Giugno 27th, 2017 Riccardo Fucile
LA “TENDA” RIPOSTA DA PRODI, LE CRITICHE DI VELTRONI, IL TWEET DI FRANCESCHINI, L’INIZIATIVA DI ORLANDO… I BIG DENUNCIANO LO SNATURAMENTO DEL PD E APRONO UN A NUOVA FASE DALL’ESITO IMPREVEDIBILE
La “tenda” che Prodi rimette nello “zaino” come metafora di un accampamento che ha cambiato natura, il Pd. Non un incidente diplomatico tra il segretario, sempre un po’ grossier nei modi, e il composto Professore. È una fase nuova.
Per la prima volta Renzi è vissuto come un problema.
Il Professore è rimasto molto colpito non solo dai toni, dalle battute di Orfini, dal dileggio dei tweet, ma dall’arrogante rimozione della sconfitta, dalla superficialità con cui è stato accolto il suo tentativo, dalle accettate come risposta al “Vinavil”, dalla risposta a questa crisi profonda del Pd: “Rottamo, faccio il Macron italiano”.
È come cioè se segretario del Pd si muovesse su uno schema di killeraggio del Pd: il partito, per come è stato finora, è un impiccio, dunque quel che ne rimane lo trasformo in una sorta di lista Renzi.
Poche ore prima, su Repubblica Walter Veltroni aveva certificato, in modo asciutto e pacato, quella che in altri tempi si sarebbe chiamata mutazione genetica, rispetto al dna con il Pd nacque dieci anni fa al Lingotto: “Il partito non ha più identità “.
Per la prima volta la critica, severa, verso Renzi, ha due caratteristiche.
Tocca la natura stessa del Pd, l’identità già diventata un’altra. E coinvolge padri nobili, pezzi di partito che, per semplificare, il 4 dicembre avevano votato Sì. Entra cioè all’interno della sua maggioranza: “Vuole fare il Macron italiano? — dice un parlamentare dell’area Delrio — bene ma allora dovrebbe vincere le elezioni, non perdere ovunque. Questa è la differenza”.
Ecco. Quando succede tutto in un giorno è difficile spiegare con il caso e non rintracciare tra gli eventi una razionalità politica.
Racconta un parlamentare che ha pranzato negli ultimi giorni con Dario Franceschini: “I ministri stanno raccogliendo una preoccupazione dei vertici istituzionali. O pensiamo che Mattarella e Napolitano stanno tranquilli ad aspettare che Salvini diventi il prossimo ministro dell’Interno? È normale che chiedano a chi ha più responsabilità di farsi carico del problema”.
L’uscita del ministro della Cultura è stata subito derubricata, nelle raffiche renziane, a opportunismo o scarsa lucidità . In verità è il punto più concreto della nuova fase, dall’esito imprevedibile.
Uno dei principali sostenitori di Renzi apre le danze, contestando la narrazione dell'”abbiamo vinto le elezioni”, ma il messaggio vero, la sostanza politica, è che Franceschini sta dicendo: con Renzi si va a sbattere, occorre cambiare schema e leadership.
È questo l’argomento dei capannelli in Transatlantico. Quanto è esteso il fronte. E la sensazione è che sia particolarmente esteso. Graziano Delrio ha chiamato qualche parlamentare a lui più vicino a cena, per un punto. Da sempre ulivista, sensibile al prodismo, vede nero sulle capacità di recupero di Renzi nel paese. Anche se, però, al momento ha scelto di stare coperto.
Nell’ex convento di Santa Chiara, c’è invece la corrente di Andrea Orlando. Ugo Sposetti, mitico tesoriere dei ds, scuote la testa: “Quello che colpisce non è solo la reazione di Renzi, che è una roba che non sta nè in cielo nè in terra, ma il fatto che chi gli sta attorno non sia in grado di farlo ragionare”.
Andrea Orlando, dal palco difende Romano Prodi (“Non può essere inscritto tra i gufi e rosiconi. Meglio la foto dell’Unione che un governo con Grillo o Salvini”) e invoca un nuovo centrosinistra in cui vengano separati segretario e candidato premier. In platea parecchi parlamentari parlano di Renzi come nel 2011 alcuni di Forza Italia parlavano di Berlusconi: “Il problema è lui, non ragiona”.
