASSO DI CRIMINALITA’
Nei Paesi Bassi quando si parla di “problema delle carceri” ci si riferisce al fatto che sono troppo vuote.
Nel 2013 19 prigioni sono state chiuse perchè il paese non aveva abbastanza criminali per riempirle, ora altre cinque sono pronte a far lo stesso entro la fine dell’estate, in base a quanto scritto su dei documenti ottenuti dal Telegraaf.
Sebbene il dato sia motivo di vanto è diventato un “problema” da affrontare, poichè le chiusure comporteranno la perdita di oltre 2mila posti di lavoro e mantenere carceri con diverse celle vuote prevede dei costi che il ministro della Giustizia Ard van der Steur ha definito proibitivi.
Il cambio di rotta, con una sensibile diminuzione della criminalità , si è iniziato ad avvertire a partire dal 2004.
La tendenza è aumentata di anno in anno, tant’è che lo scorso settembre il paese ha importato 240 prigionieri provenienti dalla Norvegia, solo per mantenere le strutture al completo.
A prescindere dai costi che il successo comporta, la domanda che molti si pongono è quale sia la formula per mantenere così bassa la criminalità .
Il modello olandese prevede una serie di punti chiave: la legalizzazione delle droghe leggere, una organizzata riabilitazione dopo la punizione e un sistema elettronico di monitoraggio che consente alle persone di ritornare a diventare forza lavoro: i criminali condannati hanno così l’opportunità di dare un contributo alla società , anzichè rimanere chiusi in cella e la misura, secondo uno studio del 2008, ha dimezzato il tasso di recidiva.
Così, su circa 17 milioni di abitanti solo 11600 sono bloccati in una cella e mantenendo questo standard il dato è destinato a ridursi ulteriormente.
(da “Huffingtonpost”)
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