Oppure ragiona benissimo, ma lo schema è da brividi. Un accampamento iper-personale e un intero gruppo dirigente costretto a prenderne atto e a togliere le tende. Per metterle altrove.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 27th, 2017 Riccardo Fucile
DESTRA, CENTRO, SINISTRA: IN ITALIA UNA FIGURA IN GRADO DI PORTARCI FUORI DALL’IMPASSE NON C’E’
Uno spettro si aggira per il Palazzo: lo spettro del Macron italiano. Il successo del presidente francese induce a cercare al centro, a destra, a sinistra una figura in grado di portare l’Italia fuori dall’impasse in cui si è infilata. Un auspicio condivisibile, ma irrealizzabile.
Il Macron nostrano non c’è e non verrà , innanzitutto perchè alle politiche si voterà con il proporzionale, che va bene a tutti: a Grillo che non fa alleanze, a Berlusconi che non vuole legarsi a Salvini, a Renzi che non ha interesse nè a gettare appunto Berlusconi nelle braccia di Salvini, nè a trattare con gli scissionisti del Pd.
Il meccanismo per cui Macron ha preso al primo turno il 24%, per poi conquistare sia l’Eliseo sia il Parlamento, da noi può riprodursi in un Comune; non nel Paese.
Ma il vero motivo per cui la ricerca del Macron italiano è destinata a rimanere infruttuosa è che la Francia ha un establishment, un sistema, un’èlite; l’Italia no. Macron è figlio del desiderio di rinnovamento dei francesi, stanchi dei vecchi partiti e delle vecchie facce; ma è anche figlio dell’establishment.
Meglio, è l’uomo su cui l’establishment ha puntato per intercettare la volontà di cambiamento e nello stesso tempo salvare se stesso.
Anche in Francia esiste un forte sentimento antisistema, che al primo turno delle presidenziali ha gonfiato le vele di Mèlenchon e Marine Le Pen, e potrebbe esprimersi presto in scioperi e scontri di piazza.
Però il sistema in Francia esiste, ed è fatto di grandi imprese e grandi scuole, di diplomatici e funzionari.
Possono essere rivali; ma quando c’è di mezzo l’interesse nazionale, colpiscono uniti. Possono essere invisi a parte dell’opinione pubblica, ma si reggono su due baluardi: lo Stato, e la borghesia.
Uno Stato che i francesi vorrebbero meno costoso, ma a cui sono legati sia da un forte sentimento nazionale, sia da una certa tradizione di efficienza burocratica.
E una borghesia che coltiva per la politica un’estraneità al limite del disprezzo, ma ha saputo investire su un politico nuovo.
In Italia i movimenti populisti sono più forti: perchè privi della zavorra ideologica che schiaccia Marine Le Pen a destra e Mèlenchon a sinistra; perchè la ripresa tarda ad arrivare ed è concentrata nelle zone già più avanzate; perchè il disprezzo della politica si accompagna spesso – anche se non sempre – a un senso di estraneità verso lo Stato.
Questo non significa che l’Italia sia messa peggio della Francia.
Siamo un Paese meno accentrato, in cui ogni città è una piccola capitale, non solo una prefettura. Per risorse d’intelletto, eredità di cultura, dinamismo d’impresa non siamo secondi a nessuno. Ma dallo stallo politico in cui ci siamo avviluppati non usciremo grazie a figure salvifiche.
Nè potremo contare su Macron, quello vero. Che si è fatto applaudire facendo suonare l’inno europeo prima della Marsigliese; ma sul caso Fincantieri ha già dimostrato che non è disposto a sacrificare nulla all’Italia. E nel rapporto con la Germania si comporterà come i suoi predecessori: impugnerà la bandiera dell’Europa mediterranea, per andare poi a trattare condizioni di favore per il suo Paese.
All’Italia non serve il miraggio di un modello straniero, ma un paziente lavoro di ricucitura civile.
Una svolta che rilanci gli investimenti, l’occupazione, la fiducia. A giudicare dall’astensione record, nel giorno in cui comuni dalla forte identità erano chiamati a eleggere il sindaco, sarà un lavoro lungo.
La politica ha disperso un patrimonio di credibilità che non sarà facile ricostruire.
Il viaggio comincia adesso. Purtroppo, o per fortuna, non consente scorciatoie.
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 27th, 2017 Riccardo Fucile
“ORMAI E’ DIVENTATO IL PARTITO DI RENZI CHE HA ROTTAMATO LA STORIA DEL PARTITO E DEL SUO POPOLO”
Il segretario provinciale del Partito Democratico in Puglia, Salvatore Piconese, ha consegnato questa mattina nella mani del segretario regionale del Pd Marco Lacarra, la lettera con le dimissioni dall’incarico del partito, prima della scadenza del mandato prevista per il prossimo autunno.
Piconese lascia il Pd e passa al Movimento Democratico e Progressista.
Per il Pd salentino si tratta di un vero e proprio terremoto politico, visto che anche altri 103 tra sindaci, assessori, consiglieri comunali ed ex dirigenti di partito hanno deciso di fare altrettanto, passando tutti dal Pd alla nuova formazione di ispirazione dalemiana.
Singolare il caso di Patù dove a dire addio al partito democratico è stato il sindaco, Gabriele Abaterusso ex segretario cittadino ed ex componente della segreteria provinciale, insieme con tutti i consiglieri di maggioranza nel consiglio comunale.
In conferenza stampa Salvatore Piconese, che è sindaco di Uggiano La Chiesa, ha spiegato i motivi di una decisione definita il “frutto di una lunga riflessione” su un partito diventato ormai “il partito di Renzi” che ha portato alla rottamazione in questi anni” la storia del partito e del suo popolo”.
“Il Pd è in questo periodo — afferma Piconese — una comunità divisa e disorientata poichè in questi anni la ‘torsione personalistica’, la venatura populista e plebiscitaria, unita all’occupazione di uno ‘spazio’ puramente centrista nel panorama politico nazionale, hanno modificato il patrimonio genetico del partito il quale si è del tutto allontanato dei suoi valori fondativi e dei suoi principi originari di democrazia e di giustizia sociale e di libertà ”.
(da agenzie)
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Giugno 27th, 2017 Riccardo Fucile
NON E’ IL CANONE CHE PAGA FAZIO, MA LA RACCOLTA PUBBLICITARIA DEI SUOI SPONSOR E IL SALDO E’ ATTIVO PER LA RAI PER DIVERSI MILIONI
Era già successo per il compenso di Carlo Conti a Sanremo e sta succedendo di nuovo per Fabio Fazio e Che tempo che fa.
Il conduttore è attaccato da destra e da sinistra a causa del suo stipendio. In questi giorni il Cda Rai ha approvato il nuovo contratto per il conduttore.
Si tratta di circa 11 milioni di euro per quattro anni, più o meno due milioni all’anno. Inoltre Che tempo che fa traslocherà su Rai 1 e diventerà il programma di punta del prime time domenicale.
Subito contro la decisione del Cda si sono schierati nell’ordine Roberto Fico, Maurizio Gasparri e Michele Anzaldi.
Per Anzaldi il nuovo contratto a Fazio è uno “schiaffo alla miseria” di molti italiani. Di sicuro Anzaldi ha anche dimenticato di fare parte del partito che sta governando l’Italia dal 2013. Il problema della povertà degli italiani avrebbe dovuto e potuto affrontarlo a tempo debito e non facendo polemica sul contratto di Fazio
Chi paga il compenso di Fabio Fazio?
Ma per Anzaldi sono gli italiani, tramite il canone, a pagare il compenso di Fazio. E quindi sono gli italiani (e la Rai) a rimetterci.
Ma le cose non stanno così.
Fabio Fazio può piacere o non piacere ma questo non significa che non abbia successo e che le sue trasmissioni non facciano guadagnare bei soldi alla Rai.
Perchè non è il canone a finanziare Che tempo che fa: è la raccolta pubblicitaria.
Senza Fazio la Rai non guadagnerebbe certe cifre, quindi è giusto che il suo lavoro venga retribuito. E siccome non stiamo parlando della vendita di panini allo stadio del Pizzighettone la cosa deve essere proporzionata.
Come ha spiegato qualche giorno fa Fazio “siamo pagati dalla pubblicità , non dal Canone”, ricordando che grazie al fatturato della sua trasmissione la Rai può produrre altri programmi che “non hanno la pubblicità , che hanno una funzione diversa e che magari hanno conduttori emergenti“. Può fare, insomma, servizio pubblico.
Quanto incassa Che Tempo Che Fa? Ovviamente è molto difficile conoscere costi e ricavi delle trasmissioni RAI per questioni di concorrenza.
Pochi anni fa Loris Mazzetti, all’epoca capostruttura RAI, ad Annozero disse che la trasmissione costava 11 milioni di euro e ne incassava in sponsor pubblicitari 19 miliioni, con un guadagno per la Rai di 8 milioni.
Inoltre c’è chi fa notare che ad un aumento dello stipendio annuale (da 1,8 a 2,8 milioni di euro) corrisponderebbe anche un aumento dell’impegno del conduttore e al fatto di dover lavorare per la rete ammiraglia Rai.
A conti fatti c’è chi dice che in proporzione dal carico di lavoro da direttore artistico ci sarebbe addirittura flessione del compenso.
(da “NextQuotidiano”)
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Giugno 27th, 2017 Riccardo Fucile
“QUELLO CHE MI PIACE E’ LA DIVERSITA’, VENIAMO TRATTATI ALLO STESSO MODO, NON IMPORTA DA DOVE VENIAMO E A QUALE ETNIA APPARTENIAMO”
Diritti, sicurezza, multiculturalismo. Sono le ragioni principali per cui ogni anno centinaia di uomini e donne scelgono il Canada come patria elettiva.
Pochi giorni fa alcuni di loro hanno festeggiato l’ottenimento della cittadinanza canadese.
Tra questi c’è la piccola Svetlana Grace Joseph, di appena tre anni, trasferitasi da Mumbai, in India, insieme alla famiglia e che sogna di diventare un’insegnante.
C’è Fardin Naibkhil emigrato da Kabul, in Afghanistan, e arrivato sperando in una vita migliore.
O ancora Farah Morris, dalle Mauritius, che sogna di costruirsi una carriera e una vita nuova.
Il tutto accade in un momento storico per nulla favorevole. Il nuovo presidente Usa, Donald Trump, ha infatti imposto limiti severi all’immigrazione, a discapito soprattutto dei cittadini di paesi a maggioranza mussulmana; in Europa invece c’è chi ha reagito con muri e barriere all’ondata migratoria seguita alle guerre e alla violenza che stanno devastando il medioriente .
Ma il Canada – come ha più volte ripetuto il premier Justin Trudeau – ha intenzione di continuare ad accogliere i migranti a braccia aperte.
Da gennaio circa 3.500 richiedenti asilo sono entrati illegalmente in Canada dagli Usa e in giugno il Paese ha creato una visa prioritaria dedicata ai lavoratori altamente specializzati con l’obiettivo di trarre vantaggio dall’atteggiamento intransigente degli Usa.
(da “La Repubblica”)
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Giugno 27th, 2017 Riccardo Fucile
COME NEI “DIECI PICCOLI INDIANI” DI AGATHA CHRISTIE
Tra le banche italiane, di questi tempi, il libro che va per la maggiore è “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie.
Con la crisi della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca in via di risoluzione (in senso lato, giacchè si è trovata una strada complessa proprio per aggirare la messa in risoluzione dei due istituti con le regole del bail-in), nel mondo del credito ci si interroga già su chi sarà la prossima a richiedere un qualche tipo di sostegno, pubblico o “di sistema” che sia.
Interpellato sulla possibilità che, dopo le venete, altre banche possano avere bisogno di aiuti dello Stato, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha subito gettato acqua sul fuoco: “Non ci aspettiamo — ha detto a Bloomberg tv — che altre banche abbiano bisogno. Stiamo studiando casi in cui questo può succedere, ma in concreto non ci aspettiamo nuovi casi”.
Eppure, molti indizi conducono a Genova, dove ha sede Banca Carige.
L’istituto di credito ligure è alle prese con un nuovo aumento di capitale “sollecitato” dalla Banca centrale europea (Bce), che dovrebbe quindi seguire quello da 850 milioni del 2015 e quello da 800 milioni del 2014.
L’incognita vera è sull’ammontare della ricapitalizzazione: inizialmente Carige aveva preventivato un’operazione da 450 milioni, che tuttavia oggi, stando a indiscrezioni, sarebbe più vicina ai 600, senza contare che ci sono analisti finanziari che sono arrivati a stimare fino a 800 milioni.
“Per quello che so — ha detto Padoan rispondendo specificamente sulla banca ligure — a Carige è stato richiesto un numero di aggiustamenti da parte delle istituzioni europee e sta rispettando queste richieste. Questa è una buona notizia”.
Tra i numerosi nodi ancora da sciogliere a Genova, c’è da capire se all’interno della manovra finanziaria allo studio rientrerà anche la conversione in azioni di obbligazioni subordinate della banca.
In passato, era finito nel mirino uno strumento finanziario emesso nel 2008 per un valore complessivo di 180 milioni e sottoscritto dalle Assicurazioni Generali, che oggi avrebbero in portafoglio ancora 80 milioni di questa obbligazione.
Inoltre, non è chiaro se i consulenti finanziari Credit Suisse, Deutsche Bank e Goldman Sachs, scelti a maggio per l’assistenza nelle operazioni di aumento di capitale e deconsolidamento delle sofferenze, saranno confermati e, soprattutto, saranno garanti della ricapitalizzazione.
Il fatto è che a maggio, quando sono stati selezionati, Carige era ancora guidata dall’amministratore delegato, Guido Bastianini, nel frattempo messo alla porta dal vicepresidente nonchè primo azionista della banca, Vittorio Malacalza, entrato in dissidio con lui sulla manovra da attuare per reperire le risorse e rafforzare il patrimonio.
L’uscita dell’ad, su cui tra l’altro ha acceso un faro anche la Consob, non è stata presa bene nè da alcuni consiglieri della banca, e in particolare da Claudio Calabi, Alberto Mocchi e Maurizia Squinzi, che si sono dimessi in polemica con la mossa di Malacalza, nè — a quanto sembra — da alcuni azionisti di peso, come il finanziere ligure con passaporto nigeriano Gabriele Volpi, e Aldo Spinelli, a capo dell’omonimo gruppo oltre che ex presidente del Genoa.
Secondo indiscrezioni, oggetto della contesa tra Bastianini e Malacalza sarebbe stata, tra le altre cose, proprio l’ipotesi di inserire nella manovra anche la conversione in azioni di obbligazioni subordinate, che avrebbe automaticamente diluito la quota del primo socio, oggi pari a quasi il 18% del capitale.
Anche per questo, ora che al timone di Carige è arrivato l’ex banchiere di Unicredit, Paolo Fiorentino, ci si interroga su come si muoverà e, in particolare, ci si chiede se opterà o meno per la conversione delle obbligazioni subordinate, dal momento che proprio lì è caduto il suo predecessore.
Stando a un’agenzia Ansa di venerdì 23 giugno, Carige starebbe valutando dismissioni di immobili e partecipazioni che potrebbero abbassare l’entità dell’aumento di capitale.
Al momento, tuttavia, anche alla luce del fatto che il nuovo ad Fiorentino si è appena insediato, non si sa ancora quale strada seguirà la banca. Anche per questo motivo, nei giorni scorsi l’istituto di credito ligure ha domandato alla Bce, che aveva posto tutta una serie di quesiti stringenti, “un differimento temporale” sulla valutazione del fabbisogno di capitale.
Una decisione a riguardo dovrebbe essere presa nel consiglio di amministrazione del 3 luglio. L’Eurotower aveva anche posto quesiti sulla gestione delle sofferenze e, in generale, dei crediti deteriorati, vera spina nel fianco di Carige.
A riguardo, l’agenzia Ansa ha ipotizzato la creazione di una società veicolo, un consorzio partecipato al 51% da investitori istituzionali e operatori del settore e al 49% dalla stessa banca genovese, a cui cedere 2,4 miliardi di crediti deteriorati, in modo che l’istituto di credito possa partecipare anche ai benefici derivanti dal recupero di questi prestiti.
Una cosa simile, nei mesi scorsi, è stata fatta da Unicredit.
Indipendentemente dall’ammontare definitivo dell’aumento di capitale, gli interrogativi e dubbi più inquietanti riguardano gli azionisti: in quanti aderiranno all’operazione, dopo le due analoghe da complessivi 1,65 miliardi dei tre anni precedenti?
Anche ipotizzando che la famiglia Malacalza, specialmente dopo avere ottenuto la testa di Bastianini, decida di fare la propria parte, chi metterà mano al portafogli per la restante parte della ricapitalizzazione?
E, ancora, come si muoveranno quegli azionisti stupiti delle modalità (a mezzo di una lettera inviata al consiglio di amministrazione) e della velocità con cui Bastianini è stato messo alla porta, come pare sia il caso di Volpi e Spinelli?
Tutti interrogativi che per il momento restano aperti.
Di certo non aiuta a trovare risposte incoraggianti il precedente del Monte dei Paschi di Siena, che lo scorso autunno è scivolato sul terzo aumento di capitale nel giro di pochi anni.
Di recente per Mps è stata avviata la procedura di ricapitalizzazione preventiva, che implica l’utilizzo di risorse pubbliche per la messa in sicurezza della banca senese.
Si attingerà , per una cifra che finora è stata quantificata intorno ai 6,6 miliardi, ai 20 miliardi stanziati a dicembre per le banche italiane dal governo di Paolo Gentiloni.
Il medesimo budget, da quel che si evince, servirà per coprire l’impegno fino a 17 miliardi di euro (di cui oltre 5 da sborsare subito) per l’operazione di salvataggio con annessa cessione a Intesa Sanpaolo delle banche venete.
Ed ecco qui che la coperta dei 20 miliardi messi da parte a dicembre è già diventata corta. Se mai Carige dovesse averne bisogno, rischia di restare scoperta.
(da “Business Insider”)
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Giugno 27th, 2017 Riccardo Fucile
UN DECENNIO DI NEPOTISMO DEL CENTRODESTRA E CONSULENZE D’ORO AI DANNI DEI PENDOLARI… MA DI QUESTO SALVINI NON PARLA
La foto a fianco, scattata il 29 aprile 2011, immortala il giorno della nascita di Trenord, il secondo vettore ferroviario italiano, società di proprietà di Regione Lombardia e Fs, che ogni giorno trasporta 750 mila pendolari lombardi.
Secondo la narrazione, Trenord oggi offre il miglior servizio di trasporto pubblico locale in Italia e viene sempre citata dal presidente lumbard Bobo Maroni come esempio di società pubblica virtuosa.
Ma è puro storytelling.
Come ogni pendolare ben sa, la società non è mai stata in grado di raggiungere le prestazioni minime richieste dal contratto di servizio in fatto di puntualità (lo standard dovrebbe essere il 95% dei treni, a stento ha raggiunto l’86%) nè, nonostante le promesse dei vertici regionali, ha mai dato tutti i treni nuovi promessi sulle varie tratte.
Mancanza di fondi, è sempre stata la scusa di manager e politici.
In realtà , negli anni, Trenord e in generale la holding regionale che la controlla, Ferrovie Nord Milano, sono state foraggiate dalla politica a piene mani.
Ma le società , al posto di pensare al benessere dei pendolari, sono state utilizzate come parcheggio per politici indagati, condannati o semplicemente trombati (tutti di Forza Italia, Lega e Comunione e Liberazione); o come bancomat per dirigenti che hanno pescato a piene mani dai fondi pubblici; o come pozzo infinito di consulenze per gli “amici”, tra i quali anche l’avvocato impegnato a difendere lo stesso Maroni. Tanto sotto il regno di Roberto Formigoni, quanto sotto quello dei “barbari sognanti” di Maroni, che era stato eletto, ramazza in mano, promettendo di fare piazza pulita del malcostume.
Letta a sette anni di distanza, quella foto mostra un ex presidente regionale, Formigoni, condannato a sei anni per le presunte tangenti per la fondazione Maugeri e San Raffaele; un ex ad di Trenord nonchè direttore generale di Ferrovie Nord Milano, Giuseppe Biesuz, condannato in primo grado per il fallimento della Urban Screen, una società che aveva amministrato fino al 2008; un ex presidente di Fnm, Norberto Achille, sotto processo per aver depredato Fnm per spese personali.
Oggi, Fnm è guidata dal leghista Andrea Gibelli, l’uomo che Maroni, dopo lo scandalo che portò alla defenestrazione di Achille, ha scelto per “rimettere a posto le cose”.
Peccato che lo stesso Gibelli è arrivato in piazzale Cadorna — una poltrona da 288 mila euro netti l’anno — con le vesti dell’indagato nello stesso processo che vede Maroni imputato per turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e induzione indebita.
La cronaca giudiziaria negli anni ha raccontato di una società depredata, un inquietante Far West dove girano miliardi, tra contratti di servizio per il trasporto pubblico (440 milioni di euro l’anno) e lavori pubblici affidati a Fnm dalla Regione (oltre un miliardo ogni quinquennio).
Uno tsunami di soldi (nostri) il cui utilizzo dovrebbe essere super controllato. Purtroppo tale controllo, negli uffici di piazzale Cadorna, Milano, non c’è mai stato. Quelli che leggerete di seguito sono solo alcuni casi che dimostrano come gli organi preposti a far emergere il malaffare non solo non hanno funzionato, ma sono stati spesso piegati, dagli stessi ispettori, per fini personali. Con buona pace di migliaia di pendolari lombardi costretti spesso a viaggiare come bestie su treni vecchi e sporchi.
IL NEPOTISMO
«In questa società non esistono i ladri e gli onesti, bene che vada esistono una serie di conniventi!» diceva nel 2015 — senza sapere di essere registrato — Carlo Alberto Belloni, per 21 anni presidente del collegio sindacale di Fnm. E non sbagliava certo. Prendiamo la vicenda di Giuseppe Biesuz, uno che aveva raggiunto la poltrona più alta della società , grazie all’appoggio diretto dell’amico Marcello Dell’Utri, nonostante non avesse uno straccio di laurea e che quindi il capo di Trenord non lo potesse fare…
Lauree fasulle a parte, agli atti della società esiste un report redatto dai controllori interni di Fnm (ma solo dopo l’arresto del non dottor Biesuz nel 2012), secondo il quale l’ex dg avrebbe affidato consulenze da centinaia di migliaia di euro ad amici e big della galassia ciellina senza avere i titoli per farlo. Un’elargizione durata anni, nota a tutti, ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di denunciare
Idem per l’ex presidente Norberto Achille, imputato a Milano per peculato e truffa aggravata, che nel suo ventennale regno aveva messo macchine e telefoni aziendali a disposizione della moglie e dei figli.
Secondo la procura è arrivato a spendere circa 500 mila euro di fondi pubblici, oggi in buona parte restituiti, per pagare le multe prese dal figlio Marco (180 mila euro in 5 anni) con la macchina aziendale, le telefonate dei congiunti (120 mila euro in cinque anni) con le sim aziendali e una serie di altri “benefit”, tra cui film porno, scommesse sportive e serate al Twiga di Briatore. Una linea di credito privata (sui conti della società ) di cui moltissimi, se non tutti, sapevano.
Ma chi pensava che con le “spese pazze” di Achille, Fnm avesse toccato il fondo, non aveva ancora letto l’incredibile storia di Davide Lonardoni, alias “Mr milione di euro”, il dipendente di Nord Ing, società del gruppo Fnm, arrestato il 4 ottobre del 2016 nell’ambito di un’operazione del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano, con l’accusa di aver intascato tangenti per pilotare alcuni appalti pubblici affidati a Fnm.
LE CONSULENZE AL FIGLIO DEL DIRETTORE
Davide Lonardoni non era un dipendente qualsiasi. È il figlio di Dario Lonardoni, ex direttore generale di Ferrovie Nord e attuale assessore ai lavori pubblici di centrodestra del Comune di Saronno.
Secondo un’indagine dell’ufficio Internal Audit di Fnm, che Business Insider ha potuto leggere, tra il 2005 e il 2013 la Sp.In, una società di cui Lonardoni jr è legale rappresentante, ha ottenuto da Nord Ing 14 commesse, per un valore totale di 987.940 euro. Nello stesso periodo Sp.In ha ricevuto altri 176 mila euro direttamente da Ferrovie Nord, altra società del gruppo Fnm, quella amministrata direttamente dal papà Dario.
In totale, cioè, Lonardoni in 7 anni incassa con la sua società privata 1.164.000 euro da due società del gruppo Fnm in cui il padre aveva un ruolo di primo piano. Ma non è finita qui: mentre otteneva consulenze su consulenze, Lonardoni Junior percepiva anche uno stipendio fisso da Nord Ing, prima come collaboratore a progetto e poi, a partire dal 1 marzo del 2013, come dipendente part-time a tempo indeterminato.
Anche questi magheggi sono più che noti ai vertici di Fnm, allora guidati da Achille: il report che li denuncia risale a luglio del 2014, ma non ha mai determinato alcun provvedimento. “So, ma faccio finta di non vedere”, un atteggiamento che Fnm adotta spesso quando c’è di mezzo Lonardoni.
Tant’è che un anno dopo quel report, la società ha ignorato un altro potenziale segnale d’allarme. Il 16 ottobre del 2015 un dipendente di Fnm entrò nella stanza di Andrea Franzoso — il whistleblower che con le sue denunce in procura aveva fatto esplodere lo scandalo delle “spese pazze” di Achille — ammettendo di sapere che “molte ruberie non sono ancora state portate alla luce”, come “le presunte irregolarità nell’affidamento di un servizio al figlio dell’ex direttore di esercizio, Lonardoni”. Il giorno stesso, Franzoso scrisse al servizio Risorse Umane di Fnm segnalando la confidenza, ma anche in questo caso la sua lettera non portò all’avvio di un’inchiesta interna.
Che Fnm avesse già pianificato un futuro luminoso per Lonardoni Jr diventa chiaro il 23 maggio del 2016, quando l’ex presidente di Nord.Ing, Roberto Ceresoli — in barba alle consulenze e alle segnalazioni — lo nomina responsabile dei servizi di ingegneria e della direzione lavori sicurezza e ambiente.
Una posizione che nell’organigramma si trova immediatamente al di sotto del direttore generale, la carica ricoperta per tanti anni da papà Dario. Una carriera splendente interrotta dall’intervento a gamba tesa della Guardia di Finanza di Milano, che ha arrestato Lonardoni jr con l’accusa di aver pilotato gli appalti della linea ferroviaria tra i terminal T1 e T2 di Malpensa. L’arresto ha obbligato l’attuale presidente di Fnm, Andrea Gibelli, a sospendere il contratto e lo stipendio di Lonardoni.
Le vicende di Biesuz, Achille e Lonardoni dimostrano che i controllori interni non si sono mai mossi prima dell’intervento della magistratura, la quale ha aperto numerose inchieste dove Fnm è stata sempre considerata parte lesa.
(da “Business Insider”)
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Giugno 27th, 2017 Riccardo Fucile
BEATRICE HURET E’ ACCUSATA DI AVER AIUTATO UN PROFUGO IRANIANO A PASSARE DA CALAIS ALLA GRAN BRETAGNA
Beatrice Huret, candidata del Front National, è da oggi alla sbarra a Boulogne-Sur-Mer, nel nord della Francia, per aver aiutato un migrante iraniano a passare da Calais in Gran Bretagna.
L’accusa è “aiuto in banda organizzata al soggiorno e alla circolazione di un clandestino”.
Mokhtar, 35 anni, era uno dei clandestini della “giungla” di Calais la cui immagine aveva fatto il giro del mondo dopo che, insieme agli altri, si era cucito la bocca con ago e filo per protesta, nel marzo 2016.
Proprio in quell’occasione, la ex militante di estrema destra, rimase colpita dall’uomo e decise di aiutarlo a sopravvivere. Lo ospitò, diede da mangiare e da dormire a lui e ad altri suoi compagni, quindi lo aiutò a trovare un gommone e a partire per la disperata impresa di attraversare la Manica.
Un’impresa riuscita a Mokhtar e agli altri ma che ora costa il processo alla donna.
La Provence, che racconta l’intera storia: la Huret, vedova di un guardiafrontiera, era venuta a contatto con la giungla di Calais nel 2015, riportando un ragazzino nel campo dove viveva.
Nella baraccopoli erano stanziati tra i 6mila e gli 8mila migranti prima dello sgombero del novembre scorso.
Lì la donna ha conosciuto Mokhtar che poi ha ospitato in casa sua dove viveva insieme alla madre e al figlio di 19 anni. I due si sarebbero innamorati.
Mokhtar ha provato a passare la frontiera in camion prima che la donna acquistasse un’imbarcazione sul web per farlo arrivare in Gran Bretagna.
Ora risiede a Sheffield, dove ha ottenuto un permesso di lavoro. Lei dice di aver fatto tutto per amore. L’accusa è invece di aver fatto parte di una rete che ha organizzato questi viaggi per soldi.
(da “NextQuotidiano”)
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Giugno 27th, 2017 Riccardo Fucile
L’ACCUSA E DI AVER PASSATO (E FATTO DA TRAMITE) INFORMAZIONI A UN GIORNALISTA DEL FATTO QUOTIDIANO
Violazione del segreto d’ufficio. Nell’inchiesta Consip rimane coinvolto anche il pubblico ministero napoletano Henry John Woodcock, accusato di aver passato alcuni atti dell’inchiesta al Fatto Quotidiano.
Il tramite sarebbe stata la giornalista Federica Sciarelli, nota conduttrice del programma televisivo “Chi l’ha visto?”, anche lei indagata. Alla cronista è stato anche sequestrato il telefono cellulare.
A dicembre, quando l’indagine sulla centrale unica acquisti della pubblica amministrazione passà³ per competenza da Napoli a Roma, il quotidiano diretto da Marco Travaglio pubblicò alcune carte coperte dal segreto.
Gli atti di indagine di questi mesi rivelerebbero che dietro alla fuga di notizie ci sia il pm partenopeo, titolare del fascicolo fino a quel momento.
Per questo il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi hanno deciso di iscriverlo per violazione del segreto e hanno dato comunicazione al ministero della Giustizia, al Consiglio Superiore (che già aveva aperto un fascicolo sul suo operato) e alla procura generale presso la Corte di Cassazione.
Da lungo tempo amica del pm napoletano, nei riguardi di Federica Sciarelli è contestato il reato di concorso in rivelazione di segreto. Secondo l’accusa, Sciarelli sarebbe stata il tramite per il passaggio delle informazioni da Woodcock a un giornalista del Fatto Quotidiano.
“Non posso aver rivelato nulla a nessuno – ha detto Sciarelli – semplicemente perchè Woodcock non mi svela nulla delle sue inchieste, tantomeno ciò che è coperto da segreto”.
(da agenzie)
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